Lettera aperta alla Procura di Caltanissetta Strage di via d’Amelio, la verità è oltre Mafia-appalti

 

Gentile Procuratore Salvatore De Luca,
le scrivo in merito alla notizia, rimbalzata sui quotidiani seppur in poche righe, rispetto le indagini che la Procura di Caltanissetta sta sviluppando sulle stragi ed in particolare sulla morte del giudice Paolo Borsellino, legata all’archiviazione del dossier ‘Mafia e appalti’, nel 1992, da parte della Procura di Palermo.
Dalle notizie è emerso che sarebbe già stato sentito anche il colonnello dei carabinieri Giuseppe De Donno, ovvero uno degli imputati, condannato in primo grado ed assolto in secondo, nel processo trattativa Stato-mafia per attentato a corpo politico dello Stato.
Un’indagine su cui, come è giusto che sia, vi è il massimo riserbo.
A lei e ai magistrati del pool, ci vogliamo rivolgere, con rispetto, senza spirito di polemica, ma in maniera costruttiva, facendo anche delle osservazioni su ciò che è emerso in questi anni di processi ed inchieste.
Lo diciamo subito. E’ ovvio che la magistratura ha il dovere di seguire tutte le piste possibili ed approfondire ogni aspetto, specie quando parliamo di fatti che hanno sconvolto un intero Paese portando al crollo della Prima repubblica ed alla conseguente nascita della Seconda.
Nel caso specifico parliamo della strage di via d’Amelio.
Lo spirito che ha sempre mosso il nostro giornale, sin dalla prima pubblicazione, è stato quello di dare il nostro contributo (seppur piccolo) nella ricerca della verità sulle stragi del 1992 e del 1993. Perché siamo fermamente convinti che solo facendo luce sui “mandanti esterni” a Cosa Nostra nelle cosiddette “stragi di Stato” si potrà auspicare ad una vera democrazia libera dall’oppressione mafiosa.
Lo abbiamo fatto cercando di mantenere viva la memoria dei tanti, troppi, martiri che sono caduti nella lotta contro i “Sistemi criminali”, abbiamo realizzato inchieste, seguito processi, raccontato storie e fatti.
Ma ci siamo anche spesi in prima persona per trovare elementi che potessero essere utili alle indagini della magistratura. Anche rinunciando a possibili scoop.
Una scelta che ripeteremmo all’infinito, con convinzione, così come è stato quando il nostro vice direttore, Lorenzo Baldo, si è recato proprio a Caltanissetta per dare quelle informazioni che furono preziose per trovare la famosa fotografia nella quale venne immortalato il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, mentre si allontanava dal teatro della strage con in mano la borsa del giudice Borsellino.
Un documento che portò all’apertura di un nuovo fascicolo sulla scomparsa dell’agenda rossa che qualcuno decise di far sparire mentre auto, palazzi e pezzi di carne ancora stavano bruciando in via d’Amelio.
Ecco, è con questo spirito che oggi ci rivolgiamo a lei, Procuratore capo Salvatore De Luca.
Le nostre considerazioni, anche se critiche alla Procura da lei diretta, vogliono essere, lo ribadiamo, costruttive e sono frutto di alcuni interrogativi che ci poniamo da tempo.

I 57 giorni e l’accelerazione
In tutti i processi sulle stragi, nelle inchieste e nelle indagini più recenti un punto centrale è sicuramente quello dell’accelerazione che, è certo, intervenne dopo la strage di Capaci. Un’anomalia di cui hanno parlato svariati collaboratori di giustizia. Su tutti vale la pena di ricordare quel Totò Cancemi che raccontava: “Mi ricordo (…) di una riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, (…) che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c’era là, con Riina. E io c’ho sentito dire: La responsabilità è mia. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: Questo ci… ci vuole rovinare a tutti, quindi la cosa era… il riferimento era per il dottor Borsellino. (…) Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa… di una cosa veloce, aveva… io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva… la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. (…) Questa cosa la doveva portare subito a compimento, doveva dare questa… questa risposta a qualcuno, questi accordi che lui aveva preso”.
La ricerca della verità su quanto avvenuto passa dalla comprensione degli elementi che portarono all’accelerazione dell’attentato, ed anche dalla necessità di dare un volto a questo “qualcuno” (anche Riina, nelle intercettazioni nel carcere Opera con Lorusso, parla di un qualcuno che disse di fare la strage “subito subito”).
Sappiamo bene che nel corso degli anni sono stati aperti più filoni investigativi. E siamo consapevoli che lo scorso 28 marzo la Procura di Caltanissetta ha chiesto l’archiviazione dell’indagine contro ignoti, pur non opponendosi all’eventuale investigazione suppletiva, per quanto concerne la ricerca dei “mandanti esterni”. Il gip del tribunale di Caltanissetta, Graziella Luparello, ha respinto la richiesta sollecitando una nuova attività istruttoria, da completare nell’arco di 6 mesi, tra acquisizioni di documenti e interrogatori, “procedendo se necessario a nuove iscrizioni nel registro degli indagati”.
La giudice evidenziava come le indagini sulla strage di via d’Amelio “non possono ritenersi complete” perché “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori’”.
La Gip in 25 pagine di ordinanza offre spunti inerenti molte piste. Ricorda quanto emerso nei processi sulla strage di Bologna, su ‘Ndrangheta stragista’ e sull’omicidio dell’agente Agostino. Esplora la ‘pista nera’ e approfondisce i legami emersi in varie inchieste tra eversione, mafia, ‘Ndrangheta, servizi segreti e massoneria. Quindi in un paio di pagine cita una serie di elementi che riguardano Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (non indagati) passando in rassegna i verbali dei collaboratori di giustizia Cancemi e Brusca e le dichiarazioni del boss Giuseppe Graviano, condannato per le stragi del 1992 e del 1993.
Perché dunque si sceglie di approfondire in primis l’inchiesta mafia-appalti?
Lo si fa solo per fare contento qualche avvocato o i figli di Borsellino che si sono fissati su questa inchiesta come centro di tutto per trovare una risposta sull’accelerazione della strage che uccise il padre?
Parliamo di una vicenda particolarmente complessa che nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti. Il dossier, nato da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo al ROS, era incentrato sui condizionamenti di Cosa Nostra negli appalti pubblici.
Sicuramente in questi anni è emerso che Paolo Borsellino avesse preso informazioni su quell’indagine, ma a nostro parere per rispondere in maniera completa alla sete di giustizia dei familiari si dovrebbe partire da altri fatti, anche alla luce di elementi documentali che non possono non essere considerati e che allontanano da tale ipotesi.
Su tutti l’esistenza di una doppia informativa.
Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.
La prima: c’è una prima versione del rapporto del ROS, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione, mentre le indagini proseguivano sul versante degli appalti SIRAP.
Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in realtà erano solo in possesso del ROS e che a quella data non erano ancora stati trasmessi alla Procura di Palermo. Accadrà infatti che il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni si decise a depositare una seconda informativa mafia-appalti che conteneva, diversamente dalla prima, espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Nel documento vi erano acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data del febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti.
Nell’udienza del processo per il depistaggio di via d’Amelio, l’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato ha anche evidenziato che il ROS aveva tra l’altro celato alla Procura della Repubblica di Palermo una importantissima intercettazione del maggio 1990, nella quale l’on.le Lima raccomandava Cataldo Farinella, soggetto arrestato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. unitamente ad Angelo Siino nel giugno del 1991 nell’ambito della prima tranche dell’inchiesta mafia-appalti. Non solo di tale intercettazione non vi era alcuna menzione nella informativa del ROS del 20 febbraio 1991, nella quale si parlava solo del Farinella, ma per di più non fu comunicata alla Procura neppure dopo l’omicidio di Lima il 12 marzo 1992.
Al di là di questi elementi documentali c’è poi la testimonianza dell’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che al tempo fu uno dei titolari di quel fascicolo, il quale nel processo sul depistaggio di via d’Amelio ha spiegato, producendo ben venti documenti, che in realtà l’indagine mafia-appalti non fu affatto archiviata il 13 luglio 1992, come falsamente alcune fonti continuano a ripetere in palese contrasto con gli atti processuali.
L’ex Procuratore generale ha evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti. Tuttavia, prima di procedere all’archiviazione di tali posizioni residuali, era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo. L’inchiesta mafia-appalti, quindi, non fu affatto archiviata, tant’è che a seguito del deposito della informativa SIRAP del ROS del 5 settembre 1992 e del sopraggiungere delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si procedette alla revoca dell’archiviazione nei confronti di alcuni di tali soggetti e al loro successivo arresto nel giugno 1993. Nomi di rilievo.
Unitamente a Salvatore Riina, a numerosi altri mafiosi, si procedette nei confronti di politici come l’on.le Salvatore Lombardo, a esponenti di vertice di imprese nazionali, tra i quali Vincenzo Lodigiani, Claudio Rizzani De Eccher, Filippo Salomone, nonché a componenti dello staff dirigenziale della partecipata regionale SIRAP.
Inoltre nell’ottobre 1993 venne arrestato l’onorevole Sciangula, Assessore ai Lavori pubblici.
Nello stesso anno fu formulata al Parlamento richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di vari politici tra i quali l’on.le Mannino e l’on.le Citaristi.
Ecco, per questi motivi, riteniamo che non è possibile affermare, così come accusano certi avvocati o certi familiari vittime di mafia, che l’inchiesta mafia-appalti fu insabbiata da magistrati come l’ex Procuratore generale di Palermo Scarpinato.
Così facendo si omette spesso di dire che proprio lui, nel luglio 1992, da sostituto procuratore, fu il promotore della rivolta di otto sostituti che firmarono un documento che chiedeva l’allontanamento del Procuratore Giammanco, provocando una inchiesta del Csm a seguito della quale Giammanco lasciò la Procura. E fu sempre Scarpinato nell’audizione al Csm del 29 luglio 1992 a denunciare l’isolamento subito da Falcone e da Borsellino e fu ancora lui anni dopo, da Procuratore Generale di Caltanissetta, ad occuparsi della revisione del processo per coloro che erano stati condannati ingiustamente per la strage di via d’Amelio.

Mandanti esterni e agenda rossa
Per guardare alla ricerca della verità sulle stragi si dovrebbe ripartire da quegli spunti già emersi nei processi passati e siamo certi che sia proprio questo anche l’intento della Procura.
I primi spunti sui mandanti esterni emersi nel processo Borsellino ter, condotto dai magistrati Nino Di Matteo ed Anna Maria Palma, in cui vennero condannati in via definitiva boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Ed è sempre Cancemi ad aver raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. Dichiarazioni ripescate dalla Gip nel nuovo filone investigativo.
Sempre nel Borsellino ter il boss di Porta Nuova fece anche i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (oggi indagati a Firenze come mandanti esterni delle stragi del 1993).
Nomi che al tempo vennero iscritti nel registro degli indagati sotto il nome di “Alfa e Beta” proprio da Nino Di Matteo e dal collega Luca Tescaroli.
Oggi, come a voi noto, tornati al centro delle indagini della Procura di Firenze con l’accusa di essere stati mandanti esterni delle stragi del 1993.
Nei loro confronti in questi anni si sono aggiunte le parole del boss stragista Giuseppe Graviano, intercettato in carcere, che faceva riferimenti a “cortesie” richieste al tempo delle stragi ricoprendo di insulti lo stesso ex Premier.
“Al Signor Crasto gli faccio fare la mala vecchiaia”, diceva il capomafia stragista in un altro passaggio del colloquio del 2016 con la dama di compagnia Adinolfi.
“Trenta anni fa mi sono seduto con te, 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto? Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi arrestano e tu cominci a pugnalarmi”. E ancora: “Tu lo sai che mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta … alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso … e tu mi stai facendo morire in galera senza che io abbia fatto niente”. “Ma pezzo di crasto – continuava ancora lo sfogo di Graviano – ma vagli a dire come sei al governo. Che hai fatto cose vergognose, ingiuste…”.
Al processo ‘Ndrangheta stragista Graviano, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, tra il dire ed il non dire ha fatto riferimento addirittura ad incontri avuti con Berlusconi durante la latitanza. Ed ha anche parlato di rapporti economici che la sua famiglia avrebbe avuto con l’allora imprenditore.
Di un incontro tra Graviano e Berlusconi ha parlato anche un altro collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. L’ex boss di San Giuseppe Jato ha riferito ciò che gli disse Matteo Messina Denaro: “Si parlava di orologi e a un certo punto lui (Matteo Messina Denaro, ndr) mi fa che Giuseppe Graviano in uno di questi incontri – non so quanti ne abbia avuti se uno, due, tre, non lo so – aveva visto un orologio di lusso del valore di 500 milioni di lire dell’epoca e io allora gli risposi: ‘e che è? Avrà avuto diamanti, tutti brillanti?’. Allora lui mi rispose: ‘è glielo ha visto’. E finì”. Ovvio, parliamo di ipotesi, ma è giusto che anche questi percorsi siano in qualche maniera esplorati.
Oltre ad “Alfa” e “Beta” sempre a Caltanissetta, si è indagato anche sulla possibile presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato (poi archiviato) di concorso in strage.
E’ anche in quelle indagini che si affrontò il problema della sparizione dell’agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli. “Il mio impegno – ha spiegato Di Matteo audito nel processo sul depistaggio nel febbraio 2020 – era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”.
“Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti – ha ricostruito il magistrato – Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.
“Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura – spiegò ancora –. Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno (Sinico e Raffaele Del Sole, ndr). Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
Logica vorrebbe che nel momento in cui Di Legami non c’entra nulla allora è qualcun altro ad aver dichiarato il falso, ma sul punto, poi, non si è andato più oltre.

Agenda rossa come scatola nera delle stragi
Tornando all’agenda rossa la famiglia Borsellino ne ha da sempre segnalato l’esistenza. Lo fece sin dal primo momento ad Arnaldo La Barbera (morto nel 2002, ndr) che aveva guidato il gruppo investigativo all’indomani della strage di via d’Amelio. Quest’ultimo si limitò a replicare “che questa agenda era il frutto della nostra farneticazione”. Dagli ultimi sviluppi delle indagini risultò poi che La Barbera, negli anni precedenti alla nomina di Capo della Squadra Mobile a Palermo, era stato per un periodo al soldo dei servizi segreti con il nome in codice “Rutilius”. E proprio La Barbera, nella sentenza del Borsellino quater, viene indicato tra i fautori del depistaggio sulle indagini della strage.
Nuovi elementi per far ripartire l’inchiesta sull’agenda rossa sono emersi nel recente passato.
Era il 20 aprile 2017 quando, al termine del Processo Borsellino quater, la Corte d’assise dispose la trasmissione ai pm dei verbali d’udienza dibattimentale “per eventuali determinazioni di sua competenza”.
Nelle motivazioni della sentenza (poi divenuta definitiva) vi sono dei passaggi che fanno capire indicazioni precise su alcuni soggetti che avevano testimoniato nel processo.
Tra questi vi era proprio quell’Arcangioli che fu indagato e prosciolto per il furto dell’agenda rossa, aggravato dalla finalità mafiosa, con sentenza di non luogo a procedere emessa dal Gup di Caltanissetta il 1° aprile 2008, confermata dalla Corte di Cassazione il 17 febbraio 2009. Un proscioglimento che non ha affatto chiarito la sua ambigua deposizione davanti ai magistrati definita “ben poco convincente”.
Quel comportamento viene definito “molto grave” e si mette in evidenza come Arcangioli abbia ammesso la circostanza di aver preso la borsa di Borsellino “senza fornire alcuna spiegazione plausibile del suo comportamento, poco chiaro, limitandosi a dichiarare (in maniera assai poco convincente) che la borsa in questione – dal suo punto di vista – in quel momento, era un oggetto di scarsa o nulla rilevanza investigativa e che non ricordava alcunché”. Per i giudici si tratta di un’affermazione “scarsamente credibile” e anche “in palese contraddizione con la circostanza che il teste, in quel contesto così caotico e drammatico, si premurava di prelevare la borsa dalla blindata, guardando all’interno della stessa”.

E’ noto che Arcangioli ha rinunciato alla prescrizione, ed è anche noto che, grazie al lavoro delle Agende Rosse, è stato individuato anche un soggetto, il colonnello Emilio Borghini, comandante del Gruppo dei carabinieri di Palermo.
L’analisi arriva da una ricostruzione video minuziosa curata da Angelo Garavaglia Fragetta, esponente e attivista del movimento. È stato lui, infatti, a raccogliere tutto il materiale utile di quel maledetto 19 luglio 1992 ed analizzarlo con particolare cura, scoprendo alcuni dettagli inediti che potrebbero svelare cosa sia veramente accaduto nel pomeriggio del giorno in cui il magistratoPaolo Borsellino fu ucciso in via D’Amelio.
In quel video si analizzano le versioni sul 19 luglio del giudice Giuseppe Ayala e del giornalista Felice Cavallaro.
“In tutti i racconti di Ayala – spiegava Garavaglia – c’è la presenza di un ufficiale dei carabinieri. Versione confermata da Felice Cavallaro che ricorda il dettaglio della torre e delle stellette”. Garavaglia risale all’identità: quell’uomo in divisa è Emilio Borghini, all’epoca comandante del nucleo di Palermo. Dall’analisi degli orari d’arrivo dei diversi protagonisti si può desumere come Borghini arriva intorno alle 17.28 in via D’Amelio. “È al telefono, questa – afferma Garavaglia –sarà una costante per tutte le riprese”. Neanche a tre minuti dall’arrivo di Borghini, la telecamera riprendere Arcangioli con la borsa in mano, più o meno dove è parcheggiata l’auto di Borghini. Pochi minuti dopo, si notano alcune persone, fra cui Ayala e Borghini, nonché una persona che indossa una maglietta verde. “Ci chiediamo – affermava Garavaglia – se questa non sia la scena della seconda asportazione della borsa». L’uomo con la maglia verde è il magistrato b che “non è stato mai sentito dagli investigatori ed è un peccato – rimarcava Garavaglia – perché è sempre lì vicino. Lui con l’asportazione non c’entra, ma è possibile che abbia visto qualcosa”.
Nel dicembre 2020 Emilio Borghini è stato sentito per la prima volta in un processo sulla strage di via d’Amelio ed ha riferito che al tempo il responsabile “era il maggiore Marco Minicucci che collaborava con il capitano Arcangioli (colui che compare in immagini e video con in mano la borsa di Borsellino, ndr), quel giorno di turno al nucleo operativo. Ricordo di aver incrociato a piedi Arcangioli. Non ricordo se avesse qualcosa in mano, ma aveva un abbigliamento estivo, poco formale”.
Borghini, che in alcune immagini appare vicino al capitano dei carabinieri, ha riferito di non aver parlato con Arcangioli in quel giorno dando un dettaglio non di poco conto: “Tra me e lui c’erano tre livelli gerarchici, ma se non ricordo male era alle dipendenze di un soggetto che poi andò al Ros, credo che si chiamasse De Donno”. Ciò significa che Arcangioli in quel giorno stava operando per conto del Ros? Non è dato sapere se anche questa sia stata una delle domande che la Procura nissena ha posto al colonnello dei carabinieri nella nuova indagine su mafia-appalti.
Certo è che se non si fosse approfondito questo dettaglio sarebbe comunque grave.
Al di là delle responsabilità eventuali fin qui accertate è chiaro che la sparizione dell’agenda rossa è strettamente legata all’eliminazione fisica di Paolo Borsellino.
In questi anni i processi su via d’Amelio così come quello sulla trattativa Stato-mafia, hanno messo in evidenza diversi elementi.
E’ evidente che il primo vero atto di depistaggio sulle indagini di via d’Amelio, è stato sicuramente il furto dell’agenda rossa. Uccidere Borsellino senza far scomparire quel documento sarebbe stato inutile.
In questi anni ci si è sempre chiesto cosa avesse scritto il magistrato in quelle pagine ed alcuni elementi si possono scorgere proprio nelle attività svolte.
A cominciare da quelle stesse parole che Paolo Borsellino disse pubblicamente a casa Professa, affermando di essere un “testimone” e di voler riferire all’autorità giudiziaria ciò che sapeva sulla morte dell’amico fraterno, Giovanni Falcone.
E’ nel lavoro di Paolo Borsellino che passa la ricerca della verità sulle stragi.
Perché il giudice aveva capito e compreso cose importanti.
Ed è su questo punto che oggi la Procura di Caltanissetta dovrebbe concentrarsi, anziché spendersi in approfondimenti su cui sono già state scritte abbondanti pagine.
E in questo teatro dell’assurdo colpisce che certe iniziative giudiziarie siano utilizzate anche da familiari vittime di mafia per colpire in maniera subdola proprio quei magistrati che si sono impegnati nella lotta ai Sistemi criminali, senza guardare in faccia a nessuno (poteri, istituzioni o apparati dello Stato che siano). Delegittimandoli, isolandoli e denigrando in ogni dove il lavoro svolto. Tra questi Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato.
Non vorremmo che a furia di insistere su piste già percorse, investendo energie, risorse e sforzi (anche a spese dei contribuenti), si rischi di perdere tempo prezioso nella ricerca della verità per svelare i nomi di quei mandanti esterni che non sono fantasmi.
Alcuni di loro sono morti. Altri sono ancora ai vertici della Nazione e rappresentano quei soggetti che vogliono vedere uccisi proprio quei magistrati che cercano di dare loro un volto.
Senza nulla togliere all’impegno di tutti i magistrati che si trovano a distanza di trent’anni a cercare di riannodare quel filo che porta alla verità sulle stragi, vogliamo sottoporre a lei, Procuratore De Luca, un ulteriore spunto che si basa su un’analisi di fatti fin qui avvenuti, utili anche per capire ciò che sta avvenendo in questo tempo presente dove magistrati impegnati in prima linea vengono delegittimati, isolati e derisi mentre le mafie, tutt’altro che sconfitte, continuano a proliferare ed a progettare attentati.
A rischio ci sono decine e decine di magistrati che quotidianamente rischiano la propria vita proprio per il loro impegno nella lotta alle mafie a Caltanissetta, a Palermo, a Reggio Calabria, a Firenze, ma in questo preciso momento storico è in particolare su due magistrati che i più alti vertici del Sistema criminale si sono scagliati: il Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, ed anche il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo.
Va ricordato che Lombardo, in questi anni, con indagini e processi, ha svelato l’evoluzione della ‘Ndrangheta, che vede l’esistenza di una componente apicale riservata che dialoga ed opera stabilmente all’interno delle istituzioni, i rapporti con la massoneria ed i sistemi deviati. Quella mafia invisibile che oggi gestisce un pezzo importante del potere. Non solo. Ha anche dimostrato, con il processo ‘Ndrangheta stragista (attualmente è in corso il secondo grado) che anche la criminalità organizzata calabrese ha partecipato a quella strategia stragista e che la mafia non è divisa, ma è unica nel seguire logiche criminali di alto livello, così come avevano detto importanti collaboratori di giustizia comeLeonardo Messina, proprio allo stesso Paolo Borsellino.
Ed anche questo sarebbe uno spunto investigativo da approfondire.
Cosa c’entrano le minacce ai magistrati di oggi con le indagini sulle stragi? C’entrano. E ci spieghiamo subito.
Questi magistrati diventano simboli di quella magistratura che non vuole arretrare di un passo nella lotta a mafia e corruzione e che sono pronti a tutto, come crediamo anche voi, pur di giungere a quella verità che tanto è attesa da familiari e cittadini onesti.
In particolare Di Matteo viene condannato a morte nel 2012, così come raccontato dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo, dal superlatitante stragista Matteo Messina Denaro. Poi nel 2013 anche il Capo dei capi Totò Riina, dal carcere, lancerà i suoi strali durante il passeggio con Alberto Lorusso chiedendo l’esecuzione della strage (“Questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta e allora, se fosse possibile, ad ucciderlo… Una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari”).
Di questi fatti proprio la Procura di Caltanissetta si è occupata in passato avviando un’indagine, poi archiviata, affermando che, nonostante il mancato ritrovamento del tritolo, l’attentato “certamente resta operativo”.
Grazie ai pentiti sappiamo che nelle missive del boss trapanese, lette da Girolamo Biondino (fratello di quel Salvatore Biondino, autista di Riina, che aveva contatti importanti con apparati e servizi deviati), si spiegava che Di Matteo andava fermato in quanto “si è spinto troppo oltre”. Dunque il boss di Castelvetrano trasmette l’ordine, ma l’input è esterno. Perché sempre Galatolo ha affermato che i mandanti sarebbero “gli stessi di Borsellino”.
Dalle indagini è emerso anche che Cosa nostra era pronta a colpire anche con l’utilizzo di armi convenzionali, a Roma, e aveva studiato anche alcuni luoghi in cui compiere l’attentato come il Palazzo di Giustizia di Palermo o nei pressi dell’abitazione del magistrato.
Le successive inchieste con gli arresti di D’Ambrogio, Biondino, Galatolo e Graziano (ovvero gli uomini che si erano messi a disposizione per compiere il delitto) hanno sicuramente portato ad un rallentamento dei piani di Cosa nostra, ma ciò che è avvenuto in quegli anni, e in quelli successivi, apre ad un’analisi profonda sul perché si vuole uccidere il magistrato Nino Di Matteo e chi lo vuole colpire.
Basta ricordare le criptiche (e mai chiarite) parole del boss Graziano, colui che aveva il compito di conservare il tritolo, dette al momento dell’arresto che in riferimento all’esplosivo disse: “Dovete cercarlo nei piani alti” o ancora la considerazione di Galatolo sulle “garanzie” ricevute da Cosa nostra per compiere il delitto: “Nella lettera era scritto che facendo quell’attentato non ci dovevamo preoccupare perché questa volta non sarebbe stato come negli anni ‘90 e saremmo stati coperti”. Quindi aggiunse che l’esplosivo per compiere l’attentato, 150 chili di tritolo, fu acquistato con una colletta tra le famiglie mafiose, raccogliendo circa 600 mila euro, e che una parte proveniva dalla Calabria. Disse anche che una parte di quell’esplosivo risultava essere danneggiato da infiltrazioni d’acqua. Dunque l’esplosivo rovinato venne rispedito indietro, e poco dopo sostituito da un nuovo carico in buono stato senza che fosse sollevato alcun problema dai calabresi.
Pochi mesi dopo quel summit, il 26 marzo 2013, un anonimo, giunto sulla scrivania dell’allora sostituto procuratore di Palermo, avvisava che “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità”. L’autore sosteneva di essere affiliato alla famiglia mafiosa di Alcamo.
Tutto questo aleggia attorno al “mistero” dell’attentato contro il consigliere togato.
Ed attorno a quel “si è spinto troppo oltre” vi è anche un importante spunto per proseguire le indagini, non sul suo attentato, ma sulla ricerca della verità dei mandanti esterni.
Perché è la stessa Cosa nostra, con le sue azioni, ad indicare quelle che sono le indagini più pericolose per l’organizzazione criminale.
Ed ecco l’invito che facciamo a lei, Procuratore, ai suoi aggiunti ed ai suoi sostituti.
Ripartire proprio da quegli elementi e da quelle tracce che in qualche maniera sono emersi in questi anni di indagini sui mandanti esterni.
Si riparta dunque dagli spunti contenuti nelle sentenze del monumentale processo Borsellino ter, sopra enunciati così come le indagini su Contrada, Berlusconi, Dell’Utri. Si riparta dagli spunti emersi durante il processo trattativa Stato-mafia. Non a caso le condanne a morte di Messina Denaro e Riina (ovvero colui che oggi è indubbiamente l’esponente più autorevole in libertà di Cosa nostra ed il Capo mafia per eccellenza) sono giunte proprio nel momento più caldo delle indagini per proseguire durante il dibattimento.
Quel fastidio nei confronti di Di Matteo viene confermato anche sul piano politico nel momento in cui chi sedeva negli scranni del potere del tempo, con fastidio, irritazione e continui dileggi ha contrastato l’azione del magistrato.
C’è stato anche chi ha clamorosamente voltato le spalle, rimangiandosi promesse e impegni, come l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il quale non ha mai spiegato quali fossero i dinieghi per cui alla fine decise di scegliere Basentini al posto di Di Matteo come capo del Dap.
Una vicenda mai del tutto chiarita su cui aleggia il sospetto che, in qualche modo, ad incidere siano state anche quelle proteste dei mafiosi in carcere, rese manifeste non appena si diffuse la voce che Di Matteo sarebbe potuto diventare capo del Dap.
E poi ancora il voltafaccia dell’ex capo politico Cinque Stelle, Luigi Di Maio che, rientrato da un viaggio negli Usa, tornò sui suoi passi nella nomina di Di Matteo come ministro dell’Interno o della Giustizia nello stesso anno.
Grazie al lavoro della Procura nissena sappiamo che il progetto di attentato nei confronti di Di Matteo è “certamente operativo”.
E abbiamo ragione di credere che ancora oggi Cosa nostra, continui a considerare come attuabile l’ipotesi attentato nel momento in cui Di Matteo, tra settembre ed ottobre, tornerà ad indagare sui mandanti esterni come coordinatore del pool stragi.
Non appare dunque più logico seguire quelle tracce anziché cercare tra piste inesistenti?
Siamo coscienti che le indagini sono in corso e vige il segreto istruttorio. Dunque non ci aspettiamo una risposta diretta su ogni punto, ma l’opinione pubblica deve sapere che vi sono anche questi fatti che possono portare a input importanti nella ricerca della verità.
Lo spirito di servizio che anima il nostro lavoro è quello di sempre, che ci ha portato anche ad essere testimoni nei processi sulle stragi. Senza alcuna presunzione e con grande umiltà in questi anni abbiamo sempre cercato di fare la nostra piccola parte. Ed anche questi spunti che proponiamo da cittadini, prima ancora che da giornalisti, vanno in questa direzione. Nella speranza che li possiate accogliere.
Un cordiale saluto,

Giorgio Bongiovanni 4.8.2022 ANTIMAFIA DUEMILA