Processo “TRATTATIVA STATO-MAFIA” depositate le motivazioni della sentenza

 

Speciale Processo “TRATTATIVA STATO MAFIA”


“A chi mi chiede un commento a caldo sulle motivazioni della sentenza trattativa mi limito a rassegnare le seguenti considerazioni.
La ricerca di una verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest.
Più si va avanti più l’area diventa rarefatta e gli ostacoli più potenti, quasi invincibili.
Eppure oggi siamo a 6mila metri di altezza e, fra mille ostacoli, abbiamo guadagnato il campo base. Bisogna riordinare le idee e riacquistare forza ed energie.
La vetta è lì più vicina. La si può quasi toccare. Ma al tempo stesso lontanissima.
Raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari, intoccabili che’ a solo tentare di guardarci dentro,si corre il rischio di essere trasformato in una statua di sale.
Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo definito un NIDO DI VIPERE.
La memoria di un valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.
E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato.”
 
 

GIUDICI, ‘STRAGE BORSELLINO ACCELERATA DA DOSSIER APPALTI NON DA TRATTATIVA = Palermo, 6 ago. (Adnkronos) – “La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto MAFIA e appalti”. Lo scrivono i giudici del processo Stato-MAFIA nelle motivazioni della sentenza di appello depositate nelle scorse ore. In questo modo i giudici smentiscono che ad accelerare la morte di Borsellina possa essere stata la trattativa tra pezzi dello Stato e i boss mafiosi.

 

Nessuna trattativa. “Mafia-appalti” causa accelerante della morte di Borsellino. 
Roberto Greco  

Sono state depositate ieri, 5 agosto, le motivazioni della sentenza emessa il 23 settembre 2021 dalla Seconda Sezione della Corte di Appello di Palermo, con Presidente Angelo Pellino e Vittorio Anania giudice a latere, sentenza che ha ribaltato quella di primo grado. Assolti i Ros Mori, De Donno oltre a Subranni.

Dalla sentenza si evince che, nonostante le lettere aperte di questi ultimi giorni, i detrattori e i minimizzatori, l’elemento acceleratore della strage di via d’Amelio possa essere proprio l’interessamento del dottor Borsellino al dossier “mafia-appalti” e a tal proposito scrive «La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto MAFIA e appalti».

Risulta, inoltre, che i carabinieri del Ros sono sempre stati fedeli allo Stato indicando che «Ed invero, scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato: ossia, da ragioni e interessi del tutto convergenti con quelli della vittima del reato di minaccia a Corpo politico dello Stato» si legge nelle motivazioni. E ancora «Esce dunque confermata, ai fini del giudizio di responsabilità degli ufficiali del R.O.S. la distanza incommensurabile che separa la ricostruzione che questa Corte ritiene suffragata dalle prove raccolte – secondo cui la pur improvvida iniziativa intrapresa attraverso i contatti con Vito Ciancimino ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi – da quella che fa dell’obbiettivo di prevenire ulteriori eccidi solo un effetto collaterale di un disegno finalizzato a salvare la vita di un uomo politico con cui, in ipotesi, intercorrevano opache relazioni di reciproco interesse. Un disegno che si sarebbe sostanziato nell’imbastire, a tal fine, una trama occulta per condizionare influenzare le scelte dell’Autorità politica e di Governo, e rispetto al quale la veicolazione della minaccia di ulteriori stragi sarebbe tutto sommato tornata utile allo scopo».

Seppur con aspre critiche all’operato procedurale dei Ros, la sentenza acclara che, di fatto, non c’è mai stata nessuna reale trattativa tra lo Stato e la mafia. Questo, implicitamente, significa che ciò che non c’è stato non ha potuto essere causa dell’accelerazione della strage di via d’Amelio.

«Per l’insieme queste ragioni e per tutte le altre considerazioni spese in precedenza sul medesimo tema, non può che ribadirsi la conclusione già rassegnata: l’iniziativa intrapresa MORI e DE DONNO con l’avallo (o su input, poco importa)del loro diretto superiore, Generale SUBRANNI, attraverso i contatti con Vito CIANCIMINO in quell’estate del ’92 non fu una mera operazione di polizia, e tanto meno di polizia giudiziaria. Si potrebbe allora sostenere, per spiegare l’apparente schizofrenia delle messe compiute dai Carabinieri, che, non essendo prevedibili gli sviluppi e l’esito della via intrapresa di una trattativa con i vertici mafiosi, anche per l’assenza di una chiara ed esplicita copertura politica in tal senso, si era deciso di percorrere una via parallela – per l’eventualità che quella negoziale non fosse andata a buon fine – e certamente più consona al dovere di un reparto operativo e di investigazione qual era il R.O.S., di combattere e contrastare senza riserve e sconti l’organizzazione mafiosa di quanto non fosse la ricerca un’intesa. Se non fosse che, proprio nel momento in cui la via di un possibile negoziato si era materializzata sotto i loro occhi con la conferma da parte di Vito CIANCIMINO della disponibilità dei vertici mafiosi a trattare e con il logico invito a dire cosa avessero da offrire (in cambio), ecco
che gli stessi Carabinieri mostrano di non essere affatto interessati a quel negoziato, perché la loro offerta è solo quella (in sé di misera portata) di un giusto processo per i boss latitanti che si fossero consegnati (a loro cioè ai carabinieri) e un equo trattamento (qualunque cosa volesse significare tale locuzione) ai loro familiari.
 L’evidente irricevibilità di una simile offerta costituirebbe la migliore riprova che i Carabinieri non aveva mai avevano avuto la reale intenzione di trattare, che avevano ingannato CIANCIMINO, facendoglielo credere, fino a calare la maschera quando si resero conto che non potevano più reggere il gioco ed era venuto il momento rivelare le loro vere intenzioni».

Dall’interessante “affresco storico” fornito dalla Corte emergono, inoltre, diversi spunti per meglio capire come alcuni temi dibattuti con le solite modalità della chiacchierata al bar tra amici, non siano trascurabili e siano stati, troppo spesso, celati come quello sull’operazione che portò all’arresto di Totò Riina, per il quale viene indicato come fondamentale l’apporto del maresciallo Lombardo e si cita quanto Brusca dichiarò di aver sentito pronunciare da Leoluca Bagarella nei confronti di Lombardo quando disse «se sapevo invece di farti suicidare ti sarei venuto a cercare e ti avrei ammazzato io». Questa dichiarazione potrebbe essere una chiara indicazione sulle modalità della morte del maresciallo Lombardo e del possibile movente, inficiando così la ricostruzione, seppur avvallata da un’archiviazione, che ritiene si sia suicidato. GLI STATI GENERALI  6.8.2022


Basilio Milio, legale di Mori: «I Ros non commisero alcun reato»

L’avvocato Basilio Milio, avvocato del generale Mario Mori, raggiunto telefonicamente a proposito delle motivazioni della sentenza relative al processo “Bagarella e altri”, ha dichiarato: «La sentenza e una corretta interpretazione delle prove escludono qualunque responsabilità morale dei Carabinieri per la morte di Paolo Borsellino affermando che l’accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio non fu causata da “trattative” di sorta, come scritto nella sentenza di primo grado, ma “possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti” del R.O.S. Ed escludono altresì qualsiasi reato commesso dagli ufficiali del R.O.S. affermando che Mori e De Donno, nel contattare Vito Ciancimino, avevano “effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento di ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane” ossia furono mossi “da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. Fu quindi un’attività “lodevole” e “meritoria” come scritto in un’altra sentenza del Tribunale di Palermo, passata in giudicato.È l’ennesima sconfessione di teoremi giudiziari che perseguitano da vent’anni chi ha veramente combattuto contro “cosa nostra”.»  6 Agosto 2022 GLI STATI GENERALI Roberto Greco


«La trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra ci fu. Ma i carabinieri volevano solo fermare le stragi»

Sono state depositate, a quasi un anno dalla sentenza emessa il 23 settembre del 2021, le motivazioni del processo d’appello sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. La Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, aveva assolto al processo gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà. La sentenza è composta da oltre tremila pagine.

Trattativa Stato-Cosa Nostra, ecco le motivazioni d’appello

«Ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermonell’ambito di quello specifico filone investigativo» scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, i quali ricordano anche le «doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros». E fanno riferimento a quanto accadde nell’affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D’Amelio. «Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea», dicono, come «ben rammenta Luigi Patronaggio».

La proposta di Vito Ciancimino ai carabinieri del Ros

«È pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino», l’ex sindaco mafioso di Palermo «intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donnoesattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatti con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi».

«In sostanza – dicono i giudici – la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità di allacciare un dialogo con ’”quella gente” voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale».

Trattativa Stato-Cosa nostra, «la sentenza di primo grado è incongruente»

La sentenza di primo grado, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, «è incongruente», sostiene il collegio giudicante, presieduto da Angelo Pellino che dunque non risparmia le critiche al collega di primo grado.

In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di «varie incongruenze» della sentenza di primo grado. «Anzitutto – scrivono i giudici d’appello – nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia».

La cattura di Totò Riina e lo stop alla trattativa con Ciancimino

«In realtà – dicono ancora in sentenza d’appello – la lettura offerta dalla sentenza non i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino», l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini «si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra». «E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certi punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta». IL DUBBIO


I giudici: “La trattativa non influì sulla strage di via D’Amelio, sbagliata l’idea di un’accelerazione”

Nelle motivazioni della sentenza d’appello smontata la tesi di primo grado, piena di “palesi aporie e forzature”. Errato ritenere che i contatti tra il Ros e Vito Ciancimino modificarono i piani di Totò Riina: “Li rafforzarono e in un contesto di guerra occorreva non dare respiro allo Stato: perché il boss avrebbe dovuto aspettare più di due mesi dopo Capaci?”

Non solo l’idea che sia stata la trattativa ad accelerare la strage di via D’Amelio, come ha fatto la Corte d’Assise nella sentenza di primo grado , “appare frutto di una chiara forzatura di tutti i dati disponibili”, prima di tutto per una questione temporale, ma i giudici d’appello mettono proprio in discussione l’ipotesi che vi sia stata un’accelerazione nella decisione di eliminare, a 57 giorni dalla strage di Capaci, anche Paolo Borsellino. Ponendo così la questione – ed è una chiave di lettura inedita – non ci sarebbe più neppure da arrovellarsi sul fatto preciso – la scoperta della trattativa piuttosto che il dossier Mafia e appalti (sul quale i giudici si soffermano a lungo e che ritengono comunque, a differenza dei colleghi di primo grado, un’ipotesi più che fondata) – che la determinò, inserendola invece nel contesto più vasto dell’attacco frontale e senza precedenti mosso da Totò Riina allo Stato, che non necessariamente avrebbe avuto “una tabella di marcia”.

“Errato ipotizzare un’accelerazione della strage”

Quello sulla strage di via D’Amelio è un altro dei temi che vengono affrontati nelle quasi 3 mila pagine di motivazione della sentenza d’appello sulla trattativa, emessa a settembre scorso, e depositate venerdì sera. “E’ tempo di chiedersi se non sia sbagliato interrogarsi sulle cause della presunta accelerazione della strage; l’errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda”, dice infatti la Corte presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania). Che con sarcasmo rimarca poi: “Come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra”.

“In un contesto di guerra gli attacchi devono susseguirsi”

La verità, per i giudici, è che in un contesto di guerra come quello “è più che plausibile che gli attentati si susseguissero nel più breve tempo possibile, senza dare respiro al ‘nemico’, senza dare tempo allo Stato di riorganizzarsi”. E, a sostegno di questa tesi, sottolineano come la strage di Capaci sia avvenuta a 72 giorni dall’omicidio di Salvo Lima, ma anche come a 59 giorni da via D’Amelio fu eliminato Ignazio Salvo, oppure come, a dividere le stragi di Roma e Milano da quella di Firenze, vi siano solo 61 giorni, e pure come quest’ultimo attentato segua solo di 13 giorni quello di via Fauro.

“Palesi aporie e forzature nella sentenza di primo grado”

Sicuramente la Corte ravvisa “incertezze interne e palesi aporie o forzature nella ricostruzione sposata in primo grado dalla Corte d’Assise”, presieduta da Alfredo Montalto, secondo cui fu la trattativa ad accelerare l’eliminazione di Borsellino. Non combacerebbero i tempi, infatti. “Nell’ultima decade di giugno 1992” va collocato “l’inizio dell’iter esecutivo della strage” di via D’Amelio, ma “l’interlocuzione dei carabinieri del Ros (cioè degli imputati Mario Mori e Giuseppe De Donno, assolti proprio in appello dopo pesanti condanne in primo grado, ndr) con Vito Ciancimimo, ammesso che fosse a sua volta iniziata – dicono i giudici – doveva essere ancora in fase embrionale, tanto da potersi escludere che i carabinieri avessero già scoperto le carte e detto chiaramente a Ciancimino che volevano si facesse da tramite con i vertici di Cosa nostra”. E neppure “può credersi che Ciancimino avesse avuto già il tempo di informarne prima Antonino Cinà (condannato anche in appello, ndr)” che si sarebbe pure inizialmente rifiutato di far a sua volta da tramite.

“Nessuno colloca la fase culminante della trattativa tra le due stragi”

Secondo la disamina della Corte d’Assise d’Appello, nessuno, soprattutto tra i tanti pentiti, colloca la fase culminante della trattativa – quella in cui i carabinieri avrebbero fatto la loro “proposta indecente ed irricevibile” a Cosa nostra, ovvero la consegna dei latitanti – tra Capaci e via D’Amelio. “E’ possibile, ma solo possibile – dicono i giudici – che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi”. 

“Disarmante la mancanza di verifica sui tempi nella prima sentenza”

“Disarmante – stigmatizza poi la Corte – è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Ciancimino, perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti. Ciò che conta, in questa nuova – e inattesa – prospettiva, è che risulti provato – ma non lo è affatto – che Riina venne informato da Ciancimino fin dal primo approccio che questi aveva avuto con De Donno e Mori”. E a quel punto, se si dà per buona l’idea di un’influenza della trattativa su via D’Amelio occorre supporre che “Riina avesse avuto la capacità divinatoria di intuire dove andasse a parare il primo approccio”.

“La trattativa non fece cambiare i piani al boss, li rafforzò”

“E’ possibile ma non è provato che Riina sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali, ma anche se così non fosse l’operazione Borsellino era già in itinere – si legge nella sentenza d’appello – ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente non fece cambiare di una virgola a Riina i suoi piani. Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello Stato di opporsi alle sue pretese”

“Riina capì che la strategia delle bombe pagava”

Ma “è possibile, ed anzi assai più probabile, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa del Ros soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa. Ebbene anche in tale evenienza egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello Stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia ‘pagava’, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo Stato si piegasse alle richieste di Cosa nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza”.

“Non convincente scartare il dossier Mafia e appalti”

Per la Corte presieduta da Angelo Pellino “la strage di Capaci aveva segnato un punto di non ritorno nell’offensiva” mafiosa e “il primo ad esserne convinto, tanto di sentire di avere i giorni, se non le ore, contati, era proprio Paolo Borsellino”. Inoltre “gli argomenti che inducono il giudice di prime cure ad escludere che l’interesse di Borsellino per l’indagine Mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire quel tema abbiano avuto una concreta incidenza nell’accelerazione della strage di via D’Amelio appaiono tutt’altro che irresistibili e convincenti”, si legge ancora nella sentenza, che confuta l’ipotesi che alla base della strage ci sia stata la trattativa.

“Cosa nostra aveva da temere da quell’indagine”

Ed è semplice capire perché: “Cosa nostra aveva senz’altro da temere da quell’indagine”, che Borsellino aveva ereditato da Falcone, perché riguardava la “progressiva penetrazione di Cosa nostra nei circuiti dell’ecomomia legale e negli ambienti dell’alta finanza e della grande impresa. Un’evoluzione che, a partire dall’esigenza di riciclare e far fruttare gli ingenti capitali proventi di traffici illeciti e accumulati dalla seconda metà degli anni Settanta, aveva marciato lungo traiettorie che, nella prospettiva di una valenza non più soltanto predatoria o parassitaria dell’ingerenza di Cosa nostra nel sistema di illecita spartizione e gestione degli appalti, andavano ad incrociare le indagini sulle vicende di corruzione e concussione in tutto il Paese” che, dopo Mani Pulite, “investivano pezzi importanti della nomenklatura politica fino ad allora dominante e non risparmiavano i più grossi gruppi imprenditoriali interessati ad aggiudicarsi lucrosi appalti anche in Sicilia”. 

“L’idea dell’accelerazione rischia di inquinare il ragionamento”

A Mafia e appalti, inchiesta che è stata appena riaperta – a 30 anni dalla sua archiviazione – dalla Procura di Caltanissetta, ma anche all’esistenza della così detta “doppia informativa”, i giudici dedicano un capitolo molto corposo, ma alla fine ritengono pericolosa, se non errata, l’idea stessa di ipotizzare una “accelerazione” per la strage di via D’Amelio. In questa ipotesi, affermano, c’è “il rischio che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima, ben inteso, ma che può inquinare il ragionamento”, perché si dà per scontato che “l’offensiva stragista avesse un tabella di marcia”.

“Perché Cosa nostra avrebbe dovuto aspettare più di due mesi?”

I “57 giorni” tra le due stragi finiscono per apparire un tempo troppo esiguo “per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi”. Ma non si capisce perché – è il ragionamento della Corte – “pur disponendo dei mezzi, degli uomini, delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci”.

“La mafia in quell’estate giocava non in difesa, ma in attacco”

Nella sentenza si mette in evidenza come “Riina aveva elevato a livelli mai visti lo scontro con le istituzioni, in una logica di tipo militare, quale è quella che si conviene ad una vera e propria guerra, ed era più che plausibile che gli attentati si susseguissero nel più breve tempo possibile, senza dare respiro al ‘nemico’, senza dare allo Stato il tempo di riorganizzarsi”. Certo, secondo qualcuno questa strategia avrebbe portato solo ad una reazione ancora più stringente dello Stato e, dunque, sarebbe stata (come in effetti è stata) fallimentare. Ma rimarcano ancora i giudici: “Cosa nostra nell’estate del 1992 non giocava in difesa ma in attacco e l’obiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia, quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; l’obiettivo finale era costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa nostra”.   PALERMO TODAY


Stato-mafia:corte,Ros non volle catturare Provenzano

(ANSA) – “Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Lo scrive la corte d’assise d’appello nella sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto “favorire la latitanza di Provenzano in modo soft”. V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione – spiegano -, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. 


La Trattativa: perché sono stati assolti i carabinieri e Dell’Utri

 

PALERMO – La minaccia mafiosa ci fu. Le bombe esplosero nella stagione delle stragi del ’92-’93, provocando morte e distruzione. Ci fu anche la trattativa fra i boss e i carabinieri, ma non come è stata ricostruita dall’accusa. Gli ufficiali del Ros – Mario Mori su tutti – si attivarono perché volevano fermare le stragi. Venne avviato “un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”.

“Evitare nuove stragi”

“Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino (Calogero Mannino, assolto con sentenza definitiva in un altro processo ndr) o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima (l’eurodeputato democristiano Salvo Lima ndr) – scrivono i giudici – nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”.
È uno dei passaggi della motivazione della Corte d’assise d’appello di Palermo della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia con cui ha assolto dal reato di minaccia a Corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati invece in primo grado.
Per la Corte la decisione di avvicinare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per iniziare a dialogare con pezzi di Cosa nostra sarebbe stata presa proprio per evitare nuove stragi. “Ad avviso di questa Corte, all’esclusione della colpevolezza degli ufficiali dell’Arma per carenza dell’elemento soggettivo – spiegano i giudici – deve ugualmente pervenirsi per la radicale incompatibilità della finalità perseguita con la loro improvvida iniziativa, che era certamente quella di fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi, con il dolo di minaccia”.
Secondo i giudici le finalità dell’azione intrapresa da Mori e i suoi dunque sarebbero incompatibili con la tesi dell’accusa che sosteneva che con il loro comportamento i carabinieri avessero rafforzato i propositi minacciosi del boss Totò Riina.

“Voleva sterilizzare la minaccia”

È vero che la minaccia arrivò tramite Mori al ministro della giustizia Giovanni Conso, che non prorogò il carcere duro a una sfilza di mafiosi ma, scrive la Corte di assise di appello di Palermo, “le finalità del suo agire sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo di concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello Stato, essendo suo obbiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla, alimentando la spaccatura già esistente in Cosa Nostra con un’iniziativa dagli effetti divisivi, e dissuasiva per gli associati che condividessero o simpatizzassero per la scelta strategica dello stragismo”.

La Corte, presieduta da Angelo Pellino, ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale il 23 settembre scorso ha definito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Un verdetto che ha fatto discutere e che ha ribaltato la decisione di primo grado, mandando assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri.
La Corte condannò invece i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La sentenza, depositata dopo diverse richiesta di proroga dei termini, è di 2971 pagine.
Nelle motivazioni vengono definiti “concreti e pregnanti gli elementi che avvalorano l’ipotesi che Mori abbia avuto un ruolo nel propiziare la scelta di Conso di non rinnovare i decreti venuti a scadenza in quel mese di novembre del ‘93: ovvero, che sia stato lui e non altri a indurre Di Maggio (Francesco Di Maggio, ex capo del Dap ndr) ad adoperarsi in una sorta di morale suasion per orientare quella scelta (o per corroborarla, se già il Ministro vi era spontaneamente propenso). Ciò posto, si può concedere — non senza qualche residua titubanza sulla piena congruenza del compendio probatorio — che sia stato Mori, e non altri, a chiudere per così dire il circuito dell’iter realizzativo della minaccia qualificata per cui qui si procede, facendola pervenire al suo naturale destinatario, e cioè il Governo della Repubblica, nella persona del Ministro competente per materia ( provvedere sulle richieste estorsive già avanzate da Cosa Nostra e divenute prioritarie in quel frangente storico)”.

La scelta autonoma di Conso sul 41 bis

Giovanni Conso, però, “veniva edotto per un verso dell’esistenza di una fronda interna a Cosa Nostra, o comunque dell’esistenza di una componente autorevolmente rappresentata che era propensa ad abbandonare la linea dura della contrapposizione violenta allo Stato e alle istituzioni per tornare a dedicarsi agli affari e alla più proficua pratica degli accorsi collusivi con la politica”.Così come “veniva edotto altresì di ciò che un’altra parte dell’organizzazione mafiosa si aspettava o comunque pretendeva che il Governo facesse, e delle conseguenze prospettate nel caso in cui le sue richieste non fossero state accolte o le sue aspettative fossero andate deluse, come già era accaduto nel luglio del ‘93”.

Dell’Utri e Berlusconi

Un lungo capitolo è dedicato alla presunta seconda trattativa dopo l’arresto di Riina, fra il 1993 e il 1994, condotta dal boss Bernardo Provenzano e dall’ex senatore Marcello Dell’Utri. Quest’ultimo, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, in primo grado era stato ritenuto responsabile di aver fatto da “cinghia di trasmissione” di un’altra minaccia con destinatario finale Berlusconi, che dal maggio 1994 guidava il suo primo governo.

Dell’Utri in appello è stato assolto perché, scrive la Corte, anche a “volere ritenere che la stagione mafioso/stragista sia cessata dopo il fortuito fallimento (per un difetto del telecomando di innesto) dell’attentato allo Stadio Olimpico e dopo l’arresto, intervenuto in quello stesso periodo, dei fratelli Graviano, da tale ricostruzione non è possibile stabilire in quale misura la ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi e la creazione, anche con l’ausilio di Dell’Utri, di Forza Italia siano stati degli eventi capaci di disinnescare, perlomeno in termini di causa-effetto, la stagione di contrapposizione frontale tra Cosa Nostra e lo Stato”.

Berlusconi premier

La Corte ricorda quanto sostenuto dalla difesa che ha sempre ricordato “gli interventi legislativi assunti con il contributo di Forza Italia, con provvedimenti contro i detenuti per l’imputazione ex art. 416 bis c.p. e perfino in tema di stabilizzazione del regime penitenziario del 41 bis presi dai Governi Berlusconi successivi alla prima (e breve) esperienza di governo di questo esponente politico”.
Nel contempo il collegio precisa che “va considerato che l’oggetto dell’imputazione che coinvolge in questo giudizio anche l’appellante Dell’Utri, non è quello riferito all’aver favorito una ‘pacificazione’ nei rapporti tra lo Stato e la mafia, ma di aver semmai minacciato e condizionato, in concorso con i mafiosi, l’operato del premier Berlusconi”.

Graviano non si è fermato

L’ipotesi è che il governo Berlusconi fosse stato minacciato ventilando la ripresa delle stragi. Per la Corte non si deve dimenticare che “Giuseppe Graviano, che fino a qualche giorno prima del suo arresto decantava, con Spatuzza, di aver trovato degli ‘interlocutori seri’ e di essersi messo praticamente in mano le sorti dell’intero Paese, ha proseguito, fino a quando ha potuto (cioè praticamente fino al suo arresto), la linea di attacco frontale allo Stato, tanto che, nonostante quelle interlocuzioni al bar Doney, ha progettato l’attentato all’Olimpico di Roma che, se portato a consumazione, avrebbe falcidiato un numero di vittime, tra carabinieri in servizio d’ordine e tifosi lì convenuti, perfino superiore ai precedenti attentati degli anni 1992-93”.

“V’è dunque da ritenere che l’esaurirsi della fase stragista – conclude – per quanto condizionata dal fallimento dell’attentato allo Stadio Olimpico, vada attribuita ad una molteplicità di fattori legati anche ai progressivi arresti dei soggetti più sanguinari che avevano seguito la primogenita strategia di Salvatore Riina e dell’ala stragista più intransigente”.

La scelta moderata di Provenzano

Provenzano scelse una strategia moderata per via degli arresti e di “un certo senso di sfiducia che aleggiava, sempre più forte, tra le fila di Cosa Nostra anche per la progressiva presa d’atto che la linea di contrapposizione dura contro lo Stato non aveva pagato producendo, semmai, degli effetti perfino opposti in termini di irrigidimento dell’azione repressiva ed antimafia”.

“Quale possa essere stato, poi, il ruolo di Forza Italia cosi come delle altre formazioni politiche dell’epoca in questa opera che può essere letta di ‘normalizzazione’ – scrive il collegio con giudice estensore Vittorio Anania – è compito che spetta agli analisti e non certamente a questa Corte in assenza di un’imputazione che vada oltre i confini (in verità già ampi) individuati nella sentenza di primo grado”.


Stato-mafia: la ‘trattativa’ non fu causa della morte di Borsellino. Le motivazioni

Poco meno di 3000 pagine per scrivere le motivazioni della sentenza di appello del processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia con cui la Corte di assise di appello di Palermo, il 23 settembre scorso, ha ribaltato il verdetto di primo grado. Le motivazioni sono state depositate in cancelleria ieri nel tardo pomeriggio. Il giudice estensore, Vittorio Anania (a latere nel processo) e il presidente della corte di assise d’appello, Angelo Pellino, hanno avuto la necessità di prendersi tutto il tempo necessario per «motivare» la sentenza con cui – attraverso la formula «perchè il fatto non costituisce reato» – hanno assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex capo del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. Con la stessa sentenza, la Corte di assise di appello aveva ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico- boss Antonino Cinà. In primo grado – nel maggio 2018 – erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e a 8 anni per De Donno.

La ‘trattativa’ non fu causa della morte di Borsellino

La strage di Via D’Amelio era decisa e la sua esecuzione non fu accelerata dalla cosiddetta trattativa. Lo scrivono i giudici della corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla trattativa Stato-mafia depositate ieri. Una conclusione in netto contrasto con la sentenza di primo grado che vedeva proprio nella conoscenza da parte di Borsellino del dialogo intrapreso dai carabinieri con il sindaco mafioso Ciancimino, la ragione dell’accelerazione dei tempi dell’attentato a suo danno. “L’operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani”, scrive la corte. “E’ assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del R.O.S. e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa”, spiega. “E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di soli 57 giorni – poiché tanti ne passarono tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio – sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: – conclude la corte – come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa Nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi”.

Ecco perchè il Ros non volle catturare Provenzano

«V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso». “Ecco perché, il R.O.S., lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso», aggiungono. “Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra», concludono.

«Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato». Lo scrive la corte d’assise d’appello nella sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto “favorire la latitanza di Provenzano in modo soft».

I Ros agirono per spaccare Cosa Nostra

«Il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria ‘trattativa politica’ e una mera ‘trattativa di polizia’, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento». Così la corte d’assise d’appello che ha celebrato il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia colloca l’iniziativa dei carabinieri del Ros, assolti dal reato di minaccia a corpo politico dello Stato, di intavolare un dialogo con pezzi della mafia negli anni delle stragi. “Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – spiega la corte – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni». “Nessun interesse, dunque, neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accaduto se i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti», conclude la corte.

“Contatti improvvidi ma per scongiurare stragi”

«Ed invero, scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato: ossia, da ragioni e interessi del tutto convergenti con quelli della vittima del reato di minaccia a Corpo politico dello Stato». Così si legge nelle motivazioni (poco meno di 3000 pagine) della sentenza della Corte di assise di Palermo – presidente Angelo Pellino e Vittorio Anania giudice a latere – del 23 settembre scorso, del processo di secondo grado sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia.

Il no alla perquisizione del covo di Riina fu il segnale

Le «sconcertanti omissioni» che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano «nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti». Lo scrive la corte d’assise d’appello nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. “In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di bona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio», dicono i giudici. “Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo».

Incompiuto il ricatto Bagarella-Brusca a Berlusconi

«Pur in assenza, come visto, della prova della veicolazione della minaccia in danno del Presidente Berlusconi è altrettanto evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca… E’ indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perchè Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo, in specie fino a Belusconi quale Presidente del Consiglio dei Ministri». Lo sostiene la Corte di assise di appello di Palermo – presidente Angelo Pellino e Vittorio Anania giudice a latere – nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, del 23 settembre scorso, del processo di secondo grado sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. La Corte di assise di appello ha assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex capo del Ros, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. Con la stessa sentenza, la Corte di assise di appello aveva ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella e confermato quella per il medico- boss Antonino Cinà. In primo grado – nel maggio 2018 – erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Antonino Cinà e a 8 anni per Giuseppe De Donno. «Nei confronti di questi imputati (Bagarella e Brusca, ndr), pertanto, è configurabile un delitto tentato poiché gli stessi hanno posto in essere – si legge nelle 3000 pagine – atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad esercitare la citata pressione mafiosa stragista in danno di quel Governo, non riuscendo nel loro intento criminale per una causa indipendente dalla loro volontà concretamente rappresentata, su un piano strettamente processuale, dalla mancanza di una prova certa riferita ‘all’ultimo passaggio’ della condotta affidata a Marcello Dell’Utri in previsione delle sue comunicazioni con il Presidente Berlusconi».

“Ingeneroso coinvolgere Scalfaro e Conso”

«Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica». Lo scrive la corte d’assise d’appello stigmatizzando la sentenza di primo grado, nelle motivazioni de verdetto sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. SICILIA GAZZETTA DEL SUD 6.8.2022

 


Trattativa Stato-Mafia, depositate le motivazioni della sentenza

La corte d’assise d’appello di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale il 23 settembre scorso ha definito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Un verdetto che ha fatto discutere e che ha ribaltato la decisione di primo grado, mandando assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. La corte, presieduta da Angelo Pellino, condannò invece i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La sentenza, depositata dopo diverse richieste di proroga dei termini, è di 2971 pagine. 

«Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica». Lo scrive la corte d’assise d’appello stigmatizzando la sentenza di primo grado, nelle motivazioni de verdetto sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.   LA SICILIA


La trattativa Stato-Mafia ci fu, ma per valide ragioni. Le motivazioni dell’assoluzione dei carabinieri e di Dell’Utri

Nessuna promessa alle mafie

Il secondo grado conferma – per penna dei giudici Angelo Pellino e Vittorio Anania – che delle negoziazioni avvennero, e nel loro ambito venne anche contattato l’ex sindaco mafioso del capoluogo siciliano, Vito Ciancimino, in modo che facesse da mediatore tra l’arma e Cosa Nostra. Nella motivazione depositata si legge che è: «Scartata in partenza l’ipotesi di una collusionedei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico».

Insomma, il canale con Cosa Nostra venne aperto per «fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato» si apprende dal documento. Ogni eventuale concessione alle mafie, quindi, sarebbe dovuta essere accompagnata dalla una «decapitazione» dell’ala stragista. Ad ogni modo, la sentenza esclude che siano state fatte promesse ai mafiosi colpevoli delle stragi di Capaci e Via D’Amelio.

La cattura di Totò Riina

Cruciale nello sviluppo della vicenda è la cattura del boss di Cosa Nostra Totò Riina, il 15 gennaio 1993, che metteva lo Stato in una posizione di forza dalla quale i giudici considerano «pensabile e praticabile un dialogo» – senza che questo apparisse come un segno di debolezza – per l’istituzione di una «coabitazione» piuttosto che di uno «stato di guerra permanente». OPEN ON LINE

 


SIGFRIDO RANUCCI Autore del libro IL PATTO
PROCESSO STATO-MAFIA. LE MOTIVAZIONI DELLE SENTENZA: SE PER UN BUON FINE, TRATTARE CON LA MAFIA SI PUÒ. COME AVEVA PIÙ VOLTE ANTICIPATO REPORT E COME AVEVO SCRITTO NEL LIBRO IL PATTO, I GIUDICI NELLE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA AFFERMANO CHE UNA TRATTATIVA C’È STATA.
“Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”. La corte d’appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, spiega le ragioni che il 23 settembre scorso hanno portato all’assoluzione degli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nel processo per la “Trattattiva Stato-mafia”, in primo grado la corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto aveva invece condannato gli imputati.
I giudici d’appello confermano che una “trattativa” ci fu, definiscono “un’improvvida iniziativa” quella di contattare l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma scrivono che l’unica finalità dei carabineri era quella di fermare le stragi: “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”.
La sentenza esclude dunque che i carabinieri possano aver fatto promesse di benefici ai mafiosi delle stragi. Scrivono i giudici (gli estensori della sentenza sono il presidente e il giudice a latere): “Eventuali concessioni a favore dei mafiosi, dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata dell’organizzazione mafiosa, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando di Cosa Nostra fosse rimasto Salvatore Riina e i capi corleonesi a lui più vicini e fedeli. Una volta decapitata l’ala stragista, con la cattura di Riina e degli altri capi mafia fautori della linea dura di contrapposizione frontale allo Stato – prosegue la sentenza – sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente; e un’eventuale proposta di dialogo in tal senso non avrebbe potuto essere interpretata come un segno di debolezza dello Stato – che con la cattura dei capi corleonesi più pericolosi a cominciare ovviamente dal capo di Cosa Nostra avrebbe dato al contrario una grande dimostrazione di forza e della propria capacità di colpire al cuore l’organizzazione mafiosa – e quindi non avrebbe mai potuto corroborare la strategia stragista, rafforzando lo schieramento mafioso che la perseguiva”.

Trattativa Stato-mafia, i giudici: “Improvvida iniziativa dei carabinieri e fu autorizzata da Riina”. Ma gli ex ufficiali del Ros assolti “perché agirono nell’interesse dello Stato”

A quasi un anno dalla sentenza emessa il 23 settembre del 2021 ora è più chiaro il ragionamento della Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, che aveva escluso la responsabilità dei carabinieri perché il fatto non costituisce reato: erano accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Per Marcello Dell’Utri, invece, l’assoluzione era per non aver commesso il fatto. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà. La sentenza, motivata in tremila pagine, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva di fatto confermato le condanne solo per i mafiosi.

“VOLEVANO PORRE UN ARGINE ALL’ESCALATION DI VIOLENZA” – I carabinieri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato, volevano fermare le stragi e non avevano altri motivi secondo i magistrati. “Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo – si legge nelle motivazioni – quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane“. Per la corte la decisione di avvicinare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per iniziare a dialogare con pezzi di Cosa nostra sarebbe stata presa proprio per evitare altro sangue e altro dolore.

È quindi pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo “intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donno esattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatto con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi. In sostanza – dicono i giudici – la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità di allacciare un dialogo con quella gente voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale”.

“Ad avviso di questa Corte, all’esclusione della colpevolezza degli ufficiali dell’Arma per carenza dell’elemento soggettivo – spiegano i giudici – deve ugualmente pervenirsi per la radicale incompatibilità della finalità perseguita con la loro improvvida iniziativa, che era certamente quella di fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi, con il dolo di minaccia”. Secondo i giudici le finalità dell’azione intrapresa da Mori e i suoi dunque sarebbero incompatibili con la tesi dell’accusa che sosteneva che con il loro comportamento i carabinieri avessero rafforzato i propositi minacciosi del boss Totò Riina.

Ma non solo. Per i giudici “il disegno” del Ros “era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Undisegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria ‘trattativa politica e una mera ‘trattativa di polizia’, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento. Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – spiega la corte – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”. “Nessun interesse, dunque, neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accaduto se i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti”.

CIANCIMINO E L’AUTORIZZAZIONE DI RIINA –Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”. L’ex sindaco mafioso di Palermo, proseguono i giudici “forse anche inaspettatamente per Mori Donno, effettivamente attivò immediatamente, informando (tramite Antonino Cinà) Salvatore Riina della sollecitazione dialogo ricevuta Carabinieri; Salvatore Riina accettò la “trattativa”, autorizzando Vito Ciancimino”.

LA MANCATA PERQUISIZIONE DEL COVO DI RIINA – Le “sconcertanti omissioni” che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”. Inoltre “in tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di bona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”, dicono i giudici. “Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”.

DELL’UTRI E LA MANCANZA DELLA PROVA CERTA – Un’altra assoluzione di peso riguarda l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri che come i carabinieri era stato condannato a 12 anni. Manca la “certezza della prova” l’imputato “nonostante il suo pesante coinvolgimento nella fase preelettorale ed anche postelettorale (con delle azioni tali da assumere astrattamente rilievo per una differente fattispecie di reato, tuttavia coperta dall’intangibile giudicato assolutorio di cui si è detto intervenuto per i fatti di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. successivi al 1992) non abbia concorso nella minaccia al Corpo politico dello Stato. Non si ha prova, in altri termini, che questo imputato, nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto, abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”. Inoltre “muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrivono i giudici – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato prosegue la Corte di assise di appello – come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”.


“La trattativa con la mafia ci fu, ma i carabinieri volevano solo fermare le stragi”. Ecco le motivazioni della sentenza che ha assolto Mori

I giudici d’appello confermano che una “trattativa accettata da Riina” ci fu, definiscono “un’improvvida iniziativa” quella di contattare l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, ma scrivono che l’unica finalità dei carabinieri era quella di fermare le stragi: “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da tini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. Assoluzione, dunque, per i carabinieri. E parole accorate per due esponenti politici che erano finiti nella maglie dell’inchiesta: “Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica”.

Il rapporto mafia e appalti

I giudici d’appello ribaltano anche in un altro punto la sentenza di primo grado: non ritengono che sia stata la “trattativa fra Stato e mafia” ad accelerare la strage Borsellino: “La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso chequell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quelloconcernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possaavere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti”.

La sentenza esclude soprattutto che i carabinieri possano aver fatto promesse di benefici ai mafiosi delle stragi. Scrivono i giudici (gli estensori della sentenza sono il presidente e il giudice a latere): “Eventuali concessioni a favore dei mafiosi, dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata dell’organizzazione mafiosa, giustamente ritenuta soccombente fino a quando al comando di Cosa Nostra fosse rimasto Salvatore Riina e i capi corleonesi a lui più vicini e fedeli. Una volta decapitata l’ala stragista, con la cattura di Riina e degli altri capi mafia fautori della linea dura di contrapposizione frontale allo Stato – prosegue la sentenza – sarebbe stato pensabile e praticabile un dialogo volto al ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione, o almeno sull’abbandono di uno stato di guerra permanente; e un’eventuale proposta di dialogo in tal senso non avrebbe potuto essere interpretata come un segno di debolezza dello Stato – che con la cattura dei capi corleonesi più pericolosi a cominciare ovviamente dal capo di Cosa Nostra avrebbe dato al contrario una grande dimostrazione di forza e della propria capacità di colpire al cuore l’organizzazione mafiosa – e quindi non avrebbe mai potuto corroborare la strategia stragista, rafforzando lo schieramento mafioso che la perseguiva”.
Insomma, fu un’azione al confine quella messa in atto fra le stragi del 1992. “Il disegno insomma era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente, almeno in nuce all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. I giudici lo definiscono “un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria “trattativa politica” e una mera “trattativa di polizia”, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento”.

La mancata perquisizione del covo di Riina

Le “sconcertanti omissioni” che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”. Scrive anche questo la corte d’assise d’appello nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

“In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”, dicono i giudici.

“Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”.

La trattativa con Dell’Utri, assolto

Su un altro imputato eccellente di questo processo, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (già condannato per concorso in associazione mafiosa in un altro processo) la corte scrive invece: “Non si ha prova, in altri termini nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto” che “abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”. In primo grado Dell’Utri era stato condannato a dodici anni, in appello i giudici lo hanno assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.

“Muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrive ancora la corte – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era presidente del consiglio dei ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato – prosegue la Corte di assise di appello – come l’ultimo miglio percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”. Per questa ipotesi di reati sono stati condannati solo Brusca e Bagarella.

Argomentano i giudici: “Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è altrettanto evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca… E’ indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perche Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo, in specie fino a Belusconi quale Presidente del Consiglio dei Ministri”.

“Nei confronti di questi imputati”, cioè Bagarella e Brusca “pertanto, è configurabile un delitto tentato poiché gli stessi hanno posto in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad esercitare la citata pressione mafiosa stragista in danno di quel governo, non riuscendo nel loro intento criminale per una causa indipendente dalla loro volontà concretamente rappresentata, su un piano strettamente processuale, dalla mancanza di una prova certa riferita ‘all’ultimo passaggio’ della condotta affidata a Marcello Dell’Utri in previsione delle sue comunicazioni con il presidente Berlusconi”.


Trattativa Stato mafia, “Operato Ros evitò nuove stragi”, le motivazioni della sentenza di quasi 3mila pagine il verdetto, emesso nel settembre scorso, fece discutere non poco

La corte d’assise d’appello di Palermo ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale il 23 settembre scorso ha definito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Trattativa Stato Mafia, figlia Subranni “Chi ha infangato mio padre, pagherà” (VIDEO)

Il verdetto che fece discutere, gli assolti e i condannati

Un verdetto che ha fatto discutere e che ha ribaltato la decisione di primo grado, mandando assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. La corte, presieduta da Angelo Pellino, condannò invece i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La sentenza, depositata dopo diverse richiesta di proroga dei termini, è di 2971 pagine.

“Ingeneroso e fuorviante coinvolgere Scalfaro e Conso”

“Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso oggettivo alla realizzazione del reato o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’aver ignorato i retroscena più inquietanti) a parere di questa corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, è frutto di un errore di sintassi giuridica”. Lo scrive la corte d’assise d’appello stigmatizzando la sentenza di primo grado, nelle motivazioni del verdetto sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Le ragioni delle assoluzioni

“Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”. E’ quanto scrive ancora la corte a proposito dell’assoluzione dal reato di minaccia a Corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati invece in primo grado.

“Volevano evitare nuove stragi”

Per la corte la decisione di avvicinare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per iniziare a dialogare con pezzi di Cosa nostra sarebbe stata presa proprio per evitare nuove stragi. “Ad avviso di questa Corte, all’esclusione della colpevolezza degli ufficiali dell’Arma per carenza dell’elemento soggettivo – spiegano i giudici – deve ugualmente pervenirsi per la radicale incompatibilità della finalità perseguita con la loro improvvida iniziativa, che era certamente quella di fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi, con il dolo di minaccia”. Secondo i giudici le finalità dell’azione intrapresa da Mori e i suoi dunque sarebbero incompatibili con la tesi dell’accusa che sosteneva che con il loro comportamento i carabinieri avessero rafforzato i propositi minacciosi del boss Totò Riina.

“Ros agirono per spaccare Cosa nostra”

“Il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria ‘trattativa politica’ e una mera ‘trattativa di polizia’, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento”. Cos’ la corte colloca l’iniziativa dei carabinieri del Ros di intavolare un dialogo con pezzi della mafia negli anni delle stragi.

Il possibile negoziato tramite Vito Ciancimino

“Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – spiega la corte – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”. “Nessun interesse, dunque, neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accaduto se i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti”.

La mancata perquisizione del covo di Riina

Per la corte, inoltre, le “sconcertanti omissioni” che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti. In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”, dicono i giudici.

Non v’è prova di un accordo

“Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documenti compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”.

La latitanza di Provenzano

“Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Lo scrive ancora la corte sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto “favorire la latitanza di Provenzano in modo soft”.

Il superiore interesse

“V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.
“Ecco perché, il R.O.S., lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”, aggiungono.

Evitato il riemergere delle pulsioni stragiste di Cosa nostra

“Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”, concludono i giudici.  BLOG SICILIA

 


Stato-mafia, depositate le motivazioni delle assoluzioni in appello: la trattativa c’è stata ma solo per fermare le stragi 

La corte ha confermato le condanne per i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. I giudici d’Appello confermano dunque l’esistenza di una trattativa definita “improvvida iniziativa”. «Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci».

«Non c’è prova che Dell’Utri abbia comunicato le minacce del boss a Berlusconi»
«Non si ha prova, in altri termini» che l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri «nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto», «abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano». E’ quanto scrivono i giudici della Corte di assise di appello. In primo grado Dell’Utri era stato condannato a dodici anni, in appello i giudici lo hanno assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato. «’Muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrivono i giudici – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato prosegue la Corte di assise di appello – come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione…».

‘«Al di là del pieno coinvolgimento di Dell’Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello… non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offesa e di Presidente del Consiglio per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale». «Non risulta provato che oltre alla interlocuzione Mangano (Vittorio, l’ex stalliere di Arcore ndr) Dell’Utri vi sia stata una interlocuzione di Dell’Utri con Silvio Berlusconi su questa tematica, tanto meno dopo l’insediamento del Governo Berlusconi, dovendo al riguardo ribadire, come fatto nei paragrafi che precedono ( ed ai quali continua a farsi rinvio), la differenza tra un accordo politico-mafioso tout court (per quanto in sé illecito e moralmente disdicevole) e la veicolazione della minaccia al Governo della Repubblica, soltanto questa capace di integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 338 c.p. sotto il terribile ricatto della ripresa (o della prosecuzione) della stagione stragista che aveva insanguinato gli anni 1992 e 1993».


Trattativa Stato-mafia – When The Going Gets Tough, The Tough Get Going

Non lasciatevi ingannare, l’esortazione all’italiana per affrontare i problemi non è la stessa attribuita a Frank Leahy, il coach che avrebbe pronunciato questo motto per la prima volta nel 1954, in occasione di una partita difficile.

“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”, è la traduzione in italiano di quel motto usato a sostegno della nomina di Dwight D. Eisenhower a presidente degli Stati Uniti, e spesso ricorrente nei discorsi del capostipite Joseph P. Kennedy, il padre del presidente John F. Kennedy
Da buoni italiani ci impadronimmo del modo di dire americano quando  nel 1978 la frase venne pronunciata nel film Animal House di John Landis, per raggiungere il successo internazionale con la canzone intitolata When The Going Gets Tough, The Tough Get Going, scelta poi come colonna sonora del film The Jewel of the Nile di Lewis Teague.
Saltiamo tutto il resto rimanendo ancorati al film e alla canzone, senza passare attraverso la pubblicità – se non ricordo male – di una nota marca di biscotti che di duro non potevano aver nulla.
Sono state depositate ieri le motivazioni sulla sentenza trattativa Stato-mafia, che escludono qualsivoglia patto con la mafia condotto dai Ros, non rilevando, inoltre, alcun nesso con la strage di Via D’Amelio.
I giudici della Corte d’Appello, pur smontando il teorema trattativa, sono stati critici in merito all’interlocuzione tra i Ros e Ciancimino.
Quello che stupisce – nonostante le sentenze non si discutono, ma si accettano – lo stravolgimento di quella che è opinione diffusa, testimoniata anche da altri magistrati, in merito al clima che si respirava alla Procura di Palermo di Giammanco, quel “nido di vipere” – così lo aveva definito Paolo Borsellino nel manifestare la propria sfiducia in merito all’operato dell’allora procuratore capo.
A ricostruire quanto riportato in sentenza, il giornalista Roberto Greco, in un ottimo articolo pubblicato su “Gli Stati Generali”:

“Dalla sentenza si evince che, nonostante le lettere aperte di questi ultimi giorni, i detrattori e i minimizzatori, l’elemento acceleratore della strage di via d’Amelio possa essere proprio l’interessamento del dottor Borsellino al dossier “mafia-appalti” e a tal proposito scrive «La Corte ritiene quindi di poter concludere nel senso che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’onorevole Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto MAFIA e appalti».
Risulta, inoltre, che i carabinieri del Ros sono sempre stati fedeli allo Stato indicando che «Ed invero, scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato: ossia, da ragioni e interessi del tutto convergenti con quelli della vittima del reato di minaccia a Corpo politico dello Stato» si legge nelle motivazioni. E ancora «Esce dunque confermata, ai fini del giudizio di responsabilità degli ufficiali del R.O.S. la distanza incommensurabile che separa la ricostruzione che questa Corte ritiene suffragata dalle prove raccolte – secondo cui la pur improvvida iniziativa intrapresa attraverso i contatti con Vito Ciancimino ebbe come finalità precipua ed anzi esclusiva quella di scongiurare il rischio di nuove stragi – da quella che fa dell’obbiettivo di prevenire ulteriori eccidi solo un effetto collaterale di un disegno finalizzato a salvare la vita di un uomo politico con cui, in ipotesi, intercorrevano opache relazioni di reciproco interesse. Un disegno che si sarebbe sostanziato nell’imbastire, a tal fine, una trama occulta per condizionare influenzare le scelte dell’Autorità politica e di Governo, e rispetto al quale la veicolazione della minaccia di ulteriori stragi sarebbe tutto sommato tornata utile allo scopo».
Seppur con aspre critiche all’operato procedurale dei Ros, la sentenza acclara che, di fatto, non c’è mai stata nessuna reale trattativa tra lo Stato e la mafia. Questo, implicitamente, significa che ciò che non c’è stato non ha potuto essere causa dell’accelerazione della strage di via d’Amelio.
«Per l’insieme queste ragioni e per tutte le altre considerazioni spese in precedenza sul medesimo tema, non può che ribadirsi la conclusione già rassegnata: l’iniziativa intrapresa MORI e DE DONNO con l’avallo (o su input, poco importa)del loro diretto superiore, Generale SUBRANNI, attraverso i contatti con Vito CIANCIMINO in quell’estate del ’92 non fu una mera operazione di polizia, e tanto meno di polizia giudiziaria. Si potrebbe allora sostenere, per spiegare l’apparente schizofrenia delle messe compiute dai Carabinieri, che, non essendo prevedibili gli sviluppi e l’esito della via intrapresa di una trattativa con i vertici mafiosi, anche per l’assenza di una chiara ed esplicita copertura politica in tal senso, si era deciso di percorrere una via parallela – per l’eventualità che quella negoziale non fosse andata a buon fine – e certamente più consona al dovere di un reparto operativo e di investigazione qual era il R.O.S., di combattere e contrastare senza riserve e sconti l’organizzazione mafiosa di quanto non fosse la ricerca un’intesa. Se non fosse che, proprio nel momento in cui la via di un possibile negoziato si era materializzata sotto i loro occhi con la conferma da parte di Vito CIANCIMINO della disponibilità dei vertici mafiosi a trattare e con il logico invito a dire cosa avessero da offrire (in cambio), eccoche gli stessi Carabinieri mostrano di non essere affatto interessati a quel negoziato, perché la loro offerta è solo quella (in sé di misera portata) di un giusto processo per i boss latitanti che si fossero consegnati (a loro cioè ai carabinieri) e un equo trattamento (qualunque cosa volesse significare tale locuzione) ai loro familiari.Levidente irricevibilità di una simile offerta costituirebbe la migliore riprova che i Carabinieri non aveva mai avevano avuto la reale intenzione di trattare, che avevano ingannato CIANCIMINO, facendoglielo credere, fino a calare la maschera quando si resero conto che non potevano più reggere il gioco ed era venuto il momento rivelare le loro vere intenzioni».
Dall’interessante “affresco storico” fornito dalla Corte emergono, inoltre, diversi spunti per meglio capire come alcuni temi dibattuti con le solite modalità della chiacchierata al bar tra amici, non siano trascurabili e siano stati, troppo spesso, celati come quello sull’operazione che portò all’arresto di Totò Riina, per il quale viene indicato come fondamentale l’apporto del maresciallo Lombardo e si cita quanto Brusca dichiarò di aver sentito pronunciare da Leoluca Bagarella nei confronti di Lombardo quando disse «se sapevo invece di farti suicidare ti sarei venuto a cercare e ti avrei ammazzato io». Questa dichiarazione potrebbe essere una chiara indicazione sulle modalità della morte del maresciallo Lombardo e del possibile movente, inficiando così la ricostruzione, seppur avvallata da un’archiviazione, che ritiene si sia suicidato”.
Una sentenza che certamente non piace ai “trattativisti”, siano essi magistrati o antimafiosi appartenenti a movimenti, o ancora a quei tanti giornalisti che per anni hanno fatto cassetta vendendo veline di procure e partecipando a show che nulla avevano di giornalistico.
Quello che invece lascia perplessi – e non poco – è quell’antimafia che aveva preso le distanze dagli showman, che oggi sembra non trovino il coraggio di intervenire.
“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare!”
Forse alcuni si sono fermati alla pubblicità dei frollini – ottimi, per carità – che una volta inzuppati nel latte tendono a dissolversi.
Ben diverso, per coraggio e nella sostanza, l’Avv. Fabio Trizzino, difensore legale dei figli di Paolo Borsellino, nonché genero del Giudice ucciso in via D’Amelio.
Trizzino, senza se e senza ma, con un post su Facebook, ha commentato a caldo la sentenza:“A chi mi chiede un commento a caldo sulle motivazioni della sentenza trattativa mi limito a rassegnare le seguenti considerazioni.

La ricerca di una verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest.
Più si va avanti più l’area diventa rarefatta e gli ostacoli più potenti, quasi invincibili.
Eppure oggi siamo a 6mila metri di altezza e, fra mille ostacoli, abbiamo guadagnato il campo base. Bisogna riordinare le idee e riacquistare forza ed energie.
La vetta è lì più vicina. La si può quasi toccare. Ma al tempo stesso lontanissima.
Raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari, intoccabili che’ a solo tentare di guardarci dentro, si corre il rischio di essere trasformato in una statua di sale.
Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo definito  un NIDO DI VIPERE. La memoria di un valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.
E noi  non ci sottrarremo, tanto più  che il nostro cammino per la Verità,  per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato”.

Gian J. Morici  LA VALLE DEI TEMPLI 6.8.2022

 


Trattativa Stato-mafia, i giudici: dialogo per “spaccare” Cosa nostra

 

La trattativa ci fu, e fu una «improvvida iniziativa» quella del Ros che nel 1992, dopo la strage di Capaci, contattò Vito Ciancimino perché facesse da intermediario con Totò Riina. Ma non si può configurare come un reato. E l’unica finalità dei carabinieri era quella di fermare le stragi «insinuandosi in una spaccatura» all’interno di Cosa nostra. Facendo leva su tensioni e contrasti, si cercava insomma di dialogare con Bernardo Provenzano per colpire meglio l’ala stragista di Totò Riina.

È il passaggio cruciale della sentenza con la quale la corte d’assise d’appello di Palermo (presidente Angelo Pellino) ha assolto il 23 settembre dell’anno scorso i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri.
Condannati invece Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca che, loro sì, avevano l’obiettivo di un’azione eversiva.
Per i magistrati si chiama minaccia di un corpo politico dello Stato. Il corpo politico che avrebbe dovuto essere costretto ad adottare provvedimenti a favore della mafia era il governo di Silvio Berlusconi. Ma la minaccia di Cosa nostra non arrivò a destinazione. O, almeno, non c’è la prova che questo sia accaduto.
Il piano fu «arrestato al livello del tentativo», da attribuire a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, scrivono i giudici in una capitolo della sentenza lunga 2.971 pagine. La Procura generale ha tempo fino al 15 ottobre per decidere se impugnarla.

Ci sono poi altri passaggi che fissano in modo chiaro il ragionamento svolto dai giudici d’appello. Uno riguarda l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’ex guardasigilli Giovanni Conso. Per loro arriva, dopo tanti anni, una sorta di riabilitazione. Fu «ingeneroso e fuorviante», e perfino «frutto di un errore di sintassi giuridica», alzare ombre sulla loro disponibilità a cedere alle minacce di Cosa nostra. «Con il risultato – aggiunge la sentenza – di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale».
Un altro capitolo importante della sentenza contesta la tesi che la trattativa abbia prodotto una accelerazione della strage di via D’Amelio per uccidere Borsellino. I giudici di appello non la pensano come quelli di primo grado che avevano seguito la linea dell’accusa.
«L’operazione Borsellino era già in itinere», avvertono. «E allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani», scrive la corte.
Semmai, si può credere che l’ordine di Riina per l’attentato di via D’Amelio «possa avere trovato origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti». Intendeva riprendere in mano il dossier per approfondire alcuni spunti. Ma non ne ebbe il tempo.

Quanto alla trattativa, la linea di Mori e degli altri sarebbe stata quella di mandare segnali. E in questo senso va interpretata la scelta di «preservare la libertà di Provenzano», cioè di non arrestarlo.

Ma non perché ci fossero collusioni o «patti» (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano «avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato».
Anche la mancata perquisizione del covo di Riina può essere ricondotta a questa strategia. Era un atto «simbolico». Serviva a lanciare un «segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo». E non era un segno di debolezza dello Stato.


La trattativa Stato-Mafia ci fu, per fermare le stragi, ma senza reato

La trattativa ci fu, e fu una «improvvida iniziativa» quella del Ros (Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri) che nel 1992, dopo la strage di Capaci, contattò l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino perché facesse da intermediario con il superboss Totò Riina. Ma non si può configurare come un reato. E l’unica finalità dei carabinieri era quella di fermare le stragi «insinuandosi in una spaccatura» all’interno di Cosa nostra. Facendo leva su tensioni e contrasti, si cercava insomma di dialogare con Bernardo Provenzano per colpire meglio l’ala stragista di Totò Riina. È il passaggio cruciale della sentenza con la quale la corte d’Assise d’appello di Palermo (presidente Angelo Pellino) ha assolto, il 23 settembre dell’anno scorso, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri. Condannati invece Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca che, loro sì, avevano l’obiettivo di un’azione eversiva. Per i magistrati si chiama minaccia a un corpo politico dello Stato. Il corpo politico che avrebbe dovuto essere costretto ad adottare provvedimenti a favore della mafia era il governo di Silvio Berlusconi. Ma la minaccia di Cosa nostra non arrivò a destinazione. O, almeno, non c’è la prova che questo sia accaduto. Il piano fu «arrestato al livello del tentativo», da attribuire a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, scrivono i giudici in un capitolo della sentenza lunga 2.971 pagine. La Procura generale ha tempo fino al 15 ottobre per decidere se impugnarla o meno. Ci sono poi altri passaggi che fissano in modo chiaro il ragionamento svolto dai giudici d’Appello. Uno riguarda l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, e l’ex guardasigilli Giovanni Conso. Per loro arriva, dopo tanti anni, una sorta di riabilitazione. Fu «ingeneroso e fuorviante», e perfino «frutto di un errore di sintassi giuridica», alzare ombre sulla loro disponibilità a cedere alle minacce di Cosa nostra. «Con il risultato – aggiunge la sentenza – di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale». Un altro capitolo importante della sentenza contesta la tesi che la trattativa abbia prodotto una accelerazione della strage di via D’Amelio, a Palermo, per uccidere il magistrato Paolo Borsellino. I giudici di appello non la pensano come quelli di primo grado che avevano seguito la linea dell’accusa. «L’operazione Borsellino era già in itinere», avvertono. «E allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani», scrive la corte. Semmai, si può credere che l’ordine di Riina per l’attentato di via D’Amelio «possa avere trovato origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti». Il giudice intendeva riprendere in mano il dossier per approfondire alcuni spunti. Ma non ne ebbe il tempo. Quanto alla trattativa, la linea di Mori e degli altri sarebbe stata quella di mandare segnali. E in questo senso va interpretata la scelta di «preservare la libertà di Provenzano», cioè di non arrestarlo. Ma non perché ci fossero collusioni o «patti» (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano «avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato». Anche la mancata perquisizione del covo di Riina può essere ricondotta a questa strategia. Era un atto «simbolico». Serviva a lanciare un «segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo». E non era un segno di debolezza dello Stato. AVVENIRE

Famiglia Borsellino: ‘Sentenza trattativa? Ora guardare dentro santuari intoccabili’

“Il clima all’interno della della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole ripostate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo definito un ‘nido di vipere’ – dice – La memoria di un valente magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.

E non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato”, conclude Fabio Trizzino. SICILIA REPORT


Sentenza Stato-mafia, per la Corte Ros favorì latitanza di Provenzano

L’interesse a preservare la libertà di Provenzano “ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”
“Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Lo scrive la corte d’assise d’appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, emessa il 23 settembre scorso, sostenendo che i carabinieri avrebbero voluto “favorire la latitanza di Provenzano in modo soft”.

Il verdetto aveva fatto discutere e aveva ribaltato la decisione di primo grado, mandando assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. La corte, presieduta da Angelo Pellino, condannò invece i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La sentenza, depositata oggi dopo diverse richieste di proroga dei termini, è di 2971 pagine.

Le motivazioni

“V’erano dunque indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione, – spiegano – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. “Ecco perché, il R.O.S., lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”, aggiungono. “Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”, concludono.

I giudici: “Il Ros agì per fermare le stragi”

“Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”, si legge nelle motivazioni. Per la corte la decisione di avvicinare l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino per iniziare a dialogare con pezzi di Cosa nostra sarebbe stata presa proprio per evitare nuove stragi. “Ad avviso di questa Corte, all’esclusione della colpevolezza degli ufficiali dell’Arma per carenza dell’elemento soggettivo – spiegano i giudici – deve ugualmente pervenirsi per la radicale incompatibilità della finalità perseguita con la loro improvvida iniziativa, che era certamente quella di fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi, con il dolo di minaccia”. Secondo i giudici le finalità dell’azione intrapresa da Mori e i suoi dunque sarebbero incompatibili con la tesi dell’accusa che sosteneva che con il loro comportamento i carabinieri avessero rafforzato i propositi minacciosi del boss Totò Riina.

“L’obiettivo era spaccare Cosa nostra”

“Il disegno era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria ‘trattativa politica’ e una mera ‘trattativa di polizia’, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento”, scrivono ancora i giudici. “Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – spiega la corte – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare profìcuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”. “Nessun interesse, dunque, neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accadutose i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti”, conclude la corte.

“Mancata perquisizione del covo di Riina fu segnale di disponibilità”

Le “sconcertanti omissioni” che seguirono la cattura del boss Riina, e in particolare la mancata perquisizione del suo covo, si inquadrano “nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”. “In tale contesto, e pur in assenza di un previo accordo con Bernardo Provenzano o con soggetti a lui vicini, e quindi di una specifica volontà di favoreggiamento, con la mancata perquisizione del covo di Riina si intese lanciare un segnale di bona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”, dicono i giudici. “Non v’è prova che fosse intervenuto un previo accordo con Provenzano o con altri esponenti mafiosi che contemplasse da un lato la consegna di Riina dall’altro la rinuncia a perquisire l’immobile, dando tempo ai mafiosi di ripulirlo d’ogni traccia. – prosegue la corte – Né Mori e i suoi potevano essere certi dell’esistenza all’interno dell’abitazione di tracce utili alle indagini o addirittura di documento compromettenti. Ma anche se fossero stati certi che non vi fosse nulla di compromettente, si sarebbero ugualmente determinati ad astenersi da una perquisizione immediata perché il significato di quel gesto era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”. 

Mafia, il pm: “Messina Denaro determinante per le stragi del ’92”

Inoltre, per i giudici la strage di Via D’Amelio era decisa e la sua esecuzione non fu accelerata dalla cosiddetta trattativa. Una conclusione in netto contrasto con la sentenza di primo grado che vedeva proprio nella conoscenza da parte di Borsellino del dialogo intrapreso dai carabinieri con il sindaco mafioso Ciancimino, la ragione dell’accelerazione dei tempi dell’attentato a suo danno. “L’operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani”, scrive la Corte. “E’ assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del R.O.S. e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa”, spiega. “E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di soli 57 giorni – poiché tanti ne passarono tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio- sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: – conclude la corte – come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa Nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi”.

Manca la prova su Dell’Utri come tramite della minaccia mafiosa

“Manca la prova certa che Marcello Dell’Utri abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa-stragista fino a Silvio Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato come ‘l’ultimo miglio’ percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione”, spiega la Corte d’assise. “Al di là del pieno coinvolgimento di Dell’Utri nell’accordo preelettorale (o nella promessa elettorale come pure definita), – conclude – sul quale sono state raccolte plurime e convergenti elementi di conferma perfino rafforzati in questo giudizio di appello non si ha prova che a questa fase, qualificabile come un antefatto o antecedente non punibile, abbia fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di Presidente del Consiglio per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale”


Sconfessata la procura. La trattativa Stato-mafia è soltanto una bufala

 

Stato-Mafia, le motivazioni dell’appello: la trattativa c’è stata ma solo per fermare le stragi

I giudici di Palermo hanno assolto gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato

6 Agosto 2022 LA PRESSE

Un dialogo tra lo Stato e Cosa Nostra c’è stato, ma era mosso “da fini solidaristici (la salvaguardia della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale dello Stato”: l’obiettivo era porre fine alle stragi di mafia. Lo ha scritto la Corte d’Assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, nelle 2.971 pagine di motivazione della sentenza con cui, ribaltando buona parte della decisione di primo grado, ha assolto dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Le ragioni della decisione sono state rese note nella giornata del 6 agosto, poco meno di un anno dopo la lettura in aula del dispositivo, lo scorso 23 settembre. La corte ha confermato le condanne per i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. La corte ha scartato l’ipotesi “di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa” e quella “che abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico” e definito la trattativa come “un’improvvida iniziativa” e “un disegno certamente ambizioso che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria trattativa politica e una mera trattativa di polizia”: “Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci“. Il tentativo, quello di insinuarsi “in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra” e “sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale” per favorire indirettamente “lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. E in particolare, hanno scritto i giudici, “v’erano indicibili ragioni di ‘interesse nazionale’ a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della ‘sommersione’, almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva a essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Quindi, anche a dar credito ai dubbi sulla correttezza dell’operato del Ros nelle indagini per la cattura del boss Bernardo Provenzano, “se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare lo status libertatis di Provenzano, esso ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Con riferimento infine alla posizione di Bagarella, condannato a 27 anni di reclusione, la Corte ha motivato la qualificazione del fatto come “minaccia a corpo politico dello Stato” solo tentata e non consumata: manca la prova che il ricatto di Bagarella e Brusca sia stata effettivamente veicolata da Marcello dell’Utri all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. “Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca… E’ indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perchè Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo”, hanno scritto i giudici.


“La trattativa con la mafia ci fu, ma il Ros agì per fermare le stragi “. Le motivazioni della sentenza che ha assolto Mori

 “Un disegno certamente ambizioso che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria trattativa politica e una mera trattativa di polizia”. Lo scrive la Corte d’assise d’appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino (giudice estensore Vittorio Anania) nelle motivazioni della sentenza d’appello del processo alla presunta trattativa Stato-mafia del 23 settembre 2021 in cui vennero assolti dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri, ribaltando le condanne in primo grado. La Corte ha confermato le condanne per i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. “Il disegno insomma era quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. “Una volta assodato che la finalità perseguita, o comunque prioritaria, non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”, si legge nelle motivazioni.  HUFFINGTONPOST 6.8.2022

 

di Marco Travaglio | Il Fatto Quotidiano, 7 Agosto 2022
Leggendo le motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, si capisce bene perché ci sia voluto quasi un anno: non potendo negare i fatti documentati, bisognava frammentarli, isolarli, selezionare quelli funzionali ad assolvere gli uomini dello Stato (per i boss pluriergastolani qualche anno non cambia nulla) e scartare i più imbarazzanti. Tipo il furto istituzionale dell’agenda rossa di Borsellino e il depistaggio istituzionale del falso pentito Scarantino: mai citati in 3mila pagine, come se il movente e la tempistica di via d’Amelio potessero prescindere da elementi così cruciali. Il livello politico-istituzionale della strategia stragista 1992-’94 scompare con i fatti che lo provano: resta il super-ego di Riina, che fa tutto da solo per mania di grandezza. E la trattativa del Ros di Mori e De Donno con Riina? Un’iniziativa privata, “improvvida”, ma a fin di bene: l’“interesse dello Stato” di “cessare le stragi”. Quale Stato l’avesse ordinata, con quali norme o direttive, non si sa. Non certo lo Stato che servivano Falcone, Borsellino e le loro scorte, uccisi perché con Cosa Nostra non trattavano, ma combattevano, purtroppo ignari dell’“interesse” di calare le brache a Riina dopo Capaci e financo “allearsi” con Provenzano dopo le stragi di Firenze, Roma e Milano. Lo Stato parallelo e fellone che tradisce i suoi servitori e cittadini, perché – disse Lunardi, ministro di B. – “con la mafia si deve convivere”.
Pazienza se già allora tutti sapevano (report Criminalpol e Dia) che le stragi miravano a piegare lo Stato a trattare, dunque cedere non le avrebbe fermate, ma incoraggiate e moltiplicate. Pazienza se gli artefici dell’“improvvida iniziativa” e di quelle conseguenti (mancata perquisizione del covo di Riina, mancate catture di Provenzano e Santapaola) non furono cacciati con disonore, ma promossi ai vertici dei Servizi, coperti con depistaggi e menzogne di Stato, difesi come eroi da governi e stampa di regime. Senza che nessuno, nemmeno gli ingenuissimi giudici della sentenza “spezzatino” che rinnega il metodo Falcone (un solo maxiprocesso per centinaia di delitti, per non frammentare le prove e perdere il quadro d’insieme), si domandi perché. Noi continueremo a domandarlo e a pretendere risposte dai magistrati. Per ora sappiamo che la trattativa ci fu: fra il Ros e Riina, fra Brusca, Bagarella, Mangano e Dell’Utri. La sentenza, pur minimalista, conferma quei fatti ripugnanti e non cancella una sola parola che abbiamo speso in questi anni per raccontarli. Chi parlava di trattativa “presunta” o “inesistente”, calunniando i pochi pm e giornalisti che ne parlavano, dovrebbe vergognarsi e scusarsi, come quei carabinieri e politici. Che non sono “improvvidi”, ma traditori.
 

di Davide varì Il Dubbio, 7 agosto 2022

Depositate le motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha assolto Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. I giudici di secondo grado demoliscono la prima sentenza. Sono state depositate, a quasi un anno dalla sentenza emessa il 23 settembre del 2021, le motivazioni del processo d’appello sulla trattativa tra Stato e Cosa Nostra. La Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, aveva assolto al processo gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà. La sentenza è composta da oltre tremila pagine. “Ben si comprendono le perplessità di Paolo Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla Procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo” scrivono i giudici della Corte d’assise d’appello di Palermo, i quali ricordano anche le “doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros”. E fanno riferimento a quanto accadde nell’affollata assemblea plenaria che si tenne in Procura con i pm il 14 luglio del 1992, cioè appena cinque giorni prima della strage di via D’Amelio. “Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea”, dicono, come “ben rammenta Luigi Patronaggio”. La proposta di Vito Ciancimino ai carabinieri del Ros – “È pacifico, perché comprovato dalle convergenti allegazioni dei diretti protagonisti della vicenda, che Vito Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo “intese la proposta inizialmente rivoltagli da Mori e De Donno esattamente nei termini in cui tale proposta era stata formulata, e quindi, così come riassunta, con parole diverse, ma semanticamente equipollenti, dai due ex ufficiali prefetti. E dunque la proposta fu di tentare di stabilire un contatto con i vertici, o comunque con esponenti autorevoli di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad un dialogo finalizzato a trovare un punto di intesa, cioè un accordo, per porre fine alle stragi”. “In sostanza – dicono i giudici – la sollecitazione rivolta a Ciancimino di sondare la possibilità di allacciare un dialogo con “quella gente” voleva essere, nelle intenzioni degli ufficiali del Ros, solo un escamotage per guadagnarsi la sua fiducia e per prendere tempo, portandolo gradatamente dalla loro parte, poiché non si poteva a muso duro intimargli di collaborare se voleva alleviare la sua posizione processuale”. Trattativa Stato-Cosa nostra, “la sentenza di primo grado è incongruente” – La sentenza di primo grado, con la quale i giudici guidati da Alfredo Montalto, condannarono pesantemente i generali Antonio Subranni e Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno, “è incongruente”, sostiene il collegio giudicante, presieduto da Angelo Pellino che dunque non risparmia le critiche al collega di primo grado. In appello i tre ufficiali sono stati tutti assolti, così come l’ex senatore Marcello Dell’Utri, tutti accusati di minaccia a corpo politico dello Stato. Pellino parla di “varie incongruenze” della sentenza di primo grado. “Anzitutto – scrivono i giudici d’appello – nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa. E che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirati a una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia”. La cattura di Totò Riina e lo stop alla trattativa con Ciancimino – “In realtà – dicono ancora in sentenza d’appello – la lettura offerta dalla sentenza non i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino”, l’ex sindaco mafioso di Palermo, il generale Mario Mori e i suoi uomini “si preparavano e si attrezzavano per dare corso a una indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e a catturare il capo di Cosa nostra”. “E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto a un certo punto una brusca interruzione e comunque una drastica svolta”.


STRAGI FALCONE E BORSELLINO / “MAFIA E APPALTI” IL MOVENTE. ALTRO CHE TRATTATIVA ! 7 Agosto 2022 di: Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI

Un altro, decisivo tassello per la soluzione del tragico giallo di Capaci e di via D’Amelio, rinvenendo il movente delle due stragi – soprattutto la seconda – è nel dossier ‘Mafia-Appalti’ al quale stava lavorando da un anno e mezzo Giovanni Falcone, con il fondamentale supporto di Paolo Borsellino.

Arriva dalle motivazioni della sentenza pronunciata mesi fa dalla Corte d’Appello di Palermo sulla famosa ‘Trattativa Stato-Mafia’, appena rese note. Il giudice che ha firmato la sentenza e le motivazioni è Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania.

E tutto ciò succede proprio all’indomani della fondamentale decisione della procura di Caltanissetta di riaprire, dopo ben 30 anni di letargo in seguito alla iper-frettolosa archiviazione, proprio quell’inchiesta ‘Mafia-Appalti’, voluta con tanta forza da Falcone e Borsellino che per portarla avanti hanno pagato con la loro vita.

Sotto la supervisione del procuratore capo di Caltanissetta,  Salvatore De Luca, infatti, il fascicolo è ora affidato ad un pool di pm, tra cui Paola Pasciuti, toga ben nota per la sua assoluta tenacia e rigore investigativo.

Ma riavvolgiamo il nastro per districarci nella non semplice matassa, che ha visto proprio nei primi giorni di ferragosto degli imprevedibili – e quasi miracolosi – sviluppi.

A partire, proprio, dalla decisione delle toghe nissene.

‘MAFIA E APPALTI’, DETONATORE PER IL TRITOLO

Ecco la notizia fresca di giornata, dopo mesi di attesa.

Sono state finalmente depositate le motivazioni della sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Palermo sulla famosa ‘Trattativa Stato Mafia’, che ha occupato per anni le cronache di tutti i media. Letteralmente sviando, ‘depistando’ l’attenzione dal vero cuore del problema, come la ‘Voce’ ha scritto più volte.

Le motivazioni della sentenza, infatti, ribaltano il castello accusatorio, valso in primo grado le pesanti condanne ai vertici del ROS per aver intavolato – secondo il teorema accusatorio del primo grado – una vera e propria ‘trattativa’ con i vertici di Cosa Nostra. Protagonisti il comandante del ROS dei carabinieri, il generale Mario Mori, e il suo braccio destro, il capitano Giuseppe De Donno. Accusati di aver stretto un patto di ferro con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, capace di garantire la tranquillità ai vertici di Cosa Nostra in cambio di una fine della stagione stragista.

In questo patto molti, troppi hanno visto il movente per le ultime stragi, quelle di Capaci e via D’Amelio, proprio perché le due toghe avrebbero voluto evitare qualsiasi trattativa con i vertici di Cosa Nostra.

La sentenza di primo grado ha fatto propria questa versione dei fatti, accusando e condannando senza se e senza ma i vertici del ROS in combutta con la mafia.

Adesso, invece, la sentenza pronunciata a fine dello scorso anno dalla Corte d’Appello di Palermo ribalta il tutto, smonta il castello accusatorio. C’è stata, sì, una ‘Trattativa’, ma volta unicamente a “sterilizzare l’azione mafiosa”. Niente patti segreti, nessuna collusione.

Titola l’ADN Kronos: “La Trattativa ci fu, ma il ROS agì per fermare le stragi”.

ECCOCI AL CLOU DELLA SENTENZA

Ma una buona fetta della sentenza è destinata a ben altro.

E cioè ad illuminare – e non poco – circa i reali motivi che hanno portato alle due stragi, ai veri moventi alla base degli eccidi di Capaci e di via D’Amelio.

Guarda caso, proprio la pista ‘Mafia-Appalti’, quella su cui dovrà finalmente, da ‘domani’, indagare la procura di Caltanissetta.

Ecco cosa mettono nero su bianco i giudici d’Appello: “La Corte ritiene che quell’imput dato da Salvatore Riina al suo interno affinchè si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza, nel giro di pochi giorni, mettendo da parte progetti omicidiari già in fase avanzata come quello che riguardava l’onorevole Calogero Mannino, di cui ha riferito Giovanni Brusca – può aver trovato

origine nell’interessamento di Borsellino al rapporto ‘Mafia e Appalti’”. Più chiari di così!

Poi spiegano, nelle loro motivazioni: “Ben si comprendono le perplessità di Borsellino a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione le indagini sul più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo, nell’ambito di quello specifico filone investigativo”.

I giudici di appello rammentano anche “le doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del ROS”.

E fanno esplicito riferimento a quanto successe nell’assemblea  plenaria che si svolse in Procura, a Palermo, quel 14 luglio 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio.

“Il dottor Borsellino lo disse espressamente in quella assemblea”, scrivono, come “ben rammenta il pm Luigi Patronaggio”.

Verbali e testimonianze che la ‘Voce’ ha documentato, giorni fa, in una delle precedenti inchieste, dopo la semplice ‘pubblicazione’, sul suo sito, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura: niente a che vedere con una ‘desecretazione’, come molti media hanno erroneamente scritto, perché si trattava di atti contenuti in altri fascicoli (pubblici) processuali.

Scrivono, sul loro sito, gli ‘Stati Generali’. “Nessuna Trattativa. ‘Mafia e Appalti’ causa accelerante della morte di Paolo Borsellino”.

COMMENTA L’AVVOCATO FABIO TRIZZINO

Ecco un commento, a botta calda, dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito della figlia Lucia, il quale ha sempre lottato perché la pista ‘Mafia e Appalti’ venisse considerata come il primo movente della strage.

Come del resto sostiene, da anni, con grande coraggio, l’altra figlia di Borsellino, Fiammetta, che si è anche scagliato contro gli autori in toga del ‘depistaggio più grande della nostra storia repubblicana’, quello circa le prime indagini sulla strage di via D’Amelio e il taroccamento del pentito Vincenzo Scarantino, servito a far condannare a 16 anni degli innocenti e a far perdere tempo prezioso alle indagini autentiche.

Che potranno ricominciare solo adesso, a Caltanissetta, dopo la bellezza di 30 anni perduti.

Leggiamo le parole di Trizzino; mentre, per completezza d’informazione, vi invitiamo a leggere le tre precedenti inchieste sulle stragi, pubblicate dalla ‘Voce’, in sequenza, nei giorni scorsi.

«A chi mi chiede un commento a caldo sulle motivazioni della sentenza trattativa mi limito a rassegnare le seguenti considerazioni.

La ricerca di una verità giudiziaria su via d’Amelio è paragonabile alla scalata del monte Everest.

Più si va avanti più l’area diventa rarefatta e gli ostacoli più potenti, quasi invincibili.

Eppure oggi siamo a 6mila metri di altezza e, fra mille ostacoli, abbiamo guadagnato il campo base. Bisogna riordinare le idee e riacquistare forza ed energie.

La vetta è lì più vicina. La si può quasi toccare. Ma al tempo stesso lontanissima.

Raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari, intoccabili che,’ a solo tentare di guardarci dentro, si corre il rischio di essere trasformato in una statua di sale.

Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo: un NIDO DI VIPERE.

La memoria di um valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo.

E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato».



De Magistris: «Agghiacciante sentenza a Palermo, con la mafia non si può trattare»

“E’ agghiacciante, pur nel rispetto che si deve ai provvedimenti della magistratura, leggere alcuni stralci della motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Palermo nel processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia in cui uno dei Pubblici Ministeri protagonisti è stato Nino Di Matteo. In questi passi della motivazione si afferma che con la mafia si può trattare. Sono senza parole. Stiamo toccando l’abisso più profondo”. Lo afferma Luigi de Magistrisportavoce di Unione popolare.

DI MATTEO: “Tesi pericolosa, così si legittima la zona grigia La Repubblica 7.8.2022


DI MATTEO Altroché teorema ma chi dialogò é legittimato – Fatto Quotidiano 7.8.2022 L’INTERVISTA Nino Di Matteo Pm del processo: “Mi chiedo cosa penserebbero i servitori dello Stato morti per piegare i boss” La trattativa ci fu. Ma gli ufficiali dei carabinieri vengono assolti perché, contattando Ciancimino, “non vollero rafforzare la minaccia mafiosa allo Stato per strappare al Governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, semmai avrebbero voluto tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto’’. E fermare le stragi.

D) Dottor Di Matteo, lei che idea s’è fatto?
R) Anche questa corte ha ritenuto che la trattativa ci fu, fu iniziata da esponenti dello Stato, fu accettata da Riina e si svolse a partire dalle settimane successive alla strage di Capaci mentre era ancora caldo il sangue delle vittime. Con buona pace di quanti lo definiscono un teorema o fantomatica trattativa.
C’è però un passaggio che mi lascia perplesso e mi suscita, anzi, preoccupazione.
D) Quale?
R) Quello in cui si afferma che la trattativa era volta ad un fine di tutela dello Stato. Nella sentenza ormai definitiva della corte di assise di Firenze si affermava che quella iniziativa del Ros di contattare Vito Ciancimino avesse rafforzato in Riina il convincimento che la strategia di attacco alle istituzioni pagasse inducendolo a fare altre stragi. Mi chiedo con preoccupazione cosa penserebbero oggi di quelle parole le decine di esponenti delle istituzioni, non solo magistrati, ma agenti di polizia, carabinieri, anche politici che nel contrasto alle cosche mafiose per il rifiuto al dialogo e al compromesso hanno perso la vita.
D) Cosa teme in particolare?
R) Temo che la sentenza possa essere letta come una legittimazione a dialogare con la mafia, che faccia passare l’idea che con la mafia si può convivere. Spero che non abbia effetti, noi continueremo a pretendere che gli estorti denuncino i loro estorsori, io continuo a pensare che il comportamento di uno Stato che cerca Riina in nome di una ragione di stato non dichiarata con un atto del potere politico è inaccettabile in una democrazia. Ogni qualvolta lo Stato ha cercato il dialogo con la mafia ne ha accresciuto a dismisura un potere di ricatto notevolissimo. E c’è anche un altro passaggio che leggo con preoccupazione.
D) Prego.
R) L’opportunità, nella strategia del Ros, che prevalesse una fazione moderata su quella stragista. QUESTO È UN PASSAGGIO PREOCCUPANTE, SEMBRA QUASI DISTINGUERE UNA MAFIA CON CUI SI PUÒ DIALOGARE E UN’ALTRA DA SCONFIGGERE. ANCHE QUESTO CONCETTO RISCHIA DI SDOGANARE IL PRINCIPIO CHE LO STATO PUÒ DIALOGARE CON LA MAFIA.
D) Sul Ros la Corte ha riconosciuto che la mancata perquisizione del covo di Riina il 15 gennaio 1993 è stato un segnale di incoraggiamento al dialogo per rafforzare il dialogo.
R) È quello che abbiamo sostenuto noi in primo grado. Oggi la sentenza sottolinea la gravità evidente dell’omissione di un atto doveroso da parte di una struttura di polizia giudiziaria.
D) La sentenza conferma che tre governi – Amato, Ciampi e Berlusconi – vennero ricattati dalla mafia. Anche se nell’ultimo caso non c’è prova che fu il senatore Dell’Utri a veicolare la minaccia. Lei che ne pensa?
R) È un problema di valutazione della prova. Anche questa corte riconosce la valenza dei rapporti mafiosi di Dell’Utri anche dopo il ’92, lo assolve perché non ritiene sufficientemente provata la veicolazione a Berlusconi.
D) E cosa intende rispondere oggi a quanti negli anni hanno ridicolizzato la vostra inchiesta e il processo definendolo una ‘’boiata pazzesca’’?
R) Spero che storici e opinionisti abbiano oggi la correttezza di dire che la trattativa ci fu. Sono fiero di avere contribuito con gli altri colleghi a far venire fuori fatti e circostanze che sono stati ritenuti provati e che hanno attraversato la storia d’Italia nel periodo più buio dello stragismo mafioso.

Trattativa Stato-Mafia: tutti assolti, per i giudici operarono per il bene dello Stato

“Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei Carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa; e confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico – scrivono i giudici a pagina 2074 -, deve ribadirsi che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. L’invito al dialogo pervenne ai mafiosi nel 1992, precisamente nel periodo compreso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, quando i Carabinieri del Ros “agganciarono” l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, corleonese e mafioso, per cercare di “instaurare un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”. L’iniziativa, definita “improvvida” dai giudici, fu subito accolta dall’allora Capo di Cosa Nostra Totò Riina. Secondo la Corte d’Assise di Palermo, i carabinieri “si insinuarono” nella “spaccatura” tra la componente stragista di Cosa Nostra, capitanata proprio da Riina, che aveva la sua bussola strategica nella perpetuazione delle stragi, e quella “moderata”, il cui leader era Bernardo Provenzano, più propensa al compromesso e alla ‘sommersione’. Il Ros “fece leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista”. Gli interlocutori del “possibile negoziato” non erano “già i vertici mafiosi genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”. La Corte collega poi la questione della trattativa a due vicende significative: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto del 15 gennaio ’93 e la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il quale, dopo essere subentrato a Riina come nuovo capo di Cosa Nostra, riuscì a protrarre la sua latitanza fino al 2006, anno in cui fu arrestato. I giudici inquadrano la mancata perquisizione tra le “sconcertanti omissioni” inserite nel contesto delle condotte di Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti”. Attraverso la mancata perquisizione, si intese infatti “lanciare un segnale di buona volontà, un segnale cioè della disponibilità a mantenere o riprendere il filo del dialogo che era stato avviato, attraverso i contatti intrapresi con Ciancimino per giungere al superamento di quella contrapposizione di Cosa Nostra con lo Stato che era già culminata nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio”. Il significato di tale gesto “era soprattutto simbolico, dovendo esso servire a lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”. Su questa scia, il Ros decise dunque di “proteggere” Bernardo Provenzano, favorendone “in modo soft” la latitanza, “limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo”, dal momento che “la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”. Insomma, secondo la Corta d’Assise, “un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.

Una sentenza destinata a fare discutere e che ha già attirato le critiche di esponenti di spicco dell’anti-mafia: «Siamo alla giustificazione della collusione con i criminali» ha scritto su Facebook Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo.

 

Stato-mafia, l’ex pm Di Matteo: “Inaccettabile scendere a patti con i boss. Nell’assoluzione di Mori tesi pericolosa, così si legittima la zona grigia”

Come valuta la sentenza depositata dai giudici della corte d’assise d’appello?
«Mi lascia molto perplesso e preoccupato l’affermazione di un principio che sembra giustificare la possibilità che si possa trattare con i vertici di Cosa nostra per favorire una fazione piuttosto che un’altra, con il dichiarato intento di far cessare le stragi. Una sorta di ragion di Stato non dichiarata e pertanto inaccettabile in una democrazia».

La procura generale ha annunciato che valuterà il ricorso in Cassazione.
«Mi chiedo cosa penserebbero di questa sentenza le centinaia di vittime istituzionali e non della violenza mafiosa che hanno pagato con il sangue l’intransigenza e la scelta di non cercare alcun patto o compromesso con la mafia. Mi piace ricordare le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che l’anno scorso, alla commemorazione per la strage di Capaci, disse: “Nessuna zona grigia, omertà, o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi, non ci sono alternative”».

La sentenza sembra riaprire anche un altro capitolo di questa lunga stagione giudiziaria, quello relativo alla mancata perquisizione del covo di Riina.
«È ulteriormente inquietante che, come io e i miei colleghi avevamo sostenuto nel processo di primo grado, la mancata perquisizione nel covo di Riina sia stato un segnale per incoraggiare il dialogo a distanza. E quindi per rafforzare la trattativa in corso».

Cosa dice la pronuncia di secondo grado?
«Alla luce di questa sentenza, che non condivido, e che spero venga impugnata, sono fiero di avere insieme ai miei colleghi Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e prima Antonio Ingroia contribuito a fare emergere fatti storici ritenuti dai giudici provati, fatti che hanno attraversato la storia opaca e ancora in parte da chiarire dello stragismo mafioso nel nostro paese. Ma sulla trattativa non bisogna dimenticare anche un’altra sentenza, ormai definitiva».

I giudici di Firenze scrissero parole pesanti.
«La corte d’assise che si è occupata delle stragi del 1993 ha sottolineato come l’iniziativa del Ros di fatto rafforzò in Riina il convincimento che la strategia di attacco allo Stato fosse quella giusta. Un’iniziativa dagli effetti devastanti».


Morte del maresciallo Lombardo, «Houston, abbiamo un problema»

7 Agosto 2022. Nelle motivazioni della sentenza del procedimento “Bagarella e altri” pubblicate lo scorso 5 agosto, come già indicato ieri, è tracciato un affresco complessivo del contesto in cui si sviluppò l’interazione tra i Ros e la compagine mafiosa attraverso quella definita in sentenza come una «improvvida iniziativa» finalizzata a «fermare l’escalation di violenza mafiosa ed evitare nuove stragi».

Nella parte che riguarda quanto fatto al fine dell’arresto di Totò Riina, si tratteggia il ruolo determinante che ebbe il Maresciallo Antonino Lombardo, al tempo comandante della stazione dei CC di Terrasini ma già collaboratore del Ros .

«Più esattamente, già alla fine di luglio (del 1992, ndr), secondo la scansione temporale accertata nel processo che vide MORI e DE CAPRIO imputati di favoreggiamento aggravato in relazione all’episodio della mancata perquisizione del covo di RIINA — entrambi assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato” con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 20.02.2006, confermata in appello e divenuta irrevocabile – e secondo quanto ha dichiarato il Generale MORI al processo BORSELLINO ter, risalirebbe una prima riunione operativa alla caserma dei Carabinieri di Terrasini.
 Il numero e il livello dei partecipanti denota l’importanza di quella riunione. Erano infatti il presenti M.llo LOMBARDO, all’epoca ancora comandante della locale stazione dei CC, il suo superiore gerarchico, Capitano BAUDO, comandante della Compagnia CC di Carini, nonché il Col. Sergio CAGNAZZO, vice comandante operativo della Regione Sicilia e, per il R.O.S., il Maggiore Mauro OBINU, comandante del Reparto Criminalità Organizzata, il Capitano ADINOLFI, comandante della Sezione Anticrimine di Palermo, il Capitano DE CAPRIO, comandante della I sezione del Reparto C.O.: “Lo scopo era quello di costituire una squadra composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore RIINA. Al Mar.llo Lombardo, soggetto ben inserito nel territorio e profondo conoscitore della realtà mafiosa, in grado di disporre di utili canali confidenziali (tra questi, quel Salvatore Brugnano che, successivamente all’arresto del Riina, sarà sospettato dal gotha mafioso – come ha riferito in dibattimento il collaboratore Brusca – di aver contribuito alla cattura del latitante), venne affidato l’incarico di attivare le sue fonti al fine di reperire notizie che potessero essere sviluppate dal ROS, con l’effettuazione delle necessarie e conseguenziali attività di indagine, in direzione della ricerca del boss corleonese”».

Le capacità e qualità investigative, oltre che di analisi del fenomeno mafioso, del M.llo Lombardo si evincono anche da quanto si segnala al riguardo indicando che «il ruolo del M.llo LOMBARDO, che prima ancora transitare nei ranghi del R.O.S. era ritenuto dal Col. MORI, per sua stessa ammissione, un prezioso collaboratore del Raggruppamento, per il suo acume investigative, come asserito da MORI, certamente; ma anche perché, ad onta del suo incarico non proprio di primo livello (Comandante della piccola stazione dei CC. di Terrasini) disponeva di fonti confidenziali ritenute affidabili. E il territorio in cui il M.llo LOMBARDO operava e intratteneva i suoi contatti con le 
sue fonti era la zona di Cinisi-Terrasini e dintorni: ossia una zona in cui Bernardo PROVENZANO, per tutta una lunga fase della sua latitanza
 (fin dalla prima metà degli anni ‘70) aveva letteralmente messo radici anche messo
 su famiglia, sposando una “cinisara” (Benedetta Saveria PALAZZOLO), come la apostrofa RIINA in una delle conversazioni con la “dama compagnia” LO RUSSO captate al carcere di Milano 
Opera, rivolgendole peraltro convinti attestati stima affetto (al punto di farne una 
delle ragioni per aveva voluto bene allo stesso Binnu, cioè a PROVENZANO) 
anche per fatto che aveva saputo diventare una “corleonese”, dimenticando sue origini, ossia provenienza da territorio che – verosimilmente per essere stato il regno di Gaetano BADALAMENTI, ma anche perché non ci si poteva fidare cinisari – non era cuore di RIINA. Proprio la conoscenza del territorio, delle sue dinamiche mafiose e i suoi confidenti permisero al M.llo Lombardo di
raccogliere le prime, ma importanti, informazioni su chi si facesse carico della latitanza dei Riina perché «a fine settembre, nel corso di una nuova riunione operativa non meno riservata della precedente, sempre alla presenza del Capitano De CAPRIO e del Maggiore OBINU, entrambi sotto il comando del Col. MORI, loro diretto superiore gerarchico n.q. di vicecomandante operativo del R.O.S., il M.llo LOMBARDO riferì l’informazione
ricevuta dalle fonti, secondo cui era Raffaele GANCI, capo della potente famiglia mafiosa della Noce di Palermo a farsi carico in quel momento, insieme
 ai suoi figli, di proteggere la latitanza Salvatore RIINA (…) e degne di fede – tanto da farne discendere l’attivazione di una specifica operazione investigativa con l’allestimento di una squadra catturandi, al comando del Capitano DE CAPRIO – furono ritenute le informazioni acquisite alla fine di luglio-primi di agosto sempre dal M.llo LOMBARDO attraverso le proprie fonti, secondo cui era Raffaele GANCI con i suoi figli a farsi carico direttamente di curare la latitanza di Salvatore RIINA: una soffiata che si rivelerà fondamentale, oltre che esatta, per le successive indagine sfociate nella cattura del capo di Cosa Nostra, e che poteva provenire solo da persone che facessero parte dell’entourage dello stesso RIINA o avessero contatti stretti con soggetti che ne facevano parte».

Ma il suo contributo fondamentale nella cattura di Totò Riina fu, sicuramente, una delle cause della sua morte perché riuscì a “forare” quella bolla di omertà mafiosa tant’è che «quando si venne a sapere che il M.llo LOMBARDO aveva dato un contributo fondamentale nella cattura di RIINA, per avere ricevuto una soffiata preziosa, ha detto BRUSCA, cominciarono a sospettare che DI MAGGIO non avesse avuto il ruolo determinante che gli era stato attribuito e ad interrogarsi, insieme a BAGARELLA (del quale ricorda un commento sprezzante alla notizia del suicidio del povero LOMBARDO: “se sapevo, invece di farti suicidare ti sarei venuto a cercare e ti avrei ammazzato io”) su chi potesse avere passato al M.llo LOMBARDO le notizie che erano servite poi all’indagine sfociata nell’arresto di RIINA. E i sospetti ricaddero su Francesco BRUGNANO, che sapevano essere un confidente di Partinico, il quale poteva essere collegato a soggetti dell’area, tra virgolette, provenzaniana».  GLI STATI GENERALI Roberto Greco


 

No, non è vero che la “Trattativa stato-mafia ci fu, ma non è reato”. Cosa dice (veramente) la sentenza


Trattativa Stato-mafia, i pm hanno sbagliato tutto: la verità su Mori e Dell’Utri

 

Ieri sono state depositate le motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo, circa 3000 pagine, che lo scorso anno aveva assolto i carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dall’accusa di aver imbastito una trattativa con Cosa nostra. Insieme ai carabinieri era stato assolto anche l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Condannati, invece, i boss Leoluca Bagarella e Antonio Cinà. Prescritto il pentito Giovanni Brusca.

«La sentenza, con una corretta interpretazione delle prove – prosegue l’avvocato Milio -, esclude qualunque responsabilità morale dei carabinieri per la morte del magistrato Paolo Borsellino, affermando che l’accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio a Palermo (avvenuta il 19 luglio 1992, ndr) non fu causata da “trattative” di sorta, come invece scritto nella sentenza di primo grado (che aveva condannato i carabinieri, ndr), ma “possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti” del Ros».

FINI SOLIDARISTICI
In altre parole, è stato escluso, prosegue l’avvocato Milio, «che i carabinieri abbiamo commesso reati quando contattarono Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo, ndr), in quanto avevano “effettivamente come obiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento di ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”, ossia furono mossi “da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale dello Stato”, come si può ben leggere nella sentenza». È dunque «l’ennesima sconfessione di teoremi giudiziari che perseguitano da vent’ anni chi ha veramente combattuto contro la mafia», aggiunge quindi il difensore del generale Mori.

Non c’è mai stato, quindi, alcun patto scellerato tra uomini delle istituzioni e la mafia, e non c’è stata la trattativa teorizzata dalla Procura di Palermo e oggetto di una narrazione a senso unico da parte di diversi organi di stampa. A compiere la tentata minaccia a tre differenti governi della Repubblica è stata la mafia stessa, e gli attentati del ’93 erano serviti per minacciare lo Stato: la finalità era di piegarlo e avere, magari, dei benefici. La storia di quegli anni descrive uno Stato che non solo non si è piegato, ma ha reagito con determinazione, arrestando i mandanti delle stragi, ad iniziare da Totò Riina. Ed infatti il reato contestato era di “tentata minaccia”.

Sicuramente questa sentenza è una grande sconfitta per i pm palermitani, che per decenni hanno insistito sul teorema della trattativa, cominciando da Antonio Ingroia. Con lui anche l’attuale consigliere del Csm Nino Di Matteo. I giudici, tornando a quegli anni, hanno anche effettuato una ricostruzione sul clima che si respirava alla Procura di Palermo quando era procuratore Pietro Giammanco. A differenza di Borsellino, però, i giudici della Corte non hanno ritenuto gli uffici giudiziari del capoluogo siciliano “un nido di vipere”.

RICORSO IN CASSAZIONE
Questa sentenza arriva tre anni e mezzo dopo quella di primo grado ed ha respinto interamente le richieste della Procura generale, allora guidata da Roberto Scarpinato, sostenute in udienza dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Quest’ ultimi per la presentazione del ricorso in Cassazione avranno tempo fino al prossimo 15 ottobre. In serata è intervenuto con un post su Fb anche l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino. «Siamo sempre più vicini alla verità sulla strage di via D’Amelio» ha detto Trizzino, paragonandola alla scalata del monte Everest: «Più si va avanti e più l’aria è rarefatta e gli ostacoli potenti e quasi invincibili. Oggi siamo a 6000 metri, la vetta è vicina, raggiungerla significherebbe guardare dentro a certi santuari intoccabili che solo a tentare di farlo si corre il rischio di essere trasformati in una statua di sale».


Stato mafia, altro che presunta: la trattativa fu un vero e proprio bluff

8.8.2022 IL DUBBIO Damiano Aliprandi C’è chi, come il magistrato Nino Di Matteo, esige delle scuse per come fu criticato quando imbastì il processo trattativa Stato-mafia. Oppure, al lato opposto, c’è chi esulta perché l’assoluzione degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, dimostra la completa disfatta del teorema. Non è esattamente così. Le motivazioni della sentenza trattativa, a seconda di come la si legge, può far felici o scontentare tutti nel contempo.

Ma c’è un dato chiaro, senza alcun errore di interpretazione, dal quale nessuno può fuggire e, quello sì, che smonta l’intera tesi accusatoria: non c’è stato alcun input da parte della politica o pezzi infedeli dello Stato a trattare, ma fu una iniziativa degli ex Ros del tutto autonoma. Parliamo del loro approccio con don Vito Ciancimino per raggiungere un solo ed unico scopo: quello di porre fine alle violenze mafiose. Nemmeno dopo fu coinvolta la politica o un governo in particolare, visto che – e questo viene ben specificato nelle motivazioni – nessuno allentò assolutamente la lotta alla mafia. Anzi, la esacerbò e ciò viene dimostrato con le numerose leggi varate nel corso degli anni. Non solo.

La pseudo trattativa (ora possiamo togliere “presunta”, perché parliamo di un bluff che non portò ad alcun beneficio per i corleonesi) non ha nemmeno determinato l’accelerazione della strage di Via D’Amelio. Se c’è stata – e i giudici qui non la danno per certo -, il motivo è da ritrovarsi nell’interessamento di Borsellino sul dossier mafia-appalti.

Nessun patto tra Stato e mafia, ma una iniziativa di Mori e De Donno

Quindi nessun patto tra lo Stato e la mafia, ma una pseudo trattativa (ricordiamo che tra l’altro non esiste il reato di trattare) intrapresa personalmente da Mori e De Donno. Ed è qui che arriva la prima forte bacchettata nei confronti dei carabinieri: le trattative sono lecite, ma hanno un senso se intraprese legittimamente dal governo, l’unico corpo deputato a fare determinate scelte. In più la Corte d’Appello di Palermo contesta – e non è ovviamente un dettaglio -che i Ros non intrapresero una semplice operazione di polizia giudiziaria, sia pure con una marcata connotazione info-investigativa. Per i giudici si spinsero oltre le loro prerogative e ciò comportò un errore di calcolo.

Le motivazioni smentiscono i sostenitori della trattativa

Cade quindi un pilastro importantissimo del teorema. E sorprende che Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano, scriva un editoriale per dire che le motivazioni confermano quello che hanno sempre detto. Casomai l’esatto contrario. L’ex ministro Calogero Mannino non ha dato avvio ad alcuna trattativa per poter salvare la propria pelle. Non è poco, perché – secondo i giudici stessi – ciò ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti. Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Ciancimino. È così infatti è stato.

I governi non hanno rispettato i punti del presunto papello

Altra narrazione decostruita, ma che Travaglio ha sempre portato avanti assieme ai pm che imbastirono il processo, è quella dei governi che avrebbero rispettato i punti del presunto papello. Altra sciocchezza ben decostruita. Il teorema narra della sostituzione dell’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti con uno più morbido, ovvero Nicola Mancino. Parliamo di una lettura “trattativistica” degli eventi della politica italiana. In realtà la delegazione democristiana nel nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, lo stesso Scotti), che aveva motivazioni squisitamente politiche: furono esclusi dalla lista dei democristiani designati dal partito a far parte del nuovo governo coloro che (come Paolo Cirino Pomicino) si erano rifiutati fino all’ultimo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, ad eccezione di Scotti, per il quale tuttavia il segretario nazionale confidava che avrebbe rassegnato le dimissioni da parlamentare, una volta accettata la sua designazione a ministro degli Esteri. Così accadde.

Per i giudici il ministro Mancino «la guerra alla mafia la fece davvero»

A quel punto, la lotta alla mafia si ammorbidì? Nemmeno per sogno. I giudici osservano che anche per quanto concerne l’attività concretamente dispiegata dalle forze dell’ordine e dagli apparati repressivi dello Stato, con particolare riguardo agli organismi specializzati nell’attività investigativa e di contrasto alla criminalità mafiosa, non si registrò, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del nuovo governo — e del nuovo ministro degli Interni —, alcun segno che potesse far pensare a un diverso orientamento, o a un mutamento di direttive strategiche od operative del Viminale. «Né si può affermare che il ministro Mancino, nelle sue pubbliche esternazioni, come nella concreta azione a capo del Viminale, abbia minimamente fatto rimpiangere l’intransigenza del suo predecessore nel sostenere la linea della fermezza nella lotta alla mafia e alle organizzazioni criminali in genere», scrivono nelle motivazioni. Anzi, i giudici sottolineano che, come ministro dell’interno e per quanto di competenza del suo dicastero, il ministro Mancino «la guerra a Cosa nostra la fece davvero».

Per i giudici gli ex Ros agirono da soli e  in “maniera improvvida e sciagurata”

Gli ex Ros, quindi, agirono da soli e – secondo i giudici – lo fecero in maniera improvvida e sciagurata. Non accolgono la ricostruzione della difesa e addirittura prendono per assodato che la mancata perquisizione del covo di Riina (anche se in realtà non era il covo, ma l’abitazione della famiglia) fosse un segnale nei confronti dell’ala moderata rappresentata da Provenzano. Perfino quest’ultimo fu – sempre secondo i giudici – agevolato in maniera soft nella latitanza. In realtà sono passaggi fortemente opinabili anche perché sono aspetti che gli ex Ros hanno affrontato nei processi specifici dai quali sono usciti pienamente assolti. Diversi passaggi della motivazione sulla pseudo trattativa restano abbastanza contraddittori e si comprende visto che comunque sia, i giudici ritengono il contatto tra i Ros e Ciancimino una iniziativa improvvida.

Gli scontri  in procura sono evidenziati dalle sentenze del Borsellino quater

Così come destano stupore alcuni passaggi dove sembra che Borsellino non avesse avuto alcuno scontro in procura. Anzi, sembrerebbe che la colpa fosse dei giornali dell’epoca con l’uscita dello scandalo dei diari di Falcone. In realtà non è esattamente così. Manca nelle motivazioni – ma è solo uno dei tanti elementi non evidenziati -, la citazione del verbale al Csm della sorella di Giovanni Falcone. Quella testimonianza, messa insieme alle altre, fa comprendere che qualcosa di poco chiaro è accaduto in quell’ambiente definito, da Borsellino stesso, il “nido di vipere”. Ma questo approfondimento è di competenza della procura di Caltanissetta, anche perché le sentenze del Borsellino quater danno una descrizione completamente diversa, evidenziando – tra le altre cose – cosa disse il giudice alla moglie Agnese il giorno prima della strage: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò accada».


La trattativa non fu reato. Le prime reazioni a caldo ed il dossier Mafia e Appalti

 8.8.2022 TP24 Arrivano le motivazioni della sentenza di Appello del processo sulla trattativa Stato-mafia, che il 23 settembre scorso ha ribaltato quella di primo grado.

E’ la sentenza che ha visti assolti “perché il fatto non costituisce reato”, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, ex capo del Ros, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. Condannati invece a 27 anni il boss Leoluca Bagarella e a 12 anni  il medico-boss Antonino Cinà.

Le quasi 3000 pagine della Corte di assise di appello di Palermo non dicono che la trattativa non ci fu, ma che fu una “improvvida iniziativa” dei carabinieri del Ros che, dopo la strage di Capaci, avevano parlato con l’ex sindaco Vito Ciancimino perché facesse da intermediario con Totò Riina affinché cessassero le stragi. Ma, appunto, “il fatto non costituisce reato”.

E’ una sentenza che smonta l’ipotesi che alla base della strage ci sia stata la trattativa.

Semmai c’era l’idea di trattare con quella parte di mafia contraria alle stragi (che faceva capo al boss Provenzano).

Essendo stata esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a mantenere libero Provenzano, il motivo poteva essere collegato al fatto che il boss,

“meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”.

Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Lo scopo era mantenere “un assetto di potere mafioso che sancisse l’egemonia della componente moderata”.

Ma nelle motivazioni della sentenza di Appello si parla anche del dossier Mafia e Appalti.

E di come siano state sottostimate “le esigenze di tutela preventiva per gli stessi interessi mafiosi contro i rischi di un’indagine che andasse ad aggredire gangli strategici del potere mafioso, quali le sue fonti di arricchimento (e di fruttuoso reimpiego degli ingenti capitali accumulati) e i suoi crescenti e sempre più pervasivi collegamenti con ambienti qualificati del mondo politico e imprenditoriali, perseguiti e realizzati proprio attraverso l’inedito protagonismo di Cosa Nostra nel settore degli appalti che apriva canali e opportunità formidabili per implementare quei collegamenti”.

Certo, per Cosa nostra  c’era il rischio “che qualche politico ‘amico’ o qualche imprenditore rampante e più o meno colluso restasse invischiato nelle maglie di un’inchiesta come quella sfociata nell’arresto di Angelo Siino e pochi altri suoi sodali”.

Ma il vero pericolo era un altro. E cioè, viene spiegato nella sentenza, che si approfondisse quel tema d’indagine “sotto la sapiente regia e la determinazione di un magistrato esperto qual certamente era il Procuratore Aggiunto di Palermo unanimemente additato come erede di Giovanni Falcone, e nel solco di un’intuizione che era stata dello stesso Falcone, portasse alla luce o squarciasse il velo di silenzio che avvolgeva gli scenari davvero inquietantidi cui ha parlato, anche nella deposizione resa dinanzi a questa Corte, come già aveva fatto nel “Borsellino ter”, il senatore Di Pietro”.

Inevitabilmente, l’uscita delle motivazioni della sentenza ha prodotto diverse reazioni a caldo.

Salvatore Borsellino, sui social ha scritto: “Si dichiara non costituire reato per funzionari dello Stato trattare con i vertici della criminalità mafiosa allo scopo di fermare le stragi anche se questa trattativa, piuttosto che fermarle, provoca altre stragi ed altre vittime e soprattutto rende necessaria l’eliminazione del magistrato Paolo Borsellino che, sulla strada di questa trattativa, sarebbe stato un ostacolo insormontabile”.

L’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale dei figli del giudice ucciso in via D’Amelio, in un post su Facebook ha sottolineato invece che “Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo: un nido di vipere. La memoria di un valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo. E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato.

Egidio Morici


TRATTATIVA: PRESTIGIATORI DI SENTENZE E GATTOPARDI CHE TORNANO

di Roberto Scarpinato | FQ 9 agosto 2022. La Corte di Assise di Appello del processo “trattativa Stato-mafia” ha ritenuto provata la condotta materiale del reato contestato agli imputati Mori e De Donno, essendo state accertate le plurime condotte da essi poste in essere nel tempo in violazione di tutte le regole di legge, per ripristinare con la componente più “moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive del maxiprocesso.
Tuttavia la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi.
Ciò sebbene le condotte degli imputati abbiano di fatto sortito (com’era ampiamente prevedibile) l’effetto opposto di rafforzare la determinazione della mafia di compiere ulteriori stragi, quali quelle del 1993, per concludere la trattativa.
E ciò nonostante tali condotte abbiano di fatto consentito il prolungamento per tanti anni della latitanza e quindi dell’attività criminale di Provenzano.
Nel condividere la preoccupazione di chi, come il collega Di Matteo, ha già osservato come tale motivazione si presti ad esser letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, a “conviverci” purché e affinché moderi la sua aggressività rendendosi silente, vorrei focalizzare un altro aspetto rilevante della sentenza: la parte sui possibili motivi che determinarono Riina ad anticipare e accelerare l’uccisione di Borsellino.
Nell’affrontare tale delicatissimo tema, inspiegabilmente nelle 2971 pagine della motivazione, la Corte non spende un solo rigo sulla sottrazione dell’agenda rossa da uomini degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Spatuzza, di un soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali Franca Castellese il 14 dicembre ‘93 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito della sua collaborazione con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe; sulle accertate e vive preoccupazioni di Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde; sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage del capomafia di Alcamo Vicenzo Milazzo, che si era rifiutato di unirsi alla strategia stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei servizi segreti con cui si era incontrato alla presenza di un colletto bianco che è stato identificato.
È evidente che facendo sparire tutto questo e molto altro dal contesto argomentativo, viene preclusa in radice qualsiasi possibilità di ricostruire i motivi dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello Stato; e si elimina nel lettore la consapevolezza di elementi essenziali che contraddicono la tesi a cui perviene così quasi per default la Corte in esito a questo gioco di prestidigitazione probatoria per sottrazione.
Tesi che può riassumersi nei seguenti termini: dovendosi escludere che l’accelerazione fu determinata dal pericolo che Borsellino ostacolasse il buon esito delle trattativa, resta come unica residuale alternativa l’interesse di Borsellino sul tema mafia-appalti.
Nel ridurre la vicenda stragista di via D’Amelio nel letto di Procuste di contingenti interessi economici di Riina e di qualche colletto bianco, la Corte disattende così implicitamente possibili complicità di esponenti dello Stato. I gravissimi fatti sopra accennati, dei quali la Corte non fa alcuna menzione, e i plurimi e complessi interventi depistatori di vari esponenti di apparati statali sino a epoca molto recente sono assolutamente incompatibili con l’ipotesi riduzionista prospettata dalla Corte.
E attestano che vi erano ben altri scheletri che rischiavano di uscire dall’armadio se Borsellino fosse rimasto in vita e avesse potuto trasfondere in atti giudiziari l’esito delle sue indagini sui responsabili e le complesse causali della strage di Capaci.
Scheletri che spiegano perché gli interventi di soggetti esterni attraversino ininterrottamente tutta la sequenza stragista, da Capaci nel maggio ‘92 alle stragi del ‘93 nel continente, come emerge da una pluralità di elementi probatori e come relazionò la Dia già nel ‘93 con un’informativa in cui si comunicava che: dietro le stragi si muoveva una “aggregazione orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti dotate di “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Scheletri che spiegano anche il perfetto sincronismo operativo tra i mafiosi che fanno esplodere l’autobomba e l’immediata apparizione sulla scena di appartenenti agli apparati istituzionali che, grazie alla loro insospettabilità, possono far sparire l’agenda rossa completando l’opera.
Non bastava uccidere Borsellino: se la sua agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, lo scopo della sua repentina eliminazione sarebbe stato frustrato.
Ed è evidente che l’agenda rossa non fu sottratta per tutelare i mafiosi esecutori della strage, ma i loro compici eccellenti.
Né la Corte si chiede perché proprio la Dia, l’organismo di polizia interforze specializzato in materia di mafia, creato su impulso decisivo di Falcone e diretto da De Gennaro amico di Falcone e Borsellino che con lui si confidavano, fu inopinatamente esclusa dalla Procura di Caltanissetta dalle indagini sulla strage, privilegiando invece con un colpo di mano il Sisde di Bruno Contrada e Arnaldo La Barbera, altro soggetto collegato al Sisde, con i noti esiti che portavano in una direzione completamente diversa.
Bisognerebbe anche chiedersi perché alcuni magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93 siano stati accomunati dallo stesso destino: ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione.
Vari indizi inducono a ritenere che purtroppo le stragi del 1992-’93 non sono eventi conclusi, ma sono ancora tra noi, perché accanto a un dibattito pubblico e a una dialettica giudiziaria in cui continuano democraticamente a confrontarsi opinioni diverse, non sono mai cessate dietro le quinte occulte manovre per chiudere definitivamente questa spinosa partita, riducendo una volta per tutte le responsabilità e le causali esclusivamente a personaggi come Riina e sodali, elevati a icone totalizzanti del male di mafia.
Non mi sembra – malgrado l’impegno profuso da taluni magistrati – che esistano le condizioni sociopolitiche per un salto di qualità complessivo delle indagini che consenta di pervenire a una verità giudiziaria completa.
È in corso una inquietante accelerazione del processo di normalizzazione e di restaurazione culturale di cui si colgono tanti segnali.
Nella patria del Gattopardo, il passato rilegittimato e giustificato di convivenza tra Stato e mafia, di segrete transazioni tra Stato legalitario e Stato occulto, di rimozioni e amnistia permanente tramite amnesia collettiva torna a essere la cifra del presente e del futuro.
Ritornano in campo da protagonisti della politica personaggi condannati per collusione con la mafia; si celebra nelle aule del Senato la memoria di vertici dei servizi segreti – come il generale Gianadelio Maletti – condannati per depistaggio su Piazza Fontana;
si normalizza la cultura dell’omertà giustificando come motivazione eticamente condivisibile la scelta dei mafiosi stragisti irriducibili di non collaborare con lo Stato, autorizzando con la riforma dell’ergastolo ostativo la loro uscita dal carcere anche in assenza di collaborazione, solo a condizione che provino di aver deposto le armi ed essersi dissociati definitivamente dalla mafia; si approvano a ripetizione leggi che riportano indietro l’orologio della storia ai tempi del primo 900, ripristinando il trionfo della gerarchia nella magistratura.
Leggi che creano una magistratura alta e una bassa ed esaltano la figura di dirigenti soprastanti con il compito di garantire che i magistrati sottordinati smaltiscano rapidamente il più elevato numero di processetti e non sprechino risorse e tempo per indagini complesse ad alto rischio e di esito incerto, come quelle sulla criminalità dei colletti bianchi e del potere.
Oggi come ieri, in un Paese segnato sin dalla nascita della Repubblica da una sequenza ininterrotta di stragi e omicidi eccellenti senza uguali in Europa, da patti occulti con la mafia e dalla corruzione sistemica – tutte declinazioni della criminalità di settori portanti delle classi dirigenti -, la questione giustizia resta inestricabilmente connessa alla questione democratica e dello Stato.
Quale Stato?
Quello dei carabinieri che trattarono con la mafia o quello di Falcone e Borsellino?
Lo Stato che ha depistato tante indagini sulle stragi da Portella della Ginestra, a Peteano, a Milano, a Brescia, a Bologna, sino a quelle del 1992-’93, o lo Stato in cui si riconosce quella parte d’Italia che non vuole rassegnarsi a convivere con i poteri criminali?
Questo è stato in passato e resta per il futuro il nodo politico cruciale del nostro Paese e una delle incognite più inquietanti del futuro della nostra democrazia.

La trattativa c’è stata, ma non è stata cosi scellerata!

Delle motivazioni della sentenza di Appello al processo sulla Trattativa Stato Mafia, uscite a seguito del dispositivo con il quale a settembre i giudici hanno assolto i Carabinieri Subranni, De Donno e Mori e l’ex senatore di Forza Italia Dell’Utri, dal reato di «violenza e minaccia a corpo politico dello Stato» perchè, scrivono i giudici d’appello, il fatto non costituisce reato nel caso dei tre uomini in divisa, mentre per il braccio destro di Berlusconi «assolto per non aver commesso il fatto».

In questa torrida e lunga estate 2022 accade un fatto di straordinaria gravità, un macigno cade sulle nostre teste. Ma tra il caldo, le zanzare e una surreale campagna elettorale appena cominciata, quasi nessuno se ne accorge. Di cosa parliamo?

Delle motivazioni della sentenza di Appello al processo sulla Trattativa Stato Mafia, uscite a seguito del dispositivo con il quale a settembre i giudici hanno assolto i Carabinieri Subranni, De Donno e Mori e l’ex senatore di Forza Italia Dell’Utri, dal reato di “violenza e minaccia a corpo politico dello Stato” perchè, scrivono i giudici d’appello, il fatto non costituisce reato nel caso dei tre uomini in divisa, mentre per il braccio destro di Berlusconi “assolto per non aver commesso il fatto”.

Condannati invece gli appartenenti a Cosa Nostra. Se in primo grado i tre carabinieri, all’epoca dei fatti ai vertici dei Ros, erano stati condannati ad una pena molto elevata, la sentenza di appello riconosce la trattativa, ma secondo i giudici sarebbe stata posta in essere per avviare un dialogo con la mafia al fine di far cessare le stragi del ’92: un dialogo per salvaguardare il paese quindi e tutelare il più alto interesse nazionale.

Vito Ciancimino era l’uomo ponte tra uomini dello Stato e vertici mafiosi. Spiega il magistrato Roberto Scarpinato: “(…) le condotte poste in essere per ripristinare con la componente più “moderata” di Cosa Nostra, capeggiata da Provenzano, il patto di coesistenza pacifica con lo Stato che aveva caratterizzato tutta la storia della prima Repubblica e che i vertici mafiosi ritennero tradito con le condanne definitive del maxiprocesso. Tuttavia-continua Scarpinato- la Corte non ha ritenuto sussistente la componente soggettiva del reato, cioè il dolo, perché tali condotte sarebbero state motivate da intenti “solidaristici”, cioè dall’intento di evitare ulteriori stragi.”

Cosa Nostra, dopo anni di indisturbata attività, a seguito delle condanne del Maxiprocesso capisce di essere sotto attacco: il grande lavoro portato avanti dal pool antimafia e alcune mancate risposte da parte dei politici di riferimento, fanno franare la terra sotto i piedi degli uomini “d’onore”. Le condanne al 41 bis, gli ergastoli inflitti, le collusioni con la politica ormai acclarate: franava un sistema durato decenni e che garantiva alla mafia di operare in maniera incontrastata anche grazie all’appoggio di importanti esponenti delle istituzioni.

Inizia così la terribile stagione degli omicidi eccellenti prima e delle stragi dopo. Lo Stato è nel panico; il paese è attraversato da un’ondata di violenza senza precedenti.

Ma anziché proseguire con la linea dura scelta da magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per continuare a sferrare colpi alla più potente delle organizzazioni criminali, alcuni uomini dello Stato decidono di trattare per frenare quella terrificante ondata di violenza voluta da Cosa Nostra, che non riceve risposte adeguate dagli amici in giacca e cravatta operanti nei palazzi.

Dice il Dottor Nino Di Matteo, già pm del processo sulla trattativa e ora componente del Csm, in una intervista a la Repubblica “A cercare il capo di Cosa nostra, subito dopo il sangue sparso con la strage di Capaci, furono esponenti dello Stato. Con buona pace di quelli che hanno continuato a parlare di una fantomatica trattativa e di teorema del pubblico ministero”. E ancora:“Questa sentenza ribadisce che una trattativa fra pezzi dello Stato e Salvatore Riina ci fu”

Ci chiediamo: può una più o meno dichiarata ragione di Stato, giustificare una trattativa, un contatto, un approccio tra uomini delle Istituzioni e delinquenti sanguinari che hanno deviato per sempre la storia del paese?

E ancora. Paolo Borsellino era venuto a conoscenza di questo patto scellerato? Aveva visto in faccia la mafia, incontrandola dentro le stanze di quelle istituzioni di cui era un esemplare servitore?

Sempre Scarpinato scrive: “ la Corte non spende un solo rigo sulla sottrazione dell’agenda rossa da uomini degli apparati istituzionali; sulla forzata induzione di Scarantino a rendere false dichiarazioni; sulla presenza, rivelata da Spatuzza, di un soggetto esterno a Cosa Nostra nel momento cruciale del caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126; sugli “infiltrati della Polizia” dei quali Franca Castellese il 14 dicembre ‘93 implorò il marito Mario Santo Di Matteo di non fare menzione ai magistrati, dopo che a seguito della sua collaborazione con la giustizia era stato rapito il loro figlio Giuseppe; sulle accertate e vive preoccupazioni di Borsellino nei confronti degli uomini del Sisde; sull’omicidio ordinato da Riina negli stessi giorni della strage del capomafia di Alcamo Vicenzo Milazzo, che si era rifiutato di unirsi alla strategia stragista, declinando per tre volte le sollecitazioni ricevute da uomini dei servizi segreti con cui si era incontrato alla presenza di un colletto bianco che è stato identificato.”

Mafia e uomini delle istituzioni dialogavano. Depistaggi e presenze estranee a Cosa nostra presenti nei luoghi delle stragi. Su questo non ci sono più dubbi. Di Matteo dice: “Mi chiedo cosa penserebbero di questa sentenza le centinaia di vittime istituzionali e non della violenza mafiosa che hanno pagato con il sangue l’intransigenza e la scelta di non cercare alcun patto o compromesso con la mafia”

Infatti la trattativa ha comportato, tra le tante cose, il mancato arresto del boss Bernardo Provenzano, garantendone la latitanza fino al 2006, quando venne catturato in un casolare abbandonato in Sicilia. Anni prima il super latitante era stato intercettato, grazie anche alle rivelazioni di Luigi Ilardo il capomafia della provincia di Caltanissetta ammazzato poche ore prima che venisse ufficializzata la sua collaborazione con lo Stato.

La mancata cattura di Provenzano, che secondo i carabinieri “impegnati” nella trattativa avrebbe rappresentato la componente più “moderata” di Cosa nostra rispetto alla gestione violenta e sanguinaria di Riina, ha comportato tra le altre cose l’omicidio del medico siciliano Attilio Manca, assassinato il 12 febbraio del 2004, proprio per essersi rifiutato di curare il boss malato di cancro.

Scrive in un post su fb la signora Angela Manca, madre di Attilio: “Penso a coloro che hanno continuato a proteggere la latitanza di Provenzano e, quindi, a coloro che hanno insabbiato la verità sulla morte di Attilio” e ancora “ Quando andiamo nelle scuole a parlare con i ragazzi, cerchiamo di far comprendere il concetto di legalità e, quindi di non chiedere mai favori o raccomandazioni, di non scendere mai a compromessi, di  far valere sempre le proprie idee, se si è convinti di essere dalla parte giusta. Come faremo adesso a rispondere quando ci chiederanno perché lo Stato ha trattato con la mafia? Non credo ci siano parole che potranno essere usate, se non quelle di prendere esempio da chi ha dato la vita per combattere la mafia, da chi si è fatto uccidere per non diventare il medico di un latitante. Certo che sarà un compito molto difficile!”

Per anni abbiamo sentito parlare di “presunta trattativa”; dopo il processo di primo grado i magistrati che hanno lavorato per far luce su questa ignobile pagina di storia italiana, sono stati accusati di essere dei visionari che immaginavano chissà quale disegno criminale, tanto da ipotizzare una trattativa tra lo Stato e la mafia: follia!

E adesso…Non solo la trattativa c’è stata, come dicono i giudici della Corte di appello nelle 2971 pagine di motivazioni, ma è “legittimata”. Non ci sarebbe stata collusione da parte degli uomini in divisa Mori, De donno e Subranni, che agirono per “indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione – spiegano i giudici – almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione.”

Il silenzio di gran parte della politica, salvo poche eccezioni, la dice lunga. Se per molti cittadini queste 2971 pagine rimarranno negli archivi della storia come se si trattasse di una materia estranea alla vita democratica del paese, il disinteresse manifestato da appartenenti alle istituzioni non fa che normalizzare qualcosa di eccezionale che nulla ha di normale.

I partiti non parlano di lotta alla mafia; i governi non la inseriscono in agenda e questo da decenni. Le nuove leggi tendono a minare l’indipendenza della magistratura, destinando i nostri migliori magistrati a pratiche secondarie, per occuparsi non più di criminalità e corruzione, ma di reati minori e ladri di mele.

I boss di mafia, molti dei quali al 41 bis, stanno pian piano uscendo dal carcere. I detenuti per reati di mafia potranno ottenere benefici anche senza collaborare con lo Stato, qualora verrà approvata una scellerata legge proposta da quella parte della politica che tutela i criminali ed osteggia le persone per bene.

In questa calda e sudata campagna elettorale nessuno si straccia le vesti per il fatto che Silvio Berlusconi sia il candidato di punta del proprio partito, Forza Italia.

Il vecchio e navigato politico si prodiga in spot elettorali, piuttosto imbarazzanti,come se nel suo recente passato non ci siano sconvolgenti sentenze nelle quali viene scritto: “Da Berlusconi soldi a Cosa Nostra tramite Dell’Utri anche da premier e dopo le stragi! 

Lo stesso imprenditore che pagava per essere protetto, che ospitava in Villa ad Arcore lo stalliere Mangano, mandato dai boss siciliani a controllare la famiglia brianzola. Berlusconi, quello attualmente indagato per le stragi del ‘93 e che deve risarcire il Consiglio dei Ministri per “discredito planetario” a causa delle condotte tenute negli anni in cui è stato premier.

In questo paese tutto diventa normale, con facilità. Complice una scarsa informazione, un’etica sempre più mancante, una moralità che si baratta per qualche privilegio, uno scarsissimo senso dello Stato; i cittadini non si scandalizzano più, la politica si è fatta un centro per l’impiego, le mafie sono sempre più ingombranti, organizzate e infiltrate.

Condannare i mafiosi e assolvere uomini delle istituzioni per aver commesso lo stesso reato è doppiamente grave: non solo perché lo Stato si è piegato ai boss per ottenere qualcosa in cambio, ma soprattutto perché si rende lecito l’illecito, si normalizza la convivenza tra legge e illegalità, tra Costituzione e malaffare. Si rende vano l’impegno di bravi magistrati e uomini delle forze dell’ordine, si calpestano i cadaveri delle tantissime vittime cadute nella mai finita guerra alla mafia, si toglie speranza a chi crede che un paese migliore sia possibile.

E’ difficile leggere queste 2971 pagine accettando di vivere in un paese che ha tradito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tramando alle loro spalle come il peggiore dei Giuda: in modo violento e senza alcuna pietà.

E’ difficile pensare che venga accettato pacificamente l’abbattimento di quel necessario muro tra legalità e malaffare.

Fa paura capire che la latitanza di Matteo Messina Denaro venga garantita e assicurata dalle nostre istituzioni, così come è avvenuto con Provenzano. Sono giorni di grande confusione, annaspiamo senza alcuna certezza, ci sentiamo come storditi. La giustizia e la legalità dovrebbero essere i capisaldi di ogni democrazia, le fondamenta ad ogni vivere civile.

È saltato tutto? Cosa ne sarà dello Stato di diritto? Troppe incognite e troppe nubi all’orizzonte in questo momento ci fanno trattenere il fiato. 9.8.2022 WORDNEWS 


Trattativa Stato-mafia, le motivazioni della sentenza pesano come un fardello


PIF – Il regista sulla sentenza Trattativa. “I boss stanno brindando: gli è stato riconosciuto un ruolo sociale mai avuto”
Il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2022.
Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, ha letto le motivazioni della sentenza di assoluzione in Appello del processo Trattativa e ha scritto un tweet molto critico e autoironico.
Pif perché hai scritto che grazie alla sentenza hai scoperto di essere “un testa di minchia”?
Perché giro le scuole d’Italia per spiegare ai ragazzi cosa è la mafia e l’antimafia. E faccio sempre l’esempio del motorino rubato. Ai ragazzi dico di denunciare e di non andare a chiedere al mafioso un modo per riaverlo.
Il cosiddetto cavallo di ritorno.
Sì. Al sud siamo abituati a questa pessima usanza di pagare una sorta di riscatto. Io dico sempre che non va fatto perché così si riconosce il potere della mafia e si rafforza.
Cosa c’entra il motorino con la sentenza?
C’entra tantissimo. Questa sentenza fa passare un concetto sconcertante: è lecito trattare con una parte della mafia, quella meno violenta.
Sì, non c’è reato perché “eventuali concessioni a favore dei mafiosi, dovevano accompagnarsi alla decapitazione dell’ala stragista, premessa indispensabile per poter giungere ad un accordo con l’ala moderata dell’organizzazione mafiosa”.
Se c’è una sentenza che legittima i carabinieri a trattare con mafiosi di alto livello perché io non dovrei trattare con il piccolo mafioso per il motorino? D’ora in poi dovrei dire: “andate a trattare purché sia un boss poco violento”. È un messaggio devastante. Francesco De Gregori cantava “Legalizzare la mafia sarà la regola del duemila”. Qui nel 2022 così rischiamo se non di legalizzarla di legittimarla. Se è lecito parlare con la mafia “meno cattiva” con la scusa del “minor danno” io mi chiedo: chi stabilirà il limite tra mafia “tollerabile” e “non tollerabile”? Per il trentennale delle stragi ho detto che noi dobbiamo tutto a dei grandi uomini che hanno sognato di sconfiggere la mafia. Tutta la mafia.
La Corte ritiene che i Carabinieri volevano sfruttare la spaccatura tra gli stragisti di Totò Riina e l’ala moderata di Provenzano.
Sì e ho letto che la mancata perquisizione del covo di Riina dopo l’arresto viene riletta come un “segnale rassicurante” a Provenzano. A me sembra una cosa enorme. La mafia che ha ucciso il commissario Beppe Montana nel 1985 era meno “stragista” e in tanti ci trattavano. Montana diceva che quella mafia aveva paura solo di lui e di poche persone. Infatti lo hanno ucciso.
Nella sentenza i giudici a proposito dell’atteggiamento dei Carabinieri verso Provenzano e Riina scrivono: “Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.
Se passa questo concetto per me andiamo tutti a casa. Addio Pizzo può chiudere. La mafia stravince. Eppure non mi sembra che questa sentenza abbia scosso più di tanto l’opinione pubblica. Sembra che l’unico arrabbiato sia io. Mi vien quasi voglia di dire: “Se vi sta bene così non parliamo più di antimafia ma di minor danno”.
Cosa non va in questo ragionamento?
Se vai dal boss meno cattivo e gli chiedi una mano è ovvio che ti chiederà qualcosa in cambio.
Nel tuo film In guerra con amore racconti la storia vera del rapporto sul “Problema mafia” scritto dal capitano statunitense W.E. Scotten. Dopo lo sbarco in Sicilia, nell’ottobre del 1943, scriveva che le soluzioni possibili sono tre: attaccare la mafia, la negoziazione ovvero lasciare il controllo dell’isola alla mafia e ritirarsi in alcune zone presidiate dall’esercito. Insomma la trattativa non è una novità.
Si è sempre trattato però ci sono differenze enormi: intanto erano americani e il loro principale obiettivo non era liberare l’Italia dalla mafia ma dal fascismo. Inoltre c’è un rapporto che propone ai superiori una scelta. Qui è tutto fatto nell’oscurità. Eppure la sentenza sembra legittimare questo comportamento.
Però è anche una sentenza coraggiosa. Per la prima volta la mancata perquisizione del covo di Riina, il mancato arresto di Provenzano e le mancate indagini sui suoi favoreggiatori, sono letti come segnali di attenzione verso l’ala della mafia meno pericolosa con la quale i Carabinieri trattavano.
Infatti la schiettezza è impressionante. Però la conclusione del ragionamento non mi piace. Se si riconosce quel che è successo poi non si può dire: va bene così. A me sembra incredibile. Una volta si facevano di nascosto queste cose. Ora le scriviamo in una sentenza. La mafia starà brindando. Gli abbiamo riconosciuto un ruolo sociale che nemmeno negli anni settanta ha mai avuto.
Ti risponderanno che i giudici devono solo giudicare se c’è un reato. I Carabinieri, per i giudici, volevano far terminare le stragi. Non c’è il dolo della minaccia a corpo dello Stato. Certo li assolvono ma anche i giudici parlano di ‘improvvida’ operazione.
Io non sono un giudice. Non è che voglio che i carabinieri siano condannati. Però questa motivazione dell’assoluzione mi sembra un passo indietro. Questa sentenza rimane, come una legge. Io sono sempre ottimista ma per la prima volta dico che è finita. Da due giorni non ci dormo. Crolla tutto il castello di valori che abbiamo costruito e io ho perso la voglia di andare in giro a dire certe cose.
Cioè vuoi smettere di parlare nelle scuole di antimafia?
Per come mi conosco no. Però scriverò alle scuole che mi hanno invitato per dire che per un po’ non andrò. Non saprei che dire.