No, non è vero che la “Trattativa stato-mafia ci fu, ma non è reato”. Cosa dice (veramente) la sentenza

 

Non è vero che “la Trattativa stato-mafia ci fu, ma non è reato”, come hanno riportato tanti organi di informazione subito dopo il deposito delle motivazioni con cui la corte d’assise d’appello di Palermo, ribaltando il giudizio di primo grado, ha assolto lo scorso settembre gli alti ufficiali del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, insieme all’ex senatore Marcello Dell’Utri, dall’accusa di aver tramato con Cosa nostra nel 1992-1994 per minacciare lo stato. Se solo si avesse la pazienza di leggere le 2.971 pagine di motivazioni (discutibili sotto numerosi aspetti, come vedremo in seguito), si avrebbe infatti la “fortuna” di imbattersi in un passaggio fondamentale, che riportiamo integralmente: “Sebbene fosse molto più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence, essa non era affatto diretta a creare le basi di un accordo ‘politico’ con gli stessi autori della minaccia mafiosa, accettando il rischio che ne uscisse rafforzato il proposito di rinnovarla o di specificarla, ed anzi strumentalizzando tale rischio per indurre il governo a fare delle concessioni, sia pure come male necessario per prevenire nuove stragi ed arrestare l’escalation mafiosa. Al contrario, l’obbiettivo era disinnescare la minaccia mafiosa, incuneandosi con una proposta divisiva in una spaccatura che si confidava già esistente all’interno di Cosa nostra, per volgerla a favore di una disarticolazione e neutralizzazione dello schieramento e della linea stragisti”.

Tradotto: in seguito all’omicidio di Salvo Lima il 12 marzo 1992, e soprattutto di Giovanni Falcone il 23 maggio dello stesso anno, tra lo stato e la mafia non si avviò alcuna trattativa su ordine di esponenti politici e di governo, fatta di reciproche proposte, papelli e concessioni. Ciò che avvenne fu invece un’autonoma iniziativa di alti ufficiali del Ros dei Carabinieri, in particolare Mori e De Donno, che contattarono Vito Ciancimino per acquisire da lui notizie di interesse investigativo e nel contempo cercando di “instaurare un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo stato”. Questo dialogo, come comunicato a Ciancimino dallo stesso Mori, si poneva un obiettivo molto semplice: “Si consegnino i vari Riina e Provenzano e noi tratteremo bene le loro famiglie”. Da questo contatto, ammesso dagli stessi ufficiali del Ros, è scaturita la grande suggestione della “Trattativa stato-mafia”.

Suggestione bocciata dalla corte d’appello d’assise palermitana, che pur definendo “improvvida” l’iniziativa del Ros, ha assolto Subranni, Mori (condannati in primo grado a 12 anni) e De Donno (8 anni in primo grado) perché “nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello stato”.

Bocciata definitivamente la boiata della “Trattativa” (peraltro difficilmente sostenibile se si considera che il presunto promotore politico di questa trattativa, l’ex ministro Calogero Mannino, è stato assolto in via definitiva nel filone in rito abbreviato), c’è da notare che i giudici d’appello, nelle tremila pagine di motivazioni, sembrano non volersi affatto svincolare dal metodo delle suggestioni che fino a oggi ha accompagnato l’intera vicenda delle indagini sul periodo stragista del 1992-1993. Così, anche la sentenza d’appello sembra assomigliare più a un lungo “romanzo storico” sui rapporti tra mafia, politica e Ros, piuttosto che a un provvedimento giudiziario. Lo si comprende già soltanto dai termini impiegati nell’indice: “intermezzo sugli effetti della strage di via D’Amelio”, “primi tasselli per una nuova lettura della vicenda”, “nodi irrisolti e perplessità sopite”, “divagazioni sul suicidio di Antonino Gioè” (ma cos’è, una proposta per un concorso letterario?).

Ma la deviazione della sentenza verso il romanzo la si rintraccia soprattutto nei contenuti, nella certezza con cui vengono fornite interpretazioni su ogni singolo evento che ha segnato quel periodo sanguinario, nonostante ogni fatto sembra suscettibile di essere interpretato in maniera diversa. Da qui l’affermazione che l’intenzione dei vertici del Ros fosse quella di “insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa nostra” tra un’ala stragista guidata da Riina e una ritenuta più moderata capeggiata da Provenzano. Da qui anche la decisione dei giudici di tornare su due eventi già oggetto di processi (e su cui i vertici dei Ros sono già stati assolti), come la mancata perquisizione del covo di Riina (definita un “segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo”) e persino sulla latitanza di Provenzano, che i Ros avrebbero “favorito in modo soft”. Il tutto alla faccia del principio secondo cui un cittadino non può essere giudicato due volte per lo stesso fatto.

Ecco, infine, la certezza della stipulazione di un accordo elettorale tra Dell’Utri e Cosa nostra in previsione delle elezioni del 1994, dalla quale però non avrebbe “fatto seguito la fase ulteriore della comunicazione della minaccia a Berlusconi in qualità di parte offese e di presidente del Consiglio per ottenere l’adempimento, appunto sotto la minaccia mafiosa, degli impegni assunti dallo stesso Dell’Utri nella precedente campagna elettorale”.

Leggendo questo lungo romanzo, sembra quasi un miracolo che i giudici alla fine abbiano riconosciuto l’illogicità dell’impianto accusatorio e assolto gli ex vertici del Ros. Attenzione comunque: la procura generale di Palermo ha fatto sapere che leggerà con attenzione le motivazioni della sentenza e valuterà gli spazi per un ricorso in Cassazione. Il romanzo potrebbe non essere ancora giunto al suo epilogo.