Nel 1986, grazie alle inchieste del pool di Falcone e Borsellino, Cosa nostra finì alla sbarra: il processo di Palermo segnò l’inizio del declino della mafia.
Nel 1986, a Palermo si respira un’aria nuova, inaspettata. C’è una grande voglia di giustizia irrobustita da una grande inchiesta contro «Cosa nostra», l’organizzazione criminale di stampo mafioso che da decenni spadroneggia in Sicilia e che proprio negli anni Ottanta si è resa responsabile di sanguinosi attentati. Il maxi processo di Palermo segna una svolta: finiscono alla sbarra 475 imputati, e le accuse nei loro confronti reggono al vaglio dibattimentale.
La sentenza fu una condanna pesantissima alla mafia, che per la prima volta venne riconosciuta come associazione a delinquere, ai sensi dell’art. 416 bis del Codice penale: una norma varata pochi anni prima proprio per combattere questo fenomeno criminale. Questo risultato, da cui Cosa nostra non si è mai più ripresa, è stato reso possibile dall’impegno eroico di alcuni magistrati e poliziotti straordinari.
La nascita del pool antimafia
Negli anni Ottanta, a Palermo, la guerra di mafia aveva segnato l’ascesa della fazione dei Corleonesi, capeggiata da Totò Riina. Fu una conquista basata sul sangue: più di 600 omicidi tra le opposte fazioni e numerosi attentati a uomini delle istituzioni. Tra le vittime vi furono il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, il segretario del Pci Pio La Torre, il giudice Cesare Terranova e il presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella.
Il pool antimafia nacque da un’intuizione del giudice istruttore Rocco Chinnici, per unificare le numerose inchieste pendenti affidandole a un gruppo di magistrati specializzati, in grado di comprendere l’entità del fenomeno complessivo. Così entrarono a far parte del pool, fra gli altri, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto. Proprio Caponnetto prese la guida del pool quando nel 1983 Cosa Nostra uccise Chinnici.
Tre anni di lavoro intensissimo diedero i loro frutti: con il materiale raccolto dalla squadra investigativa guidata dal commissario di polizia Ninni Cassarà, e con il contributo informativo offerto dal pentito Tommaso Buscetta, il pool riuscì a portare a processo centinaia di mafiosi di spicco.
Il pentimento di Tommaso Buscetta
Tommaso Buscetta era stato arrestato in Brasile dopo anni di latitanza. Interrogato da Falcone, rivelò con dovizia di particolari il funzionamento della mafia dall’interno. Il boss, che ormai aveva perso il potere dopo la vittoria dei Corleonesi, spiegò agli inquirenti tutti i segreti dell’organizzazione: nomi degli appartenenti, gerarchie, gradi, affari, metodi criminali. Il muro di omertà si era rotto.
Le dichiarazioni di Buscetta diedero senso compiuto al corposo materiale investigativo già raccolto. Partì una maxi retata, con centinaia di mandati di cattura spiccati dal pool nei confronti dei mafiosi, che così furono processati da detenuti. Non era “giustizia spettacolo”, come qualche opinionista dell’epoca ebbe a dire: il processo si concluse con sentenze favorevoli alla pubblica accusa.
La costruzione del maxiprocesso
La strada per arrivare alle condanne era ancora lunga. La mafia reagì agli arresti con sanguinosi attentati, tra cui quello al treno rapido 904, che causò 16 morti e quasi 300 feriti. Il commissario Cassarà fu assassinato, insieme al suo collaboratore Beppe Montana. Falcone e Borsellino si spostarono, per motivi di sicurezza, in Sardegna, nel carcere dell’Asinara, vigilati a vista da una nutrita scorta.
Qui scrissero, in due mesi di febbrile lavoro, l’ordinanza di rinvio a giudizio dei 476 imputati. I reati di cui erano accusati erano gravissimi: omicidi, estorsioni, spaccio di sostanze stupefacenti e, ovviamente, la partecipazione ad associazione a delinquere di stampo mafioso. Un reato nato da pochi anni, che puniva la partecipazione a queste organizzazioni criminali, con pene commisurate al livello di importanza dell’associato. Promotori e capi erano puniti più severamente.
L’aula bunker
Nessuna aula del tribunale di Palermo era adatta per celebrare un processo di quelle dimensioni e contenere centinaia di imputati e i loro avvocati difensori. Si decise, così, di costruire un’apposita aula bunker, a fianco del carcere dell’Ucciardone. Era una struttura blindata, super vigilata e protetta anche da attacchi missilistici. Per la prima volta, i magistrati ebbero a disposizione un sistema computerizzato per l’archiviazione degli atti processuali.
Nel processo l’accusa era rappresentata dai pubblici ministeri Giuseppe Ayalae Domenico Signorino. In seguito il primo diventerà senatore, il secondo morirà suicida dopo le accuse mosse nei suoi confronti da un pentito. Tra i giudici che componevano la Corte d’Assise c’era Pietro Grasso, il futuro parlamentare e presidente del Senato. Per la prima volta nella storia, il Comune di Palermo si costituì parte civile nel processo contro gli esponenti mafiosi. Fecero lo stesso anche i tre figli del generale dalla Chiesa, Nando, Rita e Simona.
Le udienze del maxiprocesso di Palermo
Il maxi processo di Palermo ebbe un’enorme risonanza mediatica. Alle udienze assistevano centinaia di giornalisti provenienti da tutte le parti del mondo. Molti imputati erano nomi “eccellenti”: Luciano Liggio, Pippo Calò, Leoluca Bagarella, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Il pentito Tommaso Buscetta venne in aula a rendere la sua deposizione di accusa, che inchiodava molti imputati alle loro responsabilità.
Il calendario processuale fu una corsa contro il tempo, perché a novembre 1987 sarebbero scaduti i termini di fase della custodia cautelare di molti imputati; per questo le udienze procedettero a ritmo serrato. Gli avvocati tentarono di bloccare l’ingranaggio chiedendo la lettura ad alta voce, parola per parola, di tutti gli atti processuali: il Codice di procedura dell’epoca lo consentiva, ma ci sarebbero voluti due anni di tempo solo per questo. Fu così varata un’apposita legge, la “Mancino-Violante”, per riformare il Codice e rendere più celere il meccanismo.
Un risvolto triste e inaspettato del processo fu l’omicidio di un bambino di 11 anni, Claudio Domino, figlio dei titolari dell’appalto delle pulizie nell’aula bunker. L’indomani in udienza, il mafioso Giovanni Bontade lesse un comunicato a nome di tutti i coimputati per dissociarsi da quell’episodio. Quella dichiarazione fu un boomerang: se un mafioso pronunciava la parola “noi”, ammetteva pubblicamente l’esistenza dell’organizzazione criminale (che, a quei tempi, era tutta da dimostrare).
La sentenza del maxiprocesso alla mafia
Dopo 350 udienze, l’11 novembre 1987, la Corte d’Assise di Palermo si ritirò in camera di consiglio. Vi rimase 35 giorni, e quando ne uscì pronunciò la storica sentenza di condanna nei confronti di 346 imputati e di assoluzione per altri 114. I giudici avevano comminato 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione complessivi. In appello, però, queste condanne vennero sensibilmente ridotte: gli ergastoli scesero a 12, le pene detentive furono abbattute di un terzo e, soprattutto, vi furono 86 nuove assoluzioni.
Il maxiprocesso arriva in Cassazione
In attesa del terzo grado di giudizio, la Corte di Cassazione presieduta dal giudice Corrado Carnevale (soprannominato “l’ammazzasentenze”) scarcerò per decorrenza dei termini di custodia cautelare numerosi boss. Il Governo, presieduto da Giulio Andreotti, reagì varando un decreto legge che consentì di riportare subito in carcere i detenuti rilasciati.
Il giudizio in Cassazione si concluse, a gennaio 1992, con la conferma delle condanne emesse in appello e con l’annullamento delle assoluzioni pronunciate per alcuni imputati, che così furono sottoposti a un nuovo giudizio. Giovanni Falcone, che nel frattempo era approdato alla direzione dell’ufficio Affari penali del ministero della Giustizia, si era adoperato per fare in modo che il processo in Cassazione non venisse assegnato al presidente Carnevale, che aveva già annullato numerose condanne per vizi formali, ma seguisse il regolare criterio di turnazione dei presidenti di sezione della Corte.
Cosa Nostra non si risollevò più dal durissimo colpo inflittole con il maxiprocesso di Palermo, e, nonostante lo smantellamento del pool antimafia e l’assassinio, nel 1992, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, iniziò il suo declino. Leggi anche “Trattativa Stato-mafia: i grandi processi d’Italia“.