Antonio Subranni, generale dei Carabinieri



La cospicua documentazione prodotta a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa

Analogamente per quanto concerne i rapporti con il senatore Andreotti. Deve convenirsi con la valutazione espressa dal giudice di prime cure secondo cui non v’è ragione di dubitare della genuinità della testimonianza dell’avv. Li Gotti, soprattutto nelle parti che si riferiscono a fatti da lui vissuti in prima persona.

E alcune apparenti incongruenze — come l’essere il Generale Subranni già in pensione quando si sarebbe interessato, su input del senatore Andreotti ad una vicenda che coinvolgeva il fratello del giornalista Minoli — oppure alcune imprecisioni — come l’avere smentito Claudio Martelli di avere mai acquistato una villa sulla via Appia, dove però aveva avuto nella propria disponibilità una villa in affitto per la quale altri si sobbarcavano l’onere di pagare per lui un ingente canone di locazione— non valgono a inficiarne l’attendibilità complessiva.

Ma, come per i cugini Salvo, la genesi dei rapporti con il sette volte presidente del Consiglio e più volte ministro in svariati governi della Repubblica non presenta di per sé nulla di sospetto o di anomalo, tenuto conto del ruolo pubblico dello stesso Andreotti e delle tante occasioni e ragioni di incontri e contatti per ragioni istituzionali, potendosi al più censurare sotto il profilo dell’etica pubblica che il generale Subranni, come parrebbe evincersi dalla testimonianza dell’avv. Li Gotti, continuasse a coltivare quel rapporto, prestandosi persino a impiegare mezzi e risorse del proprio ufficio o, da pensionato, le proprie conoscenze negli apparati investigativi, per convenienze e motivi di interesse privato del plurititolato Andreotti (ammesso che vi sia stato un concreto interessamento del Subranni alle vicende riferite dal Li Gotti), anche dopo che nei suoi confronti s’era instaurato il procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa.

Profili di opacità nella figura di Subranni

Ciò posto, simili risultanze nel loro insieme potrebbero esitare al più il ritratto in parte “opaco” di un alto ufficiale dell’Arma non alieno ed anzi aduso a tessere e coltivare rapporti di reciproco interesse, o di subalternità e compiacenza nei riguardi del potente di turno (un tempo i cugini Salvo, o Vito Ciancimino, o il senatore Andreotti come l’on. Mannino), anche quando fosse attinto da sospetti o accuse di contiguità ad ambienti e personaggi della criminalità mafiosa, o addirittura sottoposto a procedimento penale per gravissime imputazioni che avrebbero consigliato o imposto di prendere le distanze.

Ma a contrastare tale esito valutativo, certo non lusinghiero, ha buon gioco l’appassionata autodifesa svolta dal generale Subranni all’udienza del 22.09.20 17 e supportata dalla cospicua documentazione prodotta, nello sciorinare, a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni (come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: […]), plurimi attestati di stima e piena fiducia provenienti da figure predare di magistrati (E mi riferisco ai Dottori Chinnici, Falcone, Borsellino, Grasso, Ajala, Silena, Aliquò, Forte, Aldo Rizzo, Giovanni Puglisi, Pignatone, Pizzillo, solo per citarne alcuni), esponenti istituzionali, o noti personaggi preposti agli apparati investigativi e di sicurezza, come il Prefetto Giuseppe De Gennaro […], che nel corso degli anni avevano avuto modo di cooperare con il generale Subranni e di conoscerne ed apprezzarne il valore.

Spiccano, tra gli attestati di stima, la dedica apposta dal giudice Giovanni Falcone (“Al generale Subranni, con stima ed amicizia. Giovanni Falcone”) alla copia del libro “Cose di Cosa nostra” di cui gli fece dono (con la precisazione che la copia in questione è quella edita nel 1991, che corrisponde alla prima edizione del libro, sicché il dono risale ad epoca anteriore e prossima alla morte del dott. Falcone).

E meritano ancora di essere segnalati i motivati apprezzamenti espressi in alcuni passaggi della sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio che diede luogo al maxi processo, e a firma tra gli altri del dott. Falcone e del dott. Borsellino, a proposito della qualità del lavoro investigativo condensato nel rapporto giudiziario Riina Salvatore+25 tutti indiziati — e tra loro anche Gaetano Badalamenti e capi e gregari delle cosche mafiose sia corleonesi che badalamentiane -di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti e altri gravi reati, che, a parere degli estensori della stessa sentenza-ordinanza, forniva una lettura rivelatasi di grande lungimiranza sulle possibili traiettorie di quella che si preannunciava come sanguinosa contesa per l’egemonia tra schieramenti antagonisti all’interno di Cosa nostra.

Quel rapporto giudiziario peraltro faceva seguito ad altre importanti operazioni di polizia giudiziaria le cui risultanze erano compendiate in altrettanti rapporti giudiziari di denuncia dei presunti responsabili di una serie di delitti di sequestro di persona e omicidio che vennero letti come sintomatici di una vera e propria offensiva dei corleonesi contro esponenti dello schieramento mafioso antagonista.

Quei pezzi grossi dello stato un po’ troppo vicini ai don di Palermo

Ora, non v’è chi non veda come siano elementi di mera suggestione quelli che fanno riferimento ai profili personologici di due dei tre personaggi al vertice di altrettanti organismi investigativi e di intelligence che interloquirono con Mannino sul tema della sua sicurezza, e delle iniziative possibili per scongiurare il rischio di un attentato ai suoi danni.

Così per Bruno Contrada. Il 24 dicembre del 1992, e quindi appena due mesi dopo l’ultimo incontro, con l’on Mannino — e con il Generale Subranni — documentato dalle sue agende, egli veniva arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

[…] Quel che importa rilevare è che la decisione della Cedu nel caso Contrada non entra minimamente nel merito della contestazione, né mette in discussione le prove a carico o la loro sufficienza a supportare una pronunzia di condanna, o la circostanza che i fatti contestati siano stati provati e quindi accertati; e neppure, a ben vedere, mette in discussione la loro idoneità ad integrare gli estremi del reato di concorso esterno in associazione mafiosa come messo a fuoco nei suoi tratti salienti dalla giurisprudenza affermatasi e consolidatasi a partire — nella valutazione della stessa Cedu — […]: nulla di tutto ciò.

Sicché, pur essendo venuto meno il titolo di condanna, i fatti comprovanti non l’intraneità, ma la contiguità e la collusione con talune cosche mafiose palermitane o singoli esponenti di spicco delle stesse (da Stefano Bontate a Salvatore Inzerillo a Rosario Riccobono, ma anche Filippo Marchese e lo stesso Michele Greco, secondo le convergenti propalazioni dei collaboratori di giustizia che lo accusavano) restano sostanzialmente accertati.

Ora, al di là del dato temporale che confina le condotte concorsuali in un arco di tempo di circa un decennio, ma assai risalente e largamente anteriore all’estate del ‘92, oltre che legate a contatti e frequentazioni con esponenti mafiosi quasi tutti uccisi nel corso della c.d. seconda guerra di mafia o da anni detenuti e condannati anche all’ergastolo, non si può certo inferirne che l’on. Mannino si fosse rivolto, tra gli altri anche al Contrada perché sapeva di poter contare sulle sue entrature mafiose e quindi di poterlo coinvolgere in iniziative non ortodosse ed anzi stridenti con le finalità istituzionali di un appartenente di un apparato di sicurezza dello stato.

A tanto non arriva neppure la pubblica accusa poiché non risulta che il Contrada sia mai stato indagato per concorso nel medesimo reato di minaccia a corpo politico dello stato per cui si è (separatamente) proceduto a carico del Mannino.

Di contro è certo che all’epoca delle triangolazioni con lo stesso (ex)ministro e con il Generale Subranni — anche sulla vicenda del Corvo – Bruno Contrada, benché già attinto da propalazioni ancora segrete, come le rivelazioni sulla sua collusione anticipate da Mutolo, già nel corso del suo primo interrogatorio al dott. Borsellino, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze dell’amico e collega Giovanni Falcone circa i suoi sospetti sulla “infedeltà” dell’ex capo della mobile di Palermo, era ancora saldamente insediato in una posizione ai vertici di uno dei due servizi di intelligence; godeva di massima stima e piena fiducia da parte del capo della Polizia, Vincenzo Parisi (il quale, dopo il sorprendete arresto, farà il diavolo a quattro, protestando contro quello che riteneva essere un clamoroso errore giudiziario […]), e aveva un ruolo ed una reputazione che gli permettevano di avere interlocuzioni frequenti con eminenti personalità della politica e delle istituzioni, e contatto o incontri, ancora tino a poche settimane dall’arresto, con lo stesso ministro dell’Interno.

Quest’ultimo, infatti, sarà a sua volta bersaglio di polemiche sulla stampa, e persino di interrogazioni parlamentari di cui v’è traccia anche nell’intervento di Nicola Mancino dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia in occasione della seduta del 15 gennaio 1993, per non avere con decisione e chiarezza, immediatamente dopo l’arresto del Contrada, preso le distanze da un servitore dello stato sul cui capo pendeva un’accusa così infamante.

E ritenere che, invece, Calogero Mannino fosse, all’epoca, già perfettamente edotto delle contiguità o frequentazioni mafiose di Bruno Contrada sarebbe ancora una volta aggrapparsi ad un assioma indimostrato.

I “contatti” di Subranni

Ebbene considerazioni non dissimili valgono, a fortiori, per i presunti contatti e incontri con il generale Subranni. Con una differenza sostanziale e non di poco conto. Anche il generale Subranni è stato sottoposto a procedimento penale — molti anni dopo i fatti di causa – con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa; ma tale procedimento si è concluso con un decreto congruamente motivato ed emesso dal gip del tribunale di Caltanissetta su conforme richiesta della procura nissena in data 10 aprile 2012.

Ivi si dava atto come fosse rimasta isolata e priva di riscontri la rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, aveva attribuito al marito, che pochi giorni prima di essere ucciso — e precisamente il 15 luglio 1992, data alla quale fu possibile risalire in quanto la signora collocava con certezza tale rivelazione alla vigilia dell’ultima partenza del marito per Roma, avvenuta il 16 luglio — le aveva confidato che qualcuno, di cui non le disse il nome, gli aveva riferito che il generale Subranni, con il quale egli aveva un rapporto di stima e frequentazione per ragioni professionali, era “punciutu”.

In particolare, erano stati esaminati i collaboratori di giustizia che, all’epoca della rivelazione predetta, il dott. Borsellino aveva già iniziato ad interrogare (Mutolo, Schembri e Messina Leonardo), ma nessuno di loro aveva saputo riferire alcunché in ordine a eventuali rapporti collusivi del Subranni con esponenti mafiosi. E neppure scavando nel bagaglio di conoscenze di nuovo collaboratori di giustizia di acclarato spessore, come Giovanni Brusca era emerso nulla al riguardo, non avendo in particolare il Brusca riferito alcunché in merito al ruolo giocato da eventuali appartenenti all’Arma dei Carabinieri (e segnatamente in merito al Subranni) nella trattativa di cui gli aveva parlato Totò Riina.

Mentre doveva escludersi che il misterioso amico che avrebbe tradito il dott. Borsellino, come dallo stesso confidato alla dott.ssa Alessandra Camassa e al dott. Massimo Russo durante uno sfogo accorato cui s’era lasciato andare in occasione di una visita fattagli dai due giovani colleghi presso il suo ufficio alla Procura di Palermo nel giugno del ‘92, potesse identificarsi nella persona del Generale Subranni: sia perché con quest’ultimo non intercorrevano rapporti di amicizia personale, ma solo di frequentazione per ragioni d’ufficio; sia, e soprattutto, perché, per quanto fosse problematico datare l’episodio riferito concordemente dai dott.ri Camassa e Russo, esso non poteva che essere avvenuto a giugno e comunque prima del 4 luglio 1992, data della cerimonia di saluto dello stesso Borsellino ai colleghi di Marsala che fu anche l’ultima occasione in cui la dott.ssa Camassa lo vide. (E quindi l’episodio in questione doveva certamente essere occorso prima di quella cerimonia).

Di contro, si è accertato che il dott. Borsellino, al rientro dalla trasferta in Germania dove si era recato per andare a sentite alcuni nuovi pentiti, si era trattenuto a Roma per tutta la giornata del 10 luglio e aveva partecipato ad una cena, insieme a Mori e Subranni e altri Ufficiali dell’Arma, trascorrendo poi la giornata seguente in compagnia del generale Subranni, e accettando il passaggio da questi offerto in elicottero per raggiungere Salerno, dove la mattina del 12 luglio il dott. Borsellino partecipò alla festa per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero. Sicché almeno fino a quel momento, i rapporti con lo stesso Subranni sembravano essere rimasti immutati e improntati a massima cordialità.

Ebbene, la sentenza qui appellata, all’esito di un esame scrupoloso di un compendio istruttorio ancora più vasto di quello vagliato dall’a.g. nissena (perché integrato dalle propalazioni di Di Carlo e Siino, nonché dalla testimonianza de relato del Generale Gebbia sui rapporti con i cugini Salvo, sull’interessamento alle indagini sul sequestro Corleo e sulle iniziative intraprese per il recupero del cadavere del rapito, nonché sull’omissione di atti dovuti in relazione al mancato sequestro di armi da fuoco presenti in immobile di pertinenza dei Salvo), perviene alla conclusione dall’insieme delle risultanze acquisite, tra le quali è meritevole di apprezzamento la testimonianza di Luigi Li Gotti su episodi e circostanze apprese da confidenze fattegli dall’amico e collega avv. Ascari, residuano soltanto elementi idonei a comprovare l’esistenza di rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo, con Vito Ciancimino e con Andreotti.

Ma per quanto concerne i primi, le esigenze correlate alle indagini sul sequestro Corleo giustificavano ampiamente che il Generale Subranni, come peraltro da lui stesso ammesso, si trovasse ad incrociare in particolare Nino Salvo, personalmente interessato ad avere notizie dei suocero rapito (e successivamente a tentare di recuperarne almeno il corpo); e comunque il ruolo pubblico per anni ricoperto dai potenti esattori di Salemi, le generiche notizie su un rapporto di reciproca conoscenza non avrebbero alcuna valenza indiziante.

I rapporti con Ciancimino

Quanto a Vito Ciancimino, non hanno trovato il minimo riscontro le propalazioni del Di Carlo, peraltro generiche e indeterminate, oltre che a dir poco tardive, sul fatto che il generale Subranni si sarebbe interessato per non meglio precisati favori a esponenti mafiosi segnalatigli dal Ciancimino.

E quindi residua solo il dato della conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Vito Ciancimino in occasione del suo arresto nel novembre del 1984.

In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, ed è verosimilmente databile alla fine di aprile del 1978, quando il maggiore Subranni venne promosso a tenente colonnello e andò a comandare il Reparto operativo dei carabinieri di Palermo: molti anni dopo che si era conclusa l’esperienza di Ciancimino quale sindaco di Palermo, e in un’epoca in cui egli era già assai discusso non solo per la sua disinvoltura nel mescolare rapporti politici e di affari — che gli sarebbero costati in seguiti la sottoposizione a diversi procedimenti penale per reati contro la p.a due dei quali sfociati in condanne definitive — ma anche per presunti rapporti con esponenti mafiosi, per i quali era stato attenzionato dalla Commissione parlamentare antimafia.

Del resto, l’esistenza di rapporti cordiali tra i due, esplicitamente dichiarata dal Ciancimino in occasione dell’interrogatorio reso al g.i dott. Giovanni Falcone dopo il suo arresto nel novembre del 1984 emerge anche dalla narrazione che il Generale Mori ha fatto dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, se è vero che in occasione di uno dei loro primi incontri (insieme al capitano De Donno), lo stesso Ciancimino gli disse che aveva conosciuto diversi ufficiali dell’Arma tra i quali proprio il Generale Subranni, quando comandava il Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo; e si raccomandò di fargli avere i suoi saluti.

Può apparire, ed è poco commendevole la condotta di un alto ufficiale dei Carabinieri che non si peritava di continuare ad avere contatti o rapporti cordiali con un personaggio così chiacchierato, e sul conto del quale si erano accumulati atti e rapporti giudiziari fin dai primi anni settanta. Ma ciò, come riconosce il giudice di prime cure, in assenza di diverse risultanze può avere un rilievo soltanto “etico” (cfr. pag. 4959).

Né si può trascurare che, sebbene in declino per l’accumularsi di accuse sospetti e rapporti giudiziari su suo conto Ciancimino, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 era un personaggio influente nella vita pubblica e nella realtà politica locale, capace ancora di inserirsi nelle dinamiche di potere e nella competizione tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa, anche a livello nazionale.

Inoltre, si registra una singolare assonanza tra le propalazioni del Siino e quelle del Riccio a proposito dell’ambiguo tenore dei rapporti che il generale Subranni non disdegnava di coltivare con personaggi in odor di mafia, come usa dirsi o decisamente intranei all’organizzazione mafiosa.

Siino, che peraltro si è contraddetto sulle circostanze in cui avrebbe fatto la conoscenza di Subranni, ha fatto riferimento ad un approccio o un tentativo di approccio nei suoi confronti per avere informazioni sull’omicidio del colonnello Russo (salvo scoprire che ne sapeva, il Subranni, più di lui). E ad un raffreddamento dei loro rapporti quando Subranni non ricambiò il favore, come invece lui si attendeva, rifiutandosi di dargli notizie sull’indagine cui era interessato per i fatti di Baucina.

A dire di Michele Riccio, all’esito dell’incontro avuto a Roma con i procuratori di Palermo e Caltanissetta otto giorni prima di essere ucciso, Ilardo ebbe a confidargli che Subranni era uno dei suoi superiori di cui avrebbe dovuto diffidare. Ma lo stesso Riccio rammenta altresì che all’epoca dell’istituzione del Ros (3 dicembre 1990) si discuteva del modo in cui dovessero essere impostate le indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.

E in occasione di una di queste discussioni, Mori confidò a Riccio che Subranni aveva stretti rapporti con Vito Ciancimino, ma senza specificare o aggiungere altro. E tuttavia il discorso verteva sul modo in cui impostare le indagini di mafia in Sicilia e il metodo e gli strumenti e le risorse da impiegare in tale contesto, sicché quel riferimento buttato lì da Mori sembrava alludere alla possibilità di utilizzare Vito Ciancimino, grazie ai suoi pregressi rapporti con il comandante Subranni, come potenziale interlocutore o fonte di informazioni, se non proprio come fonte confidenziale nell’accezione comune del termine.

 

Quella confidenza sul generale Subranni

Prima di passare al tema dei contatti dei Carabinieri (e, specificamente, degli imputati Subranni, Mori e De Donno) con Vito Ciancimino, però, è opportuno qualche cenno ad un’altra vicenda che, come detto, è, in qualche modo, collegata agli accadi menti che si verificarono nel giorni immediatamente precedenti la strage di Via D’Amelio e che pure è stata oggetto di attività istruttoria nel presente processo.
Infatti, Agnese Piraino Leto, coniuge del Dott. Paolo Borsellino, ancorché per la prima volta soltanto nel 2009, ha riferito una confidenza che il marito ebbe a farle pochi giorni prima di morire riguardo a quanto dallo stesso appreso sul Gen. Subranni.
In particolare, la Sig.ra Piraino Leto, sentita il 18 gennaio 2009 […], dopo avere raccontato che il marito aveva numerose amicizie nell’Arma dei Carabinieri per la quale nutriva una vera e propria ammirazione (“Mio marito vantava numerose amicizie tra Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, con i quali aveva anche frequenti rapporti di tipo professionale, nutrendo egli una vera e propria ammirazione verso l’Arma dei Carabinieri”), si è soffermata sui rapporti con il Gen. Subranni, che il
marito medesimo aveva avuto modo di conoscere quando il predetto era Comandante della Regione Sicilia ed aveva, comunque, frequentato sporadicamente solo per ragioni professionali […].
Ebbene, la Sig.ra Piraino Leto, nel riferire di ignorare se il marito si fosse riferito al Gen. Subranni allorché, come raccontato dai Dott.ri Alessandra Camassa e Massimo Russo, piangendo, aveva detto loro di essere stato tradito da un amico (“Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa
Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del Generale Subranni”), tuttavia, ha aggiunto spontaneamente, a quel punto, il racconto di un episodio che all’epoca l’aveva colpita moltissimo e del quale fino ad allora non aveva mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri (“Tuttavia ricordo un episodio che all’epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima ed ammirazione”).
Tale accadimento si era verificato il giorno 15 luglio 1992, data individuata con certezza dalla Sig.ra Piraino Leto sulla scorta della copia fotostatica dell’agenda grigia del marito dalla quale risultava che il giorno 16 luglio 1992 (giorno che ricordava essere successivo all’episodio riferito) il marito si era recato a Roma per motivi di lavoro (“Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992: ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica
dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrano, il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza”).
Ebbene, in quell’occasione, intorno alle ore 19,00, mentre entrambi i coniugi si trovavano nel balcone di casa, il marito, manifestando uno stato di particolare agitazione tanto da sentirsi male ed avere conati di vomito, le aveva detto che aveva “visto la mafia in diretta” perché gli avevano riferito che “il Generale Subranni era punciutu”, termine col quale, notoriamente, si indicano i soggetti formalmente affiliati alla mafia […].
Indi, la teste ha precisato di non avere chiesto al marito qual era la fonte di quella confidenza da lui ricevuta, anche se le era venuto in mente che, proprio in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri (”Non chiesi, tuttavia, a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in
quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri”).
La teste, poi, ha aggiunto che il giorno 18 luglio 1992 era sabato e che col marito erano andati a fare una passeggiata sul lungomare di Carini senza scorta, quando, ad un certo momento, il marito medesimo, sconfortato, le aveva detto che non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere,
senza, tuttavia, nonostante le sue insistenze, farle alcun nome e ciò per non renderla depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la sua incolumità, costituendo, dunque, un’eccezione a detta regola la confidenza che qualche giorno prima le aveva fatto riguardo al Gen. Subranni (“Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio
marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo. Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni, ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità; infatti la confidenza su Subranni costituisce un’eccezione a questa regola”).
L’episodio è stato, quindi, confermato dalla teste anche il successivo 27 gennaio 2010[…]. Nella stessa occasione (ma su ciò si tornerà anche più avanti) la teste ha anche aggiunto che il marito, dopo la strage di Capaci, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (“… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che
c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi «infedeli» dello Stato, e non mi dice altro… “) .
Orbene, ritiene la Corte che, anche in forza delle complessive risultanze probatorie acquisite, non via sia alcuna ragione di dubitare della assoluta veridicità dell’episodio raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, veridicità che, tuttavia, come si dirà, può estendersi, sì, anche al ricevimento di quella notizia da parte del Dott. Borsellino, ma non anche, ovviamente, al contenuto intrinseco della stessa, ancorché la reazione non usuale di una persona e di un magistrato qual era il Dott. Borsellino, certamente uso a ben valutare le più disparate informazioni raccolte nelle sue molteplici indagini in materia di mafia (peraltro, proprio in quegli stessi giorni, aveva raccolto anche informazioni di particolare gravità persino su colleghi con i quali lavorava da anni, oltre che su Bruno Contrada), induca a ritenere che quella sua conoscenza rassegnata alla moglie in quell’occasione e con quelle modalità fosse fondata su elementi da lui ritenuti particolarmente solidi.
Occorre, invero, rilevare in proposito, innanzitutto, che già qualche anno prima, tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, la Sig.ra Piraino Leto aveva raccontato il medesimo episodio, sostanzialmente negli stessi termini, al Dott. Cavaliero, magistrato legato da intenso rapporto di frequentazione ed amicizia con la famiglia Borsellino, così come dallo stesso confermato in sede di esame
testimoniale anche nel presente processo.
[…] II teste ha aggiunto che la moglie del Dott. Borsellino non gli disse quanto tempo prima di morire il marito le aveva fatto quella confidenza, ma certamente ciò era avvenuto dopo la strage di Capaci […], confermando, però, poi, le sue precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito che il Dott. Borsellino aveva parlato alla moglie del Gen. Subranni qualche giorno prima di morire […].
Il teste, quindi, ha ribadito la sua meraviglia per quella confidenza e che, tuttavia, non chiese null’altro alla Sig.ra Piraino Leto (“[…] Non chiesi nulla alla signora Agnese perché la signora Agnese era già sufficientemente diciamo infastidita nel dirmelo perché lei era profondamente amareggiata per quella che era stata la reazione violenta che il marito aveva avuto di aver vomitato immediatamente dopo di averle detto questa notizia, e quindi lei era amareggiata per quella che era la condizione emotiva del marito. Devo essere sincero, non ci fu assolutamente da parte mia
nessuna domanda ulteriore alla signora Agnese relativamente a quello che mi aveva detto … “), neppure se ne avesse riferito all’A.G. […] e ciò conoscendo le preoccupazioni che ancora in quel periodo la Sig.ra Borsellino nutriva per i figli […].
Quanto al Gen. Subranni, poi, il teste ha precisato che gli era stato presentato proprio dal Dott. Borsellino e che gli stessi intrattenevano buoni rapporti […].
In sede di controesame delle difese degli imputati, quindi, il teste ha aggiunto di avere un vago ricordo che forse effettivamente l’elicottero per accompagnare il Dott. Borsellino a Salerno per il battesimo del figlio dello stesso teste fosse stato messo a disposizione dal Gen. Subranni e che forse anche quest’ultimo era a bordo […], che il Dott. Borsellino non gli fece mai alcuna confidenza né
sul Gen. Mori, né sul Gen. Subranni […] e che la Sig.ra Borsellino non aggiunse alcun particolare a proposito di quanto dettogli dal marito riguardo al Gen. Subranni se non che il marito in quella occasione si sentì male (”No, aggiunse solamente il dettaglio che Paolo, quando le riferì a lei
questa frase, vomitò e si sentì male”), escludendo, peraltro, che, per quello che era il suo stato d’animo in quell’ultimo periodo, il Dott. Borsellino avrebbe potuto fare anche a lui una confidenza quale quella riferita dalla moglie riguardo al Gen. Subranni […], tanto più che dopo l’incontro del 12 luglio, egli non aveva più parlato col Dott. Borsellino […].
* * *
La testimonianza di Agnese Piraino Leto, per l’autorevolezza tanto di quest’ultima in quanto moglie di Paolo Borsellino, tanto del teste – il Dott. Cavaliero, magistrato – che l’aveva riscontrata nei termini sopra riportati, è stata oggetto di forte contestazione da parte della difesa di Antonio Subranni e anche da parte di quest’ultimo personalmente, il quale, infatti, in proposito, all’udienza
del 22 settembre 2017, ha voluto rendere le seguenti spontanee dichiarazioni:
” … Altra tematica è quella relativa alle dichiarazioni in atti della signora Agnese Borsellino, secondo la quale il marito le avrebbe detto, in data 15 luglio 92, che il sottoscritto era punciutu, dichiarazioni riferite in tale sede anche dal Dottor Cavaliero, per averle apprese dalla signora Borsellino. Prescindo dal fatto che la Procura di Caltanissetta ha scrupolosamente verificato la
fondatezza di tale affermazione, anche attraverso l’escussione dei collaboratori che il Dottor Borsellino, all’epoca, interrogava. E non trovando alcun riscontro, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del procedimento iscritto a mio carico.
[…] Una considerazione s’impone alla luce della testimonianza del Dottor Cardella ed attiene ai rapporti tra i Carabinieri del ROS e la famiglia del Dottor Borsellino. Essi continuarono anche dopo la tragica fine del Magistrato nei termini riferiti dal Teste escusso. Mi domando, a prescindere dalla certezza sulla partecipazione del sottoscritto ali ‘incontro, di cui ha parlato il Dottor Cardella, se veramente il sottoscritto fosse stato o anche solo sospettato di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il Comando dal quale dipende il ROS per incontrare Ufficiali del ROS,
con il fondato rischio di incontrare il sottoscritto? Inoltre, è emerso, in sede processuale, che il 16 febbraio 93 la signora Borsellino si recò al ROS e, nella stessa sera, vi fu anche una cena. Io non ho un ricordo specifico ma mi chiedo: se il sottoscritto fosse stato – o anche solo sospettato – di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il ROS con il rischio di un incontro anche casuale, ma comunque non gradito, con il sottoscritto, allora Comandante? Per ora mi limito a queste dichiarazioni sul tema, riservandomi, eventualmente, alcune puntualizzazioni qualora ciò si rendesse necessario, ad esito di altre deposizioni testimoniali dalle quali emergerà, lo dico sin d’ora,
atteso che i Testi cui mi riferisco sono stati escussi nel processo a carico dei miei collaboratori, Generale Mori e Colonnello Obinu, che le preoccupazioni del Dottor Borsellino non erano per il sottoscritto ma per i suoi colleghi e per le infedeltà dei suoi colleghi, ben rappresentate dalla frase: “un amico mi ha tradito”
* * *
Tuttavia, la Corte ritiene che, alla stregua delle risultanze prima esposte, può concludersi che nessuno degli elementi opposti dalla difesa dell’imputato Subranni, e da questi anche personalmente, per porre in dubbio la dichiarazione della Sig.ra Piraino Leto, appare idoneo ad inficiarne l’attendibilità.
In particolare:
non lo è, in sé, il fatto che l’episodio sia stato riferito soltanto molti anni dopo, poiché può essere compresa la remora della Sig.ra Borsellino nel riferire quella scarna confidenza, che, senza alcuna specificazione, accusava un alto esponente dell’ Arma dei Carabinieri nei cui confronti, sia il marito che tutta la famiglia Borsellino nutrivano sentimenti di rispetto, stima e riconoscenza. D’altra parte, non si evidenzia alcuna plausibile ragione per la quale la Sig.ra Piraino Leto avrebbe dovuto, ad un certo punto, deliberatamente elaborare un racconto falso, né si comprenderebbe perché, ove anche ciò, in ipotesi, avesse fatto per scopi non noti, abbia poi atteso altri anni (dal 2004 quando già ebbe a raccontare l’episodio al Dott. Cavaliero sino al 2009) per riferire il fatto alla A.G.;
non lo è la circostanza che la Sig.ra Piraino Leto abbia continuato a partecipare a manifestazioni organizzate dall’Arma dei Carabinieri poiché la notizia riguardante il solo Gen. Subranni non poteva, ovviamente, coinvolgere l’intera Istituzione verso la quale, come detto, tutta la famiglia Borsellino aveva sempre nutrito la massima fiducia e non v’è, peraltro, alcuna prova certa che a taluna di queste manifestazioni abbia incontrato ed eventualmente salutato anche il Gen. Subranni (v. attestazione trasmessa dal Comando Generale dell’ Arma dei Carabinieri in data 29 maggio 2012, a firma del Capo del II Reparto, prodotta dalla difesa dell’imputato Subranni relativa a visite della signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, negli anni 1993 e 1994, secondo la quale ” .. agli atti di questo Comando Generale risultano due incontri avvenuti, rispettivamente in data 13 maggio 1993 e 28 gennaio 1994 tra il Comandante Generale protempore, Gen. C.A. Luigi Federici, e la Sig.ra Agnese Piraino Leto, ved. Borsellino”, nonché le stesse spontanee dichiarazioni di Subranni nelle quali si fa riferimento soltanto a possibili occasioni di incontri, in concreto, però, non verificatesi);
non lo è il fatto che ancora l’11 luglio 1992 il Dott. Borsellino fosse in compagnia del Gen. Subranni allorché ebbe a recarsi a Salerno e che nulla il medesimo Dott. Borsellino abbia detto al collega Cavaliero, atteso che la Sig.ra Borsellino ha collocato l’episodio nella settimana antecedente la strage di via D’Amelio e, più precisamente, nel pomeriggio del giorno 15 luglio 1992, così che è possibile, da un lato, escludere che quella notizia riguardante il Gen. Subranni possa essere stata la causa dello scoramento manifestato dal Dott. Borsellino ai colleghi Camassa e Russo in periodo antecedente (nel giugno 1992) tanto più che in questo caso non si giustificherebbe dopo un tempo così lungo una reazione emotiva talmente intensa da provocare persino conati di vomito, e, dall’altro, trarre conferma che effettivamente il Dott. Borsellino ebbe ad apprendere quella sconvolgente notizia soltanto dopo essersi trovato in compagnia del Gen. Subranni in occasione del viaggio a Salerno, ovvero, come ipotizzato dal P.M. nel corso della sua requisitoria (v. trascrizione udienza dell’11 gennaio 2018), anche se ciò appare alla Corte meno probabile, ebbe a trarre la conclusione poi rassegnata alla moglie da qualche condotta del Subranni nei giorni in cui si erano incontrati (il 10 e l’11 luglio, secondo quanto riferito da quest’ultimo imputato), tanto da determinargli lo stato di particolare agitazione, di cui pure ha riferito il teste Cavaliero, manifestato in occasione della ricerca spasmodica dell’agenda personale, che, ad un certo momento, il Dott. Borsellino aveva temuto di avere smarrito (v. testimonianza Cavaliero: ” … Paolo ebbe la percezione che non teneva l’agenda appresso. Ricordo che mi fece quasi smontare la macchina, nonostante questa agenda non fosse uno spillo. Lui era … … … Era visibilmente agitato. era visibilmente agitato … “);
non lo sono, infine, per le medesime ragioni, né la cena cui il Dott. Borsellino ebbe a partecipare a Terrasini nel giugno 1992 con la presenza di molti Carabinieri, essendo la stessa antecedente alla notizia riguardante Subranni appresa dal predetto soltanto nei giorni precedenti la strage di via D’Amelio (come detto il 15 luglio 1992 o, al più, nei giorni compresi tra l’11 e il 15 luglio 1992), né la circostanza che, dopo la strage, i familiari del Dott. Borsellino chiesero che alla perquisizione della loro abitazione fossero presenti anche Ufficiali dei Carabinieri (il Cap. Adinolfi e forse anche il Cap. Ierfone secondo quanto riferito dal teste Sinico), stante la persistente stima, comunque, nutrita dai familiari medesimi, come detto, nei confronti dell’Arma (e non inficiabile per gli eventuali comportamenti deviati di un solo suo esponente ancorché di grado elevato non legato da particolari vincoli di amicizia o frequentazione), tanto più che non va dimenticato che allora la persona più fidata e vicina al Dott. Borsellino ed ai suoi familiari era proprio un graduato dell’Arma (il M.llo Carmelo Canale), né, infine, l’incontro presso il R.O.S. con il Col. Mori e la successiva cena cui la stessa Sig.ra Piraino Leto ebbe a partecipare il 16 febbraio 1993 con il medesimo Col. Mori e con Padre Bucaro (v. annotazioni riportate nelle agende del Col. Mori nella pagina relativa alla predetta data prodotta dalle difese all’udienza dell’8 ottobre 2015), non risultando, in tali occasioni, la presenza del Gen. Subranni […].
Peraltro, non appare di certo irrilevante sottolineare che l’attendibilità della testimonianza della Sig.ra Piraino Leto non è stata sostanzialmente posta in dubbio neppure da Mori e De Donno, odierni coimputati del Subranni, allorché l’ebbero a commentare subito dopo la diffusione pubblica della notizia. E’ stata acquisita agli atti, infatti, anche un ‘intercettazione di una telefonata intercorsa tra i predetti Mori e De Donno 1’8 marzo 2012 nel corso della quale il secondo riferisce al primo la testimonianza della Sig.ra Piraino Leto di cui si era avuta, appunto pubblica notizia (“DE DONNO: che poi, qualche giorno prima di morire, le avrebbe detto che … dice: “Ho visto “, dice, “la morte in faccia “, dice, “sono sconvolto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu…. .. … … in questa ricostruzione, però chiaramente ehm … indaga Subranni per 416 bis Caltanissetta, perché eh. .. con questa ricostruzione, probabilmente il … diciamo così, il traditore di tutta questa storia… sarebbe il Generale Subranni, Comandante del ROS, di qui si spiega il perché lui… diciamo così, era così avvilito, proprio in virtù dei rapporti che lui aveva con Subranni”), definisce la medesima Sig.ra Piraino Leto “corretta” perché non li aveva chiamati in causa (“La signora… per carità, io non ho letto il verbale, però sembrerebbe teoricamente così corretta, nel senso che la signora, volendo, poteva raccontare quello che voleva … … …. cioè poteva … Visto che c’è tutto questo … questa cosa poi la racconta adesso la signora… …. …. poteva pure… poteva pure inventarsi … che ne so, che il marito le aveva parlato di lei, di me e … ….. …. della trattativa, e invece su questo è molto corretta, cioè non dice niente, dice: “Non mi ha mai parlato di trattativa, non mi ha mai parlato di questi Carabinieri, non mi ha mai detto niente” … “) e osserva che la detta teste non avrebbe avuto alcuna ragione di accusare ingiustamente Subranni (” …. racconta solo ‘sto fatto su Subranni, il ché … se si voglia ammettere… cioè, perché pigliarsela con Subranni? Probabilmente… non lo so dico, eh, però ipotizzo. può darsi pure che sia vera ‘sta storia che gli ha fàtto ‘sta confidenza Borsellino. Però il punto è: chi cazzo glielo ha detto a Borsellino, ammesso che sia vera ‘sta storia … …….. ammesso che sia vero pure che lui abbia fatto questa confidenza alla signora, eh, però adesso non si sa chi gliel ‘ha detta ‘sta … e chi gli ha raccontato ‘sta stronzata a … a Borsellino? Sicuramente, se gliel ‘hanno raccontata, casomai quello era sconvolto, cioè, figuriamoci … comanda il ROS, lo conosceva da una marea, cioè gli viene ‘sto dubbio… lo posso pure capire che stava agitato in quel periodo storico, però … “), ricevendo ripetutamente assenso da Mori, sia pure quasi sempre con monosillabi per l’evidente prudenza (che caratterizza tutta la conversazione: v. trascrizione in atti) di chi sa – o quanto meno non esclude – di potere essere intercettato.
Anzi, De Donno è ancora più esplicito in una conversazione immediatamente successiva con tale “RAF”, pure intercettata ed acquisita agli atti, nel corso della quale ribadisce di ritenere verosimile che la Sig.ra Piraino Leto avesse detto la verità non avendo alcuna ragione di mentire […]. Ciò detto, come già anticipato sopra, se non v’è ragione di dubitare di quanto raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, però, occorre puntualizzare che, alla stregua della detta testimonianza, può ritenersi provato soltanto:
che il Dott. Borsellino nei giorni immediatamente successivi al suo viaggio a Salerno (e, quindi, nel periodo tra il 12 e il 15 luglio) o, al più (anche se, a parere della Corte, ciò è meno probabile), negli stessi giorni del detto viaggio nei quali aveva incontrato Subranni (il 10 e l’11 luglio 1992), ebbe ad apprendere da fonte non precisata – o, quanto meno, ebbe a trarre la personale convinzione – che il Gen. Subranni fosse affiliato alla mafia;
che il Dott. Borsellino, ritenendo evidentemente, fondata quell’informazione o convinzione, ne rimase talmente sconvolto da sentirsi male fisicamente e, inusualmente, da condividere quella informazione con la moglie.
Tuttavia, non essendo stato possibile, invece, individuare la fonte di quella notizia (ed anzi, essendo escluso che possa essersi trattato di Gaspare Mutolo che il Dott. Borsellino stava interrogando in quei giorni), né tanto meno ricostruire le ragioni per le quali il Dott. Borsellino giunse alla predetta
conclusione (il collegamento di essa con la “trattativa” cui ha fatto cenno il P.M. nel corso della sua requisitoria non va oltre la mera – ancorché non implausibile – ipotesi), non è possibile, invece, valutare la fondatezza o meno della notizia o conclusione medesime e, quindi, trarre da esse conferma alle accuse mosse nel presente processo a carico del Gen. Subranni, né, tanto meno, seppur in astratto coerenti se riferite in qualche modo ai contatti intrapresi dai Carabinieri con i
vertici mafiosi di cui si dirà nel Capitolo che segue, metterle direttamente in relazione con quell’accelerazione dell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino di cui tratta il presente Capitolo.