Processo omicidio Ilardo: il collaboratore Santo La Causa svela i retroscena
Osservando il modo di agire dei “catanesi” riusciamo a capire perché il metodo mafioso continua ad avere consenso sociale. Santo La Causa è arrivato a essere reggente di Cosa nostra partendo dalla gavetta. Me lo ricordo nei primi anni Novanta quando era ancora un giovanotto di squadra e venne arrestato per la detenzione di una pistola con matricola abrasa che deteneva nel quartiere del Canalicchio. Era scaltro e veloce, tanto che l’arma non la trovammo subito ma fu rinvenuta dai Carabinieri dentro la cassetta della posta. Insomma uno sveglio con un suo modo, anche metaforico, di tenere gli impicci fuori di casa. Si è mantenuto sempre così in ogni ruolo che ha rivestito e, tra una detenzione e l’altra, è arrivato fino al vertice.
Quando, negli anni Duemila, è divenuto collaboratore di giustizia ha fornito una sorprendente chiave di lettura della strategia economica del suo gruppo. Ha raccontato come i catanesi non si limitavano – come abbiamo visto – a influenzare o addirittura a gestire iniziative economiche, ma adottavano anche criteri per regolamentare l’accesso delle imprese ai subappalti dei grossi lavori. E così Enzo Aiello, nella sua qualità di responsabile economico della famiglia, si era assunto il compito di scegliere le aziende da far lavorare per il nolo dei mezzi e degli escavatori, per il movimento terra e per le forniture degli inerti.
Un occhio di riguardo alle aziende locali
Nello svolgere tale compito il mafioso esercitava questo suo potere tenendo conto delle aziende “vicine” che gli apparivano in difficoltà economiche. E così, ad esempio, privilegiò le ditte operanti nel catanese piuttosto che quelle di Caltanissetta che gli erano state segnalate da Tusa, rappresentante della provincia nissena. Insomma la mafia – travestita da soggetto economico – si preoccupava anche di mantenere i livelli produttivi e occupazionali delle imprese sue finanziatrici e operava – con i sui metodi e i suoi scopi – la pianificazione degli interventi, tenendo conto dell’impatto delle proprie scelte sull’economia locale. Mentre, come abbiamo visto, nelle iniziative degli enti pubblici territoriali non pare esservi stata altrettanta attenzione per gli impatti socio-economici di talune scelte.
Cosa nostra – pur nella prospettiva deviata e parassitaria di continuare ad approfittare delle imprese amiche – si è posta problemi che la speculazione privata e l’azione dei pubblici poteri hanno invece del tutto ignorato, nella loro brama di far profitti o di far favori. E così, grazie alle ambiguità e al trasformismo di cui è maestra, la mafia catanese ha creato consenso. Anche questa è una delle amare ragioni per le quali il metodo di azione di Cosa nostra catanese continua a suscitare gradimento in alcuni settori del tessuto socio-economico della città e sopravvive silente al contrasto militare.
Potere e denaro, senza spargere sangue
Insomma, in questa brutta storia c’è tutto: una mafia affamata di denaro e di potere che si fa essa stessa imprenditrice; una classe di imprenditori che non si fa scrupolo di andare oggi in accordo, domani in conflitto con uomini e imprese diretta espressione di Cosa nostra; una mafia che entra in concorrenza con le imprese sul terreno dei rapporti con la politica per ottenere favori; e che compete con istituzioni distratte o corrotte nel farsi carico dell’impatto socioeconomico connesso alle proprie iniziative. Il tutto senza sparare un colpo di pistola. Non serve attendere il giudizio dei Tribunali, ma basta analizzare gli eventi per prendere coscienza di questo mondo capovolto.
Se su tutto ciò si aprisse una seria riflessione, ci sarebbe materia per rivoluzionare l’economia, la politica e l’amministrazione di questo nostro territorio. Invece si fa dipendere tutto – anche il giudizio sull’operato di politici e imprenditori – da una sentenza che riconosca la responsabilità o meno per un reato. E dunque, come spiegheremo meglio tra breve, condannato o assolto equivale a dannato o santo. Come se i fatti non contassero nulla, i tribunali da luoghi di giustizia vengono trasformati così in produttori di alibi.
Testi tratti dal libro “Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita
15.12.2012 – Le parole del boss Santo La Causa – Le dichiarazioni dell’ex reggente della cosca Santapaola presto nei processi
Potrebbero cominciare a diventare pubbliche dalla prossima settimana alcune delle dichiarazioni rese dal neo “pentito” Santo La Causa, il superlatitante di Cosa nostra, inserito nella lista dei 30 ricercati più pericolosi d’Italia, e indicato come il reggente della cosca Santapaola, arrestato l’8 ottobre del 2009 da Carabinieri del reparto operativo di Catania, mentre partecipava a un vertice del gotha della mafia etnea.
La sua collaborazione è cominciata da circa un mese, ed ha già fruttato diversi verbali. Il pentito è stato sentito dal pool dell’area Santapaola della Procura di Catania, coordinato dal procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro. Le prime dichiarazioni potrebbero essere depositate nel fascicolo del Pm in alcune inchieste antimafia.
Una delle prime in calendario è uno dei tanti stralci dell’inchiesta Iblis su rapporti tra mafia, affari e politica: il procedimento che si celebra con il rito abbreviato e la cui udienza è prevista per domani, mercoledì 16 maggio. In questa data la Procura potrebbe depositare dei verbali o chiedere l’audizione di La Causa. Il giudice dovrà valutare sulla richiesta. Lo stesso iter potrà essere seguito in tutti i procedimenti in cui ci sono imputati sui quali il collaboratore ha fatto dichiarazioni.
Santo La Causa era stato scarcerato il 2 agosto del 2006 in applicazione dell’indulto. Il boss era detenuto nel carcere di Parma in regime di 41bis per scontare un residuo di condanna per ricettazione inferiore ai tre anni di detenzione e per questo potè usufruire dei benefici di legge. Fu condannato nel maggio 2007, con sentenza definitiva passata in Cassazione, a sette anni di reclusione per estorsione, ma nel frattempo si era reso irreperibile. Per questo la Procura generale di Catania emise nei suoi confronti un ordine di custodia cautelare in carcere, facendolo diventare ufficialmente un latitante. Nel dicembre dello stesso anno è stato emesso nei suoi confronti un’ordine di arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta “Plutone” perchè ritenuto il reggente della cosca Santapaola. Nel gennaio del 2004 è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Salvatore Vittorio a conclusione del processo di primo grado dell’inchiesta “Orione”, ma è stato prosciolto in secondo grado dalla Corte d’assise d’appello di Catania.
Nello scorso mese di ottobre il boss è stato prosciolto, per non avere commesso il fatto, dall’accusa di avere ucciso Angelo Santapaola e Nicola Sedici, un duplice omicidio di ‘pulizia interna’ a Cosa nostra. Il 28 dicembre del 2010 è stato condannato per associazione mafiosa a 25 anni di reclusione, col rito abbreviato a Catania celebrato dal Gip Santino Mirabella. Dopo la collaborazione La Causa, che era detenuto nel carcere di Opera, nel Milanese, è stato trasferito in una località segreta.
Catania, “Guardatemi in faccia, io sono Santo La Causa”. Colpo di scena in aula, il pentito chiede di essere ripreso in volto
Il boss pentito fa una precisa richiesta. E nel nuovo verbale parla anche di spazi alla Fiera di Catania….Di Iena Giudiziaria Marco Benanti
Ha chiesto di essere ripreso in volto e non di spalle: insomma, un segnale preciso da parte di chi è stato al vertice del clan Santapaola e che secondo un collaboratore sarebbe stato in grado “di fare tremare Catania, per carisma ed intelligenza”.
Fece qualcosa di analogo il boss Natale Di Raimondo, nel processo “Orione” di qualche anno fa. Simbologia e psicologia abbinate, insomma: magari, però, fra qualche tempo –aggiugiamo noi- il boss capirà di essere solo un uomo. Meno di polvere, quindi. Inoltre, parrebbbe che i suoi familiari non avrebbero condiviso la sua scelta.
Stamane, il neo collaboratore di giustizia Santo La Causa, in maniche di camicia, in collegamento in videoconferenza, ha fatto questa richiesta al Presidente del collegio della prima sezione della Corte d’Appello di Catania (Presidente Ignazio Santangelo, a latere Muscarella e Carrubba) che giudica in sede di appello per il procedimento cosiddetto “Plutone”, nato da un’operazione antimafia di qualche anno fa e in cui La Causa è imputato.
Nell’aula bunker di Bicocca, il sostituto procuratore generale Domenico Platania ha chiesto ai giudici di acquisire un nuovo verbale, in forma riassuntiva, del boss pentito, datato 25 maggio 2012, davanti ai Pm della Procura di Catania Antonino Fanara ed Agata Santonocito. Da parte dei difensori, è arrivata l’opposizione dell’avv. Carmelo Calì in quanto non decisiva -a suo argomentare- ai fini della pronuncia giurisdizionale: a questa posizione si sono associate alcune Difese. Contraria, invece, il difensore di La Causa, l’avv. Maria Carmela Barbera. Alla fine, i giudici hanno deciso che entro il 6 luglio prossimo dovrà essere a disposizione degli avvocati la trascrizione integrale del verbale: poi, l’11 luglio la nuova udienza, nel corso della quale è possibile che La Causa venga sentito. Solo un rinvio, quindi, rispetto a quello che era stato annunciato fino a ieri.
Il nuovo verbale, ecco alcuni passaggi:
“ho deciso di collaborare con l’Autorità Giudiziaria in quanto da tempo ero insoddisfatto della vita che conducevo, tanto da giungere nell’ultima carcerazione da prendere l’iniziativa per l’avvio della mia collaborazione con il magistrato di sorveglianza di Parma. Nel tempo che intercorse tra la lettera da me inviata e il provvedimento del magistrato che stabiliva la data dell’interrogatorio, io cambiai idea. Nel corso della mia ultima detenzione proseguii la mia rifleessione sul senso della vita che avevo condotto e anche per il bene della mia famiglia e dei miei figli ho deciso di cambiare vita e collaborare con la giustizia.”
“Quando sono stato arrestato nell’ottobre del 2009 avevo un ruolo apicale nell’associazione mafiosa Santapaola, unitamente ad Aiello Vincenzo, Puglisi Carmelo e altri soggetti che sono stati con me arrestati a Belpasso, ad eccezione di Platania, Botta e, naturalmente, Laudani Sebastiano che fa parte di altra associazione. Ho iniziato a fare parte dell’associazione mafiosa negli anni 1980, allorchè militavo nel clan dei Ferrera, cugini dei Santapaola e con i quali però erano nati dei contrasti; una volta in carcere, conobbi Aldo Ercolano con il quale stabilì un ottimo rapporto, sicchè quando fui scarcerato dall’Asinara nel 1995 passai con la famiglia Santapaola….Quando venni scarcerato nell’anno 1998, fu ritualmente affiliato, con padrino Nino Santapaola, fratello di Benedetto: alla cerimonia erano presenti tra gli altri Maurizio Zuccaro, Nicola Maugeri, Enzo Santapaola figlio di Benedetto ed Antonio Motta; già quel giorno mi dissero che si doveva riorganizzare la struttura della famiglia mafiosa e la gestione della messa a posto delle imprese…” La Causa dice ancora che successivamente “venni contattato da Enzo Santapaola il quale, dopo avermi autorizzato nel periodo dellia mia detenzione ad uscire dall’organizzazione come io gli avevo richiesto, mi impose invece di riprendere i miei compiti apicali. In realtà io non divenni il reggente, in quanto il reggente in quel periodo era Angelo Santapaola; come ho già chiarito in altri interrogatori, però, il comportamento di Angelo Santapaola era criticato per più motivi e proprio per tale ragione Enzo Santapaola mi diede il compito di vigilarne la condotta…”Secondo La Causa i rapporti, in caso di detenzione, con l’esterno non erano interrotti per alcuni: “…posso anche riferire che Enzo Santapaola riusciva, invece, ad avere rapporti anche con l’esterno in quanto scriveva dei messaggi nella velina della carta igienica che cuciva all’interno di un accappatoio, in tale modo trasmettendo e ricevendo messaggi. Posso dire questo perché in una occasione Enzo Santapaola, in risposta ad una mia lamentela per il mancato arrivo del denaro che mi spettava quale stipendio, mi mostrò un biglietto in cui dall’esterno davano assicurazione di avere pensato anche per me, spiegandomi le modalità con cui l’aveva ricevuto. In quel periodo di detenzione, in sostanza, mi arrivava lo stesso lo stipendio, anche se l’ammontare era ridotto…” La Causa, nel corso del verbale, poi parla, per quello che sa, degli imputati del processo “Plutone”. Fra l’altro, fa riferimento ad Antonino Faro “detto killer delle carceri o Sciuscia a Pipa, non lo conosco, anche se so che il gruppo Monte Po’ gli pagava uno stipendio di 500.000 lire al mese…” Parla anche del fratello Claudio che “…non è ritualmente affiliato all’associazione mafiosa catanese e non ha comunque neanche mai fatto parte dell’associazione mafiosa. Mio fratello lavorava come posteggiatore alla fiera di Catania e quindi, conosceva molte persone, alcune delle quali pregiudicate. In particolare lo stesso lavorava in nero e riceveva uno stipendio mensile quale posteggiatore. Il posteggio era sito su un’area -sita tra Corso Sicilia e la fiera- abusivamente occupata da una persona, tale Privitera, che l’aveva recintata e che aveva destinato tale area, dopo averla asfaltata, a posteggio. La società di fatto che gestiva tale attività era formata dallo stesso Privitera al 50% e per l’altro 50% dai due fratelli Mascali, da Natale Di Raimondo, da Vito Licciardello e, come soci occulti al Privitera, da Quattroluni Aurelio, Di Grazia Francesco e da un ragioniere della fiera che mi sembra chiamarsi Paratore…”. Iene Siciliane