Antonino Gioè l’armiere – Racconti di mafia 47ª puntata

 ANTONINO GIOÈ, L’ARMIERE DI COSA NOSTRA

 



Nato ad il Altofonte4 febbraio 1948 e deceduto a Roma il 28 luglio 1993, entra nella cosca di Altofonte guidata dal cugino Francesco Di Carlo nel 1976. Arrestato la prima volta nel 1979, viene accusato di omicidio, traffico di droga e detenzione di armi da fuoco,. Rilasciato alla fine egli anni 80 diventa capo della famiglia di Altofonte, nel mandamento di San Giuseppe Jato. In questo ruolo, viene coinvolto nell’organizzazione e nell’esecuzione della strage di Capaci in cui venne ucciso il giudice Giovanni Falcone, Gioè si occupa del confezionamento dell’esplosivo e del successivo caricamento nel cunicolo sotto l’autostrada. Il 23 maggio 1992 si trova sulla collina nei pressi dello svincolo per Capaci e al passaggio delle auto di scorta del dottor Falcone dà il segnale a Giovanni Brusca per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.

L’arresto e la morte in carcere Gioè viene arrestato a Palermo il 19 marzo 1993 gli uomini della DIA, seguendolo erano riusciti a intercettarlo attraverso delle microspie, mente parlava con un ‘altro uomo d’onore della famiglia di Altofonte Gioacchino La Barbera, rilevando la sua partecipazione alla strage di Capaci e ad altri eventi delittuosi. Nella notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, Gioè muore suicida nel carcere di Rebibbia, impiccato alla grata della sua cella,sul tavolo viene ritrovata una lettera in cui Gioè cerca di smentire le dichiarazioni fatte nel corso dei suoi colloqui con La Barbera.



«NUOVE PISTE SULLA MORTE DI NINO GIOÈ. “IL BOSS ERA PRONTO A COLLABORARE”» di Alessia Candito Non dicerie, né spifferi di pentiti. Che il boss di Altofonte Nino Gioè volesse collaborare con la giustizia, adesso è ufficiale.

Arriva da Reggio Calabria la pista che potrebbe gettare nuova luce sul caso Gioè, ufficialmente morto suicida nella notte fra il 28 e il 29 luglio del ‘93, mentre a Roma e Milano esplodevano le bombe piazzate dai clan. Sta negli interrogatori, nuovissimi, che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha messo agli atti del processo d’appello ‘Ndrangheta stragista, in primo grado costato un ergastolo al boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e al mammasantissima calabrese, Rocco Santo Filippone, condannati come mandanti degli attentati contro i carabinieri con cui la ‘Ndrangheta ha firmato la propria partecipazione agli attentati continentali.

Una stagione in cui Gioè ha giocato un ruolo. E di peso. Mafioso di rango, tra i protagonisti della storia delle stragi – c’era lui con Giovanni Brusca a Capaci, quando l’autostrada saltava portandosi via la vita di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli uomini della scorta – uno dei pochi ad avere un contatto diretto con Totò Riina, il boss era anche uomo di mezzo. Uno che in mano e in uso ha avuto un cellulare ufficialmente disattivato, ma che il giorno della strage di Capaci ha chiamato per tre volte un numero statunitense, che con l’intelligence aveva contatti e ci ha parlato, come con quel Paolo Bellini – estremista nero, trafficante d’arte, killer di ‘Ndrangheta, in odore di servizi, oggi imputato per la strage di Bologna – che potrebbe aver suggerito ai clan di colpire i grandi monumenti per far tremare l’Italia. Gioè era un uomo dai mille segreti. Ed era pronto a raccontarli.

Nei suoi ultimi giorni a Rebibbia aveva presentato «frequenti e ripetute richieste di colloquio con i magistrati e le forze dell’ordine». Ed erano ufficiali, perchè «ero io a prendere cognizione del contenuto delle istanze che scriveva» dichiara il 10 giugno 2019 Antonio Ciliegio, che all’epoca era agente penitenziario e insieme ai colleghi aveva ricevuto l’ordine di vigilare su Gioè «visto il rischio per la sua incolumità in prospettiva di una sua imminente collaborazione». Ne erano coscienti a Rebibbia e lo sapeva il boss, che aveva smesso di uscire dalla cella perché «probabilmente «si sentiva in pericolo o era stato espressamente minacciato da qualche detenuto». Il tempo lo impegnava scrivendo. «Ricordo due-tre missive al giorno inoltrate cinque o sei giorni prima del suo decesso» sottolinea Ciliegio.

Dove sono quelle lettere? A chi scriveva Gioè? Qualcuno ha mai risposto o lo ha incontrato? Di eventuali colloqui potrebbe sapere qualcosa Massimo De Pascalis, che di Rebibbia all’epoca era direttore e per questo è stato ascoltato nel dicembre 2018. Ma quella pagina di interrogatori agli atti non c’è ancora. Di certo, dice Ciliegio, esistevano «espedienti» che, in virtù di «accordi diretti con il direttore o il capo delle guardie», permettevano ai detenuti di «avere incontri riservati con le forze dell’ordine o con i servizi senza lasciare traccia».

Erano gli anni del “protocollo Farfalla”, costato la vita all’operatore carcerario Umberto Mormile, ammazzato a Milano per aver scoperto i rapporti fra uomini dell’intelligence e il boss di ‘Ndrangheta, Domenico Papalia. Lo stesso Papalia a cui Gioè si preoccupa di chiedere scusa nella sua presunta lettera di commiato e da cui Riina riceve in eredità la sigla “Falange Armata”, servita poi per firmare stragi, omicidi, attentati. Una stagione di sangue – è la pista su cui si lavorano Reggio ed altre procure – pensata non solo in Sicilia. E in cui settori dei servizi hanno avuto un ruolo. LA REPUBBLICA 3.1.2022



“Io, infiltrato per conto dello Stato”
 
Una “trattativa paralle­la” con Cosa Nostra  
“Ero schifato dopo le stragi capivo che si doveva fare qualcosa anche per­ché io non sono mai stato un terrorista. Quando mi incontrai a San Benedetto del Tronto con il maresciallo Tempesta, del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri, dissi che mi sarei potu­to infiltrare dentro Cosa nostra. Lui disse che ne avrebbe par­lato con il co­lonnello Mori. Tempo dopo ci vedemmo a Roma, in un distributore di benzina lungo il raccordo anulare. Arrivò l’ok del colonnello e io andai in Sicilia a con­tattare un mio vecchio compagno di cel­la, Antonino Gioè (boss stragista morto in carcere in circostanze poco limpide ndr). Altrimenti col cavolo che sarei an­dato nella tana del lupo a suicidarmi”.

E’ così che Paolo Bellini, ex estremista nero, dopo le stragi viene investito del ruolo di “protagonista” di una “trattativa parallela” con Cosa nostra. L’ex militante di Avanguardia Nazionale, ha deposto in­nanzi ai giudici della II Corte d’Assise di Palermo, nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, nel corso di una udienza del pro­cesso sulla trattativa Stato-mafia. Un di­battimento in cui il teste, rispondendo alle domande dei pm Tartaglia e Teresi, ha ri­percorso la ‘sua’ verità in quegli anni di stragi. Il pretesto per il contatto con Cosa nostra sarebbe stato il recupero di alcune opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena. “Quando incontrai Gioé – prose­gue Bellini – lui mi chiese per conto di chi arrivava questa richiestaAddirittura mi chiese se per caso mi mandava la masso­neria e che in quel caso non c’erano pro­blemi perché aveva diret­tamente la possibilità di avere rapporti con la masso­neria trapanese. Io risposi che interessava ai politici locali e interes­sava anche al Mi­nistero dei beni culturali. Del resto avevo le foto delle opere e la cartellina con i timbri ministeriali. Tempo dopo tornò con altre foto di opere d’arte ed una busta con quattro o cinque nomi­nativi per i quali vo­leva arresti ospedalieri o domiciliari. Ri­cordo i nomi di Pippo Calò, Brusca, Pul­larà. Quell’elenco lo consegnai al mare­sciallo Tempesta che lo consegnò a sua volta a Mori. Quando tor­nò con la rispo­sta, tempo dopo, mi disse che non si pote­va fare per­ché ‘C’era il go­tha di Cosa no­stra’ ma che avrei dovuto mantenere il ca­nale aperto con la possibi­lità di fare qual­cosa per un paio di nomi­nativi’. Non solo i contatti con Vito Cian­cimino quindi. Il Ros avreb­be portato avanti più canali per arrivare ad un collo­quio con Cosa nostra ed ovvia­mente i ma­fiosi alzarono subito il tiro.

Trattativa ai piani alti   Non fu quello l’unico momento in cui Gioé parlò di trattativa con Bellini. “Gioè mi parlò di una trattativa in corso coi pia­ni alti del Governo italiano ma non ne ho mai parlato perché dovevo tenermi qual­che cartuccia da sparare durante i proces­si”. Del resto Cosa nostra negli anni delle stragi era messa a dura prova in particola­re dal regime carcerario del 41 bis: “In quel periodo erano spiazzati, si lamenta­vano i familiari dei sottoposti al 41 bis a Pianosa. A dire di Gioè loro erano consu­mati, vedevano solo due strade o la morte o la galera a vita”. Bellini ha poi ripercor­so come ha incontrato e conosciuto il ca­pomafia: “Quando fui trasferito da Firen­ze a Sciacca, lì conobbi Gioè. Ci vedeva­mo tutti i giorni, lui era una persona di grande rispetto io capii che era una perso­na posizionata, ci fu una simpatia iniziale… Ha saputo la vera identità quan­do fummo trasferiti nel carcere di Paler­mo”. E in merito al ruolo attribuitogli di “suggeritore” delle stragi in continente Bellini ha dichiarato: “Su di me sono state dette tante cose ma io sono qui per rac­contare la verità. Fu Gioé a chiedermi ‘Che cosa acca­drebbe se sparisse la Torre di Pisa?’”. Un frase sinistra che appare profetica se si pensa che nel 1993 il patrimonio artistico italiano fu colpito a Firenze, Roma e Mi­lano. Frase che sarebbe stata riferita da Bellini al maresciallo Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo tutela patrimonio artistico. “Ma quando dissi al maresciallo Tempesta quella frase cosa fe­cero? Nulla di nulla” ha aggiunto Bellini.

“Aquila Selvaggia” L’ex militante di Avanguardia Naziona­le, nome in codice “Aquila selvaggia” (nel gergo usato per le comunicazioni con il maresciallo Tempesta ndr) ha anche ri­velato che nel dicembre del 1992, quando i rapporti con il militare del Nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri aveva­no avuto uno stop, era stato avvicinato da un altro ufficiale. “Una persona suonò al citofono di casa mia – ha detto – e mi chiamò col nome in codice che sapevano solo Tempesta e il colonnello del Ros Ma­rio Mori. Si presentò come un uomo del Ros e mi disse di non cercare più Tempe­sta, che il contatto sarebbe stato lui e di non venire in Sicilia perché era pericoloso in quanto ci sarebbe stata un’imminente operazione. Non ho mai parlato con nes­suno di questo, e loro non hanno più ri­chiamato” conclude il collaboratore”. Bel­lini, che aveva comunque il contatto con Gioé anche per altri motivi, non seguì quell’indicazione. “Dovetti tornare in Sici­lia per incontra­re Nino a cui dovevo dei soldi. Quando mi recai nel luogo dell’incontro, nei pressi del motel Agip di Palermo, riconobbi quell’ufficiale che tempo prima mi aveva sconsigliato il viaggio in Sicilia”. E’ a quel punto che, spaventato, Bellini sareb­be andato via da Palermo mancando l’appuntamento con il capomafia.

La lettera di Gioè “Dimenticavo di dire che mio fratello Mario nell’andare a tentare di recuperare il credito ha consegnato al creditore una tessera dello stesso creditore il che adesso mi rendo conto che quest’ultimo fosse un infiltrato; mio fratello non lo ha incontrato ed il figlio gli ha detto che il padre era ri­cercato. Supponendo che il sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scrivendo. L’ulti­ma volta che ho incontrato quest’uomo è stato presso la cava Buttitta solo per pura fatalità me lo sono fatto portare in quel posto dove ero andato per cercare di con­vincere il sig. Gaetano Buttitta a comprare del lubrificante da me…”. Questo il con­tenuto esatto della lettera rinvenuta nella cella di Gioè il 29-7-93, scritta prima del presunto suicidio.  Forse è proprio per quel mancato ap­puntamento che il capomafia aveva capito che Bellini era davvero un infiltrato anche se il sospetto che il ruolo di Bellini, come uomo vicino ad una parte dello Stato, fos­se ben chiaro ai capimafia già nel 1991 (ovvero prima delle stragi), resta.

La riunione di Enna Nel dicembre 1991 è notorio che in un casolare di Enna si tenne una riunione della Commissione regionale con tutti i capimafia per decidere in merito alla stra­tegia stragista che avrebbe dovuto portare all’eliminazione dei politici traditori (da Lima all’ex presidente del Consiglio An­dreotti) ai nemici di sempre (Falcone e Borsellino). Tra le nuove prove che i pm che indaga­no sulla trattativa Stato-mafia c’è anche una ricevuta rilasciata da un ho­tel di Enna, datata 6 dicembre 1991 ed intestata proprio a Paolo Bellini. Così come aveva fatto durante gli interrogatori con i pm, anche in aula ha ribadito che all’epoca si trovava in Sicilia per affari. “Dovevo recuperare alcuni crediti a Ca­tania e Palermo e l’unico contatto avuto con Antonino Gioé era proprio per chie­dergli aiuto su questa attività. Quel per­nottamento non era programmato per un motivo specifico ma del tutto casuale”. Una spie­gazione che non ha convinto del tutto i pm, anche perché è quantomeno singolare che, per un recupero di crediti a Catania, lo stesso abbia scelto un hotel di una città distante quasi 90 chilometri. Così l’esame è proseguito con il pm Tarta­glia che lo ha incalzato chiedendogli dei commenti di Gioé su Lima.

La morte di Salvo Lima Rispondendo alla domanda del magi­strato, che in riferimento alla morte dell’onorevole Salvo Lima ha chiesto a Bellini se Gioè gli disse mai se l’omicidio fosse servito anche per mandare un mes­saggio al presidente Andreotti, il collabo­ratore ha dichiarato: “era stato quello il senso, si. Gioé mi parlò dell’omicidio di Lima e disse che era stato fatto per dare uno schiaffo alla Dc di Andreotti perché non aveva rispettato quello che avrebbe dovuto fare a Roma per il maxi processo”. Di seguito, l’ex trafficante di opere d’arte ha parlato di un episodio avvenuto ad Enna: “Mi ricordo… si parlò, disse così…a Enna c’era… a Enna mi ricordo di una passeggiata che ho fatto per andare alla cena, c’era la saracinesca di un nego­zio abbassata.. fu il momento di una risa­ta”. L’occasione di ilarità sarebbe sca­turita dall’aver visto una scritta, sulla ve­trina, ri­ferita proprio al presidente del consiglio Giulio Andreotti. Tartaglia ha ri­lanciato: “Scusi ha detto ‘fu motivo di una risata’, ma perché c’era anche Gioè ad Enna?”. E Bellini: “No, chi ha detto Enna?”. Si è su­bito giustificato il collaboratore. “La ri­sata tra noi due mentre facevamo questo di­scorso… lui mi fece venire in mente un flash non che io ero a Enna con Antonino Gioè”. Bellini ha anche ricostruito la pro­pria storia passando dagli omicidi com­messi tra cui quello del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, alla sua affi­liazione alla ‘Ndrangheta e la latitanza sot­to falsa identità trascorsa in Brasile.

“Sono un morto che cammina” Pian piano, pur con le difficoltà dovute alla malattia da cui è affetto, che ha con­seguenze sulla memoria, ha ricostruito di­verse vicende, tra cui il periodo vissuto in cella quando era conosciuto con il nome di Roberto Da Silva. Nel suo racconto Bellini ha anche espresso uno sfogo nei confronti dello Stato come istituzione col­pevole di averlo, a suo dire, abbandonato: “Sono un morto che cammina ma faccio il mio dovere fino in fondo. Lo Stato con me ha firmato un contratto che non ha ri­spettato”. Peccato che, come ha ricordato al teste lo stesso presidente Montalto, in quel con­tratto era previsto il dover dire tutta la ve­rità mentre solo oggi ha raccon­tato la visi­ta dell’uomo del Ros nella sua abitazione, così come soltanto nel 2013 ha raccontato della “seconda trattativa”, dopo averla aveva accennata ad un gior­nalista del Re­sto del Carlino, Marco Pra­tellesi, il quale aveva scritto in merito un articolo nel 1998. Il processo proseguirà domani mat­tina con il controesame del te­ste mentre, successivamente, verrà sentito dalla corte il pentito Fabio Tranchina. I SICILIANI GIOVANI


“Un giorno Gioè mi disse: cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?”: parla Paolo Bellini, neofascista, ‘ndranghetista e in contatto con Cosa Nostra  di Claudio Cordova – Ex primula nera Avanguardia Nazionale, affiliato alla ‘ndrangheta e killer delle cosche calabresi radicate in Emilia Romagna, ma anche uomo in contatto con il boss siciliano Antonino Gioè, Paolo Bellini viene escusso nel processo “Ndrangheta stragista”, che, davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria, vede imputati Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano, uomini forti di ‘ndrangheta e mafia siciliana, accusati di essere i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e di altri attentati sul suolo calabrese, che si sarebbero inseriti nell’attacco allo Stato sferrato dalle due organizzazioni criminali allo Stato nei primi anni ’90. La deposizione di Bellini aggiunge un tassello al materiale raccolto in questi mesi, in quanto confermerebbe la volontà di Cosa Nostra di colpire lo Stato in alcuni dei suoi punti più rappresentativi, non solo l’Arma dei Carabinieri, ma anche monumenti di pregio e opere d’arte. Vita avventurosa, quella di Bellini. Segnata da ombre nere come l’oscurità di alcuni dei misteri d’Italia, ma anche da scie rosse, come il sangue delle tante vittime cadute. Bellini, oggi indagato anche per la strage alla stazione di Bologna, ripercorre la propria carriera criminale, a cominciare dal primo omicidio, quello dell’attivista di Lotta Continua, Alceste Campanile, avvenuto nel 1975. Una vita spesa non solo per i gruppi neofascisti, ma anche al servizio della ‘ndrangheta e, in particolare, alla famiglia Vasapollo-Ruggero, stanziata in Emilia Romagna: anche per i clan calabresi, Bellini continuerà la propria opera di killer. Poi, in uno dei tanti periodi di detenzione, l’incontro che cambia la vita, quello con il boss mafioso Antonino Gioè, all’interno del carcere di Sciacca. Con il boss, poi morto suicida nel 1993, Bellini instaura un rapporto stretto, confidenziale e riesce a entrare in possesso di informazioni, in parte riversate anche al Ros dei Carabinieri quando, come sostiene in aula, diventerà “un infiltrato di Cosa Nostra”. Proprio da Gioè, Bellini avrebbe appreso del proposito da parte della mafia di colpire luoghi simbolo della nazione italiana: “Un giorno Gioè mi disse: cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?” scandisce in aula Bellini. Affermazioni, quelle del mafioso, che sarebbero potute avvenire, forse, anche per lanciare un avvertimento ai pezzi dello Stato, con cui da sempre si diceva che Bellini fosse in contatto, quali i servizi segreti. L’ex Avanguardia Nazionale, infatti, non nega i propri rapporti con il Ros dei Carabinieri e racconta anche delle confidenze personali di Gioè: “Mi disse che con la massoneria di Trapani erano ben introdotti”. Ma non solo. “Ci hanno consumati”. Bellini ricorda la frase pronunciata da Gioè sul fatto che, evidentemente, Cosa Nostra sarebbe stata usata da pezzi deviati dello Stato. Secondo il racconto di Bellini vi sarebbe stata, oltre alla trattativa di cui lui si stava direttamente occupando denominata “delle opere d’arte” (quella con cui entrerà in contatto con i carabinieri), una seconda trattativa, che avrebbe visto il coinvolgimento di uomini delle istituzioni e uomini di Cosa nostra con l’inserimento di un ulteriore ambito americano grazie ai contatti di Totò Riina nel Nuovo Continente: “Gioè mi disse che c’era questa specie di triangolo, tra la mafia, gli Stati Uniti e i piani alti del governo italiano”

La morte del boss Gioè non fu un suicidio  di Aaron Pettinari – 27 ottobre 2013 antimafia duemila  Era la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993 quando il boss di Altofonte Antonino Gioè  venne ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui trascorreva la detenzione nel carcere di Rebibbia. Erano trascorse appena poche ore dalle bombe delle stragi di via Palestro a Milano e delle due basiliche di Roma. Le indagini ufficiali bollano il fatto come un suicidio. Secondo gli inquirenti di allora con quel gesto il capomafia, che si trovava a Punta Raisi il giorno della strage di Capaci, si sarebbe tolto la vita prima che fosse la stessa Cosa nostra ad intervenire. C’erano intercettazioni in cui il boss aveva parlato dell’ “Attentatuni” ed anche altri riferimenti su possibili attentati al Palazzo di Giustizia di Palermo o contro gli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Pianosa. E nella conversazione intercettata dalla Dia c’è anche un riferimento al suo “padrino”, Leoluca Bagarella. “Ma ‘ stu Bagarella cu cazzu si senti? Oh, lo dico per scherzare, ah” disse al telefono. Ma queste non sono prove schiaccianti sulla morte, e quei fatti non hanno mai convinto troppo. Vi fu anche un’indagine giudiziaria a carico di tre agenti penitenziari che furono indagati per istigazione al suicidio di Gioè, ma vennero prosciolti senza chiarire i dubbi. E proprio partendo dal faldone di quest’ultima indagine che i due giornalisti Maurizio Torrealta ed Emanuele Lentini sono partiti per pubblicare un’inchiesta sull’ultimo numero del settimanale LeftLa conclusione a cui arrivano è semplice: è impossibile che Gioé si sia impiccato. Nel faldone i giornalisti hanno rinvenuto le foto scattate in quella notte nella cella. I segni della corda sul collo non vanno verso l’alto, come sarebbe lecito aspettarsi se si fosse appeso alla grata, ma verso il basso il che fa pensare più ad una corda tirata da qualcuno. Anche l’autopsia fornisce diversi elementi che andrebbero chiariti. Gioè aveva la sesta e la settima costole di destra fratturate “a causa del massaggio cardiaco praticato su di esso”. Singolare che queste siano leultime due costole della gabbia toracica mentre il massaggio cardiaco si esegue ben più in altro ad altezza del plesso solare. I due giornalisti pongono anche l’attenzione su una escoriazione in fronte a destra e una ecchimosi bluastra al sopracciglio sinistro, come se in quei punti fosse stato colpito. Senza considerare che il rachide cervicale era intatto, e ciò significa che il boss di Altofonte non è morto per la classica strattonata dell’impiccagione. Sotto accusa di Torrealta e Lentini anche la ricostruzione dei fatti messa a verbale dagli agenti per cui Gioé si sarebbe ucciso con un rudimentale cappio fatto con i lacci delle scarpe da ginnastica, quindi si sarebbe appeso alla grata della finestra. I giornalisti sottolineano, osservando le foto, “che è impossibile che un uomo possa suicidarsi appendendosi a una grata della finestra sotto la quale è collocato un tavolo che rende impossibile che il corpo rimanga sospeso”. Ed è su quel tavolo che erano stati rinvenuti anche tre fogli scritti a mano da Gioè. “Stasera ho ritrovato la pace e la serenità che avevo perduto 17 anni fa” aveva scritto il boss. Per gli inquirenti un semplice ultimo addio. Per gli autori dell’inchiesta di Left la possibilità di una futura collaborazione con la giustizia. Del resto Gioè è anche uno degli uomini chiave della trattativa Stato-mafia, non solo perché a lui si era rivolto il cugino Francesco Di Carlo dopo un incontro “con agenti segreti che parlavano inglese e italiano”, ma anche per quegli incontri con Paolo Bellini, estremista di destra, depistatore, nonché esperto d’arte. Torrealta e Lentini ricordano anche come il magistrato Loris D’Ambrosio, consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sospettava che Gioè fosse stato ucciso. A Nicola Mancino, in una delle intercettazioni con l’ex Ministro, diceva: “Questa storia del suicidio di Gioè secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso… non è mica chiaro a me questa cosa”. Ai magistrati di Palermo ha poi spiegato: “A me quel suicidio non mi è mai suonato… Insomma che cosa in realtà è accaduto nelle carceri in quel periodo, questa è la vera domanda che mi pongo io al di là del 41 bis… insomma questo suicidio così strano… ecco mi… ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”. Un turbamento interiore che aveva manifestato anche al Presidente della Repubblica Napolitano nella sua lettera di dimissioni (poi respinte) in cui scriveva “vivo timore di essere stato considerato un umile scriba usato come scudo ad indicibili accordi”. Vent’anni dopo dubbi e misteri su quel suicidio tornano a galla. Ed è forse ora di fare veramente luce su questi fatti.

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore  Centro Studi Sociali contro la mafia – PS