1992, l’anno che cambiò l’Italia

 

Trent’anni fa una serie di eventi cambiò l’Italia. Si va dalle stragi di mafia di Falcone e Borsellino all’esplosione di Mani pulite. 
Lo storico ENZO CICONTE, tra i massimi esperti delle mafie,  rivela gli intrecci inquietanti del 1992 con una serie di domande ancora attuali come questa: perché era necessario eliminare chi avrebbe potuto far luce su un rapporto dedicato a mafia e appalti contenente nomi di imprenditori del Nord?

 

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Perché il 1992 fu l’anno che cambiò l’Italia di oggi

Il 1992 è un anno complesso, denso di avvenimenti importanti. Mani pulite e le stragi sono sicuramente fatti perio­dizzanti e hanno la forza di cambiare il corso della storia d’Italia. Nulla, dopo di allora, rimarrà come prima. «Anno traumatico», lo definisce Guido Crainz, «anno rivelatore». È l’anno che svela un ceto politico sprofon­dato nella corruzione. Milano ne è l’epicentro e si scopre una città fragile, smarrita, che non ha più lo smalto e il luccichio degli anni passati; la Milano da bere ha l’immagine sfregiata e ha perso l’egemonia morale. Ora è il cuore di un terremoto politico che sconvolgerà i partiti e decreterà la fine di alcuni.
Al di là della lotta politica del tempo e mettendo nel conto anche gli errori, tanti e reiterati, commessi dai ma­gistrati, la corruzione era un dato di fatto accertato non solo dai magistrati del pool di Milano o di altre città, ma presente da tempo immemorabile nella storia del nostro Paese sin dall’Unità d’Italia. Se ne era accorto, tempo prima, un fine intellettuale come Italo Calvino che il 15 ottobre 1980 aveva scritto su “la Repubblica”: «C’era un Paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia». 
L’armonia richiamata da Calvino si rompe nel 1992. Perché in quell’anno? Innanzitutto perché c’è una ma­croscopica debolezza dei partiti, che oramai sono percepiti come macchine di potere, attraversati da scorribande di uomini spregiudicati, rampanti, ossessionati dal denaro e dal potere, e sono occupati da uomini immobili e inamovibili, gli stessi che sono responsabili delle misere condizioni dell’economia e che hanno portato l’Italia sull’orlo di un precipizio. In secondo luogo perché c’è una crisi economica devastante, che viene da lontano e che rende oramai non più praticabile da parte delle im­prese il pagamento di esose tangenti. Milano suona il de profundis per il sistema dei partiti che hanno liberato l’Italia e hanno fatto la Repubblica. In Sicilia risuonano i rintocchi delle campane a morto per le stragi di Capaci e via d’Amelio, a distanza di poco tempo l’una dall’altra.
C’è un legame tra i due fatti o quello che succede a Milano non ha nulla a che vedere con quello che succede a Palermo? Un legame c’è, e sta nel rapporto che lega pezzi consistenti della politica all’imprenditoria, che si fa corrompere e che corrompe, sia a Milano che in Sicilia: qui al binomio politica-imprenditoria si aggiunge la mafia, in un infernale triangolo che ha condizionato l’isola a lungo; e non solo l’isola, perché ci sono molte imprese del Nord che agiscono esattamente come quelle siciliane.
Quello che avviene in quell’anno sorprende tutti: forze politiche, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine, in­tellettuali. Nessuno aveva previsto che la corruzione potesse avere quella profondità e sarebbe esplosa in modo così dirompente; che la Lega Nord per l’indipendenza della Padania avrebbe avuto quella forza attrattiva nelle regioni più ricche e avanzate del Paese; che gli imprenditori e le imprese avessero incorporato nel loro modus operandi la corruzione su vasta scala, arrivando a intrecciare rapporti frequenti e non episodici con i mafiosi; che Cosa nostra potesse arrivare a tanto, e arrivò a tanto, perché volle agire sul piano politico-criminale, portando alle estreme conseguenze una mutazione avviata sin dalla fine degli anni settanta, utilizzando sempre di più – lo scrisse il 16 novembre 1979 su “Rinascita” Pio La Torre – una modalità terroristica.

Il fatto che le due stragi si siano verificate a così poco tempo l’una dall’altra ha fatto sollevare non pochi interro­gativi. Sono stati solo i mafiosi o hanno agito anche altri? Che a Capaci e a via D’Amelio non abbia agito solo la mafia sono in tanti a pensarlo. Se si guarda alle stragi del 1992 è lecito dire che, per Cosa nostra, s’è trattato di un tragico errore di valutazione, perché lo Stato lanciò una controffensiva che mise all’angolo la mafia e creò le condizioni per la distruzione di tutti i corleonesi. Se allarghiamo lo sguardo ad altri episodi è possibile osservare che un errore simile era stato commesso esattamente dieci anni prima, quando erano stati assassinati a distanza di pochissimo tempo prima Pio La Torre e poi Carlo Alberto dalla Chiesa, spingendo il Parlamento ad approvare nel giro di pochi giorni la legge Rognoni-La Torre, legge che non era stata approvata dopo l’uccisione di La Torre. Da allora, la legge è stata l’architrave che ha permesso di portare a termine con successo tante indagini e operazioni antimafia fino a oggi, la legge più importante della corposa legislazione antimafia, la legge che ha prodotto i maggiori risultati e i maggiori danni ai mafiosi, a cominciare dalle condanne del maxiprocesso di Palermo. A distanza di quarant’anni si staglia nitidamente la forza di quella legge.
Nel 1992 il capo di Cosa nostra era Totò Riina, lo stesso che comandava la commissione provinciale nel 1982. Era davvero convinto che lo Stato non avrebbe reagito o qualcuno aveva dato assicurazioni in tal senso? Aveva fatto tutto da solo o c’era qualcuno che chiedeva, pretendeva, suggeriva cosa fare? Sbagliò solo lui? O invece non si trattò di un errore, ma di un disegno, perché da Nord a Sud era necessario cambiare radicalmente e bruscamente una classe dirigente benemerita per il passato, ma oramai inservibile per il presente e per il futuro? La strage di Capaci portò infatti alla sconfitta di Andreotti nella sua corsa al Quirinale. Azzoppato, da lì a poco sarebbe sta­to messo sotto accusa in Commissione antimafia e sotto processo dalla magistratura palermitana. Oppure, più prosaicamente, la strage di via D’Amelio fu portata a termine così rapidamente perché era necessario eliminare chi avrebbe potuto ostacolare la trattati­va imbastita dagli uomini del ROS, o avrebbe potuto far luce su un rapporto preparato dal ROS dei carabinieri su mafia e appalti che poteva rappresentare un pericolo per imprenditori del Nord, che si sarebbero sentiti minacciati? Perché uccidere Borsellino a distanza di così poco tempo da Falcone, accelerando bruscamente l’assassinio? Davvero i vertici di Cosa nostra pensavano che lo Stato non avrebbe reagito in tutte le sue articolazioni e con la maggiore forza possibile?
O c’è stato chi ha dato assicurazioni in tal senso? Qual era il pericolo immediato che rendeva indifferibile l’eliminazione di Borsellino? Qualcosa di parti­colarmente grave ci deve essere stato, se è vero che c’è stato un depistaggio di proporzioni inaudite. Perché a un certo punto la fretta s’impadronì di Riina che, secondo il collaboratore di giustizia Gangemi, volle «fare veloce»? Sono tutti interrogativi che non hanno una risposta, se non parziale o monca.
Nella storia d’Italia non c’è mai stato un solo motivo per un omicidio di un certo rilievo; ci può essere un mo­tivo scatenante, ma non è mai l’unico e, a volte, neanche il più importante. C’è di solito una «convergenza di inte­ressi», per citare un’espressione usata nel rinvio a giudi­zio del maxiprocesso, tra mafiosi e altri che mafiosi non sono.
A Giorgio Bocca, che chiede perché è stato ammazzato La Torre, il prefetto dalla Chiesa risponde: per tutta una vita. Proprio così: per tutta una vita. Ma questo vale non solo per La Torre ma anche per dalla Chiesa, Falcone e Borsellino.

 


Enzo Ciconte è docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia. Dal 1997 al 2010 è stato consulente presso la Commissione parlamentare antimafia. Il suo libro ’Ndrangheta dall’Unità a oggi (Laterza, Bari 1992) è il primo studio a carattere storico sulla ’ndrangheta. Fra i suoi altri libri Dall’omertà ai social. Come cambia la comunicazione della mafia (Edizioni Santa Caterina), La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, (Laterza), Classi pericolose. Una storia sociale della povertà dall’età moderna ad oggi (Laterza).

LIBRI DELL’AUTORE


 

A cura  di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie