Intervista con Leonardo Agueci, il magistrato che volle tornare a lavorare in Sicilia quando uccisero Giovanni Falcone
Il gruppo “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” , in collaborazione con l’Osservatorio Veneto sul fenomeno mafioso, da anni si occupa di legalità con progetti scolastici e raccolta di documenti storici. Per comprendere meglio la vita e la professione di chi giornalmente si occupa del contrasto alla criminalità organizzata in Sicilia, abbiamo posto alcune domande al magistrato Leonardo Agueci.
Procuratore Aggiunto presso la DDA di Palermo e da 40 anni in Magistratura, Agueci ha quasi sempre svolto le funzioni di Pubblico Ministero. Con una grande esperienza nelle indagini su Cosa Nostra, dal 1992 Agueci vive e lavora a Palermo, dove chiese di essere trasferito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita Giovanni Falcone e la moglie, anche lei magistrato, Francesca Morvillo, insieme ai tre agenti di scorta: Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo.
Dottore Agueci, innanzitutto la ringraziamo per aver accettato questa intervista e averci dedicato parte del suo preziosissimo tempo. Ecco la nostra prima domanda: quando si iscrisse a Giurisprudenza desiderava già seguire la carriera in Magistratura o questo desiderio si formò durante gli studi?
“Mi sono iscritto a Giurisprudenza (dopo molti dubbi), con il chiaro ed unico desiderio di fare il magistrato, anche se ero consapevole della difficoltà del concorso, che ho sempre temuto – fino all’ultimo giorno – di non essere capace di superare”.
Consiglierebbe ad un ragazzo di iscriversi a questa facoltà? E se sì perché?
“Certamente sì e per molti motivi. Anzitutto, ma non solo, perché consente – anzi, impone – di operare per l’attuazione di uno dei massimi valori di qualsiasi società, che è quello di “fare giustizia”. E poi, perché comporta l’acquisizione di una professionalità approfondita ed estesa a tanti campi, che si deve continuamente “rinfrescare” e che per questo ti mette continuamente alla prova e ti fa mantenere intellettualmente vivo. Ed ancora l’orgoglio – e la responsabilità – di costituire il punto di riferimento delle aspettative di tanta gente. E, soprattutto, la prerogativa impareggiabile di essere liberi delle proprie decisioni, che nessun’altro – oltre alla propria coscienza – può imporre od ordinare…. e per molte altre ragioni ancora…”
Ha dovuto affrontare molte rinunce e sacrifici per questa professione? Qual è la cosa che pesa di più nel suo lavoro?
“Certamente fare il magistrato comporta diverse cautele e limitazioni, specialmente nella propria vita di relazione, perché ci si porta sempre appresso l’immagine pubblica legata al proprio ruolo sociale ed alla propria attività con cui si devono in ogni momento fare i conti.
Farlo a Palermo, poi, in un contesto di forte esposizione a rischio, incide fortemente sulle possibilità di coltivare pienamente i propri affetti più cari, per il costante timore di coinvolgere le persone care in inopportune situazioni pericolose”.
Lei entrò in Magistratura nel 1975, quindi già quaranta annidi carriera, quasi esclusivamente come Pubblico ministero, iniziando in Lombardia. Secondo lei all’epoca perché non si riuscì a comprendere che la mafia e la ‘ndrangheta stavano mettendo radici ovunque nel nord Italia? Perché il problema fu sottovalutato?
“Devo dire allora che, rispetto a quarant’anni fa, la situazione – con riferimento specifico alla cultura della legalità ed al contrasto alla criminalità organizzata – è certamente migliorata, se solo si pensa che allora la “legalità” era un concetto sconosciuto, volutamente ignorato o bollato, al massimo, come scontato slogan propagandistico; nel mondo della politica, dell’economia e – purtroppo – spesso anche delle istituzioni, prevaleva a quel tempo la convinzione che con la criminalità organizzata fosse possibile ed utile stringere accordi di potere, con l’illusione di poterla sempre tenere sotto controllo”.
Il 23 maggio e 19 Luglio 1992 hanno segnato la vita di molti di noi, a maggior ragione avranno segnato la vita dei colleghi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Quanto è stato difficile lavorare dopo quei giorni?Si sentiva una maggiore responsabilità tra di voi?
“L’attentato a Falcone, e l’intollerabile spirito di rassegnazione e l’inaccettabile distacco dalla realtà, che ho colto in gran parte dei colleghi che allora frequentavo (all’epoca vivevo a Roma), mi ha spinto a chiedere di andare a Palermo per un’esperienza di lavoro che avrebbe dovuto essere limitata nel tempo, ma che poi ha finito per essere definitiva.
A sua volta, l’attentato di via D’Amelio, con il senso di abbattimento che ne è sul momento seguito (rappresentato da quella famosa drammatica frase di Antonino Caponnetto: “è finito tutto”) e con l’esplosione di rabbia da parte di moltissima gente comune, hanno costituito la spinta, per tanti di noi, a reagire con tutte le forze per contrapporsi con rinnovata ed instancabile energia a tanta barbarie”.
Quelle stragi, insieme alla legislazione premiale sui collaboratori, del 1991, furono la spinta anche per una possibile e maggiore incisività della Giustizia.Cosa nostra iniziò a diminuire il suo potere, addirittura i cartelli sudamericani iniziarono a non fidarsi più della mafia siciliana a causa dei “pentiti”, dirottando gli affari su quella calabrese (come riportato da vari libri di Gratteri e Nicaso). I collaboratori sono ancora oggi spina nevralgica della giustizia, tra alti e bassi. Una raccomandazione di Giovanni Falcone, negli anni ’80, era la base per chi all’epoca si occupava di pentitismo.
“Le rivelazioni dei pentiti devono essere valutate per quello che sono, spesso chiamate in correità o notizie apprese de relato, ma se non assistite da riscontri estrinseci restano un mero, equivoco indizio e non vi sono ostacoli giuridici all’utilizzazione di indizi come mezzi di prova. Il problema è valutare l’attendibilità con saggezza e oculatezza. Ma va puntualizzato che bisogna sempre adoperarsi per cercare riscontri obiettivi a tali dichiarazioni”.
Cosa resta di quella frase quando dovete valutare un collaboratore?
“Le considerazioni di Giovanni Falcone sono più che mai attuali (e non potrebbe essere diversamente!).
Le molteplici esperienze acquisite nel corso degli anni hanno sistematicamente dimostrato che i collaboratori di giustizia costituiscono uno strumento fondamentale per fare luce, anche a distanza di molti anni, sulle vicende, i delitti e le ricchezze degli esponenti del crimine organizzato.
Devono però essere trattati con molta prudenza, equilibrio ed attenzione, perché il percorso della collaborazione non è mai lineare, immediato ed esplicito (ed anzi, quando lo è senza incertezze, si tratta di un chiaro campanello di allarme!); ogni dichiarazione, poi, acquista valore solo se si rivela priva di qualsiasi genere di suggestioni o condizionamenti e, soprattutto, se adeguatamente sostenuta da oggettivi riscontri, sia storici che logici. Ed infine, occorre costantemente vigliare dal rischio di incappare in calunniatori o mitomani”.
Il suo ufficio si è occupatoancora una volta, di Corleone, paese simbolo di una lunga stagione di sangue. Le indagini hanno portato degli arresti ma stavolta con la novità di imprenditori che si sono ribellati alle estorsioni. Quasi un simbolo come a riappropriarsi del proprio paese, della loro libertà. Diciamo che stavolta c’è stata una risposta del popolo corleonese all’inchino di qualche mese fa. Da cosa è nato il coraggio di questi imprenditori? Quale è la scintilla che ha dato il via?
“Corleone è il simbolo di una mafia ancora oggi molto radicata sul territorio, presso ampi e trasversali settori della popolazione. In zone come questa l’opera di affermazione della legalità è – ancora oggi – particolarmente difficile, perché si scontra con antichi ed insuperati atteggiamenti di sfiducia e diffidenza (se non vero e proprio disprezzo) verso le istituzioni pubbliche ed i loro rappresentanti verso radicate.
Qualcosa però sta cambiando anche qui, grazie all’impegno ed alla limpida condotta di coloro che si sono prodigati per contrapporsi alla mafia sul piano dei comportamenti concreti.
Gli effetti positivi cominciano ad affiorare, ma siamo appena agli inizi”.
Quale ruolo possono avere i giovani nella lotta alla mafia oggi, come può la cosiddetta “generazione del ’92” far fruttare gli ideali lasciati in eredità dai Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qual è la via da seguire per diventare quelle “idee che camminano sulle gambe di altri uomini”?
“Un ruolo determinante! I veri destinatari di tutto quello che si è cercato di costruire in questi anni, in tema di cultura di legalità, sono proprio le giovani generazioni, che dovranno essere capaci di assorbirne il valore e far divenire la legalità una pratica concreta e naturale di vita (come certamente non è stato fino ad ora) e di impegnarsi per difenderla ad ogni costo, come un vero bene comune, anche nella difficilissima realtà sociale ed economica che oggi devono affrontare”.
La scuola ha un ruolo fondamentale per i ragazzi e la cultura della legalità, come si può evitare che negli istituti entrino soggetti che poi sono dei falsi “addetti ai lavori”, falsi tecnici che parlano di legalità ai ragazzi? A volte sembra quasi che le scuole adottino progetti esclusivamente per ottenere introiti e prestigio, come si può evitare tutto questo? L’antimafia di facciata negli Istituti scolastici è pericolosissima come in tutte le associazioni.
“Sempre più spesso assistiamo a fenomeni di antimafia finta, strumentale ed interessata.
E’ del tutto evidente come ciò sia molto dannoso per la credibilità di tutti noi, perché la mafia è maestra nell’opera di discredito dei suoi avversari, attraverso la generalizzazione degli errori dei singoli.
Tocca a noi proteggerci da questo rischio adoperandoci senza riguardi per fare emergere, prima che lo facciano gli altri, i comportamenti strumentali ed incoerenti nel campo dell’antimafia, ma – soprattutto – adottando in ogni occasione condotte ineccepibili”.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione professionale? E la più grande delusione?
“Vorrei evitare di rispondere direttamente a questa domanda, perché coinvolge emozioni e ricordi assolutamente personali, che vanno mantenuti riservati.
Posso dire che le soddisfazioni maggiori mi sono venute dalle manifestazioni di gratitudine da parte di vittime di fatti di violenza, o anche solo di cittadini comuni, che hanno colto l’impegno che si è profuso nell’individuare e far condannare gli autori dei delitti che li hanno coinvolti.
Al contrario, le delusioni più brucianti sono venute quando nonostante tutto l’impegno, non sono riuscito a realizzare l’obiettivo di giustizia che mi ero prefissato, oppure quando la delusione ha riguardato me stesso per non essere stato capace – per le ragioni più diverse – di affrontare nel modo adeguato alcune situazioni che avevo davanti”.
Perché in Italia è così difficile estirpare la mentalità mafiosa per poter risentire “quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale”? Cosa possiamo fare per il futuro dei nostri ragazzi?
“Come ho già detto, ci troviamo spesso a fare i conti con mentalità e convinzioni radicate nel tempo e molto diffuse. Tante volte, poi, le istituzioni ed i rappresentanti della Legge hanno dato cattiva prova di sé, fornendo argomenti a chi sta dalla parte della mafia. Per queste ragioni, ribadisco ancora che la nostra principale preoccupazione deve essere quella del buon esempio, e quindi di adottare in ogni occasioni comportamenti concreti e trasparenti che mettano in pratica le cose che diciamo.I giovani ci osservano e sono critici severi, che non perdonano doppiezze ed ipocrisie”.
“La mafia non è affatto invincibile. È un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha avuto un inizio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.” Dottor Agueci anche lei è speranzoso come lo era Falcone?
“Le vicende degli ultimi vent’anni, che hanno visto un deciso arretramento della mafia, nonostante le contraddizioni, gli sbagli, ed i tradimenti di tanti uomini delle istituzioni, dimostrano certamente che la mafia si può vincere, ma solo – evidentemente – a condizione che si voglia davvero farlo”.
Un’ultima domanda: cos’è il coraggio?
“Per la mia esperienza, significa avere piena consapevolezza che fare il proprio dovere in certe occasioni comporta dei pericoli, anche elevati, e tuttavia non farsene condizionare, specialmente nei momenti cruciali”.
LA VOCE DI NEW YORK 24.1.2017