19 Gennaio 2023 ROBERTO GRECO – Gli Stati Generali
Lo scorso 16 gennaio il ROS dei Carabinieri, coordinati dal Procuratore De Lucia e dall’aggiunto Guido, ha arrestato Matteo Messina Denaro. La primula rossa di Castelvetrano stava, con estrema tranquillità, seguendo un ciclo di terapie presso la Clinica La Maddalena, a Palermo. Documenti in regola, anche se la carta d’identità e la tessera sanitaria in suo possesso erano intestate a un’altra persona, uso disinvolto dello smartphone a seguito di quanto comunicato dagli investigatori, viveva la sua latitanza in una modalità definibile irrituale, visto che si trattava del latitante più pericoloso e più ricercato. Nessun bunker sotterraneo in cui non entrava la luce del sole, nessun casolare sperduto nelle campagne. Una latitanza, che di per sé dimostra l’arroganza e il senso di onnipotenza del boss, alla luce del sole. Un’abitazione tradizionale, ottime relazioni con i vicini di casa, frequentazioni regolari di esercizi pubblici di quella Campobello di Mazara in cui ha vissuto per il suo ultimo periodo di libertà.
Un nuovo modello di latitanza che, per assurdo, ha costretto gli investigatori a utilizzare metodi d’investigazione desueti, quei metodi che caratterizzarono il contrasto alla criminalità mafiosa negli anni ’70 e ’80. Un modello d’investigazione senza l’ausilio di pentiti o collaboratori di giustizia, in cui le intercettazioni sono state elemento fondamentale per la riuscita dell’operazione.
La stampa, non tutta ma in prevalenza, si è adattata al mutare dei tempi. Il ritratto fornito del boss usa le medesime tecniche con cui si raccontano gli ospiti del Grande Fratello Vip, fornendo particolari che assomigliano più al gossip che non alla cronaca. Una stampa che ha spremuto fino all’osso le sue fonti per riuscire ad essere la prima a raccontare finanche il colore delle mutande che il boss indossava nel momento dell’arresto.
Boss? Capo dei capi? In realtà Matteo Messina Denaro non era propriamente il capo dei capi di Cosa Nostra ma sicuramente era il capo mandamento della mafia di Trapani, una mafia cha ha ormai tirato i remi in barca.
Ultimo erede di quelli che furono i corleonesi di Totò Riina, che ebbe sempre parole di stima per il rampollo della famiglia Messina Denaro, di quella mafia stragista che è già morta e sepolta. Quella mafia stragista che, dopo il 1993, si trasformò spesso usando l’antimafia come nuovo strumento di controllo popolare. Quella mafia che è riuscita a contaminare definitivamente tutti i livelli della nostra società attraverso la sua infiltrazione anche nei settori sani della politica, dell’imprenditoria e dell’associazionismo di classe.
Quella mafia che ha svecchiato il ruolo di banale vessatrice attraverso una sostituzione all’interno dei centri potere. Quella mafia che, dopo la strada aperta negli anni ’80, ha definitivamente occupato l’area grigia che l’ha sempre circondata, quella che il Procuratore De Lucia ha definito «borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro». Una mafia che non conosciamo anche se condiziona il nostro quotidiano.
La cosa che ha stupito, anche se sembra che pochi se ne siano accorti, è stata la reazione di quella che è definita la società civile, soprattutto quella che spesso e volentieri scende in piazza sventolando i suoi simulacri, simboli della (ri)scossa. Un’antimafia populista che ha dovuto, pur senza ammetterlo, registrare la sua prima grande sconfitta. Molti non hanno gioito, come avrebbe dovuto essere, per l’arresto di Messina Denaro proprio perché quest’operazione ha tolto dalla scacchiera il loro nemico, quel nemico che li autorizzava a sopravvivere nonostante la loro inutilità e che, proprio lo scorso anno nel trentennale delle stragi del ’92, si era liquefatta come neve al sole.
Ma quando manca il nemico da combattere cosa si fa? Si ribadisce che la Spectre non può rimanere senza un capo, ecco quindi il nuovo nemico, e che questo arresto dimostra non che lo Stato sia riuscito a far cessare una latitanza durata trent’anni, ma che in realtà si tratti di una resa concordata. Si continua a gridare a voce alta la parola trattativa, si sminuisce il lavoro degli investigatori e anzi li indica come pupi. Lo si definisce un arresto senza onori e senza gloria ma di convenienza reciproca.
Ma l’antimafia populista non era in piazza, più impegnata a scrivere dissennatamente post sui social e a partecipare a dibattiti televisivi cercando di puntualizzare, ridicolmente, i tratti del grande complotto di cui siamo tutti vittime. Un’antimafia populista che, rimasta senza nemico, dichiara guerra allo Stato, sostituendosi così alla mafia.
Bisognerà sicuramente indagare per scoprire chi e come ha agevolato la sua dorata latitanza, sarà necessario scoprire i suoi segreti e i suoi veri sodali in un tempo in cui gli stessi pizzini e i libri mastro non hanno più ragione di esistere perché bisognerà, forse, rintracciare un cloud custodito in un angolo remoto del mondo. Si dovrà cercare di capire cosa sia diventata oggi la mafia, di quali capitali dispone, in quali tavoli internazionali il nuovo modello di mafioso siede e dal quale gestisce gli enormi patrimoni. Segreti indicibili o incapacità di leggere il presente? Cadranno molte teste, forse. Molti commentatori televisivi, sbandieratori della trattativa perpetua e diventati ormai professionisti dell’antimafia, mi scusi Sciascia per la citazione, sono destinati a rimanere disoccupati in attesa di un diverso spunto cui aggrapparsi per ottenere notorietà. Servirà un atto di dolore, un profondo mea culpa da parte di quanti, molti, hanno deciso di convivere, per interessi personali o per pavidità, con la mafia.
Ma sarà anche necessario analizzare, capire e curare quel contesto di micro collusioni quotidiane, per riuscire definitivamente, a (ri)educare non solo i ragazzi nelle scuole ma tutta la società che, ancora una volta, ha dimostrato di non meritare l’appellativo civile.