La mafia ci deruba di libertà e speranza, ma anche del nostro patrimonio di arte e cultura. Il ruolo dei Messina Denaro nel traffico illecito e nella distruzione di opere e reperti.
Come un parassita, la mafia logora, inquina e impoverisce le terre dove prolifica, derubandoci della speranza, della libertà, delle risorse sociali, economiche, naturali. Ma anche del nostro patrimonio di arte e cultura, e dunque di un’incommensurabile ricchezza materiale e civile. Anche questa nefandezza, fra le tante, è imputabile a Matteo Messina Denaro, finalmente arrestato a Palermo dopo una latitanza durata trent’anni. “Con il traffico di opere d’arte ci manteniamo la famiglia”, scrisse il boss in uno dei suoi pizzini. E non esagerava: insieme con la droga e le armi, infatti, questo business illecito (uno dei più redditizi a livello mondiale) ha una fondamentale importanza per le organizzazioni mafiose, che traggono vantaggio anche dal fatto di operare in una pericolosa linea d’ombra tra commercio legittimo e illegittimo difficile da indagare.
“È stato don Ciccio a trasmettere a suo figlio Matteo l’amore per l’archeologia”, raccontava Giovanni Brusca: Matteo Messina Denaro e, prima di lui, il padre Francesco, tra i primi tombaroli a saccheggiare l’area archeologica di Selinunte, tenevano in mano una catena commerciale che, dalla Sicilia passando per la Svizzera, per decenni ha convogliato reperti archeologici di vario tipo e valore in alcune delle collezioni più celebri e ricche del mondo, tra cui il Getty Museum di Malibu. L’intermediario era un altro “amante dell’archeologia” arricchitosi proprio con i proventi del traffico illecito alimentato da ricettatori e tombaroli al servizio dei Messina Denaro: Gianfranco Becchina, nato a Castelvetrano ma dagli anni Settanta proprietario di una galleria a Basilea, la Antike Kunst Palladion, e ricchissimo trafficante di bellezza. A ricollegare questi movimenti con la famiglia sono diversi pentiti, tra cui Rosario Spatola e Giuseppe Grigoli, il quale ha riferito di “buste piene di soldi” inviate al boss. La scoperta delle sue attività ha portato al recupero di un sarcofago romano in vendita per quattro milioni di dollari (oggi conservato nei magazzini del corpo dei Carabinieri specializzato nella tutela del patrimonio, a Trastevere) e al sequestro di migliaia di reperti antichi che venivano immessi nei più lucrosi livelli del mercato antiquario internazionale, mentre nel mirino del boss sarebbe entrato anche il meraviglioso Satiro danzante di Mazara del Vallo scoperto nel 1998, salvatosi dal furto solo per caso. È importante tenere presente che le attività dell’archeomafia (termine specifico coniato da Legambiente in analogia con quello di ecomafia), oltre a sottrarre alle comunità locali e alla collettività un’enorme ricchezza e preziose testimonianze della nostra cultura, comporta la devastazione irresponsabile e selvaggia dei luoghi d’origine.
Per la criminalità organizzata, del resto, il traffico e il furto di opere d’arte e di reperti archeologici è meno rischioso di altri (minore sorveglianza e tracciabilità, pene inferiori, facilità di accesso ai siti), ma è stato anche strumento per esercitare un potere intimidatorio nei confronti dello Stato: secondo diversi racconti, gli obiettivi per gli attentati stragisti del 1993 furono scelti da Matteo Messina Denaro con un preciso criterio basato sul valore storico-artistico e simbolico dei luoghi colpiti: i Palazzi Lateranensi e il Velabro a Roma, Via dei Georgofili vicino gli Uffizi a Firenze, Via Palestro sotto il Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano.
A prestar fede alle dichiarazioni del pentito Vincenzo Calcara, inoltre, la famiglia Messina Denaro sarebbe anche dietro uno dei più famosi furti d’arte a stampo mafioso di tutti i tempi, che a Leonardo Sciascia ispirò il romanzo Una storia semplice del 1989 e si trova ai primissimi posti tra i Top Ten Art Crimes dell’FBI: si tratta della Natività con San Francesco e San Lorenzo di Michelangelo Merisi da Caravaggio, opera tarda del pittore lombardo trafugata la notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo (dove dal 2015 si trova una copia realizzata da Factum Arte) e da allora mai più ritrovata. Molte, del resto, sono le ipotesi circa il destino di questo dipinto: rubato a scopo minatorio, forse semplicemente per screzio, tuttora presenzierebbe le riunioni dei boss in un luogo misterioso; oppure, sarebbe stato trasferito in Svizzera da Gaetano Badalamenti, o tagliato in più parti per essere spacciato nel mercato clandestino; nascosto in una stalla e ridotto in brandelli da topi e maiali, secondo Gaspare Spatuzza; oppure usato come arma di ricatto per ottenere un alleggerimento del 41 bis, secondo Giovanni Brusca.
Comunque, c’è da credere che su questo mistero il boss di Castelvetrano possa dare qualche risposta.