TOTÒ RIINA, la belva
La mattina del 15 gennaio 1993, giorno dell’insediamento di Giancarlo Caselli quale Procuratore della Repubblica di Palermo, alle ore 08.55, Di Maggio riconosce Salvatore Riina mentre esce in macchina da via Bernini 54, accompagnato dall’autista poi identificato in Salvatore Biondino.
Subito viene avviato il pedinamento del veicolo e alle 09.00 il capitano De Caprio, con alcuni dei Carabinieri suoi sottoposti, blocca l’auto segnalata su via Regione Siciliana – all’altezza del Motel Agip – e ammanetta il capo assoluto di “cosa nostra”.
ARRESTATO TOTO’ RIINA (3) (ANSA) – ROMA, 15.1.1993 Toto’ Riina e’ stato bloccato questa mattina alle 8,30 a Palermo , in Via della Regione siciliana. Era a bordo di un’ auto con un’altra persona che non e’ stata ancora identificata. Lo ha comunicato ai giornalisti il Ministro dell’interno Nicola Mancino esprimendo ” soddisfazione e commozione”. Sul posto e’ il comandante dei ROS dei Carabinieri , generale Subrani e sta arrivando il Procuratore Caselli.
IL GRANDE MISTERO DEL COVO
La cattura del “capo dei capi” Totò Riina a Palermo
La storia di Sergio De Caprio e dei suoi uomini che hanno arrestato Totò Riina e fatto tremare i palazzi del potere fino a quando il potere si è vendicato
Trent’anni fa a Palermo, ore 9,30 del 15 gennaio 1993, piazzale Kennedy, semaforo rosso. Sei auto meticce ne circondano una, scendono quattro uomini armati che corrono verso gli sportelli della piccola Citroen incastrata nel traffico. Estraggono dal lato guidatore Salvatore Biondino, soldato di mafia. E dal lato passeggeri Salvatore Riina, il capo dei capi, il boss che ha vinto la guerra di mafia degli Anni Ottanta e che sei mesi prima ha ordinato le stragi di Capaci e di via D’Amelio, vittime Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, le loro scorte, la nostra storia. In azione sono il capitano dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto come il Capitano Ultimo e i suoi uomini – Vichingo, Arciere, Omar – con altri otto colleghi in copertura che congelano con il loro “Alt! Carabinieri!”, l’istante in cui finisce per sempre la latitanza di Riina, durata 23 anni, un migliaio di omicidi, il sacco dell’intera Sicilia. L’istante è clamoroso: “La più grande vittoria della Stato sulla mafia”, titolarono i giornali di quei giorni e le televisioni che si accesero in edizione straordinaria. Fu il trionfo di Ultimo, della sua squadra di investigatori clandestini che in meno di sei mesi, nascosti nei labirinti di Palermo, fecero l’impresa che fino a quel giorno sembrava impossibile: indagare, pedinare, e infine catturare il fantasma di Corleone che non viaggiava in automobili blindate con scorte armate di kalashnikov e di bombe a mano, come recitava la leggenda, ma viveva nel centro di Palermo, protetto dal suo potere, circondato dal silenzio dei complici, dalla paura delle vittime. In occasione di questo anniversario, esce in edizione aggiornata e ampliata “Hanno fermato il capitano Ultimo”, la storia di Sergio De Caprio e dei suoi uomini, i veterani e i giovani, che dalla metà degli Anni Ottanta a appena ieri, hanno combattuto le loro battaglie contro la criminalità organizzata – mafia, ‘ndrangheta, camorra, le loro collusioni con la corruzione dei colletti bianchi e della politica – qualche volta contro l’isolamento, altre contro le alte gerarchie del potere e della Ragion di Stato. Le sue sono sempre state inchieste clamorose a cominciare dalla Duomo Connection che a Milano, nel biennio 1988-’90, aveva svelato per la prima volta gli intrecci tra mafia siciliana e politica lombarda, fino alle condanne chieste e ottenute da Ilda Boccassini che coordinò quell’indagine. Dopo Riina ha indagato su Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella che ordinarono alla Cupola di catturarlo vivo o morto. Nei primi anni Duemila ha lavorato per le procure di Roma, Napoli, Milano. Si è occupato dei vertici di Finmeccanica, coinvolti in casi di corruzione internazionale. Dello Ior, la banca Vaticana e dei suoi fondi neri. Della Lega, i diamanti acquistati in Tanzania e i 49 milioni di euro spariti nel nulla. Delle bugie di Massimo Ciancimino, teste chiave della Trattativa, arrestato per detenzione di esplosivo, truffa, calunnia, riciclaggio. Infine della Cooperativa Cpl Concordia di Modena, accusata di corruzione, nel corso della quale viene registrata la famosa telefonata in cui Matteo Renzi confida al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi che “Enrico Letta è un incapace” e si prepara a sfrattarlo da Palazzo Chigi. Da quel momento i vertici dell’Arma stringono l’assedio a Ultimo. I suoi trionfi investigativi diventano un intralcio. Le sue capacità di “organizzare la lotte e scegliere gli uomini migliori” sono state una risorsa da esibire, ma solo fino a un certo punto. E una minaccia da punire dal quel punto in poi. Le gerarchie smantellano la sua squadra di investigatori. Gli tolgono le inchieste. Lo trasferiscono alla Forestale. Lo querelano per insubordinazione. Renzi lo accusa di “complottare ai suoi danni”, indicandolo come titolare occulto della nuova inchiesta su Consip, coinvolti il vertice della Concessionaria, l’imprenditore Alfredo Romeo, il padre di Matteo, Tiziano Renzi. Accuse poi smentite dai fatti, ma efficaci nell’isolarlo ancora di più. La sua avventura e quella dei suoi uomini corre lungo la diagonale della nostra storia. Incrocia le violenze della cronaca, la ricorrente lotta della legge contro l’illegalità, i meccanismi del potere, i suoi misteri. Aveva detto in anni ormai lontani: “Ho scelto di chiamarmi Ultimo perché vivo in un mondo dove tutti vogliono essere primi”. Lo hanno accerchiato per accontentarlo. Pino Corrias 14 gennaio 2023 RAI NEWS
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15 GENNAIO 1993, IL MARESCIALLO LOMBARDO E LE MANETTE PER TOTÒ RIINA
Di chi fu il merito della cattura di Totò Riina? Del prefetto Mario Mori e del colonnello Sergio De Caprio o del maresciallo Antonino Lombardo, il comandante della caserma di Terrasini?
Come sempre gli atti processuali, ma non solo, mettono sulla giusta strada. Nelle motivazioni della sentenza del procedimento “Bagarella e altri” pubblicate il 5 agosto dello scorso anno, a questo proposito, è scritto:
«Più esattamente, già alla fine di luglio (del 1992, ndr), secondo la scansione temporale accertata nel processo che vide MORI e DE CAPRIO imputati di favoreggiamento aggravato in relazione all’episodio della mancata perquisizione del covo di RIINA — entrambi assolti con la formula “perché il fatto non costituisce reato” con sentenza emessa dal Tribunale di Palermo il 20.02.2006, confermata in appello e divenuta irrevocabile – e secondo quanto ha dichiarato il Generale MORI al processo BORSELLINO ter, risalirebbe una prima riunione operativa alla caserma dei Carabinieri di Terrasini. Il numero e il livello dei partecipanti denota l’importanza di quella riunione. Erano infatti il presenti M.llo LOMBARDO, all’epoca ancora comandante della locale stazione dei CC, il suo superiore gerarchico, Capitano BAUDO, comandante della Compagnia CC di Carini, nonché il Col. Sergio CAGNAZZO, vice comandante operativo della Regione Sicilia e, per il R.O.S., il Maggiore Mauro OBINU, comandante del Reparto Criminalità Organizzata, il Capitano ADINOLFI, comandante della Sezione Anticrimine di Palermo, il Capitano DE CAPRIO, comandante della I sezione del Reparto C.O.: “Lo scopo era quello di costituire una squadra composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore RIINA. Al Mar.llo Lombardo, soggetto ben inserito nel territorio e profondo conoscitore della realtà mafiosa, in grado di disporre di utili canali confidenziali (tra questi, quel Salvatore Brugnano che, successivamente all’arresto del Riina, sarà sospettato dal gotha mafioso – come ha riferito in dibattimento il collaboratore Brusca – di aver contribuito alla cattura del latitante), venne affidato l’incarico di attivare le sue fonti al fine di reperire notizie che potessero essere sviluppate dal ROS, con l’effettuazione delle necessarie e conseguenziali attività di indagine, in direzione della ricerca del boss corleonese”».
Il maresciallo Lombardo, si legge, «disponeva di fonti confidenziali ritenute affidabili. E il territorio in cui il M.llo LOMBARDO operava e intratteneva i suoi contatti con le sue fonti era la zona di Cinisi-Terrasini e dintorni: ossia una zona in cui Bernardo PROVENZANO, per tutta una lunga fase della sua latitanza, (fin dalla prima metà degli anni ‘70) aveva letteralmente messo radici anche messo su famiglia, sposando una “cinisara” (Benedetta Saveria PALAZZOLO), come la apostrofa RIINA in una delle conversazioni con la “dama compagnia” LO RUSSO captate al carcere di Milano Opera, rivolgendole peraltro convinti attestati stima affetto (al punto di farne una delle ragioni per aveva voluto bene allo stesso Binnu, cioè a PROVENZANO) anche per fatto che aveva saputo diventare una “corleonese”, dimenticando sue origini, ossia provenienza da territorio che – verosimilmente per essere stato il regno di Gaetano BADALAMENTI, ma anche perché non ci si poteva fidare cinisari – non era cuore di RIINA. Proprio la conoscenza del territorio, delle sue dinamiche mafiose e i suoi confidenti permisero al M.llo Lombardo di raccogliere le prime, ma importanti, informazioni su chi si facesse carico della latitanza dei Riina perché «a fine settembre, nel corso di una nuova riunione operativa non meno riservata della precedente, sempre alla presenza del Capitano De CAPRIO e del Maggiore OBINU, entrambi sotto il comando del Col. MORI, loro diretto superiore gerarchico n.q. di vicecomandante operativo del R.O.S., il M.llo LOMBARDO riferì l’informazione ricevuta dalle fonti, secondo cui era Raffaele GANCI, capo della potente famiglia mafiosa della Noce di Palermo a farsi carico in quel momento, insieme ai suoi figli, di proteggere la latitanza Salvatore RIINA (…) e degne di fede – tanto da farne discendere l’attivazione di una specifica operazione investigativa con l’allestimento di una squadra catturandi, al comando del Capitano DE CAPRIO – furono ritenute le informazioni acquisite alla fine di luglio-primi di agosto sempre dal M.llo LOMBARDO attraverso le proprie fonti, secondo cui era Raffaele GANCI con i suoi figli a farsi carico direttamente di curare la latitanza di Salvatore RIINA: una soffiata che si rivelerà fondamentale, oltre che esatta, per le successive indagine sfociate nella cattura del capo di Cosa Nostra, e che poteva provenire solo da persone che facessero parte dell’entourage dello stesso RIINA o avessero contatti stretti con soggetti che ne facevano parte».
A riprova esiste una nota del maresciallo Lombardo, datata 29 luglio 1992, quindi successivo alla riunione citata dal Generale Mori, in cui scrive «Fonte confidenziale di comprovata attendibilità ha riferito che in atto la latitanza del noto mafioso Riina Salvatore viene favorita dalla famiglie mafiose della Noce Ganci-Spina e dai fratelli Sansone dell’Uditore». Confermato ancora una volta da Cagnazzo, che partecipò alla riunione, e che nello stesso dibattimento indicato ha ricordato che a Lombardo fu dato l’incarico di attivare le sue fonti. E ha detto che fu lui a dare gli input che poi si concretizzarono nello storico arresto.
Input non di poco conto, tenuto conto che nella nota viene indicato Sansone, il costruttore mafioso che realizzò il residence di via Bernini e fornì la villetta per la latitanza del boss. Per la cronaca, la famiglia Sansone è di nuovo assurta ai (dis)onori della cronaca lo scorso anno quando, scrisse l’ANSA, furono perquisiti «l’abitazione e gli uffici del costruttore Agostino Sansone, arrestato oggi (8 giugno 2022, ndr) insieme al suo collaboratore Manlio Porretto, e a Pietro Polizzi, candidato di Forza Italia al Consiglio Comunale di Palermo, impiegato di Riscossione, accusati di scambio elettorale politico-mafioso. La perquisizione ha riguardato alcuni immobili che si trovano nel complesso residenziale di Via Bernini, lo stesso in cui i Sansone, storici alleati dei boss corleonesi, ospitarono Totò Riina prima dell’arresto».
Una cosa è certa: il maresciallo aveva fonti affidabili che hanno potuto non solo far iniziare le indagini ma indirizzarle a colpo sicuro e fu solo grazie alle sue precise informazioni che la CRIMOR ha potuto mettere a segno l’arresto, anche se rimangono alcune domande cui non si è mai data risposta. Ad esempio se avessero lasciato proseguire il tragitto dell’auto con Riina e l’avessero seguita per alcuni chilometri, dove sarebbero potuti arrivare? Si sarebbero trovati a una riunione della Cupola cui era atteso il Riina e avrebbero consegnato allo Stato un bottino maggiore? E perché diversi ufficiali dell’Arma, tra questi De Caprio e il generale Delfino, hanno fatto di tutto per attribuirsi il merito esclusivo della cattura? A chi faceva comodo la delegittimazione del maresciallo Lombardo anche a fronte di evidenze inoppugnabili?
“Abbiamo fatto il nostro nucleo di intervento:
avevo gente con la quale sarei potuto andare ovunque e morire felice. Conoscevamo la villa benissimo, meglio di chi ci abitava. Erano già un paio di ore che eravamo in attesa-io poi non avevo dormito tutta la notte. Ci siamo presi un cappuccino al bar, poi ci siamo messi in agguato, nascosti nel traffico tra le macchine, a piedi e in movimento, ognuno aveva un settore di responsabilità in modo da non essere individuabili in sosta. A un certo punto il tempo diventa pesante, i minuti diventano critici, cambia il rapporto con il tempo…..Dico a Vichingo: “Adesso mi sono rotto le scatole, deve venire” -sai quando hai un presentimento-dopo un minuto Ombra dalla sua postazione assieme a Di Maggio via radio dice. ” Attenzione, è uscito il nostro amico, il nostro amico Sbirulino, è uscito. “Lo chiamavamo Sbirulino in codice, ed era con un soggetto sconosciuto che poi era Biondino Salvatore, su una macchina Citroen ZX. Ombra ci dà la targa, il colore e la direzione. Lo aggancia Arciere, poi lo agganciamo noi e si avvicina, percorre un chilometro e mezzo, siamo in formazione, ci facciamo copertura alle spalle, copertura davanti, copertura a 360 gradi, poi in quattro facciamo l’intervento: arriva al semaforo, si ferma, apriamo immediatamente le porte, lo gettiamo a terra. Prendo una coperta, io e Vichingo prendiamo Riina e lo mettiamo in macchina, gli altri prendono Biondino. Vichingo guidava ed io ero dietro e lo tenevo con la faccia sul sedile davanti, come se fosse in ginocchio accovacciato. Ma avevano paura, se li guardavi negli occhi Biondino e Riina, avevano il terrore. Hanno avuto attimi in cui vedevi la paura che avevano di morire e mi hanno fatto pena, perché tu non devi avere paura di morire se combatti. Avevano paura perché non sapevano chi eravamo…L’ho preso alla gola e lo portato via. L’ho steso a terra per un attimo ,per vedere se aveva armi, con la faccia a terra. E’ stata un’azione rapidissima, non aveva niente, aveva una gran paura…In macchina gli ho spiegato che era prigioniero dell’Arma: “Carabinieri! io la arresto in nome e per conto di Giovanni Falcone.”………..Vichingo ci controllava, siamo saliti per le scale, siamo andati in ufficio. C’era Oscar che aspettava con il passamontagna ,con la nostra divisa. Abbiamo messo Riina sotto la foto del Generale Dalla Chiesa con la faccia al muro, in attesa che venissero i superiori e i magistrati……Mentre portavamo Riina in caserma è stata un ‘emozione fortissima. Quel giorno salutavamo la madre di tutte le battaglie.” Capitano Ultimo
BOSS E REVISIONISMO LA NUOVA VERITA’ DOPO GLI ULTIMI ARRESTI.
Guerra di mafia. Riscritta la storia del golpe di Riina «Furono i palermitani ad attaccare i corleonesi» PALERMO. Il 29 dicembre del 2004 è una data che difficilmente gli uomini di Cosa nostra dimenticheranno. Quella «vigilia di festa», per dirla con le parole di Nino Rotolo (uno dei 45 boss finiti in carcere dopo essere stato intercettato per quasi due anni) rimarrà nella memoria collettiva della mafia. Da lì cominciarono i «mali discorsi» che contribuirono ad incrinare la pax mafiosa di Bernardo Provenzano. E da quei dialoghi, carpiti dalle microspie nascoste dentro il capannone che consentiva a Rotolo di tenere assemblee pur essendo agli arresti domiciliari, gli investigatori sono risaliti ad una versione dell’origine della guerra di mafia degli Ottanta inedita e diversa da quella accreditata nel maxiprocesso. Sono stati gli stessi uomini d’onore, ascoltati in «viva voce», a fare questa sorta di revisionismo storico che rivela come in realtà non furono i «corleonesi» a scatenare la faida che avrebbe provocato più di mille morti. L’involontaria «confessione» fa parte della lunga e intricatissima diatriba sorta dentro Cosa nostra in seguito al ritorno a Palermo di alcuni esponenti della «famiglia» Inzerillo, a sua tempo «condannati» all’esilio negli Stati Uniti ed «avvertiti» che mai avrebbero dovuto rimettere piede in Italia. Ma il 29 dicembre del 2004, diviene ufficiale la notizia che è tornato a Palermo, Rosario Inzerillo, fratello di «Totuccio», il capomandamento della borgata di Passo di Rigano ucciso dai «corleonesi» il 10 maggio 1981. Rosario è uno di quelli a suo tempo «esiliati» e il suo ritorno finirà per rappresentare un «serio problema» per i fragili equilibri di Cosa nostra, tenuti da Bernardo Provenzano attraverso il sistema di comunicazione dei pizzini.
Il dollaro in bocca La storia va raccontata dall’inizio. Quando fu assassinato Totuccio, il capo della «famiglia», gli Inzerillo rappresentavano forse il clan più potente di Palermo, anche per via dell’amicizia coi Gambino di New York, coi quali esistevano forti vincoli di parentela. Sedici giorni dopo Totuccio, sparì nel nulla il fratello Santo; sei mesi dopo toccò a Pietro. L’onorabilità del giovane – strangolato con le corde di un pianoforte – era «sfregiata» da un biglietto di un dollaro ficcato in bocca. Come a voler dire: sei un uomo che vale poco. Ma anche Cosa nostra ha un codice deontologico e così la Commissione decretò che non si potevano ammazzare tutti gli Inzerillo. Si decise, perciò, di «salvargli la vita» imponendo loro di restarsene negli Usa col divieto assoluto di tornare a Palermo. Nasceva così la categoria dei cosiddetti «scappati». Una decisione che 25 anni dopo veniva posta in discussione dal rientro di «Sarino» e, in verità, da un altro precedente: l’arrivo (nel 1997) di Franco Inzerillo, espulso dagli Usa e, quindi, «esonerato» dall’ «esilio» per motivi di forza maggiore. E non è tutto: ad aggravare la situazione interveniva la scarcerazione di Tommaso Inzerillo e la riapparizione di vecchi «scappati» come Salvatore Di Maio, sottocapo della famiglia della Noce. E’ a quel punto che nasce il problema del ritorno degli «scappati», non di secondaria importanza, a giudicare dalla verve con cui Nino Rotolo si fa promotore di una campagna per la cacciata degli «scappati». Fino a entrare in rotta di collisione con l’altro capo, Salvatore Lo Piccolo, e ad incrinare i rapporti con lo stesso Provenzano, più volte chiamato in causa perchè risolva il problema. Ma don Binu prima tergiversa: «Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno», scrive Provenzano. E diplomaticamente sentenzia: «A decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo». Insomma, il solito Provenzano che prende tempo, adombra l’ipotesi del perdono per gli «scappati» e dichiara incredibilmente: «Fatemi sapere quali sono gli impegni precedenti, perchè io non li so». Chiara e netta, invece, l’avversione di Rotolo per Lo Piccolo e per «tutta la razza degli scappati»: «…perchè la decisione è questa, il programma è questo, per tutti uguale, cioè, per gli scappati… ci sarà questo programma , per loro c’era uno stabilito “se ne stanno in America… si devono rivolgere a Sarino, se vengono in Italia li ammazziamo tutti…». Sarino sarebbe Rosario Naimo, il «tutore degli scappati», l’uomo a suo tempo investito dell’incarico di far rispettare il decreto della Commissione. E per convincere gli altri uomini d’onore a non dare ascolto a Lo Piccolo, fautore del rientro degli Inzerillo, Rotolo racconta che Franco Inzerillo ha già tentato di ucciderlo. La tensione si stempererà dopo un incontro fra Lo Piccolo e Nino Cinà, alleato di Rotolo. Entrambi scriveranno a Provenzano di un «avvenuto chiarimento». Ma tra un discorso e l’altro, Rotolo dà la sua versione della guerra di mafia degli Ottanta. Il boss la racconta ad un nipote di Totuccio Inzerillo. «Tu sei nipote di Totuccio Inzerillo – dice Rotolo ad Alessandro Mannino – il quale Totuccio Inzerillo ed altri, senza ragione, senza ragione alcuna, sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci han- no trovato! Non siamo stati noi a cercarli! E si è creata questa si- tuazione di lutti e di carceri e la resposnabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e ci sono carcerati! Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi che ave- te i morti e fra famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perchè sono morti vivi o sono pu- re morti». Altro che Corleonesi cattivi che infieriscono sulla mafia palermitana «buona», altro che «colpo di stato» di Riina. A sentire Rotolo fu «legittima difesa», contro un gruppo (Bontade/Inzerillo) assetato di soldi e potere. ARCHIVIO 900
La cattura di Totò Riina, un mistero lungo trent’anni
Dopo trent’anni sappiamo ancora molto poco. Ci sono state indagini, ci sono stati processi, sentenze di assoluzione ma nessuno ha ancora capito esattamente cosa è avvenuto a Palermo la mattina del 15 gennaio 1993, il giorno della cattura di Totò Riina.
La storia, per come ce l’hanno raccontata, è nota. Il capitano “Ultimo”, al secolo Sergio De Caprio, con la sua squadra arresta in mezzo al traffico di Palermo, alla rotonda di Viale Lazio, il latitante più ricercato d’Italia, scomparso nel nulla per ventiquattro anni e sette mesi.
Totò Riina si era dato alla macchia nel giugno del 1969, un quarto di secolo e più di mille morti ammazzati dopo, il capo dei capi di Cosa nostra è scivolato in trappola.
Come sono arrivati a lui? Quali le tracce seguite? Qualcuno l’ha tradito?
La versione ufficiale presenta fin da subito lati oscuri. A cominciare dalle soffiate di Balduccio Di Maggio, un boss che era stato autista di Riina e che viene arrestato pochi giorni prima di quel 15 gennaio in Piemonte.
Il caso però si tinge di altro mistero quando si scopre che i carabinieri del Ros, i reparti speciali dell’Arma, abbandonano – appena cinque ore dopo l’arresto del capo dei capi – la sorveglianza del covo dove lui abitava con la moglie Ninetta Bagarella e i loro quattro figli.
Nessuno perquisirà quel rifugio per diciannove giorni. E quando il nuovo procuratore capo della repubblica di Palermo Gian Carlo Caselli entrerà lì dentro, il 2 febbraio, troverà un covo vuoto. Era stato ripulito.
Il colonnello Mario Mori e Sergio De Caprio finiranno sotto processo e saranno assolti fino in Cassazione «perché il fatto non costituisce reato». Molti dubbi su ciò che è accaduto però restano. Oggi abbiamo un resoconto più accettabile sulla vicenda ma, certamente, ancora incompleto.
Intanto continuano a circolare bufale e ricostruzioni fantasiose, si ripropongono cronache approssimative e perfino libri che sembrano sceneggiature di fiction nonostante i fatti abbiano sufficientemente dimostrato il contrario
L’arresto di Totò Riina: fu davvero un atto ”eroico”?
Il 1993, che andò a chiudere quel tragico ’92 bagnato del sangue dei simboli dell’antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si rivelerà la vera fase cardine delle numerose trattative tra i pezzi infedeli dello Stato ed i vertici di Cosa Nostra siciliana. Il 15 Gennaio, lo stesso giorno in cui Gian Carlo Caselli si insediava come Procuratore della Repubblica a Palermo, tutti i telegiornali nazionali aprirono con una notizia sorprendente: l’arresto di Totò Riina, boss indiscusso di Cosa Nostra, ad opera dei Carabinieri del Ros. Sebbene ancora oggi sia “venduta” all’unisono dall’universo mediatico tradizionale come una delle giornate simbolo della lotta alla criminalità organizzata, essa rappresenta al contrario uno dei momenti più torbidi della storia repubblicana. All’ottica dei piani violenti ed estremi del sanguinario boss corleonese Totò Riina, risoluto nel voler portare avanti la strategia stragista per provocare la completa genuflessione dello Stato italiano di fronte a Cosa Nostra, si contrapponeva da tempo la frangia “moderata-trattativista” della compagine criminale palermitana, guidata da Bernardo Provenzano (il principale referente di Vito Ciancimino, mafioso democristiano “allacciato” dai carabinieri all’indomani della morte di Giovanni Falcone). Esattamente come Paolo Borsellino, seppure ovviamente operante all’estremo opposto e con obiettivi antitetici rispetto a quelli del giudice, Totò Riina rappresentava infatti un ostacolo da rimuovere in nome della buona riuscita della trattativa per mezzo della “strategia della sommersione” provenzaniana, sposata da una parte consistente, seppure ancora minoritaria, della Cupola. Secondo il racconto di Massimo Ciancimino, che riferì di quegli incontri tra il padre e gli ufficiali dell’Arma, Bernardo Provenzano si sarebbe adoperato per “vendere” il suo boss ai suoi interlocutori istituzionali, arrivando addirittura a fornire ai carabinieri le mappe del suo nascondiglio palermitano, al fine di subentrargli e dunque di poter dialogare dalla posizione di capo dei capi con gli uomini dello Stato. Al di là di questa ipotesi l’arresto di Riina è pienamente inseribile nel contesto della trattativa Stato-mafia proprio per la specificità con cui esso venne effettuato: i carabinieri arrestarono Totò Riina in Via Regione Siciliana, dunque fuori dal suo covo, situato invece in Via Bernini. La Procura richiese loro di perquisire immediatamente il covo, ma Sergio De Caprio, capitano della squadra del Ros che aveva arrestato il padrino corleonese, con l’appoggio dell’allora colonnello Mario Mori (uno dei carabinieri che incontrò Vito Ciancimino e che, nel 2018, verrà condannato in primo grado per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” assieme agli altri vertici del Ros a 12 anni di reclusione), si oppose, affermando che non fosse conveniente fare irruzione nella villa dal momento che, non avendo gli altri mafiosi contezza del fatto che essa fosse stata individuata, avrebbero potuto avere luogo nuovi importanti sviluppi investigativi. I giudici acconsentirono a non procedere all’irruzione, ma ad una sola e precisa condizione: che la villa fosse tenuta stabilmente sotto un’attenta sorveglianza. Il triste epilogo di questa vicenda? Il 30 Gennaio i giudici vennero a conoscenza del fatto che lo stesso giorno dell’arresto di Totò Riina i carabinieri avevano interrotto la sorveglianza del covo senza informare la Procura, la quale non poté che disporre in data 2 Febbraio la perquisizione. Ovviamente, in quei 18 giorni il covo era stato interamente ripulito dagli uomini di Cosa Nostra: non vennero ritrovati nessun documento, nessuna impronta digitale, nessuna cassaforte (stiamo parlando del covo della villa di Totò Riina, il padrino di Cosa Nostra, che pochi mesi prima aveva fornito ai carabinieri e dunque allo Stato il famoso “papello”, e che, con alcuni pezzi grossi delle istituzioni, si stava direttamente o indirettamente interfacciando). Nessuno potrà mai sapere che cosa, effettivamente, era contenuto in quel covo.Il sostituto procuratore Vittorio Teresi, nella requisitoria del processo sulla trattativa Stato-mafia, ha sostenuto che «l’arresto di Riina fu frutto di un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno, fu frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell’azione dello Stato contro Cosa Nostra. […] Riina voleva tutto e subito. Lui aveva un’impellente necessità di riconquistare in Cosa Nostra il proprio prestigio di capo assoluto che era stato messo in discussione dai detenuti al 41-bis. Ed è in questo periodo che Provenzano comincia a tessere la sua tela di sottile concisione e contrasto, di adesione al progetto stragista ma con tanti distinguo». Ma cosa pensa l’ex Procuratore Gian Carlo Caselli della mancata perquisizione del covo di Totò Riina da parte dei Carabinieri? L’ex magistrato, senza indugi, ha ricostruito la vicenda dalla sua prospettiva in un’intervista rilasciata al Corriere.it nel Novembre del 2015: «La mancata perquisizione ma, prima ancora, la mancata sorveglianza del covo: si cattura Riina – spiega Caselli -, noi della Procura vorremmo subito procedere alla perquisizione. I carabinieri del Ros, in particolare l’“eroe nazionale” che era e, per certi profili, per molti è ancora, il capitano De Caprio (noto come capitano Ultimo) ci dice ‘no, perché si comprometterebbe un’operazione più ampia’. Come non credere a chi aveva messo le manette a Riina? Soltanto che – conclude l’ex magistrato – il presupposto era ‘si sorveglia il covo’, invece questo non avviene e nessuno dice nulla alla Procura sostanzialmente. E, quando si entra (e il covo viene trovato completamente ripulito, ndr), fu una mazzata per noi». amduemila 21 Settembre 2020 di Stefano Baudino
RIINA FU VENDUTO AL ROS DI BINNU. MORI SAPEVA.
Lo Stato cede alla mafia “il 21 febbraio del ’93”, quando “il ministro della Giustizia Conso revoca il decreto Martelli dei 41 bis a Secondigliano e Poggioreale”, dice nel quinto giorno di requisitoria nell’aula bunker il pm Vittorio Teresi che indica i protagonisti istituzionali di quel cedimento: “Attori di questo sconvolgimento sono certamente il presidente Scalfaro, il neo nominato Conso, il nuovo direttore del Dap Capriotti, il suo vice Di Maggio”. Sono i registi del mondo “carcerario”, prosegue Teresi, sia pure con un “grado diverso di consapevolezza”: fu “massimo in Scalfaro e Di Maggio, lo era in misura minore per Conso e Capriotti, che furono solo ingenui e utili scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, ha detto il pm citando le parole di Loris D’Ambrosio. Un mese prima il Ros di Mori e Subranni non aveva perquisito il covo di Riina (“non si volevano trovare documenti imbarazzanti”), il 9 febbraio la camorra uccide l’agente Pasquale Campanello a Poggioreale, e il ministro Martelli applica il 41 bis ai detenuti del carcere napoletano. Ma una lettera anonima giunta al Quirinale e firmata “i familiari dei detenuti” minaccia ritorsioni, e dodici giorni dopo Conso, “smarrito dalla incalzante pressione”, avocando a sè il provvedimento, revoca i 41 bis decisi da Martelli, caso unico della storia di via Arenula. “C’è un fine pena mai anche per i familiari delle vittime – ha detto Teresi – se io fossi stato un familiare dell’agente Campanello, col mio ‘fine pena mai’ avrei chiesto conto e ragione a Conso del perchè bisognava dare un segnale di distensione dopo 12 giorni dell’omicidio. A chi? E perché?’’. In quel momento “nello Stato esistono le due linee: quella trattativista è una deviazione inammissibile dai doveri istituzionali’’ e i fautori di quella linea si concentrano sul mondo carcerario: “L’unico settore – prosegue Teresi – nel quale si poteva intervenire immediatamente e con una discreta previsione di successo”, visto che le richieste del papello “avevano natura legislativa o giudiziaria nessuno poteva garantire che quelle richieste sarebbero state soddisfatte”. Dunque “bastava ed è bastato cambiare quattro uomini, per cambiare la politica penitenziaria e soddisfare la mafia”. Fino a quel momento Nicolò Amato aveva garantito al Dap “la politica del coraggio”, con “decreti che prevedevano misure restrittive e afflittive’”, ma prevedendo “per il futuro misure stabili come la ripresa audiovisiva dei colloqui e un sistema di video conferenze che impedisca ai detenuti di fare turismo carcerario”. “Due misure di straordinaria intelligenza – ha detto Teresi – misure che verranno applicate ma molti anni dopo’’. Amato, quindi, deve “saltare’’, prosegue il pm, anche con l’intervento della Chiesa: “La scelta del nuovo capo del Dap (Adalberto Capriotti, ndr) – ha proseguito il magistrato – fu di fatto operata dalla Chiesa senza alcuna garanzia di professionalità, con l’unica assicurazione che si trattava di una persona ‘molto pia’”. In quei giorni di trattativa, la mafia “forza il gioco”, la “Falange Armata prende di mira il mondo carcerario e i vertici delle istituzioni” e il 27 maggio “l’autobomba di via dei Georgofili costituisce un ulteriore segnale di rilancio”: sono “bombe del dialogo – dice il pm – perchè tutti sapevano e nessuno parlò?’’. E qui Teresi cita le deposizioni di Violante (“Erano bombe per mettere i pubblici poteri di fronte a un aut aut, ne parlai con il capo dello Stato e Spadolini”) e Napolitano che ricordo come da subito si “ipotizzò una sorta di ricatto o pressione a scopo destabilizzante”. Un ricatto che, paradossalmente, Cosa nostra non ha cercato di imporre: nel ’92 “tra lo Stato e la mafia era quest’ultima che stava perdendo – ha detto Teresi – ed è per questo che ha ideato la campagna di attentati per indurre lo Stato a farsi sotto”. Ma invece di fermare le stragi, è la conclusione, la Trattativa le ha indotte: “L’adempimento del patto che lo Stato ha sottoscritto con i mafiosi nel maldestro, e non raggiunto, tentativo di fermare le stragi – per Teresi – ha sortito l’effetto contrario’’. E poi è arrivato l’arresto di Riina, venduto da Provenzano, spiega ancora il pm: “Un compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e De Donno”. Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul Fatto del 20/01/2018
La misteriosa cattura di Totò Riina e la spaccatura nella Cupola
Si è accertato, attraverso la deposizione dello stesso Cancellieri, che questi, del tutto ignaro all’epoca dei contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino, in buona sostanza si limitò a riportare il contenuto degli appunti che erano stati predisposti dal Col. Mori; né il relativo testo era stato minimamente concordato con i magistrati presenti (incluso il nuovo procuratore capo di Palermo).
E quindi, è farina esclusiva del sacco di Mori anche l’esplicita attribuzione a Riina del disegno di indurre lo stato a trattare: un proposito criminoso di cui lo stesso Mori aveva potuto avere contezza grazie e in esito ai contatti con Vito Ciancimino, e all’interlocuzione per suo tramite avviata con i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Da Ciancimino, infatti, il Col. Mori aveva ricevuto la conferma dell’interesse di Riina a “trattare” (“Guardi quelli accettano la trattativa”). Ma ciò non sarebbe bastato per attribuire con tale certezza a Riina il proposito criminale (“… un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico…. di mettere in discussione l’Autorità Istituzionale”) di indurre lo stato a piegarsi alla violenza mafiosa, facendo inaccettabili concessioni, e cosi barattando la propria autorità in cambio della cessazione della minaccia all’incolumità pubblica (“Quasi a barattare, o istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”).
In fondo, era stato proprio Mori a sollecitare quell’interesse; e quindi, il manifestare, da parte di Riina una certa disponibilità ad assecondare quell’iniziativa non poteva etichettarsi in modo così tranciante come sintomatica della volontà di ricattare Io stato.
Ma sotto questo profilo Mori parlava— o meglio faceva parlare in sua vece il Generale Cancellieri — con piena cognizione di causa, proprio perché sapeva che Riina non solo aveva accettato l’invito ad aprire un dialogo, ma aveva fallo conoscere le sue richieste, ponendole come condizioni ultimative e non negoziabili per fare cessare la violenza mafiosa.
Quella di Mori — contrariamente a quanto ipotizza il giudice di prime cure — non era, però, una voce dal sen fuggito, ma doveva leggersi come un preciso messaggio lanciato a chi poteva intenderlo: la cattura di Riina era anche un monito per chiunque, tra i capi di Cosa nostra (che erano ancora quasi tutti latitanti e in grado di agire) pretendesse di trattare con lo stato nel modo in cui Riina aveva preteso farlo, e cioè dettando le sue condizioni, senza nessuna reale apertura ad un possibile negoziato.
Insomma, un monito all’ala stragista; ma, implicitamente, anche una mano tesa all’ala più moderata e sensibile ad un’eventuale offerta di trattare: ovvero a quanti, all’interno di Cosa nostra fossero disponibili a negoziare certi favori, senza la pretesa di imporre unilateralmente con la violenza la propria volontà.
Ed è persino scontato che nessuno dei presenti alla conferenza stampa potesse cogliere il senso recondito di quelle dichiarazioni, ancorché si trattasse di qualificati investigatori e valorosi magistrati, dal momento che ignoravano l’antefatto, e cioè non avevano alcuna conoscenza e il minimo sentore della complessa interlocuzione che era stata avviata tra il Ros e Vito Ciancimino, e del tenore della proposta, anzi, delle diverse proposte che erano state fatte a quest’ultimo.
Cosa nostra dopo l’arresto del “corto”
[…] Di trattative segrete condotte da Vito Ciancimino o da altri per conto di Cosa nostra ma con i carabinieri o altre forze dell’ordine, nessuno dei collaboratori di giustizia che pure hanno partecipato con ruoli di spicco alla stagione delle stragi e sono stati testimoni e poi esecutori della decisione di riprendere le stragi o i delitti eclatanti, sia pure lontano dalla Sicilia e cambiando target ha mai saputo alcunché.
Del resto, lo stesso Brusca lo ignorava, avendo appreso solo dalla lettura dei giornali e a distanza di anni dai fatti, quando già egli aveva iniziato a collaborare con la giustizia. E mai avrebbe immaginato che gli emissari delle istituzioni di cui gli aveva parlato Riina a propositi della vicenda del “papello” potessero essere dei carabinieri.
Di analogo tenore le dichiarazioni di Sinacori Vincenzo, che pure ha riferito di avere accompagnato Matteo Messina Denaro ad una riunione, presenti Bagarella, Graviano Giuseppe, Brusca e Provenzano, nella quale dovevano prendere delle decisioni sul continuare la linea stragista di Riina di fare gli attentati, dovevano parlare di questo fatto.
Ebbene, Sinacori, che tuttavia non prese parte a quella riunione ristretta, e riservata solo ai boss corleonesi che all’epoca tenevano le redini dell’organizzazione mafiosa orfana del suo capo, non soltanto non ha mai saputo nulla di trattative con esponenti politici o istituzionali; ma per ciò che concerne in particolare l’eventualità di interlocuzioni avviate da Riina con i carabinieri sia pure nell’interesse di Cosa nostra, ha aggiunto: «per come conosco, conoscevo Riina io, è impensabile una cosa del genere, che Riina potesse avere rapporti con forze dell’ordine».
In effetti Brusca rammenta che Riina gli disse, quando già paventava di poter essere arrestato, di mettersi eventualmente in contatto con Salvatore Biondino o con Matteo Messina Denaro che erano al corrente della faccenda del “papello”, alludendo evidentemente alla possibilità di proseguire la trattativa anche nel caso in cui lui stesso fosse stato arrestato. E così – implicitamente – confermando che pochissimi dovevano i capi corleonesi al corrente di quella faccenda (e del resto, del papello Riina gli parlò solo in colloquio a quattrocchi e non alla presenza di altri capi mandamento o loro sostituti).
Tra quei pochi, anche Matteo Messina Denaro (ciò che, per inciso, spiegherebbe per quale ragione questi sapesse, secondo quanto riferisce Brusca, che bersaglio del progetto di attentato allo Stadio Olimpico di Roma dovessero proprio i carabinieri). E tra loro Brusca ritiene di poter annoverare anche Bagarella (e al riguardo cita l’episodio dello scatto d’ira che aveva avuto Bagarella nell’apprendere dai giornali che il Ministro Mancino si era fatto installare vetri anti proiettile nella propria abitazione) e lo stesso Provenzano. Anche se chi fosse stato messo al corrente (da Riina) dell’esistenza di una trattativa segreta non necessariamente doveva sapere che essa si era instaurata e sviluppata attraverso contatti con i carabinieri.
E tuttavia, è pacifico che quando si decise, dopo la cattura di Riina, di proseguire la linea stragista, nel solco tracciato da Riina e per i medesimi obbiettivi, lo scopo era proprio quello di indurre lo stato a trattare: anzi, come precisa Brusca, questi attentati ai nord sono tutti finalizzati a fare tornare questi a trattare. Questi contatti che aveva avuto Riina.
E gli fa eco, sulle finalità delle stragi in continente, Filippo Di Pasquale che pure nulla sapeva dei contatti che aveva intrattenuto Riina con emissari istituzionali (o quelli che Riina riteneva fossero tali): «Le stragi di Roma, Firenze e Milano erano state fatte dal nostro gruppo, e quindi mi riferisco a tutti i componenti del gruppo di fuoco (…) quelle stragi erano state fatte per ricattare lo stato, ricattare lo stato e praticamente con queste stragi gli si diceva allo stato o chi comandava in quel momento o fate come diciamo noi, o noi continuiamo a fare le stragi (…) le cose che voleva Cosa nostra erano intanto abolire proprio sto 41 bis, perché quella è stata una tragedia. Io quello che mi ricordo, la cosa principale era il 41 bis e poi cercare di vedere se si poteva togliere la cosa sui collaboratori di giustizia, comunque la cosa principale era il 41 bis».
Lo stesso Brusca non sa a quale stadio di sviluppo fossero giunti, perché «gli consta solo che ad un certo punto si erano bloccati in quanto le richieste di Riina erano state giudicate eccessive. Ma gli consta altresì che con Bagarella, con Provenzano prima, e con Bagarella dopo questi attentati erano per fare riaprire questo dialogo. Costringere chi era di competenza o a trovare un altro soggetto o andare a trovare a Totò Riina in carcere, un po’ come ai tempi della guerra… la Seconda Guerra Mondiale». E del fatto che Bagarella e Provenzano fossero al corrente dei contatti che aveva avuto Riina, sempre Brusca ne ebbe una riprova eloquente quando insieme a Bagarella si recò ad un incontro con Provenzano per stabilire se pRoseguire o meno la linea stragista voluta da Riina. E in tale occasione lo informarono che avevano deciso — Brusca e Bagarella — di portar avanti quella strategia per far si che coloro che già s’erano fatti sotto con Riina, tornassero a trattare.
Provenzano contrario alle stragi
E Provenzano non batté ciglio in relazione a quei contatti sotterranei […], manifestando però tutto il proprio dissenso sull’opportunità di pRoseguire su quella linea; anche perché non avrebbe saputo come giustificarsi agli occhi degli altri esponenti di spicco dell’organizzazione che condividevano le sue perplessità e che egli in qualche modo rappresentava.
E fu allora che Bagarella lo avrebbe schernito, costringendolo ad abbozzare di fronte alla determinazione dello stesso Bagarella a favore del quale ancora giocavano i rapporti di forza all’interno dell’organizzazione in quel momento (“…Provenzano l‘unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri. Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente Bagarella gli fa, dice… che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «Io non so niente»” Sì, fu in quella circostanza…neanche ha detto: “No, non lo fate “, non ha resistito alla volontà di Bagarella e quindi sapeva quello che stavamo facendo e il motivo”).
E’ una dinamica che trova, con parole e accenti diversi, dato anche il diverso angolo prospettico, piena corrispondenza nella descrizione fatta da Giuffré dell’atteggiamento e del punto di vista di Provenzano, quando ebbe modo di incontrarlo all’inizio del ‘93, dopo la cattura di Riina. Lo trovò completamente cambiato e propenso a tornare ad una linea di dialogo con la politica invece che di contrapposizione violenta alle istituzioni: primi assaggi di quella che sarebbe stata negli anni avvenire la strategia della sommersione.
Ma in quel frangente storico i rapporti di forza erano ancora a favore dei fautori della linea stragista e Provenzano dovette adeguarsi, come del resto emerge pure dalle dichiarazioni di Cancemi («mi ricordo che quando l’ho incontrato nel ‘93 al Provenzano, lui mi ha confermato che mi disse che tutto quello che hanno portato assieme con Riina avanti, lui stava continuando..»).
E si decise quindi di pRoseguire come prima, come aveva ordinato a suo tempo Salvatore Riina e per le medesime finalità (a parte il mutamento di target). Lo confermano, tra gli altri, La Barbera, che lui testimone dell’incontro che Brusca aveva avuto con Provenzano (“…Si sono parlati e ha detto che era d’accordo a continuare come prima, quindi da lì ho capito che ha incontrato lui Bernardo Provenzano .ed è d’accordo, continuiamo avanti come si era deciso prima”), Cucuzza, che sottolinea la certezza di Bagarella, nonostante il dissenso di Provenzano, che la strategia stragista avrebbe dato buoni frutti (“..a questo tipo di strategia era contrario Me lo ha detto espressamente Bagarella, anzi, chiamandoli miserabili, perché non condividevano questo andare avanti allo
sbaraglio quindi c‘erano dei contrasti abbastanza seri con Provenzano. Invece, Bagarella riteneva che così otteneva qualcosa, quindi era certo… la voleva portare avanti perché ci credeva a questo progetto”). E lo conferma anche Siancori, così come conferma che si era formata una spaccatura interna a Cosa nostra tra uno schieramento favorevole alla pRosecuzione stragista, facente capo a Bagarella, a fianco del quale si erano schierati i Graviano e Matteo Messina Denaro, con Brusca un po’ titubante; e uno schieramento contrario, facente capo a Provenzano. Ma i trapanesi, aggiunge, fedeli a Riina non potevano che seguire la linea dettata dal capo di Cosa nostra e quindi quella di Bagarella, perché se lo diceva Bagarella era come se lo dicesse Riina.
Ma qual era davvero la linea di Riina alla vigilia della sua cattura?
Mantenere alto il livello dello scontro con lo stato, attraverso la minaccia di altre stragi, nella convinzione che nuovi attentati e delitti eclatanti, ossia una ripresa o una prosecuzione della offensiva stragista, lo avrebbe indotto a trattare.
Ma era a ben vedere una convinzione che si nutriva anche della conoscenza — preclusa ai più, anche all’interno di Cosa nostra — di quanto era effettivamente accaduto nel frattempo: e cioè che una trattativa segreta con emissari dello stato si era instaurata davvero; anche se poi si era arenata perché le richieste avanzate da Riina erano state valutate come eccessive (o almeno questa era stata la spiegazione veicolata al capo di Cosa nostra, come si evince incrociando le dichiarazioni d Brusca con la narrazione di Ciancimino circa il congelamento della trattativa che tuttavia lasciasse aperto uno spiraglio alla possibilità di riprendere il dialogo in futuro).
Bisognava dunque intensificare la pressione intimidatoria per vincere la resistenza dello stato — o detto con le crude parole dello stesso Riina: allo stato bisognava “vendere morti” se si volevano ottenere i risultati sperati — e indurre quella parte della classe politica e delle Istituzioni che già si era mostrata disponibile a negoziare, a cedere alle richieste di Cosa nostra.
E con questo genere di convinzione che Riina trasmise ai suoi luogotenenti — a cominciare da quei pochi privilegiati che magari nulla sapevano di contatti con i carabinieri, ma erano al corrente che uomini dello stato già s’erano fatti sotto (come Brusca, Bagarella, Biondino, che però era stato arrestato insieme al suo capo, e Matteo Messina Denaro, oltre a Provenzano) — prima l’invito a
pazientare, perché i risultati sperati non avrebbero tardato a venire; e poi la determinazione a rimette mano a nuovi attentati.
Ciò posto, fu proprio tale convinzione, nutrita come s’è detto dalla consapevolezza che l’ipotesi che lo stato fosse indotto a suon di bombe e attentati a trattare non era un’opzione irrealistica ma un dato acquisito, anche se la trattativa in tutta segretezza già instauratasi versava in un momento di stallo, a innervare la decisione di riprendere l’offensiva stragista. Una decisione che fu effettivamente adottata, nonostante autorevoli dissensi (rapidamente rientrati in ragione dei rapporti di forza tra i diversi schieramenti che si fronteggiavano all’interno di Cosa nostra) in esito ad una serie di frenetiche riunioni tenutesi nei primi mesi del ‘93, una volta superato lo shock e lo smarrimento provocati dalla cattura di Riina.
Ma l’opzione stragista non prevalse su quella contraria, che pure era sostenuta da uno schieramento facente capo ad esponenti mafiosi di primo livello e di grande prestigio, soltanto perché Bagarella, che insieme a Brusca e ai Graviano e a Matteo Messina Denaro ne era il più strenuo sostenitore si fece forte del principio d’autorità, appellandosi alla volontà del cognato, che era ancora il capo riconosciuto e indiscusso di Cosa nostra dei cui ordini egli era o si presumeva che fosse latore. O solo perché i rapporti di forza erano ancora a favore dei fedelissimi di Riina.
Una strategia “vincente”
In realtà, quell’opzione strategica prevalse anche perché la strategia stragista era effettivamente valsa a indurre lo stato a trattare, anche se non ne erano sortiti i risultati sperati (da Cosa nostra) essendosi la trattativa arenata già prima che Ciancimino venisse arrestato. E l’arresto di Ciancimino aveva costituito un’ulteriore complicazione, sicché per superare l’impasse occorreva dare un nuovo scossone.
Ed essere, sempre a suon di bombe, ancora più “convincenti” di quanto non si fosse stati in precedenza, portando il terrore e le distruzioni in continente, e nelle principali città; e colpendo chiese, monumenti o centri di attrazione turistica, così che tutto il mondo ne parlasse e la pressione stessa dell’opinione pubblica nazionale costringesse il governo a cedere, o almeno a riprendere la trattativa che a suo tempo si era interrotta.
Ma, e qui veniamo al punto che premeva evidenziare, se lo stato si era risolto a trattare, ed aveva iniziato a farlo, anzi aveva sollecitato i vertici mafiosi a far conoscere quali fossero le loro richieste (per porre fine all’escalation di violenza che metteva in pericolo l’ordine, la sicurezza interna e l’incolumità pubblica), e la trattativa era iniziata o proseguita persino dopo una seconda terribile strage come quella di Capaci, per quale ragione s’era arenata?
Evidentemente l’unica spiegazione plausibile, o che come tale poteva essere propinata a Riina, era che le richieste di Cosa nostra erano state respinte perché ritenute esorbitanti rispetto a quanto la controparte fosse disposta a concedere (ed è la narrazione di Brusca, che trova implicitamente riscontro nella soluzione concertata da Ciancimino con gli ufficiali del Ros per giustificare agli occhi di Riina il “congelamento” della trattativa).
Ma ciò presupponeva che delle specifiche richieste fossero state avanzate, ovvero che Cosa nostra avesse già fatto sapere che cosa chiedeva in cambio della cessazione delle stragi (e che cosa sarebbe successo se le sue richieste non fossero state accolte): che è appunto quanto si voleva dimostrare.
Cosa accadde davvero il giorno della cattura del capo dei capi?
Tornando ad analizzare quanto accadde il 15 gennaio 1993, in quelle ore, descritte come concitate e frenetiche, che seguirono alla cattura del Riina, doveva decidersi come proseguire ed in quale direzione indirizzare le successive attività di indagine. Sino ad allora il potere di direzione e coordinamento delle attività di polizia giudiziaria era stato espletato dal dott. Aliquò, in attesa dell’insediamento del dott. Caselli che sarebbe avvenuto proprio quel giorno. La discussione nacque spontanea tra tutti i presenti, ufficiali dell’Arma e magistrati, nel cortile della caserma Buonsignore, in modo informale, portando all’emersione di due orientamenti, uno maggioritario, condiviso dall’Autorità Giudiziaria e dai reparti territoriali, che intendeva procedere subito alla perquisizione del complesso di via Bernini, al fine di individuare da quale unità abitativa fosse uscito il Riina e perquisirla, l’altro portato avanti dal Ros, ed in modo particolare da Sergio De Caprio, che riteneva dannosa quest’iniziativa per lo sviluppo delle indagini, proponendo di sfruttare il vantaggio costituito dall’avere catturato il boss a distanza rispetto al residence.
I due orientamenti si contrapposero e si alternarono, in una dialettica fluida e continuativa, che portò prima alla predisposizione delle due squadre che avrebbero dovuto procedere alla perquisizione, poi alla conferenza stampa nella quale si fece apparire l’arresto come casuale, evitando ogni riferimento a via Bernini, quindi a rinviare il momento della partenza sino a dopo il pranzo al circolo ufficiali. Sia nella mattinata, che al momento del pranzo, dove il De Caprio sopraggiunse “indispettito” – secondo quanto riferito dal dott. Aliquò – per il fatto che, come gli aveva detto il cap. Minicucci incontrato in cortile, stava per essere eseguita la perquisizione, l’imputato chiese insistentemente di evitare ogni intervento, perché avrebbe pregiudicato ulteriori acquisizioni che avrebbero consentito di disarticolare il gruppo corleonese.
L’intento, concordemente riferito da tutti i partecipanti a quelle discussioni, in aderenza con quanto altresì cristallizzato nelle note scritte del dott. Caselli e dell’imputato Mori, era quello di avviare un’indagine a lungo termine sui Sansone, che consentisse di risalire ad altri personaggi del sodalizio e colpire gli interessi affaristici del gruppo.
L’importanza dei Sansone, ha riferito il De Caprio, era evidente a tutti ma, in verità, proprio su questo punto le valutazioni dell’Autorità Giudiziaria e del Ros appaiono essere state radicalmente diverse.
Nelle argomentazioni difensive queste investigazioni assumono un’importanza centrale, addirittura assorbente rispetto alla individuazione della villa da cui era uscito il Riina, e proprio per consentire che venissero sviluppate il De Caprio chiese ed ottenne che la perquisizione fosse annullata.
I Sansone erano già emersi nel corso del cd. processo Spatola degli anni ‘80; per loro tramite, grazie all’indicazione del Di Maggio, era stato possibile individuare il complesso di via Bernini, dove abitavano, e catturare Salvatore Riina; Domenico Ganci, quando fu pedinato ad ottobre del 1992 (cfr. relazione di servizio in atti), fece perdere le sue tracce in prossimità dello sbocco di via Giorgione su via Bernini, per cui poteva ragionevolmente ipotizzarsi l’esistenza di collegamenti tra i Sansone e gli stessi Ganci, sui quali l’indagine del Ros era ancora in corso; i Sansone, in quanto titolari di diverse ditte e società, erano portatori degli interessi economici del gruppo corleonese; la perquisizione del complesso avrebbe reso noto all’associazione mafiosa la conoscenza da parte delle forze dell’ordine del luogo ove aveva alloggiato Salvatore Riina e dunque del ruolo dei Sansone nella cattura del boss, svelando così anche la collaborazione del Di Maggio.
Sulla base di tutti questi elementi, avviare un’indagine sistematica su questi soggetti, in parallelo a quella già in corso sui Ganci, avrebbe potuto portare
– nella prospettazione difensiva – ad acquisizioni investigative di grande rilevanza, se non addirittura decisive per la sopravvivenza del gruppo che faceva capo al Riina, il quale appunto, proprio sui Sansone e sui Ganci, aveva potuto contare durante la latitanza, per i suoi spostamenti nella città e per il soddisfacimento delle proprie esigenze di vita quotidiana.
Questa opzione investigativa comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione.
Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella, che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti.
L’osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell’intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l’allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito.
Questa accettazione del rischio fu condivisa da tutti coloro che presero parte ai colloqui del 15.1.93, Autorità Giudiziaria e reparti territoriali, dal momento che era più che probabile che il Riina, trovato con indosso i cd. “pizzini”, detenesse nell’abitazione appunti, corrispondenza, riepiloghi informativi, conteggi, comunque rilevanti per l’associazione mafiosa, e non potendo tutti coloro che la condivisero non essersi rappresentati che con il rinvio della perquisizione non si sarebbe potuto impedirne la distruzione o comunque la dispersione ad opera di terzi.
Inoltre, come ha riferito il dott. Caselli, i tempi del servizio di osservazione che il De Caprio avrebbe assicurato di continuare “in loco” non si annunciavano brevi, in quanto l’operazione da sviluppare si presentava molto complessa, considerato lo stato dei luoghi (bisognava individuare da quale unità il Riina fosse uscito) e la probabile presenza in loco di “pezzi” dell’organizzazione allertati dalla cattura del latitante, per cui dall’iniziale proposito di aspettare e vedere cosa sarebbe successo nelle prossime 48 ore si giunse ad aspettare ben 15 giorni.
Un lasso di tempo che sarebbe stato ampiamente sufficiente a terzi – che pure fossero stati video ripresi dal Ros entrare ed uscire dal complesso – per asportare o distruggere ogni cosa pertinente al Riina.
Il profilo dell’adesione al rischio connaturato alla proposta ed alla decisione di rinviare la perquisizione appare, dunque, di per sé non rilevante ai fini di determinare l’elemento psicologico degli imputati, dovendo piuttosto verificarsi se i successivi comportamenti, cioè l’omessa riattivazione del servizio di osservazione e l’omessa comunicazione di tale decisione, siano valsi ad integrare la volontà di aiuto all’organizzazione denominata “cosa nostra”.
L’Autorità Giudiziaria, nell’eccezionalità dell’evento che vedeva in stato di arresto il capo della struttura mafiosa e che poteva costituire un’occasione unica ed irripetibile di assestare un colpo forse decisivo all’ente criminale, operò una scelta anch’essa di eccezione, rispetto alla alternativa che avrebbe imposto di procedere alla perquisizione del luogo di pertinenza del soggetto fermato, e ciò fece nell’ambito della propria insindacabile discrezionalità nella individuazione della tipologia degli atti di indagine utilizzabili per pervenire all’accertamento dei fatti.
Tale scelta, però, fu adottata certamente sul presupposto indefettibile che fosse proseguito il servizio di video sorveglianza sul complesso di via Bernini.
Che questa fosse la condizione posta al rinvio della perquisizione, è un dato certo ed acclarato non solo dalle deposizioni dei magistrati e degli ufficiali dell’Arma territoriale che presero parte a quei colloqui, durante i quali comunque si considerò la possibilità di vedere chi sarebbe venuto al complesso, eventualmente anche a prelevare i familiari, ma anche dalla stessa nota del col. Mori del 18.2.93 ove si dice, con riferimento all’attività di “osservazione ed analisi” della struttura associativa esistente intorno ai fratelli Sansone, suggerita il 15 gennaio, che tale attività veniva in effetti sospesa, per motivi di opportunità operativa e di sicurezza, in attesa di una sua successiva riattivazione, esplicitando, poi, nell’ultimo periodo, che si verificò una “mancata, esplicita comunicazione all’A.g. della sospensione dei servizi di sorveglianza su via Bernini”.
Al di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell’abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare “cosa nostra”.
La miracolosa cattura di Totò Riina che ha portato a trent’anni di sospetti e misteri
- Subito dopo il fermo di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, gli ufficiali dei reparti speciali assicurano “un costante e attento controllo” del covo per più di due settimane. Si scoprirà però che la sorveglianza della casa del boss viene inspiegabilmente abbandonata poche ore dopo.
- Sotto processo per favoreggiamento, il colonnello Mario Mori e il capitano “Ultimo” verranno assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Ma i dubbi sul loro operato restano: per alcuni Mori è un diavolo, per altri un salvatore.
- L’ambiguo ruolo del mafioso Balduccio Di Maggio che, “casualmente” individuato in Piemonte, chiede di parlare con il generale Francesco Delfino e vuota il sacco su Riina.
Su quello che è accaduto a Palermo il 15 gennaio del 1993 sappiamo ancora molto poco. Erano le 8.55 del mattino, qualcuno in un atto ufficiale riporterà che erano però le 9.01. Sei minuti in più o sei minuti in meno, dettaglio decisamente irrilevante dal momento che trent’anni dopo siamo sempre qui a chiederci come lo hanno preso.
Spacciata come “la più clamorosa operazione antimafia del secolo”, compimento di una sofisticatissima indagine di polizia giudiziaria, la notizia ha fatto il giro del mondo ed è volata anche sulla prima pagina di un quotidiano di Pechino.
C’era la foto di un uomo basso e tarchiato, con addosso una giacca troppo lunga e troppo larga. La faccia gonfia, lo sguardo spento. Sembrava un vecchietto qualunque, un innocuo pensionato, il nonno della porta accanto. E invece era il più sanguinario e “irregolare” capo della storia della mafia siciliana, Salvatore Totò Riina, nato sotto il segno dello Scorpione a Corleone il 16 novembre 1930.
Era l’uomo che con una parola poteva decidere della vita o della morte di ogni siciliano, che aveva terrorizzato l’Italia, che aveva ordinato di far saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. Era anche il mafioso che aveva preso per mano Cosa Nostra trascinandola in un vicolo cieco. Bombe, bombe e solo bombe.
Figli cresciuti in clandestinità
Poco prima o poco dopo le nove di quel 15 gennaio l’avevano trasportato come un sacco nella piazza dove s’incrociano i santuari del potere di Palermo, dentro una caserma incastrata fra la curia arcivescovile e palazzo dei Normanni, il parlamento siciliano.
L’hanno appoggiato su una sedia, le manette ai polsi, lui sotto un ritratto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. L’immagine dello stato che vince sulla mafia, il segno della vittoria. Ma nessuno aveva capito come era finito lì dopo quasi un quarto di secolo.
Era latitante dal 21 luglio 1969. Sempre in compagnia della moglie Ninetta Bagarella, quattro figli cresciuti in clandestinità ma fatti nascere dalla stessa ostetrica in una clinica a due passi dal teatro Politeama, vaccinati dallo stesso medico, fuggiaschi e liberi. «A me non mi ha mai detto niente nessuno, a me non mi ha mai cercato nessuno», ha sibilato lui la prima volta che si è ritrovato nell’aula bunker dell’Ucciardone.
Una messinscena
In questi trent’anni, e proprio per gli effetti di quella miracolosa cattura, ho imparato che per decifrare cosa succede nelle mafie non basta conoscere le mafie ma capire a fondo anche le manovre e gli obiettivi degli apparati che le combattono. C’è uno specchio che riflette le due realtà, una apparentemente di fronte all’altra e una che, di frequente, si può confondere con l’altra.
L’arresto di Totò Riina, fin dal primo giorno mi ha fatto venire in mente, nella sua più moderna e meno cruenta interpretazione, l’uccisione del bandito Salvatore Giuliano, ufficialmente caduto durante uno scontro a fuoco con i carabinieri il 5 luglio 1950 nel cortile di una casa a Castelvetrano. Una messinscena.
Si scoprirà che era stato venduto e assassinato in ben altro luogo, dai suoi fedelissimi (il cugino Gaspare Pisciotta per primo) e dai capi della mafia di Monreale. Quasi la stessa sorte è toccata a Totò Riina. Sacrificato per poter fare sopravvivere Cosa Nostra.
Dal 1993 al 1996 alla vicenda ho dedicato numerosi articoli che hanno provocato disturbo ai vertici dei reparti speciali dell’Arma, e in qualche modo smascherato la montatura sulla “più clamorosa operazione antimafia del secolo”.
Con Saverio Lodato nel 1998 abbiamo firmato un libro – C’era una volta la lotta alla mafia, storie di patti e di ricatti, Garzanti – dove ipotizzavamo un collegamento fra la cattura di Totò Riina e l’infinita libertà di Bernardo Provenzano, l’altro boss dei Corleonesi. Mettevamo in dubbio l’arrangiamento proposto dai carabinieri all’opinione pubblica, e a una magistratura troppo attenta a non dispiacere ai generali.
Cronache che sembrano fiction
Le indagini della procura di Palermo intorno alla cattura di Riina sono partite male e, solo dopo la confessione di un paio di pentiti, si sono orientate nella giusta direzione. Indagini che sono confluite in alcuni processi, per ultimo in quello famoso sulla trattativa stato-mafia.
Oggi abbiamo un resoconto più accettabile su come e perché il capo dei capi è scivolato in trappola ma, certamente, ancora incompleto. Continuano a circolare ricostruzioni fantasiose.
Ogni tanto mi capita di leggere cronache approssimative e perfino libri che sembrano sceneggiature di fiction, l’esaltazione di eroi solitari, favole che con spudoratezza vengono riproposte nonostante i fatti abbiano sufficientemente dimostrato il contrario. Dopo trent’anni in me si è rafforzata l’idea che ho maturato da quando, dalla fine degli anni Settanta, inseguo le anse del fiume mafioso: i boss cadono quando non servono più.
Una straordinaria coincidenza
La cattura di Totò Riina ne è la dimostrazione più evidente. Direi, esemplare. Torniamo al 15 gennaio 1993. Due ore dopo la cattura all’aeroporto di Punta Raisi sbarca Gian Carlo Caselli, il nuovo procuratore capo di Palermo.
La coincidenza, arrivo di Caselli-arresto di Riina, è così straordinaria che non passa inosservata neanche ai più distratti. Ma l’eccitazione stordisce. Nell’affollatissima sala della conferenza stampa, al comando dei carabinieri della legione, ci sono anche quattro o cinque alti ufficiali provenienti da Torino. Che ci fanno a Palermo?
La notizia però è una sola: “U’ pigliaru“, l’hanno preso. Chi l’ha preso? Dove, l’hanno preso? Come, l’hanno preso? «Sulla circonvallazione, alla rotonda di viale Lazio». Non si sa altro. Chiedo ad alcune fonti e non mi dicono nulla. Non mi dicono nulla perché nulla sanno.
Raccolgo solo sussurri: «Questa notte c’è stato uno scazzo fra i carabinieri della territoriale e quelli dei reparti speciali». Uno scazzo? Incomprensioni intorno all’arresto dello zio Totò? Perché? Non c’è tempo per andare dietro a contrasti o gelosie fra investigatori, il procuratore Caselli è già pronto a parlare, ordini gridati, rumori di passi.
Intorno a lui il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò e i sostituti Francesco Lo Voi e Giuseppe Pignatone, il comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) generale Antonino Subranni, il suo vice colonnello Mario Mori, nell’ombra il capitano Sergio De Caprio meglio conosciuto come ”Ultimo”, il comandante della legione di Palermo generale Giorgio Cancellieri.
C’è anche il colonnello Domenico Cagnazzo e poi ci sono quegli ufficiali scesi dal Piemonte. L’euforia è contagiosa e i discorsi evasivi, percepisco subito che qualcosa che non quadra. Nelle ore successive un nome alla fine sfugge: è quello di Baldassare Di Maggio detto Balduccio.
L’apparizione di Balduccio
Uomo d’onore della famiglia di San Giuseppe Jato, ex autista di Totò Riina, è un mafioso in pessimi rapporti con il suo compaesano Giovanni Brusca. È Balduccio che ha dato la “battuta”, l’informazione per prendere il capo di Cosa nostra.
Pochi lo conoscono, uno è sicuramente il generale Francesco Delfino che era entrato in contatto con lui – prima di transitare nei ranghi del Sismi, il servizio segreto militare – quando era vice comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale.
Si viene a sapere che Balduccio, l’8 gennaio, viene arrestato “casualmente” in un’officina di Borgomanero, in provincia di Novara. E che vuole un incontro con il generale Delfino, un passato di operazioni opache durante le indagini sui sequestri di persona e sulla strage di piazza della Loggia a Brescia.
Nell’estate del 1992, dopo l’attentato di Capaci, Delfino aveva confidato al ministro della Giustizia Claudio Martelli: «Per Natale avrà un bel regalo». Si riferiva a Totò Riina. Generale e mago. Da dove era spuntato questo Balduccio Di Maggio? È il primo vero grande mistero della vicenda.
La dinamica dell’arresto di Di Maggio è apparso subito molto strano, e per niente accidentale. I carabinieri dicono di avere ricevuto una soffiata su «un traffico di stupefacenti» nel garage di tale Mangano, un meccanico di Borgomanero.
Fanno un blitz ma non trovano né droga né quel Mangano, c’è solo Balduccio con una calibro nove infilata nella cintura dei pantaloni. Per giunta è scarica, senza caricatore. Un paio di settimane dopo la cattura di Riina vengo in possesso di un verbale di interrogatorio.
È clamoroso ed è anche carta straccia. Perché ci sono tredici carabinieri del comando di Novara (un colonnello, due tenenti colonnelli, un maggiore, un capitano, un tenente, due marescialli, tre brigadieri, un appuntato e un carabiniere semplice) più Delfino che, in quanto generale non è un ufficiale di polizia giudiziaria e non avrebbe mai potuto partecipare a quell’interrogatorio, dove Balduccio Di Maggio rivela a tutti loro che può portare dritto a Riina. È come un pero appeso all’albero.
Confidenze a perfetti sconosciuti
Il verbale si apre così: «A richiesta dell’interessato che ha voluto riferire ai sottoscritti urgentemente notizie che gli sono venute alla mente e che ritiene che sono della massima importanza». Sembra una barzelletta. Un grosso mafioso fermato – “casualmente” – che vuota il sacco sul capo dei capi della mafia siciliana.
Sono le due di notte del 9 gennaio 1993, una settimana prima dell’arresto e Balduccio fornisce notizie riservatissime sul più imprendibile dei boss a perfetti sconosciuti, Delfino escluso. Fa anche un disegno della zona di Palermo dove ha accompagnato qualche volta Totò Riina, fa i nomi dei Ganci della Noce e dei Sansone dell’Uditore.
Inoltre informa che “un tale Di Marco”, giardiniere di San Giuseppe Jato, è l’uomo che ogni mattina accompagna i figli dello zio Totò a scuola. Gian Carlo Caselli, che da lì a qualche giorno si sarebbe insediato come procuratore a Palermo, viene messo al corrente e si affida al colonnello Mario Mori, un ufficiale che ha indagato al suo fianco sulle Brigate rosse.
Il generale Delfino all’improvviso sparisce dalla scena ed entra in campo Mori. Nonostante tutto abbia avuto origine da lui, il generale Delfino non si vedrà e non si sentirà mai più e neanche di striscio nell’enigmatica storia della cattura di Riina.
Intanto Balduccio Di Maggio l’11 gennaio viene trasferito in gran segreto a Palermo. E intanto il capitano “Ultimo” continua a indagare sui Ganci della Noce e sui Sansone dell’Uditore. È da luglio che il Ros ha costituito un gruppo per catturare Totò Riina.
L’attenzione di “Ultimo” si concentra anche su un’abitazione a Palermo di via Bernini, civico 52/54. Ci abitano i Sansone, costruttori e mafiosi. Piazza lì un furgone con una telecamera nascosta. Fanno vedere le riprese a Balduccio, il 14 gennaio Di Maggio riconosce uno dei figli di Salvatore Riina e Vincenzo De Marco. Ma in quella casa c’è anche il capo dei capi o solo la sua famiglia?
La mattina del 15 gennaio i carabinieri portano Di Maggio in via Bernini e lui identifica dal vivo anche Salvatore Biondino (Biondolillo, lo chiama) che sta guidando un’auto, accanto c’è Totò Riina. Ottocento metri più in là, sulla rotonda di viale Lazio, l’auto dei mafiosi è imbrigliata nel traffico e “Ultimo” con la sua squadra afferra il latitante più famoso d’Europa. E da questo momento la vicenda della cattura sprofonda nel suo secondo grande mistero. Torniamo ancora alla mattina del 15 gennaio.
Il magistrato neutralizzato
Prendo per (quasi) buone le notizie che vengono diffuse in conferenza stampa ma contemporaneamente succede qualcosa. Mentre Caselli parla, il sostituto procuratore di turno Luigi Patronaggio, seguito su un’altra auto dal capitano dei carabinieri Marco Menicucci e dal tenente Andrea Brancadore, sta per andare a perquisire il covo dove presumibilmente si nascondeva Totò Riina.
Viene fermato dal capitano De Caprio appena in tempo. Torna su in caserma, dove il procuratore Caselli è circondato da una mezza dozzina di ufficiali. Patronaggio, bloccato da Ultimo, vuole capire. Gli spiegano che è meglio non entrare nel covo perché, adottando la strategia “delle foglie morte” tanto cara al generale Dalla Chiesa nella sua guerra al terrorismo, senza quella perquisizione sarebbe stato più facile prendere tutti i fiancheggiatori di Totò Riina. Corda lunga per non farli insospettire.
In caserma Caselli è pronto a ogni soluzione: «Fatemi sapere cosa avete bisogno, uomini e mezzi, e li avrete immediatamente». I vertici del Ros lo convincono a non intervenire. Patronaggio è neutralizzato.
Alle 11 del mattino tutti sanno che il covo di Riina è sotto controllo. Ma, incredibilmente, alle 16 di quello stesso pomeriggio, appena cinque ore dopo l’arresto, il covo via Bernini non sarà più sorvegliato. Abbandonato. Nessuno avvisa Caselli e gli altri della procura.
E però, giorno dopo giorno, i carabinieri del Ros assicurano ai magistrati che “c’è un costante e attento controllo” della villa. Caselli si fida. Anche troppo. Nel frattempo Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, il 16 gennaio fa ritorno a Corleone e i magistrati ne vengono a conoscenza dal capitano della compagnia del paese. E non dai Ros che, oramai, non sorvegliano più la villa da almeno venti ore.
In procura qualcuno comincia ad avere dubbi. Per depistare i giornalisti a caccia del covo, i carabinieri irrompono in un fondo vicino. È una sceneggiata, sanno bene che lì Riina probabilmente non c’è mai stato. Sono passati già dodici giorni dall’arresto e, il 27 gennaio, il colonnello Mori – circostanza annotata dall’aggiunto Vittorio Aliquò in un diario – sostiene che l’osservazione del covo di via Bernini «sta creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione».
Al magistrato dà la certezza che il covo sia ancora sorvegliato. «Tensione e stress al personale operante…». Trascorrono altri cinque giorni prima di scoprire la verità. È il 3 febbraio, i carabinieri della territoriale entrano nella villa di via Bernini.
Il “tesoro“ portato via
I mobili sono accatastati, le pareti ritinteggiate, i bagni ristrutturati. C’è un guardaroba blindato in camera da letto, è vuoto. C’è una botola lunga due metri, è vuota. C’è una cassaforte nella stanza adibita a studio, è vuota. Diciannove giorni dopo l’arresto del capo dei capi la villa è una scatola vuota. Si erano portati via tutto.
Il procuratore Caselli s’infuria e il 10 febbraio invia una lettera al comando generale dei carabinieri e ai Ros. Chiede “spiegazioni”. Non arriveranno mai. Ma chi ha ripulito la villa? Chiunque sia stato, ne ha avuto tutto il tempo.
Seguono le confessioni dei pentiti. Giovanni Brusca svela che è stato uno dei fratelli Sansone, Giuseppe, a sterilizzare gli ambienti per non lasciare una sola traccia del boss. Dentro Cosa Nostra, e anche fuori, si diffonde la notizia del “tesoro“ di Riina, un archivio da far tremare l’Italia.
Qualcuno mette in giro la voce che sia finito nelle mani di Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese che Totò Riina avrebbe voluto come suo erede. La collaboratrice di giustizia Giusy Vitale dice ai procuratori: «Se qualcuno avesse trovato le carte di Riina sarebbe successo il finimondo».
L’incredulità dello zio Totò
Nessuno, proprio nessuno, ha mai capito perché il covo sia stato lasciato alla mercé dei mafiosi. Nemmeno il capo dei capi. Era incredulo, sbalordito. Motivazioni della sentenza d’Appello del processo sulla trattativa stato-mafia: «È un evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti, per i quali la perquisizione immediata dei luoghi in cui vivono è fondamentale non fosse altro per rinvenirvi elementi utili a individuare la rete di favoreggiatori… Si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa Nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene».
Il colonnello Mario Mori ha sempre difeso l’operato dei suoi e giustificato la mancata sorveglianza «per un disguido». Nel 1996 è partita un’inchiesta di “favoreggiamento alla mafia“ contro di lui e il capitano “Ultimo”.
Per due volte la procura della repubblica palermitana ne ha chiesto l’archiviazione ma un giudice, Vincenzina Massa, ha imposto l’imputazione coatta ai pubblici ministeri. Si è celebrato un lungo processo dal quale Mori (che intanto era diventato il direttore dei servizi segreti civili nel governo Berlusconi) e “Ultimo” sono usciti assolti «perché il fatto non costituisce reato». Nonostante la sentenza, i dubbi sono rimasti. E anche tanti.
«È una ferita ancora sanguinante», ha testimoniato l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al processo sulla trattativa, dove il mistero del covo ha rappresentato uno dei pilastri dell’accusa.
Mario Mori, questa volta con il generale Antonino Subranni, era accusato di avere favorito ancora una volta Cosa Nostra schierandosi con la parte più “moderata” dell’organizzazione per isolare l’ala stragista guidata da Totò Riina e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.
Assolti tutti gli imputati anche lì. In qualche modo un patto ci fu (i magistrati di appello scrivono di «un’ibrida alleanza») ma stipulato “a fin di bene”: disinnescare la minaccia mafiosa per salvare l’Italia da altri attentati.
Congiure
C’è stata congiura contro Mori e contro i suoi? C’è stata congiura di Mori e dei suoi? Negli ultimi trent’anni due “partiti” si sono scontrati su questi interrogativi e le polemiche sono state violente. Mori il diavolo, Mori il salvatore della patria.
Come era prevedibile, i processi non ci hanno consegnato certezze su quel 15 gennaio, data di confine fra una stagione mafiosa e l’altra. Forse, oggi, meriteremmo di saperne qualcosa di più. E avere anche una piccola prova.
Per esempio un’immagine dell’arresto di Totò Riina alla rotonda di viale Lazio. O le parole di un testimone oculare che che abbia assistito alla cattura. Magari solo un chiarimento meno offensivo di quel “disguido” sulla mancata sorveglianza del covo. Perché, dopo trent’anni, la domanda è sempre e solo una: chi e perché ha servito la testa di Totò Riina su un piatto d’argento?
Pedinamenti e telecamere per seguire l’uomo che teneva nascosto il suo capo
Quello stesso 14 gennaio, alle ore 6.53, un altro appuntato della sezione, Giuseppe Coldesina, si era appostato, su ordine di Sergio De Caprio, all’interno di un furgone dotato di telecamera di fronte al cancello di ingresso al complesso immobiliare di via Bernini.
L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare le modalità di espletamento del servizio di osservazione: un furgone, dotato di telecamera interna, venne posizionato a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette da cui era costituito.
La telecamera, però, era in grado di riprendere solo per pochi metri il viale interno e dunque non era possibile “seguire” le auto che vi transitavano sino alle singole unità immobiliari, alle quali erano dirette o dalle quali uscivano; pertanto, non era neppure possibile stabilire quante fossero le villette esistenti nel residence (v. dichiarazioni rese dal Coldesina all’ud. del 25.5.05, nonché le deposizioni dei magg. Balsamo e mar.llo Merenda che visionarono le immagini filmate e dei dott.ri Aliquò e Caselli ).
La scelta della tecnologia da impiegare per l’effettuazione delle video riprese era di pertinenza esclusiva del Ros, il quale ritenne che il mezzo più appropriato in considerazione dello stato dei luoghi non fosse una telecamera fissa, che avrebbe avuto bisogno di un adeguato supporto logistico, quale un palo della luce o altro, e di idonea copertura per rendersi invisibile, bensì una mobile, che poteva essere facilmente occultata all’interno di un automezzo; così come era stato fatto anche nell’indagine sui Ganci.
È stato chiarito dal magg. Balsamo, dal cap. Minicucci (sentito all’ud. del 25.5.05) e dai dott.ti Aliquò e Caselli, che i dettagli tecnici relativi a come dovesse essere eseguita l’osservazione non erano noti né alla territoriale né alla Procura, proprio perché rimessi alla valutazione discrezionale della sezione che doveva porre in essere l’attività (v. prossimo par.).
Quel 14.1.93, tutto era stato predisposto per assicurare il controllo ed il pedinamento di Giuseppe Sansone, che era stato individuato all’interno del residence e che il Di Maggio aveva indicato come fiancheggiatore del Riina, nonché l’osservazione di tutti coloro che fossero pervenuti o fuoriusciti dal complesso di via Bernini.
Uno degli uomini della squadra di “appoggio” provvide a parcheggiare il furgone, con all’interno l’app.to Coldesina, nel luogo prestabilito, di fronte al cancello di ingresso, dal quale si allontanò a piedi per essere recuperato da altra autovettura; i mar.lli Pinuccio Calvi e Riccardo Ravera (cfr. deposizione resa all’udienza del 15.6.05), assieme ad altri colleghi della sezione, si occuparono personalmente del pedinamento del Sansone, che fu visto uscire a bordo di una Fiat Tipo.
Presto i predetti si resero conto che sarebbe stato impossibile proseguire il servizio senza essere notati, a causa del comportamento particolarmente guardingo ed accorto del sopra nominato individuo, che procedeva a bassissima velocità e addirittura si fermava per guardare chi vi fosse all’interno delle auto che lo sorpassavano.
La riunione serale
Pertanto, nel pomeriggio, comunicarono al cap. De Caprio la necessità di sospendere le attività di pedinamento per evitare di essere scoperti e fecero rientro in caserma.
Il servizio di video sorveglianza, invece, continuò sino alle ore 16.58, quando un altro componente della sezione andò a prelevare il furgone, al cui interno era celato il Coldesina, per ricondurlo in caserma, ove l’appuntato relazionò il comandante sul servizio svolto, consegnandogli le videocassette delle registrazioni effettuate senza segnalargli nulla di particolare (non conosceva le sembianze fisiche della Bagarella, moglie del Riina, e del Di Marco, che sarebbero stati individuati, poche ore dopo, dal Di Maggio); il cap. De Caprio prese in consegna le cassette e gli ordinò di riprendere il servizio la mattina seguente.
Quella sera stessa, in caserma, (come riferito dai protagonisti) il magg. Domenico Balsamo, su ordine dell’allora vice comandante col. Cagnazzo che gli aveva chiesto di verificare se dal servizio di osservazione fosse emerso qualche elemento utile, il suo collaboratore mar.llo Rosario Merenda, il cap. De Caprio e Baldassare Di Maggio, appositamente convocato per riconoscere nelle persone video riprese eventuali personaggi di interesse investigativo, procedettero alla visione dei filmati.
Non vi partecipò, invece, il comandante del gruppo 1 del nucleo operativo cap. Marco Minicucci, che andò via prima che avesse inizio l’attività a causa – come ha riferito in dibattimento – di non meglio precisate “incomprensioni” maturate con i colleghi sulla gestione del collaboratore, affidata alla sua responsabilità.
In quegli stessi locali dove si trovavano riuniti si affacciò anche il capitano De Donno, allora comandante della II sezione del Ros, che si limitò a salutare i colleghi, senza prendere alcuna parte a quanto vi si stava svolgendo. Giuseppe De Donno era infatti arrivato a Palermo nella stessa giornata, dovendo, la mattina successiva (15.1.93), rendere testimonianza nel cd. processo “mafia appalti”, in corso contro Angelo Siino ed altri.
L’arresto “casuale” di Balduccio e il colloquio che voleva con un generale
Parallelamente, tornando ad osservare quanto stava accadendo a Palermo nello stesso lasso temporale, il Ros, nella persona dell’imputato De Caprio e dei suoi uomini, dopo le riunioni di luglio e settembre 1992 a Terrasini, si trovava impegnato nelle attività di osservazione, controllo e pedinamento della famiglia Ganci.
Il nucleo operativo, invece, aveva avviato le indagini dirette a localizzare, grazie alle notizie fornite da fonti confidenziali, il Di Maggio che, come detto, si era rifugiato in Piemonte.
Quest’ultimo, come già accennato, era intento ad orchestrare un suo piano di azione per la ripresa del potere in quello che considerava ancora il suo mandamento (il territorio di S. Giuseppe Iato) e nel perseguimento di questo obiettivo aveva deciso di uccidere Giovanni Brusca, come dichiarato – e poi negato nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento – in data 9.1.93 ai carabinieri che lo trarranno in arresto.
Una volta eliminato il rivale, e se del caso anche lo stesso Riina, contava infatti di tornare ad essere l’unico possibile punto di riferimento in quel territorio, nel quale non aveva mai interrotto i rapporti e dove conservava stabili posizioni di potere.
In proposito, Giuseppe La Rosa ha riferito che ai primi di dicembre 1992 il Di Maggio lo incaricò di scoprire dove potesse trascorrere la latitanza il Riina ed a tal fine gli suggerì di osservare gli spostamenti di Vincenzo Di Marco, che ne accompagnava i figli a scuola, di “Faluzzo” Ganci che aveva delle macellerie nel quartiere “Noce” di Palermo e di Salvatore Biondolillo, che provvedevano ai suoi spostamenti ed alle sue necessità.
In una occasione vide Franco Spina, che già conosceva anche come il titolare del negozio “Amici in tavola” assieme a Stefano Ganci (figlio del “Faluzzo”), incontrarsi proprio con il Biondolillo di fronte al motel Agip, su viale Regione Siciliana; il Biondolillo sparì per circa due ore con un carico di buste per la spesa, cosa che lo fece sospettare sul fatto che quella spesa fosse destinata proprio al Riina ed a questi fosse stata consegnata nella zona.
Il La Rosa riferì l’episodio al Di Maggio durante un incontro in Toscana, avvenuto prima del Natale 1992, il quale gli disse che di lì a poco sarebbe sceso in Sicilia ed «avrebbe fatto ciò che doveva».
I carabinieri di Monreale, appartenenti al gruppo 2 del nucleo operativo, erano frattanto riusciti ad individuare il Di Maggio in Borgomanero, provincia di Novara, ove intratteneva contatti con un proprio compaesano che vi si era trasferito da diversi anni, Natale Mangano, titolare di un’officina meccanica, le cui utenze telefoniche vennero immediatamente sottoposte ad intercettazione (v. deposizione resa dal ten. col. Domenico Balsamo all’ud. del 16.5.05).
L’8.1.1993 i militari captarono una conversazione che li indusse a sospettare fosse in atto un traffico di stupefacenti, per cui richiesero ai colleghi di Novara di intervenire con una perquisizione di loro iniziativa nei locali.
A seguito di tale perquisizione venne rinvenuto e tratto in arresto, perché colto in possesso di un giubbotto antiproiettile e di armi, il Di Maggio che, come riferito dal teste col. Balsamo, nonostante il suo stato di incensuratezza e l’accusa non particolarmente grave elevata a suo carico, limitata alla detenzione di armi, cominciò subito a comportarsi in modo anomalo, manifestando grande agitazione e forte paura.
Portato in caserma, cominciò a riferire agli operanti che temeva per la sua vita e che avrebbe potuto fornire informazioni preziose per le investigazioni in Sicilia, soprattutto in merito a Salvatore Riina.
Queste circostanze, subito comunicate dal personale locale ai colleghi del Nucleo Operativo di Palermo, confermarono a questi ultimi la veridicità delle notizie apprese in via confidenziale circa l’effettiva esistenza di una grave frattura consumatasi all’interno di “cosa nostra”, che aveva indotto il Di Maggio a lasciare il territorio isolano, ed indussero l’autorità giudiziaria ad inviare subito a Novara personale dell’Arma per sentire cosa avesse da riferire il prevenuto.
La sera stessa di quell’8.1.93 (alle ore 24 circa), l’allora magg. Domenico Balsamo, comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, ed il proprio collaboratore mar.llo Rosario Merenda giunsero nella caserma ove era trattenuto il Di Maggio, il quale, come appresero dai colleghi della stazione, aveva già iniziato a dialogare con il comandante CC della Regione Piemonte, gen. Francesco Delfino.
Di Maggio chiede un colloquio con Delfino
L’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare, tramite la deposizione dello stesso Di Maggio resa all’udienza del 21.10.05 e l’acquisizione ( ud. 9.5.05) del verbale delle dichiarazioni rilasciate da Francesco Delfino in data 21.2.97 innanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i motivi per i quali avvenne questo colloquio, apparentemente anomalo perché riguardante un soggetto all’epoca sconosciuto alle autorità investigative ed il generale che comandava l’Arma territoriale a livello locale.
Al riguardo è emerso che:
- fu il Di Maggio a chiedere, appena giunto in caserma a Novara, di poter parlare con la persona più alta in grado, aggiungendo che aveva informazioni da riferire su latitanti di mafia ed in particolare su Salvatore Riina;
- il Di Maggio non conosceva il gen. Francesco Delfino e viceversa;
- il gen. Delfino assunse il comando delle Regioni Piemonte e Valle D’Aosta il 6.9.1992;
precedentemente egli aveva prestato servizio proprio in Sicilia, ove, in data 28 o 29 giugno 1989, quale vice comandante della regione Palermo, aveva diretto un’operazione nel territorio di San Giuseppe Iato, contrada Ginostra. Tale ultima attività aveva avuto lo scopo di localizzare e perquisire una grande e lussuosa villa in costruzione, che fonte confidenziale aveva indicato come di titolarità proprio di tale Baldassare Di Maggio, il quale svolgeva mansioni di autista per il Riina e che proprio in quella villa poteva dare ospitalità al latitante. La perquisizione aveva dato esito negativo, in quanto non vi era stato rinvenuto nessuno dei sopra nominati soggetti né alcun elemento di riscontro alle informazioni ricevute dal confidente, tanto che al Di Maggio furono in seguito notificati solo verbali di accertamento di violazioni di tipo edilizio. Il gen. Delfino (cfr. verbale del 21.2.97), all’atto del suo insediamento al comando della Regione Piemonte, era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno 1992 erano in corso delle indagini, sollecitate dalla stazione di Monreale, per ricercare in Piemonte tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto capace di fornire notizie utili su Giovanni Brusca, che ne aveva ordinato, con tutta probabilità, l’eliminazione. Egli, grazie a quell’operazione condotta in contrada Ginostra, fu, pertanto, in grado di cogliere subito la rilevanza investigativa del nominativo che gli veniva fatto e, collegandolo alla possibile presenza in Piemonte anche del Riina, forse malato, decise, senza riferire a nessuno l’episodio del 1989, di attivare, in segretezza, un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce sul territorio della presenza del boss corleonese. Il personale di Novara, intanto, aveva proseguito gli accertamenti e le ricerche sul Di Maggio ed a dicembre il comandante provinciale gli aveva comunicato che erano riusciti infine a localizzarlo a Borgomanero.
Il grande colpo dei carabinieri e Totò Riina è in trappola
Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco, che lo stesso magg. Balsamo, in quanto comandante del gruppo 2 del Nucleo Operativo, aveva inutilmente ricercato a S. Giuseppe Iato, mediante servizio svolto dal personale locale, quella stessa mattina del 14 gennaio. La scoperta dei familiari del latitante e di colui che era incaricato di portarne i figli a scuola in quel complesso di via Bernini, che era stato posto sotto osservazione in quanto luogo di pertinenza di Giuseppe Sansone, costituì per tutti una enorme quanto insperata sorpresa, che poteva consentire, finalmente, di stringere il cerchio attorno al noto boss. All’alba del 15.1.93, quando ebbero finito dopo diverse ore di vedere tutti i filmati, il magg. Balsamo ed il cap. De Caprio decisero che il nuovo servizio si sarebbe dovuto svolgere con la presenza fisica del Di Maggio sul furgone, assieme all’appuntato Coldesina (cui furono mostrati i fotogrammi relativi alla Bagarella ed a Di Marco), in modo da assicurare anche un’osservazione diretta ed immediata delle persone che potevano accedere al complesso o che ne sarebbero fuoriuscite. Furono, quindi, impartite le successive disposizioni. Tutti gli uomini della sezione – che furono per l’effetto messi a conoscenza, nelle prime ore della mattinata, dal De Caprio di quanto era emerso – si sarebbero posizionati nella zona – cosa che, contrariamente a quanto era avvenuto il giorno prima, avrebbe fatto anche l’imputato – pronti ad eseguire tutti gli eventuali pedinamenti e le attività che si fossero rese necessarie. Il servizio, difatti, si prestava a diversi esiti, in quanto la presenza della Bagarella, dei figli e del De Marco non significava necessariamente che nel complesso di via Bernini vi abitasse anche lo stesso Riina, ben potendo la donna recarsi ad incontrare il marito all’esterno del residence, dove invece il boss poteva aver scelto di fare alloggiare la famiglia per ragioni di sicurezza. L’obiettivo immediato e certo era dunque pedinare la moglie e l’autista del Riina, mentre ogni altra eventualità rappresentava in quel momento solo un’ipotesi e come tale fu presa in considerazione. Vista l’ora tarda, i due comandanti convennero di non relazionare.
Un arresto non “immediato”
Immediatamente i propri superiori circa gli esiti emersi dalle riprese filmate ma di provvedervi più tardi nel corso della mattinata, come il cap. Sergio De Caprio poi in effetti fece, comunicando le novità al col. Mario Mori il quale, a sua volta, prima dell’arresto del Riina, ne rese edotto il magg. Mauro Obinu, come da questi riferito in dibattimento. Il magg. Domenico Balsamo, invece, quando incontrò i propri superiori all’arrivo in ufficio, verso le 7.30, preferì – come dallo stesso dichiarato in aula – rinviare ad un momento più opportuno la dovuta comunicazione circa gli sviluppi delle indagini, sia perché troppe persone erano presenti sia perché non v’era alcuna certezza, bensì solo la speranza, che si potesse arrivare alla localizzazione di Salvatore Riina, il quale, invece, inopinatamente, sarebbe stato arrestato dopo neppure un paio d’ore. Il verbale redatto e sottoscritto dall’app.to Giuseppe Coldesina (cfr. all. n. 23 doc. difesa De Caprio) fotografa esattamente quali attività di osservazione furono compiute il 15.1.1993:
- alle ore 8.52 Salvatore Biondino, che ancora non era stato individuato, entrò nel complesso e ne uscì alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero;
- Baldassare Di Maggio li riconobbe ed il Coldesina informò immediatamente via radio il comandante De Caprio che con i suoi uomini procedette all’arresto alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini.
In ordine al motivo per il quale l’arresto non venne eseguito immediatamente ma si aspettò qualche minuto, quando ormai l’auto si era allontanata approssimandosi alla rotonda del Motel Agip, il teste mar.llo Calvi, che si trovava sulla stessa auto con il cap. Sergio De Caprio, ha riferito che ciò avvenne in quanto solo in quel momento maturarono le condizioni di sicurezza per potere intervenire, essendosi venuta a trovare l’auto sulla quale viaggiava il Riina ferma dietro ad altre autovetture. Il Coldesina, cui nel frattempo era stata data la notizia dell’arresto, ricevette l’ordine di continuare il servizio, che difatti proseguì con le stesse modalità e dunque con la presenza del Di Maggio sino alle ore 16.00, quando gli venne comunicato che un collega sarebbe giunto a prelevare il furgone e li avrebbe riportati in caserma. I testimoni mar.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi hanno riferito che quella sera stessa commentarono con il De Caprio quanto era successo ed il capitano espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani, per ragioni di sicurezza per il personale, ed anche – ha riferito il Caldareri – in considerazione del comportamento che aveva tenuto Giuseppe Sansone il giorno prima e delle investigazioni che dovevano essere proseguite nei suoi confronti. In altre parole c’era l’elevata probabilità che il Sansone scoprisse il dispositivo di osservazione, se fosse stato immediatamente ripristinato il giorno seguente. Come testimoniato da coloro che erano presenti (più avanti citati), quella mattina, nella caserma Buonsignore, la notizia dell’arresto di Salvatore Riina provocò un clima di grande agitazione e fermento che si diffuse rapidamente tra tutti, assieme al comprensibile entusiasmo con cui fu accolta sia da parte dell’Autorità Giudiziaria che delle varie articolazioni dell’Arma, e ad un altrettanto comprensibile stupore per la velocità con cui si era giunti a quel risultato straordinario ed al contempo insperato in così breve tempo. Anche le modalità che l’avevano reso possibile erano straordinarie, sia perché il Riina non aveva opposto resistenza, sia perché la collaborazione del Di Maggio era iniziata appena sei giorni prima.
Perquisire o non perquisire il covo? Gli investigatori si dividono
La concitazione di quei momenti, il gran numero di individui che affollava il cortile dove tutti si erano informalmente riuniti e ritrovati, spiega – come riferito da tutti i testimoni che vi presero parte – il perché non si svolse alcuna riunione di carattere formale, sostituita, di fatto, da discussioni, che ormai evidentemente si concentravano “sul che fare ora” e come pRoseguire l’azione di contrasto a “cosa nostra”, e che avvenivano proprio in quel medesimo contesto di luogo, di tempo e di persone.
Fu in quel contesto, dunque, che iniziarono ad emergere e profilarsi, come riferito dalle testimonianze acquisite e come si legge nella nota successivamente scritta dal dott. Caselli in data 12.2.93 (all. f produzione documentale P.M., acquisita all’ud. del 9.5.05), due diverse linee d’azione: quella che sosteneva la necessità di irrompere immediatamente nel complesso di via Bernini, individuare la villa da cui era uscito il latitante e procedere alla sua perquisizione, l’altra, sostenuta dal Ros e dal De Caprio in particolare, che invece riteneva si aprisse la possibilità di svolgere ulteriori indagini, sfruttando l’effetto sorpresa, costituito dal fatto che, essendo stato catturato il boss alla rotonda del motel Agip invece che all’uscita dal complesso di via Bernini, gli altri affiliati a “cosa nostra” non avrebbero potuto mettere in collegamento l’arresto con quel sito e dunque non sarebbero stati in grado di risalire a come i carabinieri erano riusciti a localizzare Salvatore Riina.
La conferenza stampa di Cancellieri
Questa seconda linea fu quella adottata in sede di conferenza stampa, nel corso della quale il generale Cancellieri riferì la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip. Nessun riferimento venne fatto a via Bernini ed a tutta l’attività che ivi era stata espletata. Tuttavia – come emerge dalle deposizioni rese, che pure non hanno potuto scandire con chiarezza come si succedettero le varie determinazioni – l’idea di procedere alla perquisizione era tuttora “in piedi” al momento della conferenza stampa, ed anzi il dott. Luigi Patronaggio, in quanto pubblico ministero di turno, già nella mattinata aveva, d’accordo con il dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti, così come già era stata disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi 1 e 2 del Nucleo Operativo guidati dal magg. Balsamo e dal cap. Minicucci, che avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta individuata la villa, alla perquisizione. Le squadre, che ormai in tarda mattinata erano pronte, rimasero in attesa, nel cortile della caserma, dell’ordine di partire che tuttavia non arrivava. A quel punto si era fatta ora di pranzo, per cui i magistrati e gli ufficiali dell’Arma, ad eccezione del col. Cagnazzo, che si era allontanato per occuparsi del trasferimento del Riina in un luogo di sicurezza, e del gen. Subranni, cui spettava la redazione delle comunicazioni da inviare agli organi istituzionali, decisero di fermarsi al circolo ufficiali. Nel frattempo, subito dopo la conferenza stampa – come dichiarato dal cap. De Donno, da Attilio Bolzoni (ud. 11.7.05) e da Saverio Lodato (ud. 26.9.05) – Giuseppe De Donno, che quella mattina era stato a testimoniare nel processo cd. “mafia-appalti”, era intento a conversare con alcuni giornalisti (Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il Bolzoni ed il Lodato). In questo contesto, ebbe a profferire la frase – poi pubblicata sul Corriere della Sera e da lì ripresa su altre testate – secondo cui “qualcuno per la vergogna sarebbe dovuto andare via da Palermo”, frase che gli esponenti della stampa misero all’epoca in diretto collegamento con l’arresto di Riina e che successivamente – quando ormai sarebbe stato noto che il cd. “covo”, invece di essere perquisito dalle forze dell’ordine, era stato svuotato da ogni cosa ad opera di terzi di fatto lasciati liberi di agire indisturbati – sarebbe stata riletta proprio in correlazione con la vicenda della mancata perquisizione. In dibattimento, il teste De Donno ha chiarito che in realtà quella frase non aveva alcuna attinenza con l’arresto di Salvatore Riina, vicenda alla quale era rimasto completamente estraneo, ma si riferiva alle indagini condotte dalla sua sezione, che erano sfociate nel rapporto cd. “mafia-appalti”. I giornalisti ignoravano, invece, che egli non avesse preso parte alle indagini relative alla cattura del Riina e, visto il contesto nel quale il capitano aveva rilasciato quella esternazione, la misero in diretta correlazione con la “notizia del giorno” e, successivamente, con le anomalie che la contraddistingueranno.
Indagini senza più informazioni sul covo e il diario di un procuratore
Altro elemento di fatto che l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare è che Sergio De Caprio, dal giorno dell’arresto di Riina, non partecipò più ad alcuna riunione né con l’Autorità Giudiziaria in Procura né con l’Arma territoriale.
Difatti, mentre sino a quel momento il Ros ed il Nucleo Operativo, per esigenze di coordinamento delle indagini e di scambio di informazioni, avevano avuto contatti continui ed erano stati coinvolti, con cadenza quotidiana, in riunioni operative, dopo la cattura ciascuno si concentrò sulle attività di propria competenza e tra i due organismi il flusso di notizie e comunicazioni si interruppe. Così come, parimenti, cessò ogni contatto anche tra i magistrati e l’imputato.
Va qui precisato che l’annotazione in senso contrario riportata nella comunicazione del 12.2.93 a firma del dott. Caselli, laddove menziona una riunione del 20.1.93 nel corso della quale il cap. De Caprio avrebbe suggerito, unitamente ad altri colleghi della territoriale, di effettuare al più presto la perquisizione al cd. “fondo Gelsomino” “al fine di deviare l’attenzione dall’obiettivo reale delle indagini al quale – fu detto – alcuni giornalisti erano ormai arrivati assai vicini e che invece conveniva tenere ancora sotto controllo”, si è rivelata erronea.
In proposito, deve rilevarsi che per la redazione di quella nota il dott. Caselli si basò su un appunto manoscritto redatto dal dott. Aliquò – che ne ha riconosciuto la paternità in dibattimento – il 7 o l’8 febbraio 1993, quando, eseguita la perquisizione ed appurato che il cd. “covo” di Riina era stato svuotato da ignoti, si pose il problema di chiedere all’Arma ed al Ros chiarimenti su quanto era accaduto.
Fu allora che il procuratore aggiunto, che aveva partecipato a tutte le riunioni operative, redasse, a mano, un diario degli avvenimenti nonché la bozza della lettera per il dott. Caselli, utilizzando quelli che erano i suoi ricordi ed i dati contenuti in una nota dattiloscritta elaborata, sempre successivamente agli eventi, dai colleghi sostituti procuratori.
Documenti a loro volta contenenti alcuni dati erronei, come l’istruzione dibattimentale ha consentito di accertare.
In merito alla riunione in oggetto, è stato provato – sulla base di quanto riferito concordemente da tutti testi di seguito nominati – che non vi partecipò personalmente il dott. Caselli ma il dott. Aliquò, e che vi prese parte solo l’Arma territoriale nelle persone del gen. Cancellieri, del col. Cagnazzo e del cap. Minicucci. Fu proprio il col. Cagnazzo a suggerire – avendo appreso da notizie di stampa che i giornalisti stavano battendo la zona di via Bernini alla ricerca del cd. “covo” – di effettuare quella perquisizione a scopo diversivo. Valutazione che venne accolta e condivisa dall’Autorità Giudiziaria e che portò, il giorno seguente (21.1.93), all’esecuzione ex art. 41 TULPS dell’operazione, con grande clamore e dispiegamento di mezzi per garantirne la più ampia pubblicità.
Anche l’annotazione manoscritta del dott. Aliquò non menziona, tra i partecipanti, gli imputati; in proposito però l’allora procuratore aggiunto ha dichiarato, in dibattimento, che qualcuno del raggruppamento doveva essere presente e ciò non per un suo preciso ricordo – inesistente sul punto – ma perché, comunque, il raggruppamento non poteva non esserne informato. Deduzione di carattere logico che è stata espressa anche dal gen. Cancellieri, secondo cui la territoriale era “servente” rispetto al Ros in quell’operazione e che vale a spiegare come mai il cap. De Caprio fu indicato come presente nella lettera del 12.2.93, quando invece non lo era.
Neppure vi partecipò il col. Mori che quel giorno alle ore 13.00 fece rientro da Palermo a Roma (cfr. consuntivo dei servizi fuori sede depositato dalla difesa), della cui presenza, difatti, non ha riferito alcuno.
Il Ros, nella persona del magg. Mauro Obinu – come ha riferito in dibattimento – era a conoscenza dei preparativi della perquisizione, ma non partecipò alla riunione che la deliberò, non condivise la decisione che ne scaturì e non prese parte all’operazione, che fu eseguita solo dalla territoriale.
La finalità dell’iniziativa – ha riferito il gen. Cancellieri – era duplice, ovvero investigativa, tenuto conto che il fondo “Gelsomino” era stato sempre considerato uno degli obiettivi dell’indagine, avendone parlato il Di Maggio come uno dei luoghi che il Riina aveva frequentato, e di depistaggio della stampa, che proprio per questo fu preavvertita della perquisizione dal magg. Ripollino.
EDITORIALE DOMANI L’arresto del capo dei capi. 14 gennaio 2023 stralci della sentenza di primo grado, la numero 514/06 dei magistrati della terza sezione penale del tribunale di Palermo, presidente Raimondo Loforti e giudice estensore Claudia Rosini.