ROSARIO LIVATINO, l’agguato, gli assassini, i processi

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OMICIDIO ROSARIO LIVATINO (21 SETTEMBRE 1990)




I KILLER  
e le tappe della vicenda processuale relativa all’omicidio di Rosario Angelo Livatino

Processo Livatino I:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 7/1992 Reg. Sent. pronunciata il 18 novembre 1992, nel procedimento penale contro AMICO Paolo e PACE Domenico

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 7/1994 Reg. Sent. pronunciata il 13 aprile 1994, nel procedimento penale contro AMICO Paolo e PACE Domenico – (parte 1) (parte 2)

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione II Penale n. 118/1995 Reg. Sent. pronunciata il 27 gennaio 1995, sul ricorso proposto da AMICO Paolo e PACE Domenico

Processo Livatino bis:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 3/1995 Reg. Sent. pronunciata il 13 luglio 1995, nel procedimento penale contro AVARELLO Giovanni, PUZZANGARO Gaetano, AMICO Paolo e PACE Domenico

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 1/1997 Reg. Sent. pronunciata il 5 gennaio 1997, nel procedimento penale contro AVARELLO Giovanni, PUZZANGARO Gaetano, AMICO Paolo e  PACE Domenico  – (parte 1) (parte 2)

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 1568/1997 Reg. Sent. pronunciata il 10 novembre 1997, sul ricorso proposto da AVARELLO Giovanni e PUZZANGARO Gaetano

Processo Livatino ter:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta, I Sezione n. 3/1998 Reg. Sent. pronunciata il 4 aprile 1998, nel procedimento penale contro BENVENUTO Giuseppe Croce, CALAFATO Giovanni, CALAFATO Salvatore, GALLEA Antonio, MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 9/1999 Reg. Sent. pronunciata il 24 settembre 1999, nel procedimento penale contro BENVENUTO Giuseppe Croce e CALAFATO Giovanni  

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 10/1999 Reg. Sent. pronunciata il 25 settembre 1999, nel procedimento penale contro CALAFATO Salvatore, GALLEA Antonio, MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore  

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 1102/2001 Reg. Sent. pronunciata il 16 ottobre 2001, sul ricorso proposto da CALAFATO Salvatore e GALLEA Antonio  

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 267/2002 Reg. Sent. pronunciata il 19 marzo 2002, sul ricorso proposto da MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore


L’ ULTIMA PALLOTTOLA IN PIENO VOLTO.  La disfatta dello Stato italiano l’abbiamo vista ieri mattina in fondo ad una valle senza alberi. Campi di sterpaglie, pietre grigie, polvere. E giù, molto più giù, dove una volta scorreva un fiume, solo un puntino bianco. Un lenzuolo. Con le formiche che ci camminano sopra, con le mosche che ronzano intorno, con il vento che lo solleva ad ogni soffio scoprendo il viso pallido di uomo appena morto. Era un giudice, uno di quei giudici siciliani che aveva onore e non conosceva paura. E adesso eccolo qui, disteso tra gli arbusti, gli occhi sbarrati, i capelli neri sporchi di terra, la faccia insanguinata. Ha scelto lui di morire quaggiù, rotolando nella scarpata, cercando la fuga con la disperazione dell’ uomo braccato e ferito. Quei macellai che l’ hanno ammazzato gli sono corsi dietro, hanno giocato al tiro al bersaglio. Il giudice è morto al rallentatore, inseguito per almeno tre o quattro minuti, finito sul letto del torrente in secca con una scarica di pallettoni. Gli hanno sparato in bocca. La mafia siciliana anche questa volta non ha colpito a caso. Rosario Livatino non solo era un magistrato che conosceva i segreti dei clan, era soprattutto un magistrato che da dieci anni faceva il suo dovere. La morte di un giudice incorruttibile è stata segnata al km 10 della statale Caltanissetta-Agrigento, una veloce che somiglia ad un otto volante, incroci ad alto rischio, un mazzo di fiori sempre freschi dietro ogni curva. Sono le nove di un mattino di settembre in Sicilia, il sole picchia sui tendoni di plastica che coprono le vigne delle campagne intorno alla Valle dei Templi. Non voleva la scorta Il giudice parte da Canicattì come ogni giorno per andare in tribunale ad Agrigento. Nel paese abita con l’ anziana madre. Fa su e giù così da sempre. Stesso orario, stessa strada, stessa sosta al rifornimento per un caffè. Un abitudinario che non voleva nemmeno due poliziotti come angeli custodi. Mamma si preoccupa appena vede una divisa, meglio viaggiare soli, ripeteva da anni ai suoi colleghi che stavano in ansia per lui. E anche ieri mattina eccolo sulla sua Ford Fiesta colore amaranto, sulla strada per il capoluogo, sulla strada della morte. Ad Agrigento doveva giudicare i mafiosi di Palma di Montechiaro, un esercito di boss che a mezzogiorno avrebbero dovuto probabilmente preparare le valigie e partire per il confino. Un processo come tanti, né piu e né meno pericoloso degli altri che Rosario Livatino aveva istruito quando lavorava come sostituto procuratore. Il bivio per salire sulla Rupe Atenea, e imboccare poi il vicolo per il tribunale, era a soli sei chilometri quando la Fiesta del giudice è affiancata da un’ altra automobile. Sembra un sorpasso un po’ azzardato, ma solo un sorpasso. L’ auto è una Uno bianca che improvvisamente sbanda, che stringe verso destra, che sfiora la Fiesta del giudice. E’ un attimo, qualcuno spara. La canna di una mitraglietta esce dal finestrino, dietro arriva una motocicletta. L’ agguato sulla strada dura, spiegheranno poi quelli della scientifica, non più di novanta secondi. Novanta terribili secondi dove Rosario Livatino vede in faccia i suoi assassini. La mitraglietta fa sei o sette buchi sulla fiancata sinistra della Fiesta, una pallottola colpisce il giudice alla spalla. E’ ferito, è solo contro i suoi assassini. Non fa in tempo ad impugnare il suo revolver, non ce la fa ad infilare la mano fino sotto il sedile. Non c’ è tempo, non può usare una mano per prendere l’ arma. Rosario Livatino riesce incredibilmente ancora a ragionare, riesce a capire che forse può salvarsi senza rispondere al fuoco. Frena, sbatte contro il guardrail, ingrana la retromarcia. Sta tentando di fuggire ai killer sulla Uno, non sa che dietro di lui ci sono altri due sicari su una Honda. La sua auto è bloccata, lui sembra in trappola. Ecco, adesso i macellai della mafia scendono dall’ auto e dalla moto. Sono tutti armati, sono pronti ad uccidere quel giovane e minuto magistrato di trentotto anni che sta di fronte a loro. Che aspettano a finirlo? Perchè non sparano? un’ indecisione, solo un secondo immobili con le dita sul grilletto di mitraglie e pistole a tamburo. Il giudice intuisce che ce la può fare, che può salvarsi. Salta il guardrail che sarà alto un metro, vede il burrone e si butta giù. Questo drammatico racconto dell’ agguato e dell’ inseguimento sotto la scarpata sarà ricostruito ai poliziotti da un testimone oculare. Un testimone che ha visto tutto, uno che non ha paura di parlare. Ha descritto i volti dei killer, nei laboratori di polizia scientifica stanno già ricostruendo i loro identikit. Gli investigatori naturalmente non forniscono l’ identità del testimone, dicono che è un signore del Nord che casualmente ha assistito al massacro. Un uomo che viaggiava sulla statale 640 a bordo della sua auto dotata di radiotelefono. E’ stato lui a lanciare l’ allarme, a raccontare ogni particolare ai primi magistrati che risalivano la veloce verso Caltanissetta. L’ agonia di Rosario Livatino è durata forse quattro minuti. La disperazione lo fa correre in fondo al burrone. Settanta metri, ottanta metri, cento metri. Perde sangue dalla spalla sinistra, scivola, inciampa nei massi che si nascondono sotto gli arbusti. E i killer dietro. Che rotolano anche loro all’ inseguimento del loro uomo, alla caccia della loro vittima. Immaginatevi il terrore del povero giudice, immaginatevi i suoi pensieri mentre scivolava in fondo alla valle. Con quelli che sparavano, che urlavano, che lo volevano morto a tutti i costi. Per fuggire alcune volte bisogna avere molto coraggio, al suo posto chissà quanti di noi non lo avrebbero avuto, chissà quanti di noi sarebbero rimasti fermi, paralizzati dalla paura, dice il questore Faranda ai suoi uomini che stanno ricostruendo su un foglio bianco la dinamica dell’ omicidio. Un coraggio che a Rosario Livatino è servito fino al fiume asciutto, fino dietro una collinetta che sembra franare da un momento all’ altro. L’ hanno preso. Lo circondano e sparano. Sparano, sparano, sparano. L’ esperto di balistica un paio di ore dopo l’ esecuzione dirà: Hanno usato almeno tre armi, i colpi mortali sono stati sei. Una mitraglietta calibro 12, una pistola automatica calibro 9 parabellum, un revolver. E il colpo di lupara finale. Come se volessero lasciare la firma con la loro arma preferita. Quasi dieci minuti prima della morte del giudice sulla statale 640 erano passati quattro gipponi pieni di poliziotti, cento agenti scelti del nucleo anticrimine in missione, guarda caso, nel paese di Palma di Montechiaro. La cronaca del dopo omicidio è stata quella di sempre quando c’ entra la mafia. L’ auto abbandonata e bruciata in un viottolo di contrada San Giuseppuzzu, la moto in fiamme qualche centinaia di metri più in là. Ma nella fretta questa volta i killer hanno dimenticato dentro la loro Uno una pistola, la calibro 9 parabellum. E’ l’ unica traccia che hanno lasciato in questa azione di guerra contro lo Stato italiano. Una sfida ad armi impari, sicuri dell’ impunità, forti del loro potere e della debolezza degli avversari. Uomini come Rosario Livatino, soli, indifesi, facili bersagli. Piange il procuratore aggiunto di Palermo Elio Spallitta che ad Agrigento è stato procuratore per sei anni. Piange davanti a quel lenzuolo bianco. Nessuno è mai riuscito ad imporgli la scorta, nemmeno una auto blindata. Spallitta è giù nella scarpata insieme al procuratore Giammanco. Uno piange, l’ altro non ha la forza di parlare. Dietro c’ è Falcone con tutta la sua scorta. Falcone sembra molto provato, ha anche lui gli occhi lucidi, ha anche lui un nodo che gli stringe la gola. Alle dieci del mattino la valle che è diventata la tomba del giudice Livatino è percorsa dallo stato maggiore dell’ antimafia siciliana. Ci sono i magistrati e il fior fiore degli investigatori di Palermo, quelli di Agrigento, di Caltanissetta. Il giudice Falcone cammina e tutti gli altri gli vanno dietro. E’ lui che torna a guardare da vicino la Fiesta, a sfiorare i buchi delle pallottole, a dare un’ occhiata a terra. E poi eccolo scendere ancora nella scarpata. Ancora su, ancora giù. Forse i suoi occhi trovano quello che altri non vedono. Gli uomini della scorta lo seguono come ombre. Lui, Falcone, non fiata. L’ inchiesta è della procura di Caltanissetta, arriva sulla statale 640 il sostituto Ottavio Sferlazza. Perchè il vostro giovane collega è morto? Chi l’ ha ucciso? Perchè? Il processo ai capi clan I ragionamenti investigativi portano tutti a Palma di Montechiaro e alla ferocia dei suoi boss. Il giudice Livatino doveva decidere oggi la sorte di 15 capiclan, doveva decidere se potevano restare nei loro covi di Palma o finire al soggiorno obbligato in qualche paesino fuori dalla Sicilia. Il delitto potrebbe essere preventivo e dimostrativo, spiegano i magistrati. Ma aggiungono enigmaticamente che questo non basta. Significa che c’ è, che ci può essere dell’ altro. Che la mafia di Palma ha fornito magari solo i suoi sicari, che l’ ordine potrebbe essere partito forse da Canicattì, la capitale della mafia agrigentina. Ipotesi, supposizioni, tentativi di decifrazione. Il giudice morto di inchieste antimafia ne aveva fatte centinaia fino all’ anno scorso, prima di passare in tribunale, prima di lasciare il piccolo ma efficiente pool della procura. Pubblico ministero al primo maxi processo di Agrigento, decine di indagini su delitti di mafia, traffici di armi, uccisioni di carabinieri. Un uomo di prima linea. Dove le seconde o le terze linee non ci sono, dove chi fa il mestiere di giudice sta da una parte o dall’ altra. Dalla parte di Rosario Livatino sono sempre stati due suoi amici, Roberto Sajeva e Fabio Salamone. Il primo fa il sostituto, il secondo era giudice istruttore. Come fantasmi si aggirano nelle campagne che la statale 640 attraversa. Con il dolore sulla faccia, con l’ emozione di chi ha perso per sempre qualcuno e qualcosa. Anche loro hanno visto il lenzuolo, la bandiera bianca che copriva il cadavere di un magistrato. Anche loro a sera sono saliti su all’ ospedale e poi in prefettura per ricevere il presidente Cossiga. Parlavano tra loro Sajeva e Salamone. Parlavano a voce alta. Diceva Sajeva: Forse tra tre mesi mollerò tutto, non voglio andare un giorno al lavoro per essere ammazzato. E rispondeva Salamone: Ho la sensazione di non lavorare per lo Stato ma per un privato. Davanti a loro il Presidente baciava una donna disperata, la mamma del giudice ucciso. Grazie, grazie presidente. E Cossiga, immobile di fronte alla donna: Sono io che devo chiedere perdono.  di ATTILIO BOLZONI 22.9.1990 LA REPUBBLICA 


Intervista al killer di Livatino, Gaetano Puzzangaro: “Ricordo quando affiancammo la sua auto, lui ci guardò ”Per il settimanale Panorama, in edicola da ieri, Fabio Marchese Ragona valente giornalista canicattinese di “VideoNews”, la testata Mediaset che realizza i programmi d’informazione di Canale 5, ItaliaUno e Retequattro, ha intervistato uno dei killer del giudice Rosario Livatino, Gaetano Puzzangaro, detto “a musca”. Grandangolo pubblica integralmente l’intervista perché rappresenta una bella pagina di giornalismo serio e un tassello importante di verità che si aggiunge a quella giudiziaria raggiunta non senza poche difficoltà.  Ecco, il testo:
L’incontro avviene in una saletta del carcere di Opera, alle porte di Milano, nell’area colloqui della sezione “alta sicurezza”. Un tavolino bianco di plastica e tre sedie: nella stanza non c’è nient’altro. E’ il reparto dove vivono gli ergastolani ostativi, quelli usciti dal 41 bis: uomini che non avranno mai la speranza di un permesso fuori dalla struttura. Il colloquio è fissato per le 13, lui arriva dopo pochi secondi, scortato da una guardia. E’ ben vestito: giubbotto grigio, sciarpa intorno al collo, jeans. Il viso è pulito, sbarbato, i capelli sono pettinati, iniziano a diventare bianchi. Le mani sono rosse, avvizzite, tipiche di chi, da ragazzino, nella Sicilia degli anni ’70 e ’80, le aveva ferite troppe volte tra i ceppi, giocando in campagna con gli amici o scappando dai nemici. Gli occhi sono scuri, profondi. Non dimostra 49 anni, 25 dei quali li ha già vissuti in carcere. Ha con sé un sacchetto: “Cosa c’è dentro?”. “Ho portato dell’acqua se avete sete”, risponde a don Antonio, il cappellano. Durante il suo racconto esce fuori, ogni tanto, anche qualche parola in dialetto, il gergo di quella Sicilia che, il 21 settembre del 1990, mostrò al mondo uno dei suoi volti più crudeli: l’assassinio mafioso del giudice di Canicattì, Rosario Livatino. Soprannominato “il giudice-ragazzino”, fu ammazzato da un commando di quattro ventenni della cosiddetta “stidda”, l’associazione mafiosa che, secondo i magistrati, si contrapponeva a Cosa Nostra. Quella mattina, Livatino, in auto, senza scorta, stava andando al lavoro, al tribunale di Agrigento, quando la sua Ford Fiesta rossa fu affiancata dall’auto e da una moto dei malviventi. In quella piccola stanza del carcere milanese, di fronte a noi, c’è uno di quei quattro ex ragazzi: Gaetano Puzzangaro, soprannominato “‘a musca”, la mosca, un vecchio nomignolo di famiglia, nella sua Palma Di Montechiaro. “Da quasi 20 anni sto facendo un percorso spirituale”, ci racconta, “ho testimoniato per la causa di beatificazione di Livatino perché era doveroso. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a Messa. Il mio più grande rimorso? Non aver avuto il coraggio di chiedere scusa ai suoi genitori”.
Signor Puzzangaro perché l’avete ucciso?  Io non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino. Ho saputo di lui poco prima della sua uccisione. Ci era stato detto che il dottor Livatino aiutava altre persone contro di noi, che veniva contro i giovani. E noi ci abbiamo creduto…
Perché si era avvicinato a questo ambiente criminale? Avevo 20 anni, vivevo come tanti giovani di provincia, ero scout e andavo a messa la domenica. Poi è successo che non mi sentivo più appagato.
Cosa ha fatto? Avevo voglia di uscire dalla routine campagnola. Intorno ai 19 anni e mezzo i miei amici d’infanzia iniziavano a sposarsi oppure partivano per il servizio militare. E io ero rimasto solo nel mio quartiere e così ho iniziato a frequentare giovani che erano ai margini. Non scarico la responsabilità sugli altri: a decidere sono stato io, è colpa mia.
Torniamo per un attimo a quel 21 settembre del 1990: qual è l’ultimo ricordo che ha del giudice Livatino?  Puzzangaro alla domanda cambia espressione. Sta zitto per alcuni istanti e guarda a terra. Poi chiede: “Sei sicuro che vuoi saperlo?”. La risposta è affermativa. Bene, se vuoi saperlo te lo dico. L’ultimo ricordo è di noi che ci affianchiamo alla sua auto. L’ho visto che girava la testa e guardava verso di noi. Aveva una camicia bianca e gli occhiali scuri. Il suo viso, mentre ci guardava, era stupito, come se non capisse. Poi è successo quello che sappiamo.
E dopo averlo ucciso eravate contenti? No, non eravamo contenti o euforici, non abbiamo brindato come qualcuno ha detto. Quella mattina io speravo che il dottor Livatino non facesse quel tragitto. Poi non ci ho capito più niente…
Eravate dei ragazzini, qualcuno vi ha usato? Non lo so. Erano altri che tenevano i contatti. Io non sapevo cosa fosse Cosa Nostra. La svolta era avvenuta nell’89 perché ci avevano detto che volevano ucciderci per delle rapine fatte in banca. Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che ho fatto al giudice Livatino.
Lei è stato arrestato 2 anni dopo l’omicidio, nel 1992. Quando ha iniziato a capire di aver sbagliato? Il discorso di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento nel 1993 (con il monito “Lo dico ai responsabili, convertitevi”, ndr), mi ha fatto molto riflettere, ho capito che dovevo uscire da quella vita. Ho visto le immagini del Papa che incontrava i genitori di Livatino e ho ancora quell’immagine impressa nella mente. I loro sguardi. Queste due persone non hanno mai espresso parole di condanna, ma solo di perdono e di vicinanza ai nostri genitori.
Si è pentito? Parlerei di seconda conversione. Un quotidiano siciliano tempo fa ha scritto: “Si pente uno dei killer di Livatino”. Dalle nostre parti, pentirsi, significa diventare collaboratore di giustizia. E non è stato così. In quel momento ho temuto per la mia famiglia. Il mio è stato un pentimento interiore, spirituale.
Perché non ha chiesto perdono ai genitori di Livatino quando erano ancora in vita? Il perdono non c’entra, avrei dovuto chiedere scusa: non è giusto che l’autore di un crimine così debba imporre un’altra decisione ai genitori della vittima. La trovo una cosa egoistica e invadente. Il mio grande rammarico è di non aver avuto il coraggio di incontrarli quando avrei potuto farlo. Non sono riuscito, ma ho chiesto scusa dentro di me. E ho pregato per loro.
E per Livatino prega? Non passa domenica che non preghi per lui durante la Messa. Dico sempre tre “eterno riposo” per tre persone. Due vanno sempre in coppia: per mio padre e per lui.
E lo sogna? Sì, ogni tanto mi capita. Lo vedo sul ciglio della strada, a terra. Io che passo e poi torno indietro per aiutarlo. Ci parlo anche col dottor Livatino: di notte faccio lunghe chiacchierate con lui.
Perché ha deciso di testimoniare per la sua causa di beatificazione? Perché era mio dovere farlo. All’epoca non mi ero reso conto che Livatino lavorasse per i giovani, per una società migliore. Lavorava anche per me, che mi ero perso in quel mostro che fagocitava tutto. La decisione l’ho maturata soprattutto dopo le parole di Papa Francesco pronunciate a Cassano allo Jonio e dopo il mio percorso religioso…
Che tipo di percorso? Anche se si viene a sapere solo adesso, ho iniziato un percorso spirituale tra il 1999 e il 2000. Da allora continuo a cadere a terra e a rialzarmi. Gli psicologi e i religiosi del carcere mi hanno preso per mano, a partire da don Antonio, Suor Gianna, Suor Beniamina, don Francesco, don Walter. E mi hanno aiutato a tirar fuori quello che avevo dentro. Devo ringraziare anche il direttore Siciliano (che ha diretto il carcere di Opera e ora quello di San Vittore, ndr) che ha voluto investire sul carcere e sui detenuti. E devo dire che abbiamo fatto un bel viaggio insieme.
E oggi cosa si sente di dire ai giovani che come lei si avvicinano ad ambienti criminali? Che se hanno anche solo una piccola percezione di essere avvicinati da mangiatori di vite, perché gli viene prospettato un futuro roseo, fatto di rispetto, soldi, carriera, immortalità, devono dire di no! Perché non vogliono la vostra felicità. I genitori lo vogliono, loro no! In quell’ambiente gli ideali sono di servirsi di voi, sfruttarvi fin quando possono. E se vi andrà bene, forse vivrete, ma se vi andrà male, morirete, o rischierete di perdere la vostra anima in carcere. Proprio Com’è accaduto a me. GRANDANGOLO AGRIGENTINO 1.1.2018


Parlano i killer del giudice Rosario Livatino, gli ergastolani: “Abbiamo capito i nostri sbagli” 

I due palmesi sono intervenuti nel corso di un incontro, alla giornata è stato presente anche il sindaco, Stefano Castellino I killer del giudice ragazzino, Rosario Livatino parlano al congresso di “Nessuno tocchi Caino”. Microfoni aperti per Gaetano Puzzangaro e Salvatore Calafato, i due sono stati condannati all’ergastolo. I palmesi, secondo quanto fatto sapere da La Sicilia, hanno rilasciato delle dichiarazioni forti. Con la presenza del sindaco Castellino – ha detto Puzzangaro – oggi mi sono risentito nuovamente nella mia città che mi manca tantissimo. Credevo di non fare più parte di quella comunità perché il passato ritorna sempre. Sto facendo un lungo cammino, che credo non finirà mai. È cominciato 30 anni fa e quando si sta seduti sulle macerie della propria esistenza conviene fermarsi. Mi sono interrogato su quello che non è andato in me. Si può venire a patti con il tribunale penale, ma non con quello della coscienza. Non sono stato un buon cittadino, non sono stato un buon figlio, ma mi sono ravveduto, ho capito i miei sbagli e ci faccio i conti giornalmente”. AGRIGENTO NOTIZIE 24.12.2019


Era in vacanza ad Acapulco il boss del delitto Livatino 

Ad Acapulco credeva di essere al sicuro. Ma una telefonata e la visita della figlia in viaggio di nozze, gli ha rovinato tutto. E’ finita così la latitanza di Giuseppe Montanti, 44 anni, in cima alla lista dei latitanti più pericolosi dell’ agrigentino. Un boss con alle spalle una condanna all’ ergastolo perché ritenuto il mandante dell’ uccisione di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, assassinato il 21 settembre del ‘ 90 mentre, a bordo della sua auto percorreva la strada che collega Agrigento con Canicattì. A stringere le manette ai polsi di Montanti sono stati gli uomini della squadra mobile di Palermo e Agrigento che per settimane hanno lavorato a stretto contatto con i loro colleghi tedeschi della Landskriminalamt, la squadra anticrimine di Stoccarda. In un primo momento infatti gli investigatori credevano che l’ uomo, ritenuto anche uno dei più grossi trafficanti di armi, si nascondesse a Friburgo, la città dove da anni si era trasferita la sua famiglia. Per giorni hanno controllato a distanza l’ abitazione dei familiari di Montanti. I poliziotti hanno chiesto, ma invano, di piazzare anche delle “cimici” ma la magistratura tedesca non lo ha consentito. Il problema è stato però risolto in altro modo, quando la figlia di Montanti era tornata in Sicilia per un breve periodo prima di ritornare in Germania per sposarsi. Mentre si trovava nell’ isola gli investigatori hanno piazzato una cimice sull’ automobile della figlia del latitante ascoltando in diretta molte conversazioni. In una di queste la futura sposa, parlando con la madre, le comunicava che dopo il matrimonio sarebbe andata in viaggio di nozze in Messico a trovare il padre. Ed è stato proprio il matrimonio a dare il via alla caccia. “I miei uomini – ha detto Mario Bo, dirigente della Sezione Criminalità Organizzata della mobile palermitana – si sono anche auto-invitati alle nozze di Maria Montanti che si è celebrato in un castello nella foresta nera, ma anche in quell’ occasione del latitante non c’ era traccia. Poi abbiamo acquisito i tabulati del telefonino del marito della ragazza trovando un numero che portava ad Acapulco. Dopo alcuni controlli abbiamo scoperto che il numero chiamato non era quello di un hotel di Acapulco (dove i due dovevano trascorrere la luna di miele ndr), ma di una abitazione privata”. A quel punto non c’ erano più dubbi. I poliziotti sono andati anche loro in “viaggio di nozze” con la coppia di sposini, li hanno seguiti e pedinati per alcuni giorni, e ieri, quando sono stati certi che il latitante era in casa, hanno fatto irruzione in una casetta alla periferia della cittadina messicana e lo hanno ammanettato. In Messico il boss era diventato un imprenditore caseario, per vivere infatti aveva comprato alcuni camion per il trasporto del latte. “L’ arresto di Giuseppe Montanti – ha detto il procuratore aggiunto di Palermo, Sergio Lari – è un duro colpo inferto alla malavita dell’ agrigentino. I magistrati sono convinti che la fuga di Montanto in Messico fosse stata decisa dal boss non solo per paura di essere catturato, ma anche per il timore di essere ucciso dai sicari di Cosa Nostra che lo braccavano per contrasti interni all’ organizzazione. di FRANCO VIVIANO 13 Aprile 2000 La Repubblica


Omicidio Livatino, permesso premio a uno dei mandanti dopo la sentenza della Consulta.  


Giuseppe Montanti, condannato all’ergastolo nel 1999 per l’uccisione del giudice, ha scontato 20 anni in regime di carcere duro, ma ha potuto beneficiare del primo permesso solo dopo la decisione della Corte Costituzionale sui reati ostativi Uno dei mandanti dell’omicidio di Rosario Livatino, Giuseppe Montanti di 64 anni, ha usufruito di un permesso premio della durata di nove ore. Il destino ha voluto che Montanti ne usufruisse proprio nella settimana delle commemorazioni per il giudice Livatino, ucciso in un agguato di mafia il 20 settembre del 1990. L’ergastolano, arrestato in seguito a un periodo di latitanza ad Acapulco, in Messico, e condannato nel 1999 dalla Corte d’assise di Caltanissetta, è stato detenuto per vent’anni in regime di carcere duro e ha ottenuto il permesso dalla magistratura di Sorveglianza di Padova anche grazie alla sentenza della Consulta di qualche mese fa sui reati ostativi e i permessi. Durante le nove ore “premiali” ha ricevuto telefonate e incontrato familiari e amici, per poi far rientro in carcere. In cella da vent’anni, non aveva mai più incontrato i familiari, che vivono in Messico e in Germania. “Da febbraio 2019 – si legge nella relazione allegata al provvedimento che ‘giustifica’ la decisione – Montanti partecipa a incontri con gli studenti in istituto, nell’ambito del progetto ‘Scuola-carcere’. Nell’anno scolastico 2010-2011 ha frequentato solo il primo anno di Ragioneria alla quale ha rinunciato. Nel 2013 ha ripetuto la scuola media inferiore e fino a giugno 2015 ha partecipato a tre incontri settimanali. Da qualche anno partecipa con passione al laboratorio di cucito. Per questo impegno ha ricevuto un encomio a marzo 2015”. Altri due permessi invece richiesti nel 2018 e a giugno del 2019 gli erano stati negati dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Nella sua richiesta di permesso premio Montanti ha scritto: “Le circostanze soggettive e oggettive del caso escludono una qualunque attualità di collegamenti dello stesso con la criminalità organizzata nonché il ripristino di tali collegamenti, in assenza di qualunque pericolo che possa ripristinarli, così da potersi affermare il vincolo imposto dal sodalizio criminale o la persistenza di detti legami e rapporti”. Nel provvedimento però, si richiamano alcune note, fra le quali della del 29 gennaio del 2020 della Prefettura di Padova, in cui si conclude con “l’impossibilità di escludere la persistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata ed eversiva” di Montanti.  Stesse considerazioni fatte anche dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria (Dap) che con nota del 30 aprile 2019 evidenza che “non ha mai collaborato e conclude che non si può escludere eventuale ulteriore collegamento con ambienti devianti esterni”. Il magistrato di Sorveglianza di Padova ha anche chiesto parere alla Questura di Agrigento che ha messo nero su bianco (il 27 gennaio 2020) come l’organizzazione di Montanti, la Stidda, sia “sul piano organizzativo non del tutto disarticolata e tutt’ora operante nel territorio di Agrigento” Rosario Livatino fu ucciso il 21 settembre del 1990 poco dopo le 8,30 del mattino. Il giudice, che il 3 ottobre successivo avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso stava andando da Canicattì, dove abitava, al tribunale di Agrigento: un commando mafioso su un’auto e una motocicletta gli sparò ferendolo alla spalla e freddandolo poco dopo in un campo dove il magistrato aveva tentato la fuga. Il delitto fu inquadrato nel contesto di una guerra di mafia tra Cosa nostra e la Stidda di Agrigento, ma inchieste giornalistiche più recenti hanno ipotizzato un ruolo della ndrangheta. In questi giorni il magistrato, di cui è in corso il processo di beatificazione avviato nel settembre 2011, viene ricordato con una serie di iniziative. La notizia del permesso premio a Montanti arriva dunque alla vigilia del trentesimo anniversario dell’omicidio. A commentare la notizia Enzo Gallo, cugino del giudice ucciso. “Senza voler entrare in polemica con alcuno anche perché è acceso il dibattito di questi giorni sulla metodologia così come sulla legislazione in materia di concessione di permessi premio ai carcerati per gravi delitti contro la persona, in merito alla concessione e all’esercizio di un diritto previsto dalla legge ad uno dei mandanti dell’omicidio Livatino c’è solo da riflettere e valutare come lo Stato Italiano voglia atteggiarsi in futuro verso un problema anche di coscienza. Montanti dopo 20 anni passati in carcere con un comportamento pare esemplare può godere di questo premio. Lo prevede la legge e quindi è un suo diritto. Per dirla come la vittima ‘dura lex, sed lex’. Però – aggiunge – è forse un segnale che di questa concessione di beneficio si stia avendo notizia solo oggi a meno di una settimana dal trentennale del vile e barbaro omicidio mafioso di un valido servitore dello Stato nonchè unico figlio degli anziani genitori”.  15 settembre 2020 LA REPUBBLICA

 


 

 

 

Piero Ivano Nava racconterà inoltre delle difficoltà che il suo gesto gli provocherà (isolamento, anche dalla famiglia, perdita di un lavoro ben avviato e redditizio, la difficoltà di reinserirsi tanto nel mondo del lavoro quanto nella vita sociale) e di un particolare aneddoto di cui è protagonista anche Giovanni Falcone: “Io non sapevo chi fosse, mi hanno detto dopo che era Falcone, ma vengo comunque da un mondo dove Falcone o Marcegaglia sono comunque come me, con due gambe, due occhi, un naso. È chiaro che lui si era meravigliato, non faceva parte dei magistrati d’inchiesta perché veniva da Palermo, la stanza era piccola, io ero seduto qua, il funzionario di polizia importante qui, il magistrato qua. La dovizia di particolari l’aveva meravigliato, quindi abbiamo avuto uno scontro sulla moto, perché io ho dichiarato che c’era una Uno verde e che la moto era un Tenerè, lui mi guarda e mi fa: «Come fai a dire che è un Teneré?», e io gli rispondo: «Scusi, io non so chi è lei, ma io ho due motociclette, oltre a cinque automobili, un California Guzzi che si guida in una certa posizione e un Convert 1000 Guzzi che si guida in un’altra. Il Teneré si guida così: non c’è niente da fare, sul Teneré devi stare così. Era un Teneré». In quel momento entra il colonnello dei Carabinieri dicendo che avevano trovato macchina e moto bruciate e le armi, e dice che la moto era un Teneré ! Allora Falcone mi ha detto: «Mi scusi» e ho risposto: «Niente, sono qua e vi dico quello che ho visto, quello che non ho visto vi dico che non l’ho visto». È chiaro che erano meravigliati perché uno che si ricordava i colori dalla camicia, che mancavano le cinghiette degli stivali, che era mancino, le Timberland, il maglione rovinato da una parte, il casco, le posizioni eccetera. Me ne hanno messi tre per tre volte a Sollicciano con il casco, alti uguali e vestiti uguali e ho sempre detto: «È quello lì», la terza volta mi hanno chiesto come facessi, ma tutti abbiamo una postura e anche quello aveva una certa postura. Mica è colpa mia se ho questa capacità e tutto quello che hanno riscontrato era vero, che ci devo fare? Per questo ho preso le mie chiavi e ho detto «Sapete tutto e me ne devo andare», perché per me era una cosa normale e la reputo ancora tale. L’ha detto lei, per sconfiggerli, se si va nella normalità, sono subito perdenti, perché loro si fanno le elucubrazioni mentali e tu vai avanti con la normalità, quindi sono perdenti, è semplice”


 

Processo Livatino I:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 7/1992 Reg. Sent. pronunciata il 18 novembre 1992, nel procedimento penale contro AMICO Paolo e PACE Domenico

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 7/1994 Reg. Sent. pronunciata il 13 aprile 1994, nel procedimento penale contro AMICO Paolo e PACE Domenico – (parte 1) (parte 2)

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione II Penale n. 118/1995Reg. Sent. pronunciata il 27 gennaio 1995, sul ricorso proposto da AMICO Paolo e PACE Domenico

Processo Livatino bis:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta n. 3/1995 Reg. Sent. pronunciata il 13 luglio 1995, nel procedimento penale contro AVARELLO Giovanni, PUZZANGARO Gaetano, AMICO Paolo e PACE Domenico

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 1/1997 Reg. Sent. pronunciata il 5 gennaio 1997, nel procedimento penale contro AVARELLO Giovanni, PUZZANGARO Gaetano, AMICO Paolo e  PACE Domenico  – (parte 1)(parte 2)

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 1568/1997Reg. Sent. pronunciata il 10 novembre 1997, sul ricorso proposto da AVARELLO Giovanni e PUZZANGARO Gaetano

Processo Livatino ter:

Sentenza della Corte di Assise di Caltanissetta, I Sezione n. 3/1998 Reg. Sent. pronunciata il 4 aprile 1998, nel procedimento penale contro BENVENUTO Giuseppe Croce, CALAFATO Giovanni, CALAFATO Salvatore, GALLEA Antonio, MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 9/1999 Reg. Sent. pronunciata il 24 settembre 1999, nel procedimento penale contro BENVENUTO Giuseppe Croce e CALAFATO Giovanni  

Sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta n. 10/1999 Reg. Sent. pronunciata il 25 settembre 1999, nel procedimento penale contro CALAFATO Salvatore, GALLEA Antonio, MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore  

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 1102/2001Reg. Sent. pronunciata il 16 ottobre 2001, sul ricorso proposto da CALAFATO Salvatore e GALLEA Antonio  

Sentenza della Corte Suprema di Cassazione – Sezione I Penale n. 267/2002Reg. Sent. pronunciata il 19 marzo 2002, sul ricorso proposto da MONTANTI Giuseppe e PARLA Salvatore

 

 

 

 

PIERO NAVA, un uomo chiamato coraggio

 

 

 IL PRIMO TESTIMONE DI GIUSTIZIA IN ITALIA

 


Rosario Livatino era un uomo di fede che cercava nella preghiera il coraggio per affrontare le difficili prove della sua esistenza da magistrato. Spesso la giustizia, con le sue inerzie, le sue chiusure corporative, le sue lentezze riserva le prove più dure proprio a quei magistrati che credono in lei. (Vincenzo Ceruso -UOMINI CONTRO LA MAFIA)

 


A cura  di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie