L’ultimo dei covi individuati a Campobello di Mazara dalla Polizia è intestato a un siciliano emigrato in Svizzera quarant’anni fa, quando il ventenne “don Matteo” già prometteva di emancipare la mafia dell’entroterra trapanese, fino a sedersi un giorno «sulle gambe di Totò Rina», come di lui dicono con spregio alcuni pentiti.
La Svizzera è sempre stata una delle fissazioni di “Diabolik”. A Lugano se ne parla apertamente. Perché da qui a Basilea, attraversando piccoli borghi e piazzali di istituti di credito, in molti hanno avuto a che fare con i “piccioli” di Messina Denaro. Soldi a palate da nascondere o da reinvestire e di cui in gran parte si sono perse le tracce. Il cicerone che ci accompagna tra i segreti svizzeri di “u siccu” sa di cosa parla e porta con sé documenti che ci lascia solo guardare.
Le sue parole trovano molte conferme negli archivi investigativi e nelle ricerche dell’Osservatorio sulla criminalità della Svizzera italiana. Uno dei nomi è quello di Giovanni Domenico Scimonelli, figlio di emigrati siciliani, nato e cresciuto a Locarno. I 1.800 chilometri che separano la soleggiata località svizzera sul Lago Maggiore dalla sterpaglia di Castelvetrano non hanno impedito a Scimonelli di tenere insieme la scuola dei libri contabili e quella del disonore. Non uno sherpa qualsiasi.
Scimonelli aveva creato schermature societarie attraverso cui rendere pressoché impossibile la tracciatura dei movimenti di diverse carte di credito, messe nella disponibiltà della ristrettissima cerchia dei fedelissimi di Messina Denaro. All’occorrenza recapitava messaggi attraverso i “pizzini” con cui il boss impartiva ordini. Sempre lui provvedeva ai bisogni della famiglia del latitante e trasportava denaro contante dall’Italia alla Svizzera, dove sono stati aperti almeno due conti nella disponibilità di Diabolik. Nel 2018 Scimonelli è stato condannato all’ergastolo quale mandante di un omicidio. Non ha mai collaborato con le indagini e dei soldi di “Diabolik” in Svizzera non si è saputo quasi più nulla.
Una fonte della polizia cantonale conferma che a suo tempo fu individuata «una movimentazione di almeno 15 milioni di euro, ma quanti soldi siano transitati complessivamente sui conti e dove siano stati trasferiti non è stato possibile accertarlo».
Nel Cantone Ticino portano le voci di un altro dei comparti su cui il boss si è specializzato. La seconda moglie di Vito Nicastri, ritenuto uno dei più affidabili prestanome del capomafia trapanese, nella Svizzera Italiana ha sviluppato un buon numero di affari. Il 21 gennaio di due anni fa Nicastri, noto come “re dell’eolico” per avere accumulato una fortuna con le energie rinnovabili, è stato assolto in Corte d’appello dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa, per cui il Tribunale gli aveva comminato nove anni. Ma è stata confermata la condanna per intestazione fittizia di beni. Secondo gli inquirenti antimafia Nicastri sarebbe uno dei finanziatori della latitanza di Messina Denaro. In Svizzera da tempo gli investigatori tengono d’occhio la donna e i suoi interessi nel campo della ristorazione e del commercio. Fino a poco tempo fa amministrava società che dal 2010 avevano acquistato nel Paese diversi diritti di superficie. Quando hanno cercato di capirne di più, gli ispettori svizzeri hanno scoperto che tra i soci vi erano emissari delle cosche calabresi di Platì e di San Luca. La conferma del patto di Messina Denaro con la ‘ndrangheta calabrese, che in Svizzera ha sviluppato ingenti business.
Una ventina di anni fa si scoprirono proprio nella Confederazione elvetica tracce di uno degli hobby di Messina Denaro. Da padrone dei mandamenti di Trapani e Agrigento, il boss si è sentito in diritto di depredarne perfino la storia, come uno di quei barbari che ogni tanto rapinavano l’isola. A Basilea vennero sequestrati cinque magazzini nella disponibilità di Gianfranco Becchina, che cooperava nel business della storia rubata e custodiva un archivio di cui si è seppe solo che conteneva 4mila immagini e 17mila documenti.
«Per noi questa è l’ennesima conferma della presenza di una mafia quasi sempre silente, ma non certo meno pericolosa», commenta Francesco Lepori, dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università della Svizzera Italiana. «Da noi – osserva – non si spara, ma solo perché il ricorso alla violenza creerebbe un allarme sociale che sarebbe da ostacolo agli interessi economici». In Sicilia intanto proseguono le perquisizioni, specialmente a Campobello di Mazara, dove emerge una rete di fiancheggiatori che conferma il clima di omertà di cui ha goduto il boss per proteggere la sua irreperibilità.
L’ultimo a finire nei guai è Antonio Messina, 77 anni, un anziano avvocato e massone radiato dall’albo, già coinvolto in passato in indagini che ruotavano attorno al nome di Messina Denaro. I carabinieri hanno perquisito due immobili di sua proprietà. Uno degli edifici si trova di fronte all’abitazione di Salvatore Messina Denaro, fratello del boss; l’altro a Torretta Granitola, sul litorale di Mazara del Vallo. Messina fu condannato per traffico di droga negli anni ‘90. Assieme a lui erano imputati l’ex sindaco del Comune di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, che per conto dei servizi segreti intavolò una corrispondenza con Messina Denaro con il nome di Svetonio, e gli uomini d’onore Nunzio Spezia e Franco Luppino. Messina fu indicato dai collaboratori di giustizia Rosario Spatola e Vincenzo Calcara, come mandante dell’uccisione del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ma venne successivamente prosciolto. Assolto anche due anni fa dall’accusa di traffico internazionale di stupefacenti sulla rotta Marocco-Spagna-Italia.