TOTÒ RIINA – La sua famiglia

 

Vita privata il 16 aprile 1974 Riina sposò, tramite un matrimonio che poi risulterà non valido legalmente[80], Antonietta Bagarella, sorella dell’amico d’infanzia Calogero e di Leoluca Bagarella. Dall’unione nacquero quattro figli: Maria Concetta (19 dicembre 1974), Giovanni Francesco (21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (3 maggio 1977) e Lucia (11 aprile 1980). Giovanni Francesco è stato condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nell’anno 1995.
Giuseppe Salvatore è prima stato condannato per associazione mafiosa, quindi scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini dopo essere stato detenuto per otto anni[81]. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena di 8 anni e 10 mesi, viene nuovamente rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone[82] e comincia a trapelare la notizia di un suo piano per fare un attentato all’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano per via dell’inasprimento del regime dell’articolo 41-bis[83].



Parla Maria Concetta la figlia del boss: “Non ho problemi a parlare di mafia ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale”

“La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina”.Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina: “Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l’ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi”. Ricorda ancora di quella vita in fuga: “Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia”. Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l’uomo più pericoloso d’Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato – il 15 gennaio del 1993 – dopo un quarto di secolo di omicidi e trame.  Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto “per il futuro dei miei figli”. Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e “di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni” e parla del nome terribile che porta. E si presenta: “Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre”. 
Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?  “Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro”. 
Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto “assurdo” o “surreale”? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?  “Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l’avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia”. 
Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?  “Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me…. Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina… A casa mia, io non l’ho vissuta quella mafia”. 
Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?  “Sembrerà strano… mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato”. 
Si rende naturalmente conto che c’è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?  “Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l’ho vissuto e così lo vivo ancora”. 
Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?  “Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna…”. 
Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva “proteggere” la sua famiglia. Come è stato il ritorno?  “Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre”. 
Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?  “Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?”. 
Quali difficoltà?  “Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro… Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l’ultima volta”. 
Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato “il capo dei capi”: se ne dimentica?  “Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: “Ma tu sei parente di?”. Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L’ho detto con naturalezza… io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto “Sono la figlia di Riina”, però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz’ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel’avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l’immagine della sua azienda”. 
Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?  “È dalla mattina del 16 gennaio ’93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro… Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un’area a parte fatta apposta per lui”. 
In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all’ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle “sofferenze” del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?  “Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere”. 
Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?  “Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro”. 
Ha mai pensato di andare via da Corleone?  “Chi lo sa, forse un giorno… “.  (28 gennaio 2009 La Repubblica ATTILIO BOLZONI)


L’intervista alla futura moglie del Capo dei Capi – 27 luglio 1971 Mario Francese intervista Antonietta Bagarella, futura moglie di Totò Riina: «L’amore non guarda a certe cose… Io ho scelto di amare Totò Riina», diceva. Un documento, oggi come allora, di straordinario interesse

Io mafiosa? Sono una donna innamorata  «L’amore non guarda a certe cose… Io ho scelto di amare Totò Riina» – E’ accusata di essere stata il collegamento tra il fidanzato, luogotenente di Liggio, ed alcuni esponenti di mafia – «Mi sposerò in chiesa: non voglio fare come la Lucia di Alessandro Manzoni…» Antonietta Bagarella, la maestrina di Corleone proposta per il soggiorno obbligato, ha dato ieri battaglia, come aveva promesso. Entrata nella camera di consiglio della sezione speciale del Tribunale per le misure di prevenzione, ha parlato per oltre un’ora, respingendo le accuse, contestando uno per uno episodi e fatti contenuti nel rapporto della Questura e dei Carabinieri. La sua foga non ha commosso però i giudici. Il pubblico ministero, dott. Vincenzo Terranova, infatti, alla fine ha chiesto la condanna a quattro anni di confino in un comune del nord, in accoglimento della tesi degli inquirenti secondo la quale è bene che la ragazza lasci Corleone «per stroncare la sua attività in favore della cosca di Luciano Liggio». Alle nove in punto, Antonietta Bagarella era già al Palazzo di Giustizia con la madre Lucia Mondello e con la sorella Giovanna. Quando l’ho avvicinata, tradiva un comprensibile nervosismo. La vicenda di cui è stata per mesi protagonista ha rinforzato in lei l’istinto della diffidenza. L’ho seguita in una delle cancellerie civili del secondo piano, dove è stata costretta a rifugiarsi per sottrarsi all’assalto dei fotoreporter e ai flash delle macchine da presa. «Sono nervosa, tremendamente nervosa, anche se mi sforzo di rimanere calma per spiegare ai giudici il mio caso – ha esordito – ma i lampi dei fotografi non contribuiscono a darmi serenità. Poi non amo la pubblicità. Il mio è stato fatto diventare un caso nazionale». Puntandomi addosso i suoi occhi neri, Ninetta Bagarella ha, per un momento, tradito la commozione: «Lei – mi ha detto – mi giudicherà male perché, io insegnante, mi sono innamorata e fidanzata di uno come Salvatore Riina. Lo conobbi negli anni ’50, quando a Corleone successe quel che successe coinvolgendo tante famiglie, la mia compresa, e quella di Riina. Ero alla prima media, allora, una bambina. E fu quello l’ambiente della mia prima infanzia. Un ambiente triste, che trasformò la via Scorsone di Corleone in una caserma di carabinieri. Con Salvatore ci conoscevamo da bambini. Poi, nel 1963, lo arrestarono. Fra di noi c’era stata soltanto della simpatia. Io sentivo di amarlo. Ma forse, non sono una donna? Non ho il diritto di amare un uomo e di seguire la legge della natura? Ma lei mi dirà perché mai ho scelto come uomo della mia vita proprio Totò Riina, di cui sono state dette tante cose. L’ho scelto, prima perché lo amo e l’amore non guarda a tante cose, poi perché ho in lui stima e fiducia, la stessa stima e fiducia che ho in mio fratello Calogero, ingiustamente coinvolto in tanti fatti. Io amo Riina perché lo ritengo innocente. Lo amo nonostante la differenza di età, 27 anni io, 41 anni lui. Lo amo perché anche la Corte di Assise di Bari, con la sua sentenza del 10 luglio 1969, mi ha detto che Riina, assolto con formula piena da tanti delitti, non si è macchiato le mani di sangue». Ninetta Bagarella abbassa gli occhi: «Ora sono qui per lui. Lui, lontano da me da due anni, non si fa vivo né direttamente né indirettamente. Io sono donna. Questo silenzio mi fa dubitare del suo amore. Mi sento sola e avvilita». Tiene in mano una busta piena di carte. «Vuole la mia storia? », dice. E comincia: «Incomincio dal mio fidanzamento ufficiale. E’ avvenuto nel luglio 1969, due anni fa, dopo che Salvatore Riina fu assolto con formula piena dai delitti attribuitigli e scarcerato. Le è noto che venne a Corleone e fu scarcerato la sera in cui giunse. Non lo vidi quella sera. Dopo venti giorni, giudicato, fu inviato per cinque anni al soggiorno obbligato. Lasciò l’Ucciardone ed ebbe un paio di giorni di permesso per sostare a Corleone e fare le valigie. Fu in quell’occasione che si fidanzò con me. Da allora non l’ho più rivisto. I miei guai iniziarono dopo che, il 16 dicembre 1969, inoltrai istanza alla questura per ottenere il passaporto. Dovevo recarmi nel Venezuela per battezzare una bambina che mia sorella aveva dato alla luce nel novembre precedente. Il 9 gennaio ebbi rilasciato il passaporto. Il 12 febbraio successivo ricevetti un invito generico «per comunicazioni che la riguardano» dal commissariato di Pubblica Sicurezza di Corleone. Vi andai in fretta per sapere quello che volevano. Il commissario appena mi vide, mi disse di tirare fuori il passaporto dalla borsetta. Feci presente di non averlo con me. Dopo tante discussioni mi informò che in data 7 febbraio 1970 il questore aveva disposto il ritiro del passaporto. Lo pregai di fissare un altro giorno per la consegna. Sono stata denunciata per mancata consegna del documento e, qualche giorno dopo, per calunnia. Ero colpevole di avere detto la verità». Antonietta Bagarella fa una pausa, alla ricerca di ricordi: «Dalla pasquetta 1970 fino al 17 aprile, fui letteralmente piantonata in casa mia. Ormai mi avevano tolto l’insegnamento. Mi trasferii a Frattaminore, luogo di soggiorno di mio padre Salvatore. In quel periodo aveva bisogno di assistenza: broncopolmonite acuta, era stato ricoverato all’ospedale Caldarelli di Napoli, reparto medicina. Anche lì fui seguita. Non essendoci a Frattaminore carabinieri e agenti, mi misero alle calcagna dei vigili urbani. Il 21 maggio 1970 chiesi ed ottenni la residenza a Frattaminore sperando che così, lontana da Corleone, avrei potuto trovare lavoro e aiutare la famiglia. Non fu possibile. Ogni notte, per tre volte consecutive e negli orari più impossibili, agenti venivano in casa col pretesto di sorvegliare mio padre e di controllare le persone che l’assistevano. Ero sfinita. Ritenni così opportuno di ritornare a Corleone, dove dalla fine del luglio 1970 e fino al gennaio 1971, sono stata tenuta costantemente sotto controllo e pedinata. Le uniche persone che ho incontrato sono mia suocera e mio cognato. Il 10 giugno 1970 a Frattaminore, ho ricevuto la visita del vice questore Angelo Mangano. Mi chiese notizie di Luciano Liggio. In cambio avrei avuto il passaporto e una sistemazione familiare. Promesse allentanti, ma risposi di non conoscere Luciano Liggio neanche di vista e che il dottor Mangano avrebbe potuto rivolgersi ai familiari del ricercato. Il funzionario, allora, mi invitò a farmi viva da lui, presso il Ministero degli Interni, entro 15 giorni. Sorvolo sul resto, che è intuibile. Io posso dirle, con tutta sincerità, che dal giorno del fidanzamento, cioè da due anni, non ho più rivisto Salvatore Riina né ho più avuto, di lui, notizie né dirette né indirette. Aggiungo che non è vero che dinanzi alla cattedrale mi sono incontrata con don Girolamo Liggio, cosa che hanno detto avrei fatto. E’ vero che per caso, uscendo dalla libreria delle suore di San Paolo, ho incontrato padre Piraino, proprietario dell’auto su cui ho preso posto con i miei parenti. Escludo anche di essermi recata presso la curia arcivescovile di Anversa nel tentativo di celebrare nozze segrete con Riina. Dopo tutto quello che è successo, io non posso che sposare alla luce del sole. Non sono una protagonista dei promessi sposi. Non ho alcun interesse a recitare la parte di Lucia nelle nozze segrete con Renzo». 

IL SILENZIO DI NINETTA BAGARELLA. I successivi sviluppi della vicenda furono raccontati da Mario Francese nel seguente articolo, appreso sul “Giornale di Sicilia” del 6 agosto 1971: Dopo la condanna alla sorveglianza speciale Ninetta chiusa in casa respinge i giornalisti I familiari di Salvatore Riina dicono: «Non usciamo più» – Si sono raffreddati i rapporti con la Bagarella? Ninetta Bagarella, tramite il suo difensore, ha impugnato ieri mattina il provvedimento del Tribunale con cui è stata sottoposta, per due anni e mezzo, alla sorveglianza speciale condizionata da particolari disposizioni, tra cui il divieto assoluto di incontrarsi col padre, col fratello Calogero e col fidanzato Salvatore Riina. […] Nella speranza di indurre la maestrina ad un colloquio, mi sono recato in casa di Salvatore Riina, il fidanzato che, nella «fuga», aveva preceduto Liggio di ben quattro mesi. La madre e le tre sorelle del latitante non sono certo allegre. «Noi, – mi ha dichiarato la sorella maggiore di Riina – abbiamo i nostri guai. Da casa non usciamo e non abbiamo motivo di recarci in quella della Bagarella». Questo discorso ed altre espressioni hanno dato l’impressione che i rapporti tra i Bagarella e i Riina si siano in questi giorni alquanto raffreddati per via delle ultime vicende di nera che, a Genova, avrebbero avuto per protagonista proprio Totò Riina coinvolto in una rapina. Le abitazioni dei Bagarella e dei Riina distano tra di loro non più di cinquecento metri. Entrambe sono ubicate nella parte alta del quartiere «San Giovanni» che, fino al 1963 fu anche teatro di drammatiche sparatorie. Tra l’altro, ricorderemo che proprio in via Scorsone, a una decina di metri dalla casa di Bagarella, un gruppo di banditi (che gli investigatori indicarono in Luciano Liggio, Calogero Bagarella e Giuseppe Ruffino), all’alba del 7 maggio 1963 attentarono alla vita del capo spirituale dei superstiti «navarriani», don Francesco Paolo Streva, e di alcuni suoi gregari. Le vittime predestinate furono pronte a rispondere con le armi impegnando con i «liggiani» un violento conflitto a fuoco che, comunque, non causò morti. Streva, poi, fu assassinato da due gregari quattro mesi dopo, il 13 settembre, in un agguato tesogli a piano Casale. Oltre che l’ambiente di San Giovanni, l’omertà della zona accomuna, con gli abitanti di tanti vicoli tortuosi, le famiglie dei Riina e dei Bagarella. «Non so quello che sia successo alla Bagarella», ha continuato a dire la sorella maggiore di Totò Riina,«io sono stata ricoverata in ospedale per ventisette giorni, perché ho dovuto subire l’esportazione di un occhio. Ripeto che non abbiamo nessun motivo di andare dalla signorina Bagarella. Veda, siamo qui tutte in casa noi tre sorelle, mia madre, e questo nipotino che si chiama Mario». Nessuna parola di commento, quindi, in casa dei Riina alle «disgrazie» della fidanzata di Totò, nessuna parola di solidarietà né di difesa. Né alcuno della famiglia ha pronunciato, nel corso della conversazione, il nome di Totò. Soltanto la minore dei Riina ha avuto qualche parola di comprensione per la cognata: «sarebbe l’ora – ha detto laconicamente – che la lasciassero un poco in pace». Ma l’ha detto con un certo distacco. Indubbiamente alcune parti delle dichiarazioni della maestrina («ritengo che Salvatore non mi ami più se per due anni non si è curato di farmi avere notizie») avranno infastidito i Riina. Non è escluso che i congiunti di Totò abbiano potuto pensare che la Bagarella sia anche stanca di aspettare il «fidanzato-ombra» che – lo ha detto proprio lei – «non si cura dei sentimenti e delle esigenze di una donna». Da qui una certa diffidenza tra le due famiglie o un raffreddamento nei rapporti che fino a qualche settimana fa, per ammissione della stessa Bagarella, erano frequenti, per non dire giornalieri. 

MA È UNA DONNA D’ONORE?  Mario Francese mise in risalto le conclusioni cui erano pervenuti gli organi inquirenti in merito all’inserimento di Antonietta Bagarella nell’organizzazione mafiosa, nel seguente articolo, pubblicato sul “Giornale di Sicilia” del 24 dicembre 1974: La questura è tornata alla carica con un’altra proposta Per “le nozze segrete” la Bagarella ha rischiato di nuovo il confino Il tribunale però ha deciso per il non «luogo a procedere» Secondo i difensori invece la maestrina è ancora nubile La maestrina di Corleone Antonietta Bagarella, a causa del suo presunto matrimonio segreto con Salvatore Riina, luogotenente di Luciano Liggio, è stata nuovamente proposta dalla questura per il soggiorno obbligato. Ieri, però, dopo un ampio dibattito, animato dagli interventi dei difensori, avvocati Franco Berna e Genna, il tribunale ha depositato la sua decisione: «Non luogo a procedere». La maestrina, così, può continuare indisturbata la luna di miele col suo «Totò» e, a quanto dichiarato dalla madre, la trascorrerebbe in un paesino montano della Germania. Del resto, piuttosto che lasciare il marito, ha preferito venire giudicata in contumacia, lasciando alla madre e ai difensori il compito di «salvaguardare», dinanzi alla sezione misure del tribunale, i suoi interessi. Col nuovo rapporto, Antonietta Bagarella è stata presentata come un’autentica mafiosa, perfettamente inserita nel clan che ha come esponenti Luciano Liggio e il suo presunto marito. Un nuovo metodo della – mafia – secondo la proposta – quello di inserire nell’organizzazione le donne, meno controllate e quindi più idonee a delicati servizi. Secondo il rapporto, Antonietta Bagarella e Totò Riina avrebbero coronato il loro lungo sogno d’amore il 16 aprile scorso. A celebrare le nozze sarebbe stato, secondo la questura, padre Agostino Coppola. A testimonianza dell’evento, è stato allegato agli atti un biglietto di partecipazione (quello che si usa mettere nei sacchetti dei confetti): «Antonietta e Salvatore sposi 16 aprile 1974». Secondo gli avvocati Berna e Genna si tratterebbe di «nozze – fantasma». I due difensori hanno esibito al tribunale un certificato dello stato civile di Corleone dal quale la Bagarella risulta ancora nubile. Inoltre, la maestrina, secondo la testimonianza della madre, si troverebbe sin dal febbraio scorso in Germania. Non avrebbe mai abitato, insomma per la difesa, la casa di San Lorenzo dove, com’è noto, nel marzo scorso fu arrestato suo fratello Leoluca Bagarella. Ninetta Bagarella fu proposta una prima volta, per il soggiorno obbligato nel febbraio 1971, allorché aveva già chiesto ed ottenuto il passaporto con il visto per il Venezuela. La «fuga» di Liggio, dalla clinica Bracci di Roma, fece andare a monte i piani della maestrina, alla quale venne imposto di restituire il passaporto. Dopo l’energico rifiuto all’autorità giudiziaria, venne anche proposta per il confino. In questa occasione, il tribunale la sottopose soltanto a due anni e mezzo di sorveglianza speciale. Ora, dopo l’arresto a Milano di Luciano Liggio, la Bagarella era nuovamente scomparsa. Gli inquirenti avrebbero le prove della sua residenza a San Lorenzo e delle sue nozze con Salvatore Riina. La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.  1 febbraio 2021 • DOMANI


Il clamoroso ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella insieme ai figli

Il giorno 16 gennaio 1993 accaddero altri due fatti che avrebbero condizionato il successivo decorso degli eventi.

Salvatore Certa, all’epoca dirigente del commissariato P.S. di Corleone, ha riferito in dibattimento di aver appreso quel giorno, dal tenore delle conversazioni telefoniche intercettate sulle utenze della casa abitata dai familiari del Riina, che la Bagarella con i figli aveva fatto ritorno in paese, come in effetti verificò procedendo alla loro identificazione presso gli uffici del commissariato.

La notizia fu immediatamente comunicata per via telefonica al dott. Aliquò (v. sua deposizione), che richiese oralmente al col. Curatoli di avviare degli accertamenti in merito, rimasti senza esito.

L’indomani il procuratore aggiunto prese parte, con il dott. Caselli e diversi ufficiali dell’arma territoriale, ad una riunione nel corso della quale questi ultimi manifestarono alcune perplessità, in considerazione del fatto che il Ros non aveva comunicato l’allontanamento della Bagarella dal sito di via Bernini.

Le medesime perplessità cominciarono a circolare anche tra alcuni sostituti procuratori, come testimoniato dal dott. Luigi Patronaggio (ud. 26.9.05), secondo il quale quell’episodio suonò come un primo “campanello d’allarme”.

Tuttavia, la fiducia nel Ros e nella persona di Mario Mori era assoluta, così come la convinzione che il complesso fosse sotto controllo, tanto che il dott. Caselli concluse quella riunione dicendo che bisognava lasciare altro spazio agli investigatori che stavano lavorando, e vedere cosa succedeva. Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti, tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni – come da loro deposto in dibattimento all’udienza dell’11.7.05 – ricevettero da parte dell’allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest’ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico.

Si recarono, quindi, immediatamente sul posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. “covo”.

Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad “indiscrezioni” che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato.

Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che “un siciliano di nome Baldassarre” stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa acquisito all’udienza del 9.1.06).

Posto dinnanzi a queste risultanze di fatto, il magg. Roberto Ripollino – escusso all’udienza del 21 novembre 2005 – ha dichiarato che all’epoca dei fatti era addetto all’ufficio Operazioni Addestramento Informazioni e Ordinamento (Oaio) del comando Regione Carabinieri Sicilia, il quale aveva competenze meramente gestionali, a livello regionale, in merito ai fenomeni criminali ed alle operazioni condotte sul territorio, con compiti informativi all’interno del comando.

A seguito dell’arresto del Riina, ricevette dal comando l’incarico di gestire i rapporti con i giornalisti accreditati (diverse decine) che contattò telefonicamente in occasione della prima conferenza stampa e di tutte quelle che ne seguirono.

Interrogato specificatamente in merito alle telefonate effettuate il 16 gennaio, il teste ha precisato di avere solo un ricordo generale di continui contatti con i giornalisti, ma di non ricordare la circostanza contestata né di aver fornito l’indicazione su via Bernini come possibile sito di localizzazione del “covo” del Riina, e difatti non conosceva tale via, in quanto gli era stato detto solo che il Riina era stato catturato in pRossimità del motel Agip.

Se pure avesse dato tale indicazione – ha dichiarato in sede di indagini preliminari e confermato in dibattimento – non potrebbe che averlo fatto in esecuzione di specifiche disposizioni impartitegli dal suo superiore col. Sergio Cagnazzo il quale, tuttavia, ha negato, in dibattimento, di avergli mai dato ordine in tal senso, aggiungendo che non era certamente interesse di nessuno “bruciare” il sito di via Bernini.

Il gen. Cancellieri ha, sul punto, dichiarato di non essere mai stato a conoscenza di tale fuga di notizie, che avrebbe appreso solo nel corso della sua deposizione nel presente dibattimento.

L’imputato De Caprio ha, invece, dichiarato di avere visto in televisione, quello stesso 16.1.93, un servizio che mostrava il cancello del complesso di via Bernini, apprendendo così che la notizia era in qualche modo filtrata, e di avere commentato la cosa con il proprio collaboratore mar.llo Santo Caldareri, dicendogli che il sito era stato “bruciato”; circostanza che ha trovato conferma nella deposizione resa dallo stesso Caldareri.


«La mia vita con Salvatore Riina,  mio padre».

Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo» «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi… Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia.
«Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto» Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due… Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche… Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari.
«Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco» E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima… Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò… E così restammo lì fino alla fine di agosto».
Le vittime di cui non parla Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta»
Il libro «Riina-Family Life» È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare».
Un papà premuroso e amorevole Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori.
Infanzia e adolescenza felici Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani».
Con l’arresto cambia tutto Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva».
L’editore Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.  6 aprile 2016 Corriere della Sera Giovanni Bianconi


Mafia. “Papà li scannò tutti”, così parlava Riina jr prima di scrivere libri  

Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva “uomini che hanno fatto la storia della Sicilia”. “Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate”“Io vengo dalla scuola di Corleone”, dice nella premessa. “Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?”. E inizia il suo lungo racconto: “Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia… linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io… sulla mia pelle brucia ancora di più”. Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l’intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, “Riina + 23” è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni “Anordest”. Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.
L’INIZIO DELLA GUERRA  Capitolo uno: “Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt’altra parte. Racconta: “C’era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni … era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò”. Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l’inizio della loro inarrestabile ascesa. L’inizio della carneficina. “E chi doveva vincere? – dice Salvo Riina – in Sicilia, in tutta l’Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?”. 
I RIBELLI  È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un’altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. “Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c’erano in tutta la Sicilia”. Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. “Ci fu un’estate di vampe – spiega il giovane boss con grande naturalezza – Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un’estate”. E giù con il suo racconto sugli stiddari: “Che razza – dice – qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci ‘a scippari u craniu“. Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: “Ci fu un’estate che le revolverate… non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone”. E ancora: “Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell’altro… Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate … era una fazione di boss perdenti… si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo”. 
BUSINESS E STRAGI  Capitolo quattro: “I piccioli”: “Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l’uno per cento. Capitolo cinque: “I cornuti”, ovvero i collaboratori di giustizia. “Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi”. Capitolo sei, il cuore del libro: “Le stragi Falcone e Borsellino”. “Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: “Abbattiamoli” E sono stati abbattuti”.
RITRATTO DI FAMIGLIA  Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov’è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: “Siete stati sempre catu e corda… ma quello che ti tirava era sempre Gianni”. E Salvo: “Papà diceva che lui era il più…”. La mamma chiosa: “Il più agguerrito”. E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all’ergastolo da vent’anni, condannato per quattro omicidi. “Tu facevi il trend “, dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: “Il trainer, non il trend“. Gianni ricorda una frase del padre: “Una volta mi ha detto una cosa che non ho mai dimenticato: “Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c’è””. Quella era un’investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: “Vedi che io vengo dalla scuola corleonese”. E la madre certificò: “Sangue puro”.   di SALVO PALAZZOLO15 aprile 2016 La Repubblica