FRANCESCO MESSINA, MASTRO CICCIO. Suicida il cassiere di Riina

DEPOSIZIONI AI PROCESSI – AUDIO


SUICIDA IL CASSIERE DI RIINA

TRAPANI – Trovato morto nelle campagne di Mazara del Vallo il latitante Francesco Messina, 56 anni, conosciuto come “Mastro Ciccio”, indicato dai collaboratori di giustizia come “cassiere” di Totò Riina nel trapanese.
Secondo una prima ricognizione medico-legale il latitante si sarebbe suicidato e, accanto al corpo, sarebbe stato trovato un biglietto in cui Messina dava un saluto estremo alla famiglia.
Biglietto, però, immediatamente distrutto dai familiari, che si aspettavano un gesto simile.
Anche dalla latitanza, infatti, mastro Ciccio avrebbe anticipato le sue intenzioni suicide. Considerato braccio destro di Mariano Agate, si sarebbe ritagliato il ruolo di sicario “affidabile” e il suo nome è stato accostato all’ agguato mortale del 1980 al sindaco di Castelvetrano Vito Lipari ed al tentivo di omicidio del vice questore Rino Germanà.
Secondo i collaboratori di giustizia Messina, ufficialmente modesto imprenditore, avrebbe goduto a tal punto della fiducia di Riina da gestire la “contabilità” dei traffici illeciti della cosca corleonese a Trapani, suscitando anche qualche contestazione sulla sua “correttezza”. Sempre secondo i collaboratori Riina avrebbe trascorso periodi della latitanza in rifugi del trapanese messi a disposizione da Messina.

Quella tragica scia di suicidi riparatori

O, peggio ancora, vivere anni e anni di galera, immaginando un agguato alle docce o una imboscata al primo corridoio che porta alla sala colloqui.
All’ appuntamento col rito macabro dei lacci di scarpe annodati al gancio del bagno-cucina della gabbia o con le strisce delle lenzuola fissate alle grate della finestra, l’ uomo d’ onore arriva da solo.
Ma più spesso è indotto dalle mezze frasi, dai consigli sussurrati dai compagni di detenzione che sanno o che portano l’ ambasciata dall’ esterno. Radio carcere trasmette ininterrottamente.
Diffonde anche il bollettino dei morti viventi. Degli indotti al suicidio, degli aiutati a farlo. Dei suicidati. In definitiva una categoria che comprende tutti quelli che per omertà si tolgono la vita. Accadde così ad Antonino Gioè, valente uomo d’ onore di Altofonte. Fisico asciutto e un passato da parà che gli valse l’ onere di infilarsi a pancia sotto scorrendo su uno skateboard lungo il tunnel che passava sotto l’ autostrada di Capaci per piazzare il tritolo. Da quel giorno, Gioè iniziò a «dormire fuori».
Con un amico, compaesano e socio, Gioacchino La Barbera, prese un appartamento in via Ughetti. E lì abitava da latitante senza esserlo. Eppure in quella casa arrivarono a mettere delle microspie, ascoltando in diretta Gioè e La Barbera che parlavano a ruota libera dell’ “attentatuni”. Il 30 luglio del 1993 Gioè era a Rebibbia inchiodato alla cella e a un ergastolo sicuro dalle sue stesse parole. Forse avrebbe parlato ancora. Forse avrebbe scelto la via di fuga di La Barbera che iniziò a collaborare con la giustizia.
Forse. Perché quel 30 luglio del 1993 Gioè fu trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Lasciò un biglietto. C’ era scritto: «Io rappresento la fine di tutto». La Barbera confermò punto per punto il contenuto dei dialoghi e aggiunse altre e più preziose informazioni che accompagnarono in galera l’ intero commando di Capaci, lasciando dubbi solo sulla regia dell’ intera operazione.
Per le parole di Gioacchino La Barbera pagò il padre Girolamo. Lo andarono a trovare una mattina di giugno del 1994 nella sua masseria di Altofonte. Gli porsero la corda e gli indicarono la trave del soffitto. Lui disse solo: «Sbrighiamoci». Si passò la corda intorno al collo, strinse bene e passò l’ altro capo lungo l’ asse di legno. Salì su una sedia, sferrò un calcio all’ appoggio e si lasciò penzolare. Aspettarono di vederlo morire.
Rinchiusero la porta della stalla e se ne andarono. Lo avevano suicidato punendolo per le parole del figlio.
C’ è anche chi, sotto il peso di un «fine pena mai», la via del suicidio la imbocca per disperazione o per chiudere i conti con un’ esistenza sbagliata.
Chi lo fa perché la famiglia non viene neppure più ai colloqui. O perché la mafia di Riina e compagni è un’ avventura senza ritorno. E le promesse di impunità sono millanterie o privilegi per pochi. Pietro Sorbi sicario di Vincenzo Marchese, assassinato nell’ 82, era in cella e smaniava.
Voleva essere mandato in manicomio, cosa che a quei tempi ai notabili di Cosa nostra riusciva facile. Agitandosi e implorando che lo facessero passare per pazzo cadde in sospetto di inaffidabilità. Fu trovato impiccato e dissero che si era ucciso. Fu poi un pentito a raccontare che lo avevano indotto ad ammazzarsi. A Spoleto, dove nel 2002 si è ucciso il boss di Monreale Salvatore Damiani, come all’ Ucciardone, dove nello stesso anno si è ammazzato Michelangelo Pedone e nel 1995 era stato indotto al suicidio il vecchio padrino di Caccamo Francesco Intile, a San Vittore, dove nel 1996 si è tolto la vita Giuseppe Giacomo Gambino, come a Pianosa dove si uccise Giuseppe Biondo i boss si suicidano sempre allo stesso modo.
A  Sulmona, lo stesso carcere dove a giugno scorso si è ucciso Francesco Di Piazza, gregario del clan Brusca e dove a gennaio è morto Guido Cercola, il braccio destro di Pippo Calò nella strage al treno rapido 904, nel 2003 si era suicidata anche la direttrice, Armida Miserere, una donna dal temperamento energico che aveva guidato l’ Ucciardone dopo gli eccidi del 92.
Dietro il fumo delle super senza filtro nascondeva l’ angoscia per la morte del suo compagno, un educatore penitenziario del carcere di Opera, assassinato nel 1990 al debutto di una misteriosa sigla, la Falange Armata che aveva lanciato un’ offensiva terroristica tutta imperniata sul mondo delle carceri.
Che è duro e fa paura anche agli irriducibili. Se il figlio di Riina giurava agli amici che il padre appartiene a una generazione che «la galera se la mangia a morsi», Salvatore Genovese stanato cinque anni fa non lontano dalla sua San Giuseppe ammise candidamente: «Avrei fatto meglio ad ammazzarmi piuttosto che morire di vecchiaia in cella». Né pentito, né libero, né in galera, invece, Francesco Messina, mastro Ciccio, uccisosi nel 1997 durante la latitanza nelle campagne di Mazara.
Sapeva di mafia, di massoneria e della cassaforte di Riina. Si portò appresso ogni segreto. Non si salvarono neppure le parole che aveva lasciato su un biglietto prima di spararsi. A far sparire quelle pensarono i familiari. Enrico Bellavia