Maggio-Luglio 1992, la guerra Mafia-Stato con un solo vincitore: Matteo 

 

Intervista a Giacomo Di Girolamo, autore del libro su come l’allora giovane boss Matteo Messina Denaro uccise Falcone, Borsellino e… Cosa Nostra

 

Matteo Messina Denaro, figlio di don Ciccio, capo mafia di Castelvetrano, agli inizi degli anni Novanta era il pupillo del capo dei tutti capi, Totò Riina, e con lui pianifica la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A trent’anni da quei crimini, “u’ siccu”, “diabolik”, “l’invisibile”, come è stato chiamato il boss della “Super Cosa”, resta latitante.

Giacomo Di Girolamo, giornalista marsalese vincitore di premi nazionali e direttore del portale TP24 e della radio-tv RMC101, è il maggiore esperto di mafia trapanese. Di Matteo Messina Denaro scrisse già la prima biografia pubblicata in Italia. A trent’anni dagli attentati di Capaci e via D’Amelio, esce il suo libro Matteo va alla Guerra. La mafia e le stragi del ’92, come tutto ha inizio(Zolfo, 2022). Giacomo in questa intervista ci ribadisce che nel suo saggio,  narrato “dalla parte del male”, racconta solo fatti. Dopo l’intervista, leggete il libro e tenetevi forte.

Giacomo, per scrivere questo libro usi una formula provocatoria, ti metti a pensare dalla parte “del male”, pensi e scrivi come un mafioso. Come hai imparato il loro linguaggio? Direttamente osservando i mafiosi, vivendoci accanto, oppure leggendo le carte degli interrogatori dei pentiti e dei processi?

“Dopo trent’anni, sulle grandi stragi di mafia del ’92, abbiamo scritto tutto, e ci sembra di sapere poco o nulla. In questo tempo di disorientamento, da giornalista, ho scelto di tornare alle cose semplici: fare raccontare il territorio, tornare ai fatti. Questo è un libro di fatti, di cose accadute, che però nessuno aveva mai messo insieme. Da scrittore, inoltre, penso che si scrive “con gli occhi”. Bisogna far vedere le cose. E per farlo allora ho deciso di ribaltare il punto di vista: facciamo parlare il male. Mettiamoci dalla parte del torto. Mi è venuto naturale, per tanti motivi: perché sono siciliano, perché conosco la mafia da sempre, perché ho imparato, nel tempo, che la scrittura è anche questo: mettersi nei corpi e nelle contraddizioni dell’altro, anche nelle zone d’ombra. Aiuta molto a capire, a comprendere. Ovviamente, comprendere non significa giustificare”.

Ad un certo punto scrivi:

“Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai…”

 Chi “manovrava” Cosa Nostra nell’estate del ’92 a Capaci e poi Via D’Amelio? Servizi segreti? Di quale stato? Perché?

“La mafia non ha fatto tutto da sola. Non ha mai fatto nulla, anzi, da sola. E in Sicilia tutti hanno avuto bisogno della mafia, sempre. Non bisogna essere “complottisti” per sostenerlo, ma capire l’anima profonda della criminalità organizzata di stampo mafioso, che esiste in quanto è violenza di relazione, luogo in cui confluiscono interessi diversi. Ancora una volta, atteniamoci ai fatti. Cosa nostra voleva la vendetta contro Falcone, Borsellino, la Dc, alcuni giornalisti. Qualcuno ha visto i preparativi di questa guerra  e non ha fatto nulla per ostacolarli. Qualcun altro, anzi, ha pure agevolato la mafia. Qualcun altro ancora, ha apparecchiato depistaggi  e giochi di specchi. Io mi sono fatto convinto di una verità indicibile: Cosa nostra è stata incoraggiata a fare guerra allo Stato, perché, nel ’92, ormai non era più funzionale al controllo della Sicilia. Caduto il muro di Berlino, cadute le ideologie, anche i vecchi partiti ideologici non avevano più storia (ed infatti cominciavano ad essere travolti dalle inchieste giudiziarie). Aiutare la mafia ad uccidere Falcone, Borsellino, e non solo, significava spingere lo Stato ad una reazione che avrebbe portato al suo annientamento. E così è stato. Un paradosso, ad esempio: si dice che gli attentati del ’93 nascano in merito alla famosa “trattativa” per chiedere che lo Stato ritiri misure come il “carcere duro”. Bene. Ma il carcere duro nasce proprio dopo le stragi del ’92. Insomma, con un po’ di ragionamento, Cosa nostra, per continuare ad evitare il carcere duro come altre misure nate dopo le stragi, avrebbe potuto, semplicemente evitarle … Qualcuno invece ha spinto perché ci fosse la guerra”.

Scrivi:

“Ma qualcuno ci ha visto. È sicuro. Sapevamo di essere visti. E qualcuno ci ha visto, e ha visto morire il dottore Falcone, il dottore Borsellino e tutti gli altri, senza muovere un dito (…) Eppure, chi poteva evitare tutto questo è rimasto immobile. Allora, scusateci, è vero, noi siamo gli assassini. Ma rimanere immobili non è la stessa cosa che uccidere?”

A chi si riferiscono questi mafiosi? Chi poteva salvare Falcone e Borsellino e invece li condannò a morte?

“Sono i piccoli gesti che compiono la grande storia. Tutto poteva essere evitato se ognuno, ad esempio, avesse fatto il suo dovere fino in fondo. Potrei citare molti esempi, dico soltanto che i Messina Denaro, padre e figlio, ancora fino al ’92 erano sconosciuti alla giustizia, eppure rappresentavano la famiglia più importante della provincia di Trapani. Quando Paolo Borsellino, procuratore a Marsala, chiede una misura di prevenzione per Francesco Messina Denaro, dal tribunale gli dicono di no, che non c’è bisogno, è una persona onesta, con relazioni importanti…. Quando parliamo di “trattative” e di “depistaggi”, non dobbiamo mai dimenticare episodi come questi, che ci spiegano come la mafia abbia goduto sempre di connivenze e coperture, e che, come scrivo nel libro, i depistaggi si costruiscono quando le vittime sono ancora in vita …”

Ancora scrivi:

“La suocera era Andreotti, la nuora era il dottore Falcone, che siccome ci conosceva benissimo sembrava quasi aver capito tutto, e il giorno dopo scrisse un articolo su «La Stampa»: «La mafia vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola»…”

Falcone, secondo i mafiosi che tu impersoni, aveva già capito tutto. Eppure non riuscì ad evitare la morte. Falcone sottovalutò la mafia o non immaginò l’aiuto che i mafiosi potessero ricevere nell’eliminarlo?

“Falcone conosceva benissimo Cosa nostra. Cosa nostra conosceva benissimo il dottore Falcone. Dopo l’omicidio di Salvo Lima Falcone sa che tutto da quel momento in poi era possibile. Non ha sottovalutato la mafia, né il contesto, ha sottovalutato, forse, il tempo a disposizione per completare il lavoro che stava facendo”.

13 marzo 1992: La prima pagine del Corriere della Sera il giorno dopo l’omicidio di Salvo Lima, potente politico DC e referente di Giulio Andreotti in Sicilia

Poi scrivi:

“E anche su quella che è passata alla storia come la strage di Via D’Amelio, voi sapete tanto, e non sapete nulla. Come in tanti altri episodi infami della storia d’Italia, come Piazza Fontana e la Stazione di Bologna, come il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, c’è stata una convergenza di interessi. Per non avere le vertigini, per non cadere nel gioco di specchi delle congetture e dei si dice, per non farvi sedurre dall’idea di un grande vecchio, attenetevi ai fatti. E i fatti dicono che la mafia trapanese voleva la morte di Paolo Borsellino. Matteo Messina Denaro voleva la morte di Paolo Borsellino”.

Cosa vuoi dire con quel attenersi ai fatti per la morte di Borsellino – e anche di Falcone –  che il responsabile principale della sua morte è Totò Riina “guidato” da Matteo Messina Denaro? E perché uccidere Borsellino ancora in quel modo eclatante? Non si poteva sparare con un fucile di precisione da un balcone, risparmiando la scorta?

“Quanto accaduto intorno alla strage di Via D’Amelio è uno scandalo che dovrebbe fare sussultare tutto il Paese. Stiamo parlando del più grande e grave depistaggio scoperto nella storia della Repubblica Italiana. Dieci processi, innocenti condannati, falsi pentiti. Più sappiamo, meno ne capiamo. Ed allora, ancora una volta, bisogna tornare ai fatti. E i fatti sono che Paolo Borsellino, come Giovanni Falcone e decine di altre personalità della politica, del giornalismo, delle istituzioni, erano diventati obiettivi di Cosa nostra. I gruppi di fuoco lavoravano ognuno all’insaputa dell’altro. Falcone, per esempio, doveva essere ucciso a Roma, poi però Riina cambia idea e si affida a Brusca, per l’attentato di Capaci. Su Borsellino ci sono almeno tre progetti di attentati falliti, che racconto nel libro. I Messina Denaro ce l’avevano con Borsellino, perchè era stato uno dei primi a mettere in discussione il loro sistema di coperture. Questo dicono i fatti. Poi c’è la strage di Capaci. Che la mafia ha voluto, deciso, organizzato. In modalità, però, che possiamo dire serenamente che non sono solo mafiose. Serviva quel tipo di attentato lì, evidentemente, e i mafiosi si sono prestati al gioco. Non sapendo che, in quel modo, come ho detto, avrebbero scatenato una reazione durissima dello Stato che li avrebbe poi seppelliti di ergastoli e spogliati di tutti i beni”.

Attacchi chi ancora parla de “la trattativa”, perché sarebbe un controsenso al singolare. Scrivi:

“Ma perché invece non parlate mai delle trattative Stato-mafia? Che abbiamo fatto di male per farvi dimenticare di tutto il resto? Non ricordate dello sbarco degli Alleati in Sicilia, di come il fascismo prima e la Democrazia cristiana gestivano il consenso, in tempo di democrazia come in tempo di dittatura, di come nei nostri paesi il capomafia locale girava sempre con i carabinieri, perché, senza di noi accanto, i carabinieri sarebbero sembrati i rappresentanti di uno Stato straniero. Ma davvero si è persa memoria di quando i questori ci chiamavano per aiutarli a gestire l’ordine pubblico, offrendo magari ad alcuni di noi di entrare nella pubblica sicurezza?”

Poi, in altre pagine, spieghi:

“E quindi, quella che voi chiamate trattativa, vista dalla vostra comoda platea – metafora azzeccata, ci avete fatto pure sceneggiature, spettacoli teatrali, film e programmi tv a mai finire –, non è la trattativa, ma semplicemente una trattativa. Perché noi siamo mafia proprio per questo, trattiamo. Lo abbiamo sempre fatto, lo faremo. E questa storia”.

Eppure Matteo Messina Denaro una pace dopo la guerra l’avrà trattata: a quali condizioni?

“Noi abbiamo commesso un errore. ci siamo concentrati sulla trattativa Stato – mafia del ’92 – ’93, dimenticando che di trattative è piena la storia d’Italia e la storia della mafia. E’ una questione ontologica: senza rapporto con il potere, non ci sarebbe mafia, sarebbe normale criminalità organizzata. Proprio per questo, trascinare un fatto storico, la trattativa, in un’aula di tribunale, è una stortura. Non sono i giudici a dirci la verità di quegli anni, dobbiamo essere noi, con il nostro lavoro di indagine e di ricerca. Non sapremo mai nulla davvero su quel periodo finché non avremo il primo vero pentito di “Stato”, il Buscetta che ci racconterà l’altra parte di tutte le trattative. Per Messina Denaro la guerra finisce con la presa di potere all’interno di Cosa nostra, e la garanzia di un’impunità rinnovata. Non c’è latitanza che non duri così a lungo senza un appoggio di elementi delle istituzioni. Messina Denaro gode di un capitale di rapporti politici e istituzionali che sono la sua forza, come accaduto sempre nella storia dei grandi boss”.

Scrivi:

“Perché uccidere qualcuno è facile, costruire una menzogna sulla sua morte è un’arte che riesce a pochi. Ci vuole un pensiero organizzato, spregiudicato, inconfessabile e complice. E soprattutto capace della qualità principale: restare impunito”.

Matteo Messina Denaro finora è l’unico responsabile delle stragi di Capaci e Via D’Amelio rimasto impunito. Oppure la sua vita da latitante permanente resta – per lui –  comunque una condanna?

 

“Se davvero fosse una condanna per lui la vita da latitante, si sarebbe costituito da un pezzo. Circa le stragi, va detto che Messina Denaro è stato condannato in primo grado come mandante delle stragi, grazie all’ostinato lavoro dell’attuale procuratore di Trapani, Gabriele Paci. Il fatto che ci siano voluti venti anni per avere una verità giudiziaria sul ruolo dell’allora trentenne Messina Denaro sulle stragi è uno dei tanti elementi che compongono il quadro di trattative e depistaggi proprio della mafia”.

Il 21 febbraio del 1991 Matteo Messina Denaro fa uccidere a Palermo il vicedirettore di un albergo di Selinunte, Nicola Consales,  per gelosia, aveva fatto delle avance alla fidanzata austriaca dell’allora giovane mafioso. Scrivi:

“…la cosa che lasciò impressionati tanti di noi, che ne parlammo per settimane, fu che, nella storia della nostra associazione, era la prima volta che un boss ordinava un omicidio passionale a boss di altri territori. I problemi personali di Matteo, insomma, erano diventati problemi di tutti noi, e questo qualcosa voleva dire, no?”.

Già, che cosa voleva dire?

“Rispondo citando un passaggio di un altro mio fortunato libro, L’invisibile, la biografia di Matteo Messina Denaro, scritta sotto forma di lettera al boss:

“…mai era successo, nella storia di Cosa Nostra, che un boss chiedesse a dei mafiosi non appartenenti al suo mandamento  di eseguire un omicidio per un motivo  personale, personalissimo: far fuori un rivale in amore. Non per gli interessi di Cosa Nostra, solo per gelosia. Facendo uccidere Consales, secondo me, hai compiuto il tuo salto di qualità. Non sei più un boss di Cosa Nostra, giovane ma pur sempre inquadrato in un’organizzazione dalle regole rigide. Sei un mafioso nuovo, nella tua violenza, nell’arroganza senza limite, nell’ostentazione sfacciata del tuo potere di vita e di morte sulle persone. Sei qualcosa di diverso, adesso: un padrone, un capo che detta le regole. Se avessi una macchina del tempo, Matteo, e potessi scegliere quale omicidio impedirti tra le decine che hai commesso e ordinato, io forse sceglierei proprio di salvare Nicola Consales. Per la buona persona che era, certo. Per l’empatia che proviamo verso tutti i respinti in amore, anche. Ma soprattutto perché uccidendo Consales hai spiegato al tuo mondo che tu potevi tutto, dappertutto, e da lì ha cominciato a sovvertire ordini e gerarchie, a cambiare natura, assetti e affari della mafia. Da lì hai cominciato a costruire davvero la tua singolare fortuna criminale. Se Consales fosse rimasto vivo, tu saresti rimasto un boss come tanti, un criminale come tanti. Ti avrebbero già preso, la tua storia sarebbe finita da un pezzo. Lo hai ucciso per una questione privata, per una parola di troppo. Da quel momento niente è stato più «troppo» per te”.

Tesi principale del libro: Riina fa la guerra perché voleva fare la pace… Matteo Messina Denaro fa la guerra perché vuole sbarazzarsi di Riina, Provenzano e tutti gli altri e rendere la “nuova” mafia invisibile…

Scrivi:

“Così Matteo pensò le stragi di quegli anni, le organizzò, le incoraggiò, e si abbatteva furioso su chi, nella nostra organizzazione, sollevava anche un minimo dubbio sulla bontà della strategia. Ma, al momento opportuno, saltò dall’aereo con il suo paracadute, prima dell’impatto fatale. Planando solitario e salvo, in terre nuove, in territori vergini, guardava gli altri schiantarsi”.

Matteo Messina Denaro tra il ’92 e ’93 mette su il piano per sbarazzarsi dei vecchi boss tutto da solo o gli è stato suggerito da menti “raffinatissime”?

“Questo libro non ha tesi, racconta i fatti. E i fatti sono che Riina, come dicono tanti collaboratori di giustizia, “voleva fare la guerra per fare la pace”. Trascinò tutta l’organizzazione dentro la sua guerra, anche se la maggioranza era contraria. Ma chi aveva il coraggio di parlare? Nessuno. Anche perché il giovane Matteo Messina Denaro aveva il compito di mettere a tacere, con il sangue, coloro che si opponevano all’attacco allo Stato. Messina Denaro poi, ha colto un’opportunità: tra tutti i boss che partecipavano alla guerra allo Stato, lui era il solo giovane, sconosciuto ed impunito. Mandando avanti gli altri, evitando di lasciare impronte, nel caos generato dalle bombe si è costruita la sua scalata”.

Scrivi che “Riina si specchiava in Matteo…”. Ma quando il boss corleonese finisce in galera dove ci muore, capisce che il suo pupillo lo ha fregato?

Un poster del primo dopoguerra per l’Indipendenza della Sicilia firmato Salvatore Giuliano

“Riina ha parole sprezzanti per Messina Denaro. Qualcuno ci ha visto un disconoscimento, una rinnegazione. Io, invece, mi metto nella mente del capomafia che sa di essere intercettato, e magari, invece, usa quelle parole per sancire un passaggio di testimone definitivo”.

Ad un certo punto scrivi che Matteo Messina Denaro vuole creare il “suo” partito, “Sicilia Libera”, una specie di lega siciliana, per farlo entrare in Parlamento e avere politici di cui si può veramente fidare. Per farlo finanziare chiede aiuto agli “amici” americani, e a un mafioso italo americano ma latitante in Sicilia, un certo Rosario Naimo, chiede “la benedizione dei servizi segreti americani per il suo partito” e magari anche quella del presidente degli USA. Matteo Messina Denaro sulle orme di Salvatore Giuliano, o fu tutto un bluff?

“No, non è un bluff. Ci hanno provato. Ovviamente bisogna pensare che ragionavano con logiche antiche in un mondo che era già profondamente cambiato. Negli anni ’70 e ’80, se davvero avesse voluto, Cosa nostra avrebbe potuto tutto”.

Ricordi anche l’orribile tortura e omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. I processi dicono che ad ordinare l’uccisione di Giuseppe fu Giovanni Brusca. Matteo Messina Denaro doveva essere d’accordo o lui avrebbe potuto impedire lo strangolamento del figlio del pentito?

‘Matteo Messina Denaro ha partecipato al rapimento, al sequestro ed all’omicidio del ragazzino. Ha anche fornito almeno due dei luoghi in cui è stato tenuto prigioniero. Quindi è stato complice di Brusca”.

Per spiegare la “mutazione” della mafia al comando di Matteo Messina Denaro, nel capitolo che chiami “Spillover”, la paragoni al coronavirus. Citiamo il passaggio:

“Il salto di specie. Perché questo è accaduto. Abbiamo lasciato la baracca corleonese, che tanta ricchezza ci aveva dato – una scia d’oro lunga quasi quanto la scia di sangue che c’eravamo lasciati dietro –, per fare una mutazione, cambiare pelle, di più, cambiare assolutamente mondo. È stata questa l’invenzione di Matteo. Come il coronavirus, ad esempio, è passato dal pipistrello all’uomo, così lui ha portato tutti noi fuori dalle caverne e dentro la luce del mondo, rendendoci invisibili come lui, eppure presenti, diversi, ma ancora più saldi. E nessuno era preparato a questo salto, né la vecchia guardia di Cosa nostra, che a poco a poco abbiamo eliminato senza sparare un colpo, né tanto meno chi ci doveva combattere, che continua a darci la caccia, e a dare la caccia a Matteo in primis; senza sapere, però, che il nemico adesso non è più di fronte, ma è accanto, e che neanche lo puoi chiamare nemico, perché un vaccino, per questa roba qui che siamo diventati – che certe volte neanche noi lo sappiamo come chiamarci – ancora non c’è (…) Uccidere è superfluo, uccidere è da perdenti. Spillover”.

La mafia che non uccide più ma che ancora più influente nella società. La chiami anche la “Super Cosa di Matteo”. A questo punto la domanda: Dove si propaga questo virus? Solo nel trapanese? In Sicilia? In Italia? Ovunque?

“E’ quella che io chiamo Cosa Grigia, la nuova frontiera dell’organizzazione criminale. Una mafia diversa, silenziosa, che si muove nei confini incerti tra legalità e illegalità , con una struttura a rete, competenze specifiche, e una diffusione non più locale ma che attraversa l’Europa. Matteo Messina Denaro è, in questo senso, figura di transizione tra il vecchio e il nuovo”.

Scrivi alla fine:

“Anche Matteo aveva compiuto un miracolo. Era risorto dalle ceneri di Cosa nostra. Lui era risorto. E, come Cristo, si era dissolto. Lasciò questa terra come un dio del rock. Perché, se ci consentite la morale, prima del congedo, va detto questo. Va detto cioè che la guerra – ogni guerra – crea da sempre due categorie di persone: chi sopravvive, e chi no. Entrambe, comunque, recano ferite. Matteo, no”.

E poi:

“Siamo qualcosa di nuovo, ma anche di antico, il buco nero che inghiotte i segreti del Paese. L’ultimo arcano d’Italia. Con Matteo che si è fatto voce, che si è fatto spirito. Con Matteo che sempre cammina in silenzio accanto a noi”.

La domanda è: perché dopo 30 anni Matteo Messina Denaro resta “invisibile” e imprendibile? Chi è veramente il figlio dello Zù Ciccio? Un “messia” mandato da chi? A quale entità appartiene? Chi volle nel ’92-93 sbarazzarsi una volta per tutte di Cosa Nostra ma accetta per questo che diventi solo Cosa sua, di Matteo?

“Resta invisibile e imprendibile perché, come ho detto, se è vivo, gode di coperture importanti, e ha un capitale di protezione che è il suo territorio da un lato, e dall’altro i suoi referenti istituzionali. Chi è veramente non lo sappiamo ancora, perché resta ancora molto da scrivere. Sicuramente è quello che dalla guerra allo Stato è uscito, a differenza di altri, almeno sul piano personale, vincitore”.

Il tuo libro si chiude con una immagine fortissima, in cui spieghi la copertina del libro che riporta il Cretto di Alberto Burri sulle rovine di Gibellina. Scrivi:

“Sì, mettetelo in copertina il grande Cretto di Alberto Burri. Serve a rispondere alla domanda che vi fate nei vostri convegni: qual è l’immagine della mafia oggi? Perché questo ha fatto Matteo. Sulle macerie ha costruito un’opera d’arte, una colata di cemento sul corpo di una nazione morta. L’opera d’arte è una cicatrice che solca la terra. Di più, è un labirinto. In quel labirinto, adesso, vi tiene tutti prigionieri”.

Tutti gli italiani restano prigionieri dei segreti custoditi da Matteo Messina Denaro?

“No, sono prigionieri di un labirinto nel quale ci siamo infilati. Non sappiamo più riconoscere il nemico, e  non riconoscendolo, non sappiamo lottarlo. Ci siamo fatti prigionieri da soli”.

Infine chiudiamo con questo passaggio:

“Ecco perché non ci sono teorie sulla famosa trattativa Stato-mafia, in questo libro, non ci sono ipotesi di depistaggi, grandi vecchi. Ci sono solo i fatti. … Certo, posso dire una cosa: tutto quello che qui è scritto è vero e documentato. Eccola, dunque, la storia”.

Se ti spuntasse Matteo Messina Denaro davanti, come fosse il genio della lampada pronto a rispondere a qualsiasi tuo desiderio di verità, cosa gli chiederesti?

“Ho poco da chiedere. Non sono stato mai uno di quei giornalisti alla ricerca del “mostro” da intervistare. Mi piace invece indagare l’anima delle cose e delle storie, le contraddizioni degli uomini. Ho poco da chiedere, perché di Messina Denaro so già tutto, tranne dov’è. Forse la domanda, allora è questa, che è la domanda che mi accompagna da sempre, e che tutti ci unisce, vittime e carnefici, perché é nell’essenza stessa della condizione umana: raccontami la tua storia”.