‘𝗡𝗗𝗥𝗔𝗡𝗚𝗛𝗘𝗧𝗔 𝗦𝗧𝗥𝗔𝗚𝗜𝗦𝗧𝗔, 𝗜𝗟 𝗣𝗠: “𝗗𝗜𝗘𝗧𝗥𝗢 𝗟𝗘 𝗕𝗢𝗠𝗕𝗘 𝗗𝗘𝗟 ‘𝟵𝟯 𝗨𝗡 𝗣𝗥𝗢𝗚𝗘𝗧𝗧𝗢 𝗣𝗢𝗟𝗜𝗧𝗜𝗖𝗢 𝗖𝗛𝗘 𝗛𝗔 𝗣𝗢𝗥𝗧𝗔𝗧𝗢 𝗔 𝗙𝗢𝗥𝗭𝗔 𝗜𝗧𝗔𝗟𝗜𝗔”

 
di Alessia Candito su Repubblica del 23/02/2023
 
Il passaggio da una “guerra locale” a una “guerra totale”, attraverso un piano eversivo che diventa progetto politico, coronato dalla vittoria plebiscitaria di Forza Italia nel ’94.
Alla vigilia del trentesimo anniversario degli attentati continentali, quella stagione che ha portato le bombe delle mafie a Roma, Firenze, Milano torna nelle aule di giustizia.
Succede a Reggio Calabria, dove adesso tocca alla Corte d’Assise d’appello continuare a scrivere una versione diversa, più completa, più complessa di quei mesi di sangue e bombe che nel ’93 hanno terrorizzato l’Italia. E proprio la strategia del terrore è una chiave. Cosa c’entrano i calabresi? Molto. E per molto tempo è stato ignorato.
Gli attentati continentali, una storia anche calabrese
“Guardate la Sicilia dall’Aspromonte, guardate la Calabria dall’Etna. Vedrete quello che sono criminalmente: una terra unica”, esorta il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, in veste di procuratore generale alla fine della requisitoria.
È stato lui, in fase di indagine prima, in primo grado poi, adesso in appello a costruire pezzo per pezzo, dichiarazione di collaboratori dopo dichiarazione, una verità – già diventata processuale – che a molti sembrava una bestemmia: la stagione delle stragi non è cosa solo dei siciliani. E c’è una pagina che in quel racconto di sangue è stata ignorata.
Si scrive a Reggio Calabria tra il ’93 e il ’94, passa per tre attentati contro ai carabinieri, costa la vita a due di loro – i brigadieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo – ed è a pieno diritto parte integrante di quella strategia terminata con il fallito attentato all’Olimpico.
Anche in quel caso l’obiettivo programmato erano i carabinieri, da colpire in fretta perché “i calabresi si sono mossi” diceva il boss palermitano Giuseppe Graviano, secondo quanto raccontato in aula dal pentito Gaspare Spatuzza. “Abbiamo il Paese nelle mani”, assicurava il boss di Brancaccio. Serviva “l’ultimo colpetto”. E per Spatuzza quella era sollecitazione che veniva da altrove, ambiti non strettamente mafiosi gli ha fatto intendere “Madre Natura” e ha confermato la lunga istruttoria di primo e secondo grado del processo “‘Ndrangheta stragista” a Reggio Calabria.
Appunti per il futuro.
Forza Italia e l’indagine che verrà
Lui, Giuseppe Graviano – il boss degli omicidi efferati eseguiti e ordinati, sospettato di essere il vero ventriloquo di quel Salvatore Baiardo che si è guadagnato gli onori delle cronache auspicando se non “preannunciando” il possibile arresto di Matteo Messina Denaro – assiste in silenzio all’udienza.
Alla settima ora di requisitoria, rinuncia e va via.
Sulla sua testa pende la conferma dell’ennesimo ergastolo, ma soprattutto un ruolo da protagonista in una storia ancora tutta da scrivere.
Perché per una ricostruzione completa manca – quanto meno a livello processuale – quello che è il convitato di pietra: Forza Italia, creatura di Silvio Berlusconi, mille volte evocata, ancora mai processata.
Succederà? Parola ai posteri.
Di certo Firenze – e la cosa è nota – sulla traccia lavora da tempo, mentre molti dei sassolini di quel percorso proprio nel processo ‘Ndrangheta stragista sono stati seminati.
O meglio, raccolti scavando fra decenni di sentenze e inchieste, messi in ordine e sparpagliati fino a creare un sentiero sì tortuoso, ma coerente. Inizia presto – ha spiegato il procuratore aggiunto Lombardo – ancora prima che di una nuova formazione politica si sentisse la necessità storica.
Quel summit nell’agrumeto
“Le forze politiche che si affacciano sulla scena nel ’94 sono soggetti la cui caratterizzazione politica è riferibile a epoche precedenti – spiega il magistrato – Nelle sentenze siciliane si trova traccia della spinta mafiosa verso i socialisti, che per effetto di Mani pulite non riuscirono a garantire la nuova progettualità politica”.
E non a caso davanti alla Corte d’appello di Reggio Calabria, il pentito Giacomo Bruzzese ha raccontato di quel summit avvenuto “prima dell’omicidio Moro” a cui parteciparono Silvio Berlusconi e Bettino Craxi.
Un legame già noto, come noto è lo shopping di antenne dell’ex patron di Fininvest, che per costruire il primo network di tv private andò a bussare da un imprenditore nell’orbita del clan Piromalli, storico casato di ‘ndrangheta che nella storia delle stragi entra da protagonista. E non solo perché è a loro che Filippone risponde.
Ancor prima che le stragi si “rendessero necessarie” per partecipare, spiega Lombardo, “all’opera di ristrutturazione degli equilibri di potere” attraverso “la sostituzione di una classe politica inaffidabile, con una nuova sensibile agli obiettivi strategici di Cosa Nostra e ndrangheta”, con la politica i clan hanno avuto interlocuzioni e rapporti.
I rapporti funzionali e necessari fra mafie e politica
Di più. E’ stata una necessità storica per le mafie che “non hanno solo curato interessi locali, ma non hanno mai perso di vista scenari più ampi.
La componente ndrangheta, così come la componente siciliana, non è immune da interlocuzioni di tipo politico”.
Motivo? Primo, strettamente funzionale. A livello micro e a livello macro.
Al Sud, l’unica grande industria in grado di dare da mangiare a legioni di soldati dei clan è lo Stato. E allora alle mafie tocca piegarlo alle proprie esigenze – storici processi come quelli che hanno dimostrato la cannibalizzazione delle municipalizzate a Reggio Calabria, insegnano – per distribuire briciole, costruire consenso, consolidare eserciti.
A livello macro, la straordinaria liquidità che, le mafie in generale e la ‘Ndrangheta in particolare, hanno accumulato per rientrare almeno in parte in Italia ed essere reimpiegata necessita di canali che vanno ben oltre il rapporto con questo o quel politico. Hanno bisogno rapporti di sistema e – è emerso nel processo di primo e secondo grado – sono antichi. E probabilmente non solo nazionali.
La strategia del terrore
Ecco perché la storia delle stragi inizia ben prima che scoppino le bombe “in continente”. Si intreccia con quella della Falange Armata, che esordisce a Milano per firmare l’omicidio di Umberto Mormile, educatore carcerario “colpevole” di aver scoperto i rapporti fra il boss della ‘ndrangheta Mico Papalia e i servizi, si ripresenta a Reggio Calabria e mette il bollino sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, in Cassazione rappresentante dell’accusa al maxiprocesso, viene scelta da Toto Riina nella stagione delle riunioni di Enna per firmare le stragi continentali.
Sangue di mafie, ma che tale non doveva sembrare.
Perché? In sé era un messaggio. “Si trattava di un attacco alle istituzioni in quanto tali e poteva essere compreso davvero da pochissimi”, spiega il procuratore Lombardo. Il segnale però era universale: sottolineare “la condizione di fragilità istituzionale di un Paese che non riesce più a garantire la sicurezza dei propri cittadini”. Che terrorizzati, possono essere molto più propensi a una “soluzione d’ordine”.
Il passaggio, anche evolutivo, è fondamentale: “si passa da una logica criminale pura, ad una logica dai meccanismi politici eversivi”, spiega il procuratore Lombardo. E anche questa è funzionale, in un momento storico che ha visto più crisi sommarsi: quella tutta italiana del crollo dei partiti storici sotto i colpi di Tangentopoli, quella anche italiana legata al crollo del muro di Berlino e degli assetti di potere che per decenni lo avevano puntellato. Lungo lo Stivale, passati anche attraverso Gladio e le operazioni Stay behind.
Cambiare tutto per non cambiare niente
“Mantenere gli equilibri non era possibile mantenendo ai posti di comando le stesse persone e gli stessi assetti di potere – afferma il procuratore nel corso della requisitoria – Bisognava cambiare tutto per non cambiare nulla.
Nuovi partiti, nuovi uomini che garantissero l’egemonia mafiosa soprattutto nelle regioni meridionali, ma anche negli ambiti strategici”.
Il rischio per i clan era alto, in Italia si stava configurando una situazione politica inedita. “Nell’autunno 93 – ricostruisce Lombardo in aula – c’è possibilità che si affermi un governo di tipo comunista: in quella stagione Occhetto vince le amministrative e inizia a parlare da presidente del Consiglio perché non ha avversari”.
Dc e Psi erano già cadute sotto i colpi di Tangentopoli. “L’avversario – aggiunge il procuratore – viene formalizzato subito dopo e sarà Forza Italia, su cui tutte le componenti di mafia concordano nel dire che bisognava indirizzare il consenso”.
Di collaboratori che lo affermino, siciliani e calabresi ce ne sono a decine.
Solo alcuni però sono stati in grado di riferire o intuire che – come emerso nei due gradi del processo – il clima di generale instabilità e insicurezza che ha preceduto, se non accompagnato la nascita del partito di Berlusconi, sia stato indotto. “Le stragi continentali, inclusi i tre attentati calabresi, sono servite a questo”, sottolinea il procuratore.
La storia ignorata della Cosa Unica delle mafie
Traduzione, quel sangue è servito per imporre le condizioni di un nuovo sistema. O meglio di un sistema in grado di mantenere equilibri e rapporti di potere del passato, ma con attori nuovi. “C’era la necessità di forgiare una finta nuova classe politica a cui affidare una specifica missione: garantire la restaurazione di una serie di centri di potere che la storia aveva cancellato”.
Un’esigenza di mafie, che – come confermano pentiti come Tommaso Buscetta, Leonardo Messina, Gioacchino Pennino, così come molti di quelli che abbiano avuto a che fare con il “Consorzio”, camera milanese di tutte le mafie – a certi livelli sono cosa unica. “E non dovete chiedervi se esista la commissione provinciale o regionale”, avvertiva – inascoltato – il pentito Messina negli anni Novanta. “Dovete chiedervi dove sono quella nazionale e mondiale”. Ma non solo i clan hanno lavorato da protagonisti a quella stagione. Non avrebbero potuto.
Colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio”
L’ombra di “forze occulte di matrice massonica riferibili al contesto piduista, per lungo tempo riconducibili a Licio Gelli”, “componenti della destra eversiva”, “alcuni settori dei servizi di sicurezza” è emersa in modo chiaro. In più di un caso, anche i nomi. Anche questi, appunti per le indagini che verranno.
Se sarà la procura di Reggio a occuparsene lo dirà forse un’eventuale richiesta di trasmissione atti al termine della requisitoria, fissata per la prossima settimana.
Ma ancor prima che l’esposizione del procuratore aggiunto Lombardo si concluda, il quadro a carico di Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano appare chiaro, anche se “nella nazione dei silenzi e non delle parole” – spiega il magistrato – è stato necessario “ripulire un foglio sporco” di depistaggi, storture, elementi investigativi relegati al rango di coincidenze.
“La sentenza non viene ad un tratto, è il processo che si trasforma poco a poco in sentenza”, dice Lombardo, che senza esitazione di Graviano e Filippone dice “sono colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio”. E invoca “una verità processuale su una drammatica stagione che ha trasformato la storia d’Italia e di cui oggi nessuno di noi può fare a meno”.
Quando il boss di Brancaccio “troverà la forza di dirci chi gli ha chiesto il proseguimento della strategia stragista già in atto, avremo un ulteriore tassello di verità.
La certezza che siamo in grado di spendere in questa sede ci consente di dire che qualcuno glielo ha chiesto”.