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L’attentato mancato allo stadio Olimpico
Sulla mancata strage dello stadio Olimpico di Roma vi sono, innanzitutto, le risultanze consacrate nelle sentenze della Corte di Assise e della Corte di Assise di Appello di Firenze pronunziate rispettivamente il 6 giugno 1998 e il 13 febbraio 200 l, divenute irrevocabili e, quindi, acquisite al fascicolo del dibattimento.
Dalla prima di tali sentenze si ricava, in estrema sintesi, che la primi genia idea di attentato da effettuare alla stadio Olimpico risaliva già al mese di giugno 1993 (quando Scarano e Spatuzza, in occasione dell’ultima partita di campionato, avevano effettuato un sopralluogo) e, poi, via via si era sviluppata nel successivo mese di ottobre 1993 “allorché fu, verosimilmente, portato a Roma l’esplosivo e il mezzo da utilizzare come autobomba” ed era culminata, infine, nell’azione “in
grande stile” che nel periodo compreso “tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994” fu tentata “contro uomini delle istituzioni” e che “solo per miracolo non provocò le conseguenze orrende cui era preordinata: l’uccisione di molte decine di persone” (v. sentenza citata).
Gli “uomini delle istituzioni” contro i quali l’azione era programmata in tale sentenza vengono indicati come “Carabinieri o Poliziotti” sulla base, per lo più, della generica indicazione del collaboratore Grigoli Salvatore, anche se dalla stessa sentenza risulta che Giovanni Brusca aveva già indicato l’obiettivo della strage nei Carabinieri, dal momento che Spatuzza, quando ebbe a parlargli di tale attentato, gli disse che “temeva che venisse fuori questo fallito attentato contro i Carabinieri e che costoro si accanissero contro di lui” (così si legge nella sentenza citata).
Del tutto analoghe, ancora in estrema sintesi, sono le conclusioni della Corte di Assise di Appello, ove ugualmente, in conclusione si legge che “sulla scorta pertanto delle emergenze istruttorie che sono state richiamate, e sempre con riferimento alla strage c.d. dell’Olimpico di Roma, può serenamente concludersi esservi ampia e sicura prova in atti che allo Stadio Olimpico di Roma, tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994, venne posta in essere una azione criminale di notevoli proporzioni contro Carabinieri e/o Poliziotti e privati cittadini che si fossero trovati a passare, alla uscita dallo stadio, nella medesima strada percorsa dai bus che conducevano nei rispettivi alloggiamenti gli uomini della forza pubblica che erano stati di servizio allo stadio Olimpico: azione criminale che fortunatamente non provocò le terribili conseguenze cui era stata preordinata e cioè, come detto, la uccisione di molte decine di persone”.
Unitamente alle predette sentenze, sono state, altresì, acquisite nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni rese da Scarano Antonio nelle udienze dell’1l, 12, 17, 18 e 21 marzo 1997 e del 30 ottobre 1997 in quel processo svoltosi innanzi alla Corte di Assise di Firenze, dichiarazioni divenute atto irripetibile per il sopravvenuto decesso del detto Scarano.
Con tali dichiarazioni quest’ultimo, imputato nel medesimo processo, ha dettagliatamente raccontato come avesse occasionalmente conosciuto Matteo Messina Denaro in occasione di un soggiorno in una località balneare nei pressi di Castelvetrano e come, quindi, fosse stato coinvolto da questi negli attentati compiuti nel continente nel 1993 e nel tentativo di attentato contro un pullman dei Carabinieri posto nel gennaio 1994 nei pressi dello Stadio Olimpico di Roma, non riuscito soltanto per problemi tecnici.
Orbene, come si vede, dalle predette risultanze emerge una ricostruzione della mancata strage ancora alquanto generica ed approssimativa perché fondata (a parte le dichiarazioni di Giovanni Brusca che aveva avuto, però, altrettanto generiche informazioni da Gaspare Spatuzza) su dichiarazioni di alcuni collaboratori che avevano avuto ruoli secondari e parcellizzati (Grigoli
Salvatore, Scarano Antonio e Carra Pietro), tanto che non viene neppure individuata con certezza la data e l’occasione in cui il fallito attentato ebbe luogo.
Ma tra i soggetti condannati con le predette sentenze vi era anche Gaspare Spatuzza, soggetto di ben altra levatura nell’ambito dell’associazione mafiosa grazie ai suoi rapporti diretti con Giuseppe Graviano, che avrebbe iniziato la sua collaborazione con la Giustizia soltanto successivamente e le cui dichiarazioni, pure concernenti il fallito attentato alla stadio Olimpico, sono state raccolte, così
come anche quelle di Giovanni Brusca, in questo processo.
[…]
La sopravvenuta collaborazione con la Giustizia di Gaspare Spatuzza ha consentito di ricostruire ben più compiutamente quel tentativo di strage allo stadio Olimpico di Roma rispetto alla necessariamente approssimativa ricostruzione fatta nelle sentenze di Firenze, ove, peraltro, va evidenziato, quell’episodio rivestiva un rilievo del tutto secondario rispetto ai ben più gravi fatti stragisti consumati e, quindi, ivi pure giudicati con maggiore approfondimento.
Oltre a fornire alcuni dettagli tutti precisamente riscontrati (soprattutto quelli relativi all’approntamento dell’autovettura da utilizzare come “autobomba” rubata a Palermo e, poi, trasferita a Roma ed alterata con targhe ivi sottratte da un’altra autovettura di analogo modello, nonché agli spostamenti dei soggetti incaricati di eseguire la strage), Spatuzza ha consentito di collocare meglio il tentativo di strage sia sotto il profilo temporale sia sotto il profilo causale.
Quanto al profilo temporale, in particolare, le dichiarazioni di Spatuzza hanno consentito di spazzare via tutte le incertezze che avevano condotto prima ad ipotizzare un’origine più remota della decisione di compiere quella strage risalente addirittura sino al giugno del 1993 e, poi, a collocare il tentativo fallito alla fine del mese di ottobre di quello stesso anno.
Gli inequivocabili riscontri riferiti dai testi Cappottella e Micheli, invece, consentono ora di ritenere certa la collocazione temporale del tentativo di strage nella domenica 23 gennaio 1994 (partita di calcio Roma-Udinese: v. testimonianza Cappottella).
Ed allora, se così è, non v’è ragione neppure di dubitare della dichiarazione di Spatuzza nella parte in cui ha collocato l’incarico stragi sta, datogli personalmente da Giuseppe Graviano a Campofelice di Roccella, tra la fine del 1993 e, più probabilmente, l’inizio del 1994 (v. dich. Spatuzza sopra riportate: “…l’incontro si è verificato fine ’93, però ho il sospetto, una questione mia personale che lo stesso si possa essere verificato ali ‘inizio del ’94 … “).
Tale indicazione temporale, d’altra parte, è certamente più coerente con la verificata collocazione del tentativo stragista nella data del 23 gennaio 1994 e supera la diversa conclusione ipotizzata nelle sentenze di Firenze sulla base delle più ridotte, se non scarne, risultanze di cui disponevano quei Giudici.
Nelle dette sentenze, invero, si fa cenno ad un primo sopralluogo allo stadio Olimpico di Roma che sarebbe stato effettuato, addirittura nel mese di giugno 1993, da Spatuzza e Lo Nigro.
Sennonché, Spatuzza nulla ha riferito di tale remoto sopralluogo e non avrebbe, ovviamente, avuto alcuna ragione di non riferirne se, invece, l’avesse effettivamente effettuato.
A ciò si aggiunge l’evidente incoerenza della collocazione di un attentato che avrebbe dovuto deliberatamente provocare un elevatissimo numero di morti tra i Carabinieri o, comunque, tra le Forze dell’Ordine, in una fase (compresa tra la strage di Firenze del 27 maggio 1993 e le stragi di Milano e Roma del 27-28 luglio 1993) in cui, invece, la strategia di “cosa nostra” si era attestata verso quelle che, come si è visto prima, furono ritenute e definite “bombe del dialogo” in considerazione della individuazione di obiettivi monumentali e, quindi, della loro collocazione in contesti nei quali le vittime sarebbero state meramente eventuali oltre che indefinite nella loro qualità ed identità.
Dunque, soltanto nei primi giorni del 1994 (o, al più, negli ultimi giorni del 1993), nel corso di un’apposita riunione a Campofelice di Roccella Giuseppe Graviano comunica a Gaspare Spatuzza e a Cosimo Lo Nigro che sono stati lì convocati per organizzare un attentato contro i Carabinieri (v. dich. Spatuzza: “…Facendo un po’ il punto di varie situazioni il Graviano ci comunica che siamo lì per pianificare un attentato contro i Carabinieri”).
Ed è in quella stessa occasione, quindi, che viene ideato e progettato l’attentato allo stadio Olimpico di Roma e ne viene affidata l’esecuzione agli stessi Spatuzza e Lo Nigro (v. ancora dich. Spatuzza citate: “Da questo incontro ne scaturisce il progetto esecutivo, organizzativo ed esecutivo, cioè nel progetto che mi viene affidato già mi vengono date le modalità già esecutive … …. . … Di recarci noi su Roma, cioè a Roma, sul territorio di Roma e trovare un bel po’ di Carabinieri e organizzare …cioè dare anche l’impulso per la fase esecutiva di uccidere un bel po’ di Carabinieri… “).
Qui, dunque, si innesta la causale del nuovo progetto stragi sta che Spatuzza ha indicato in modo inequivoco: si voleva colpire i Carabinieri con un attentato eclatante che avrebbe causato decine di morti tra quei Militari (“… uccidere un bel po’ di Carabinieri …”) per dare il “colpo di grazia” allo Stato (“… mi disse che l’attentato contro i Carabinieri lo dobbiamo fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia … …….. Giuseppe Graviano mi dice che l’attentato ali ‘Olimpico … lui non sa che l’Olimpico … ai Carabinieri si deve fare perché con questo gli dobbiamo dare il colpo di grazia … “) e costringere “chi di dovere” a riprendere la “trattativa” (” .. . mi dice che è bene che ci portiamo dietro un bel po’ di morti così chi si deve muovere si dà una smossa….. che io ricordo Graviano non ha mai detto trattativa, ma nel linguaggio nostro, che ci appartiene, c’è una cosa in piedi oggi posso dire che quella cosa in piedi è la trattativa … “) per ottenere benefici soprattutto per i mafiosi detenuti (“…c ‘è in piedi una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a partire dei carcerati…”).
Inoltre, è importante rilevare che Spatuzza, incalzato dalle domande delle difese, ha escluso che, per quel che gli disse Graviano, l’uccisione dei Carabinieri rispondesse ad un desiderio di vendetta (“Una vendetta no, non. .. … … Per me sono obiettivo …. … …. Quando io dico … io penso … io penso, ma io non posso pensare, io sto dando un giudizio mio personale ma io sono lì per … obiettivo Carabinieri, quindi, sto dando una deduzione per … Quindi, a questo punto, io non so se, effettivamente, era il vero obiettivo i Carabinieri o lo Stato …. …. … Quindi, posso dire che se l’obiettivo non erano i Carabinieri ma lo Stato, quindi, è un pensiero mio ma io come arrivo a Roma obiettivo è Carabinieri”), perché ciò consente di escludere che l’individuazione di quell’obiettivo fosse ricollegabile, come pure, in astratto, sarebbe ipotizzabile, ali ‘arresto di Salvatore Riina operato, appunto, dai Carabinieri.
Va evidenziato, d’altra parte, che anche quando Brusca, de relato da Spatuzza, ha parlato di “vendetta” non si è mai riferito all’arresto di Riina, ma, come dallo stesso puntualizzato, semmai alla volontà di chiudere i conti con chi non aveva rispettato i patti.
In ogni caso, l’esclusione del possibile collegamento dell’attentato ai danni dei Carabinieri con l’arresto di Riina avvenuto l’anno precedente è avallata dal collegamento fatto dallo stesso Graviano con l’uccisione di Carabinieri nel contempo portata a termine dai “calabresi”, cui non potrebbe logicamente ricondursi un desiderio di vendetta per l’arresto di un esponente, ancorché importante, di altra associazione mafiosa.
Si vuole dire, in altre parole, che se fosse stata una questione soltanto interna a “cosa nostra” (la vendetta, appunto, per l’arresto di Salvatore Riina), non vi sarebbe stato il coinvolgimento della ‘ndrangheta, ma la questione avrebbe potuto (e dovuto) essere risolta dalla stessa “cosa nostra”, dal momento che nessuno avrebbe potuto collegare l’azione dei “calabresi” alla eventuale finalità di vendetta per l’arresto di Riina e, dunque, tale finalità dell’azione medesima, sotto tale profilo, sarebbe stata vanificata.
Non può dubitarsi, invece, dell’interesse comune degli ‘ndranghetisti calabresi nell’ottenimento di benefici carcerari di cui si sarebbero avvantaggiati anche i detenuti di quell’organizzazione criminale.
Occorre, allora, a questo punto, esaminare se la propalazione di Spatuzza sia sufficientemente riscontrata e possa assurgere conseguentemente al rango di prova. Deve, in proposito, premettersi che il riscontro alle dette propalazioni dello Spatuzza non può ravvisarsi nelle dichiarazioni di Brusca, poiché i riscontri probatori esterni necessari per la conferma devono essere indipendenti […]. […] Ora, ricordato che non è necessario, tuttavia, che i riscontri probatori esterni abbiano lo spessore di prove autosufficienti (perché altrimenti costituirebbero essi stessi prova della responsabilità dell’imputato) e che gli stessi possono consistere in elementi di qualsiasi natura di carattere sia rappresentativo che logico, nella fattispecie un importante riscontro di tipo logico che conferma la
causale dell’attentato allo stadio Olimpico indicata da Spatuzza si rinviene in quel collegamento fatto da Graviano, secondo quanto raccontato da Spatuzza, con l’uccisione di due Carabinieri avvenuta in Calabria (v. dich. Spatuzza citate: “….Lui mi comunica che erano stati uccisi due Carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri … … … Certo, perché il Graviano come ho spiegato ieri… Se mi dici: “I calabresi si sono mossi ….. Perché altrimenti: “Sono stati uccisi due Carabinieri in Calabria”, a noi, con tutto il rispetto, ma che ce ne frega! Perdonatemi il termine, quindi, se non sono morti i Calabresi e, tra l’altro, erano stati uccisi due Carabinieri, quindi, certamente, per me entrano tutti nello stesso contesto”).
Spatuzza ha collocato temporalmente il colloquio con Graviano presso il Bar Doney di Roma nei giorni di mercoledì o giovedì precedenti il fallito attentato allo stadio Olimpico e, quindi, se questo è avvenuto, come incontestabilmente accertato (v. deposizioni Cappottella e Micheli), la domenica 23 gennaio 1994, allora, il predetto incontro tra Graviano e Spatuzza è avvenuto la mattina di
mercoledì 19 gennaio o giovedì 20 gennaio 1994.
Ed è bene sottolineare che Spatuzza non ha mai indicato con esattezza né la data del fallito attentato (appunto il 23 gennaio 1994), né la data dell’incontro precedente con Spatuzza (appunto il 19 o 20 gennaio 1994), date che sono state, successivamente, ricostruite ed individuate soltanto all’esito delle indagini soprattutto relative prima ai viaggi con la nave da Palermo e, poi, al furto della
targa dell’autovettura, utilizzata per nascondervi l’esplosivo, avvenuto il sabato 22 gennaio 1994.
Si rivela di grande importanza, dunque, il riscontro che effettivamente in data 18 gennaio 1994, e, quindi, appena il giorno prima (o, al più, due giorni prima) di quel colloquio di Spatuzza con Graviano vi fu l’uccisione di due Carabinieri in Calabria ad opera delle cosche ‘ndranghetiste (v. sopra paragrafo 32.1 e, quanto al riscontro specifico, anche testimonianza Cappottella sopra riportata).
Ma, ai fini del riscontro sulla causale, non è tanto rilevante l’accertamento in sé del detto episodio (anche perché Spatuzza, lealmente, pur confermando il riferimento di Graviano ai “calabresi”, non ha escluso che della specifica uccisione dei due Carabinieri possa averne appreso successivamente: “…Adesso non ricordo se lui mi ha detto che erano stati uccisi due Carabinieri o questo l’ho appreso successivamente, ma credo che lui mi abbia detto che erano stati uccisi due Carabinieri o dei Carabinieri…”), quanto il fatto che il detto episodio si inserisca in un contesto più ampio che Spatuzza ignorava ed ignora tuttora perché emerso soltanto a seguito delle dichiarazioni di Consolato Villani e delle indagini conseguenti.
Ci si intende riferire a quelle risultanze, prima già evidenziate nel paragrafo 32.1, che consentono di collegare l’uccisione dei due Carabinieri in data 18 gennaio 1994 con i tentativi di analoghe uccisioni posti in essere, sempre in danno di Carabinieri, sia prima, i12 dicembre 1993, sia dopo, il l febbraio 1994.
Gli inequivoci elementi che collegano i tre episodi (oltre, ovviamente, alle dichiarazioni di Villani) sono stati già sopra evidenziati: l’uso delle medesime armi, la partecipazione dei medesimi soggetti, l’incompatibilità di quelle armi così micidiali e ingombranti con finalità diverse dagli attuati attentati ai danni dei Carabinieri, la telefonata di rivendicazione e, soprattutto, il mancato
abbandono delle armi persino dopo l’uccisione dei due Carabinieri ed il loro ulteriore riutilizzo in occasione del successivo attentato del!’ l febbraio 1994 nonostante, da un lato, il rischio che così, in caso di arresto anche soltanto durante i trasferimenti con tali armi, gli autori avrebbero potuto essere
immediatamente collegati al precedente duplice omicidio e, dall’altro, l’accertata disponibilità di un arsenale (che infatti venne successivamente rinvenuto e sequestrato) con altre diverse armi che ben avrebbero potuto essere utilizzate ove i sicari si fossero disfatte di quelle utilizzate il 18 gennaio
(ed è, infatti, notorio che ordinariamente, per evidenti ragioni di prudenza, i sicari delle cosche mafiose, che dispongono di innumerevoli fonti di approvvigionamento di armi, si disfano di quelle utilizzate per commettere un omicidio subito dopo averlo compiuto proprio per evitare che gli investigatori possano ricollegare tra loro più fatti delittuosi e, in caso di successivo arresto di soggetti in possesso delle medesime armi già usate, possano giungere agevolmente alla identificazione degli autori dei pregressi fatti delittuosi).
E ciò senza dimenticare la percezione che di tali episodi ebbe il Comandante Generale dell’Arma Gen. Federici, che, appunto, all’indomani dell’ultimo episodio del l febbraio 1994, ebbe ad esternare al Presidente del Consiglio Ciampi la convinzione che non si era trattato di un fatto occasionai e e
contingente, ma di una dimostrazione di forza della ‘ndrangheta che aveva voluto colpire i Carabinieri […].
E allora, non v’è chi non veda come le propalazioni di Spatuzza da un lato e quelle di Villani dall’altro, rese nell’ignoranza le une delle altre, valutate unitamente ai conseguenti accertamenti effettuati, si riscontrino reciprocamente.
Senza nulla sapere ciascuno dell’altro, infatti, entrambi i dichiaranti delineano un quadro di una strategia congiunta tra “cosa nostra” siciliana e ‘ndrangheta calabrese finalizzata a colpire, questa volta non più monumenti e vittime indefinite nella loro qualità e più o meno casuali, bensì direttamente l’Arma dei Carabinieri, come dimostrato non soltanto dal fatto che l’obiettivo dello stadio Olimpico di Roma fu individuato proprio per la presenza di un numero rilevante di Carabinieri in servizio ivi in occasione della partita di calcio domenicale, ma anche dal fatto che nei tre diversi agguati organizzati in Calabria vennero ugualmente individuati come obiettivi sempre e soltanto Carabinieri e non altre Forze di Polizia che pure di certo non mancano in quei territori.
Se così è deve dedursi che con quella concentrazione di obiettivi in un lasso temporale limitato (meno di due mesi) si sia voluto mandare un messaggio proprio ai Carabinieri, messaggio che, evidentemente, però, non era quello soltanto della dimostrazione di forza inteso dal Gen. Federici d’altra parte all’oscuro dei contatti con i mafiosi intrapresi dal R.O.S., ma anche quello di far sì che “chi si deve muovere si dà una smossa” (v. parole Graviano riferite da Spatuzza) e, quindi, in sostanza, dal punto di vista dei mafiosi, per i quali, per quanto gli era stato fatto credere, quei Carabinieri del R.O.S. che si erano fatti avanti rappresentavano Istituzioni superiori consapevoli dell’iniziativa, quello di riallacciare il dialogo interrotto ed ottenere “tutti dei benefici. a partire dei
carcerati…” (v. ancora parole Graviano riferite da Spatuzza).
Si tratta dell’inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da “cosa nostra” per dare il “colpo di grazia” e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi.
Costituisce forte convinzione della Corte, alla stregua del complesso di tutte le acquisizioni probatorie raccolte, che quell’episodio dell’attentato allo stadio Olimpico di Roma, passato quasi in secondo piano perché per fortuna fallito, se, invece, fosse riuscito ed avesse, quindi, determinato la morte di un così rilevante numero di Carabinieri, avrebbe con ogni probabilità veramente messo in
ginocchio lo Stato pressoché definitivamente (il “colpo di grazia”, per fortuna, soltanto vaneggiato da Giuseppe Graviano) dopo la sequenza delle gravissime stragi che si erano già susseguite dal 1992, ciò tanto più che l’ulteriore strage (la più grave per numero di vittime) sarebbe intervenuta in un momento di estrema debolezza delle Istituzioni a fronte di un Governo di fatto già dimissionario e di un Parlamento già proiettato verso le imminenti elezioni politiche nel contesto di una campagna elettorale particolarmente aspra per le scorie della c.d. “tangentopoli” che aveva travolto tutti i partiti politici tradizionali.
Allora, pur volendo evitare qualsiasi enfasi, non può non ritenersi che quella strage avrebbe sicuramente cambiato (ovviamente in maniera tragica) la storia di questo Paese, aprendo la porta ad una fase di instabilità e di incontrollabilità del fenomeno mafioso foriera di esiti, sì, imprevedibili, ma certamente tutti gravemente negativi per la sopravvivenza stessa delle Istituzioni democratiche.
Il “caso”, qui rappresentato dall’occasionale fallimento dell’attentato unitamente all’arresto dei fratelli Graviano che di lì a pochi giorni sarebbe avvenuto a Milano, ha mutato il corso delle cose e forse “salvato” il Paese da anni sicuramente bui e tristi.
Tali considerazioni, ancorché apparentemente estranee alle competenze della Corte, appaiono necessarie per sottolineare come ancora una volta in quelle vicende si sia dimostrata fallace e illusoria la speranza di coloro che ritennero di potere attenuare la pressione del fenomeno mafioso mediante politiche “al ribasso” nell’azione di contrasto al fenomeno medesimo e forme di convivenza con questo purché venissero abbandonati i picchi più eclatanti ed evidenti dell’azione criminale che maggiormente allarmavano (e allarmano) l’opinione pubblica.
Ciò seppure occorra distinguere, poi, tra coloro che, più o meno implicitamente, ma, comunque, consapevolmente, sollecitarono tali forme di convivenza mediante intese più o meno sotterranee e coloro che, come il Ministro Conso, con una diversa consapevolezza che atteneva non già alla suddetta scelta sollecitatoria, ma solo alla ritenuta obbligatorietà morale di una decisione
finalizzata ad evitare nefaste conseguenze, furono, di fatto, soltanto vittime della violenza della minaccia mafiosa.
Il mistero del fallito attentato contro i carabinieri allo stadio Olimpico
Molto resta da chiarire sulla genesi di quel progetto criminale e le sue reali finalità, che sono state finora forse troppo sbrigativamente saldate in un unico disegno criminoso alle stragi progettate ed attuate nel corso del 1993, nel solco della ricostruzione operata nei processi di Firenze.
Ma non è azzardato affermare – come chiosa la sentenza impugnata – che, per le sue proporzioni (sarebbe stata una strage senza precedenti per numero di vittime) e gli effetti dirompenti che potevano seguirne, tanto più in una situazione di particolare debolezza delle istituzioni con un Governo dimissionario e un’infuocata campagna elettorale in vista, agitata e avvelenata dalle “scorie” di Tangentopoli, sarebbe stato un evento capace di cambiare il corso della storia del nostro paese.
E se è vero che falli per il difettoso funzionamento del telecomando azionato dal commando incaricato della strage (e il tentativo non fu reiterato anche perché quattro giorni dopo i fratelli Graviano) non si può negare che esso sia stato oggetto di un’accurata e meticolosa preparazione con ripetuti sopralluoghi e ampio dispiegamento di uomini e mezzi come si è accertato anche attraverso l’imponente mole di risultanze incontestate e acquisite a riscontro della dettagliata ricostruzione offerta da Spatuzza (cfr. deposizioni dei testi Massimo Cappotella e Sandro Michele, entrambi funzionari della Dia; e pagg. 28 14-2834della sentenza di primo grado).
Il giudice di prime cure ne trae una conferma indiretta della validità della ricostruzione fattuale secondo cui Cosa nostra, protesa a rinnovare la minaccia di nuovi eclatanti attentati se non fossero state accolte le sue richieste, non poteva che scorgere in modeste concessioni a favore dei detenuti mafiosi solo un segno di debolezza dello Stato e quindi l’incoraggiamento a proseguire nella via tracciata l’anno prima dal suo capo, Salvatore Riina.
Obiettivo: colpire i carabinieri
Ma soprattutto, il fatto che obbiettivo della nuova strage progettata allo Stadio Olimpico fossero i Carabinieri, così come la circostanza che essa si saldasse in un unico disegno criminale agli attentati commessi nel medesimo contesto temporale in Calabria (il 2 dicembre ‘93, il 18 gennaio 1994 e l’1 febbraio 1994) ai danni sempre di militari dell’Arma (come pure si evince non solo dalle pur tardive rivelazioni di Conso lato Villani ma anche da un frammento significativo ed assai probante del racconto di Spatuzza a proposito dell’incontro con Giuseppe Graviano al bar Doney, e al riferimento che lo stesso Graviano avrebbe fatto al duplice omicidio dei carabinieri occorso il 18 gennaio 1994: “..lui mi comunica che erano stati uccisi due carabinieri, si erano mossi i calabresi che avevano ucciso due Carabinieri..”); e ovviamente il fatto che non si trattasse di una coincidenza casuale (come del resto fu inteso all’epoca dal Comandante generale dell’Arma, generale Federici, secondo quanto può evincersi da un’annotazione contenuta in una delle agende del presidente Ciampi alla data del 2 febbraio 1994) costituirebbe la riprova che si volesse dare un segnale preciso alla politica, o a quella parte della politica rea di avere fatto arenare la trattativa già avviata, respingendo le richieste che erano state avanzate da Riina; giacché in quella fase della trattativa, erano stati proprio i carabinieri a farsi avanti come emissari dello stato (o almeno così avevano creduto Riina e i suoi luogotenenti).
Si è già detto che questa seconda parte del ragionamento, e le conclusioni cui approda, nonostante alcuni eccessi argomentativi dei quali l’ipotesi ricostruttiva accolta può fare a meno, è largamente condivisibile, grazie anche al riscontro incrociato delle dichiarazioni di Spatuzza e Conso lato Villani: fonti del tutto autonome e non sospettabili di alcuna contaminazione reciproca, che senza sapere nulla l’uno dell’altro delineano entrambi il quadro di una stratega eversiva congiuntamente ordita da Cosa Nostra e ‘ndrangheta calabrese per colpire non più monumenti e vittime indeterminate o casuali, ma direttamente e specificamente l’Arma dei carabinieri.
Fonti supportate dalle dichiarazioni di Brusca, a loro volta incrociate con quelle di Spatuzza, che comprovano l’avere Spatuzza riferito allo stesso Brusca della strage mancata allo Stadio Olimpico, del ruolo di Giuseppe Graviano e dell’essere i Carabinieri obbiettivo di quell’attentato: di tal che ne uscisse chiaro il messaggio intimidatorio per cui, secondo le parole che Spatuzza attribuisce a Graviano (con riferimento alla riunione operativa di Campofelice di Roccella in cui fu progettato l’attentato allo Stadio Olimpico), “chi si deve muovere si dà una smossa”.
E la datazione certa del duplice omicidio di carabinieri in Calabria (18 gennaio 1994) cui aveva fatto riferimento Graviano nell’incontro al bar Doney, a sua volta avvenuto il mercoledì o il giovedì precedente alla domenica nella quale era progettato l’attentato (e quindi il 19 o il 20 gennaio 1994) assurge a formidabile riscontro esterno.
Ma gli ulteriori passaggi del ragionamento articolato in sentenza perdono ogni aderenza con le risultanze processuali. Appare francamente eccessivo e non supportato dagli elementi raccolti, che dalla progettata strage all’Olimpico possa trarsi la prova che, dopo che il Governo aveva mostrato di recepire la minaccia delle cosche mafiose siciliane, lasciando decadere, nel novembre 1993, moltissimi provvedimenti applicativi del regime del 41 bis (e fin qui si può concedere che la scelta di Conso e le ragioni che la motivarono assurgono a prova della ricezione della minaccia da parte del Governo pro-tempore, con tutte le precisazioni già fatte e quelle che ancora seguiranno):
• “Cosa Nostra” aveva immediatamente percepito e raccolto quel segnale di cedimento dello Stato rispetto alla linea della fermezza propugnata;
• che aveva ritenuto, conseguentemente, che l’accettazione del dialogo sollecitato dai Carabinieri stesse producendo i suoi frutti;
• che sarebbe stato utile, per la stessa “cosa nostra”, costringere i Carabinieri a riallacciare le fila di quel dialogo interrottosi con l’arresto di Vito Ciancirnino;
• che ne sarebbe seguita la necessità di lanciare un messaggio che coloro che tra i Carabinieri erano a conoscenza dei pregressi fatti ed approcci avrebbero potuto ben percepire.
Spatuzza e i fratelli Graviano
L’attentato all’Olimpico sarebbe stato quindi «inevitabile effetto del segnale di cedimento dello Stato conseguente alla mancata proroga dei decreti del 41 bis subito raccolto da “cosa nostra” per dare il “colpo di grazia” e piegare definitivamente la volontà degli interlocutori istituzionali su tutte le richieste che erano state avanzate quali condizioni per la cessazione delle stragi».
Tutto ciò appare francamene ridondante e forzoso in simili inferenze è prefigurare addirittura un rapporto di causa effetto tra l’improvvida – secondo la valutazione del primo giudice – decisione di Conso di non rinnovare centinaia di decreti applicativi del 41 bis, e le successive mosse dei vertici di Cosa nostra, a partire dal progetto di attentato allo stadio Olimpico di Roma di cui solo i fratelli Graviano, e segnatamente Giuseppe Graviano sembra essere stato ideatore, oltre che organizzatore e mandante. Senza dire che il ragionamento suesposto glissa sul fatto che l’attentato fu messo in atto il 23 gennaio, quando era imminente, ma non ancora presa e tanto meno annunciata, la decisione sui decreti che scadevano una settimana dopo e che teoricamente avrebbero dovuto stare a cuore dei vertici di Cosa nostra, per il livello degli associati che vi erano interessati, ancora più di quelli scaduti (e non rinnovati) a novembre.
Piuttosto, è verosimile che le spaccature già esistenti avessero già dato luogo, all’inizio del 1994 ad una divaricazione nelle visioni strategiche e nelle conseguenti scelte dei capi dell’organizzazione mafiosa, per cui una parte importante di Cosa nostra, e in particolare quella riconducibile proprio a Provenzano se stiamo alle dichiarazioni di Giuffré e Ciro Vara, aveva sposato con convinzione l’idea di una soluzione tutta politica dei propri problemi, mobilitandosi vuoi per la costituzione di una propria diretta rappresentanza politica (come il movimento “Sicilia Libera” in cui persino il sanguinano Leoluca Bagarella aveva inizialmente creduto e investito), vuoi per appoggiare il nuovo soggetto politico che stava nascendo e prometteva di poter essere un cavallo vincente per Cosa nostra.
Ma ammesso che Giuseppe Graviano non sia stato l’unico ideatore e stratega del fallito attentato allo Stadio Olimpico (come pure farebbe pensare il fatto che, usciti di scena i fratelli Graviano. di quel progetto non si parlerà più benché gli altri capi che avevano concertato la sanguinosa filiera delle stragi in continente fossero ancora tutti liberi; mentre fu portato avanti il progetto di attentato a Contorno, in quel di Formello,) è lecito chiedersi se il disegno stragista coltivato da Giuseppe Graviano e ai suoi sodali non si sia snodato lungo traiettorie e in tempi che ignoravano le scadenze dei decreti applicativi del 41 bis; e che non fossero minimamente influenzati — e influenzabili — nè dalla decisione già adottata di non rinnovare i decreti scaduti a novembre. né della decisione ancora da prendere (l’attentato era programmato per domenica 23 gennaio 1994) alla fine di gennaio ‘94. Se stiamo alla narrazione di Spatuzza, l’ordine di procedere alla concreta organizzazione dell’attentato venne impartito dal Graviano nel corso della riunione tenutasi in un villino a Campofelice di Roccella tra la fine del ‘93 e i primi giorni di gennaio del ‘94 (sul punto Spatuzza non ha saputo essere più preciso, ma nelle sue prime dichiarazioni aveva parlato della fine del ‘93 perché rammentava che il villino in questione era in un residence in località balneare ed era certamente bassa stagione).
Ciò che fa presumere che il progetto fosse stato ideato ancora prima. E la decisione di procedere a quell’eclatante azione criminale s’inquadrerebbe in un contesto in cui, per dirla con le parole che Spatuzza avrebbe udito dalla viva voce dello stesso Graviano c’era in piedi una situazione che se va a buon fine ne avremo tutti dei benefici, a cominciare dai carcerati.
Fu in quel medesimo frangente, che il Graviano, forse per ravvivare il morale dei suoi uomini non proprio soddisfatti della piega che stavano prendendo gli eventi, con tanti morti che non centravano niente con Cosa nostra (per dire che erano tutte vittime “innocenti”), li rassicurò che dovevano proseguire sulla strada intrapresa che avrebbe dato i suoi frutti; e al disagio e anche il rammarico manifestato da Spatuzza per quelle morti, replicò seccamente che è bene che ci portiamo dietro un bel po‘ di morti, “così chi si deve smuovere si dà una smossa”.
Ora, il punto è che nell’economia della narrazione di Spatuzza spicca la considerazione che a quella riunione operativa e a quelle parole di Graviano si ricollegano — o almeno Spatuzza dice di avere fatto subito quel collegamento — le parole che sempre il Graviano ebbe a pronunciare in occasione dell’incontro al bar Doney, avvenuto pochi giorni prima della domenica in cui era previsto l’attentato. In tale occasione espresse infatti tutta la sua soddisfazione per come si erano messe le cose, perché, in sostanza “avevamo ottenuto tutto quello che avevamo chiesto”, riferendosi alle garanzie date dai nuovi referenti di Cosa nostra — indicati nelle persone di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri «che erano persone serie, a differenza di come si erano dimostrati quei quattro crasti dei socialisti» («sempre con quell‘espressione gioiosa mi comunica che avevamo chiuso tutto. Che avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo, grazie a delle persone serie che avevano portato avanti questa cosa. Cioè mi riferisce… questa cosa io.. questo incontro lo collego all‘incontro di Campofelice di Roccella. perché quando lui mi dice che avevamo chiuso tutto e ottenuto tutto quello che cercavamo, ricolleghiamo noi l‘incontro di Campofelice di Roccella che avevano portato avanti questa cosa avevano chiuso tutto»).
E Spatuzza spiega di avere operato quel collegamento anche perché fu Graviano a dire «ve l‘avevo detto che le cose andavano a finire bene, di tutto quello che lui mi aveva prospettato lì a Campofelice di Roccella che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo grazie a queste persone che avevano portato avanti questa cosa. E aggiunse — sempre il Graviano — che grazie anche a queste persone c‘eravamo messi addirittura il Paese nelle mani».
“Dare il colpo di grazia”
La strage in programma all’Olimpico, e più esattamente, l’attentato contro i carabinieri, sempre a dire del Graviano «lo dobbiamo fare perché con questo gli dobbiamo “dare il colpo di grazia”: e dunque serviva portarsi dietro tutti quei morti, e che i morti fossero Carabinieri, per coronare il disegno di avere “il Paese nelle mani».
Ciò posto, è di tutta evidenza che, a prescindere dai tempi di effettiva gestazione del progetto di strage allo Stadio Olimpico, la posta in gioco era così alta che non potevano essere le decisioni del ministro o di un intero Governo (dimissionario) in ordine a qualche decina di provvedimenti applicativi (non tutti i 334 decreti scaduti a novembre riguardavano affiliati a Cosa nostra; e lo stesso dicasi per i 232 decreti che furono invece rinnovati con provvedimento del 30 gennaio 1994) a fare la differenza, nel senso di condizionare le scelte strategiche dell’organizzazione, o di quella componente di essa che aveva in Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro i suoi più autorevoli esponenti.
Scelte che erano maturate puntando ad obbiettivi molto più ambiziosi, anche se tra di loro poteva annoverarsi, più che un ammorbidimento del 41 bis, il suo smantellamento (come nelle originarie richieste), insieme alla cancellazione di altri presidi normativi della lotta alla mafia.
Infatti, nella ottimistica prognosi di Giuseppe Graviano si profilava, grazie alle alleanze tessute con nuovi referenti della politica e dell’imprenditoria, la possibilità concreta di mutamenti politico-istituzionali ditale portata da consentire a Cosa nostra di mettersi il paese nelle mani.
In tale prospettiva, il progettato attentato all’Olimpico, destinato questa volta a mietere centinaia di vittime (a differenza di quelle accidentalmente prodotte dalle stragi già consumate a Firenze come a Roma e a Milano) doveva essere una sorta di spallata decisiva ad un sistema sull’orlo dei collasso, il colpo di grazia di cui parlava Graviano.
Se è vero poi che questo piano per essere portato a compimento richiedeva di rinsaldare l’alleanza con le altre organizzazioni criminali di stampo mafioso, e in particolare con la ‘ndrangheta calabrese, e doveva attuarsi attraverso una serie coordinata di eclatanti azioni dirette a colpire bersagli-simbolo dell’autorità dello Stato, secondo un progetto di destabilizzazione delle istituzioni per favorire nuovi assetti di potere, ben si comprende come un disegno strategico di tale portata non poteva essere condizionato dal mantenimento o dal rinnovo o dalla mancata proroga di alcune centinaia di decreti applicativi del 41 bis (che peraltro non interessavano tutti e soltanto detenuti mafiosi), pur essendo i vertici dell’organizzazione mafiosa certamente informati e interessati a ciò che accadeva nel mondo delle carceri.
D’altra parte, non è un dettaglio di poco conto che, per quanto possa scavarsi nelle fonti documentali e dichiarative compulsate in questo processo, come in quelli che hanno trattato più specificamente l’episodio della strage mancata all’Olimpico (per essere il fatto oggetto di una delle imputazioni per cui ivi si procedeva), e ci riferiamo in particolare alle dichiarazioni dei tanti collaboratori di giustizia escussi, non è emerso neppure una traccia, che sia una, del fatto che i vertici di Cosa nostra abbiano valutato e discusso in qualche modo le decisioni del ministro Conso , e tanto meno che ne abbiano tratto impulso a proseguire sulla via intrapresa. O addirittura a reagire con un nuovo e più tremendo colpo a quello che poteva apparire come un segnale di debolezza dello Stato.
Che possano averne fatto oggetto di valutazione, resta una plausibile congettura, legata alla certezza ampiamente acquisita che le vicende del “carcerario” e la sorte degli associati che languivano ai 41 bis non potevano essere ignorate ed erano seguite dai capi dell’organizzazione.
Ma altro è spingersi a sostenere che la cognizione di quella decisione abbia avuto un qualche impatto sulla decisione di ordire un massacro all’Olimpico. Mentre altre fonti, costituite da collaboratori di giustizia di comprovata affidabilità e che hanno ricoperto un ruolo di spicco durante la loro militanza in Cosa nostra (come Ciro Vara e Antonino Giuffré) avvalorano con le loro dichiarazioni l’ipotesi che almeno una parte cospicua dell’organizzazione era ormai orientata da aprire un capitolo completamente nuovo nella storia dei rapporti tra mafia e politica.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
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