AUDIO DEPOSIZIONI AI PROCESSI
La desegretazione dei verbali dell’audizione del capitano del ROS Giuseppe De Donno, tenutasi il 10 febbraio 1993 davanti al Comitato appalti e subappalti della Commissione Parlamentare Antimafia org. c/o Palazzo S. Macuto
DE DONNO, FEDELISSIMO DI FALCONE
ROMA – Il capitano Giuseppe De Donno l’ Arma ce l’ ha nel sangue.
Salernitano, 33 anni, è figlio di un maresciallo dei carabinieri.
Dopo la Nunziatella e l’ Accademia militare di Modena, è stato mandato in Sicilia. Ha comandato il nucleo operativo di Bagheria e poi la sezione omicidi di Palermo. Lì ha conosciuto il colonnello Mario Mori che comandava il gruppo provinciale. Nel 1989, con Giovanni Falcone procuratore aggiunto, De Donno ha cominciato a lavorare sugli intrecci tra mafia e appalti. Un anno dopo, per le insistenze di Falcone, è nato il Ros, dove si sono trasferiti sia Mori che De Donno. Tra il giudice e il giovane capitano si era sviluppato, nel frattempo, un rapporto di stretta collaborazione: più volte, De Donno lo ha accompagnato nei suoi viaggi all’ estero (Argentina, Australia, Messico, Germania) in occasione di rogatorie internazionali. Nel febbraio ’91, quando Falcone stava lasciando la Procura, De Donno consegnò i famosi due volumi dell’ inchiesta sugli appalti. L’ anno seguente si scatenarono le polemiche per la deposizione del pentito Giuseppe Li Pera. Nel 1993 De Donno si è trasferito a Napoli, dove ha continuato a indagare sulle illegalità negli appalti. Sua l’ indagine sui rapporti tra camorra e cooperative rosse e sui lavori della Tav. 11.6.1997 LA REPUBBLICA
Esclusivo – L’audio inedito in cui Falcone difende il capitano De Donno
L’ex Ros è stato tirato in ballo nel processo Trattativa Stato mafia, ma per il giudice ucciso dalla mafia era un uomo fidato. Ecco la deposizione di Falcone del 1992
11 maggio, 2022 •
«Come sempre, il capitano De Donno ha svolto di buon grado anche questo compito». L’avvocato Pietro Milio? «Una persona serissima, uno dei pochi avvocati disposti ad assistere chi collabora con la giustizia nonostante comporti rischi e sacrifici». A trent’anni dalle stragi di mafia che si intersecano con il trentennale di Tangentopoli (e vedremo il collegamento), queste sono le ultime parole pubbliche di Giovanni Falcone. Parliamo del giorno di San Valentino del 1992, a tre mesi dall’attentato che subirà a Capaci. Il Dubbio è riuscito a recuperare l’audio inedito del giudice, ritrovandolo per puro caso tra migliaia di processi registrati nell’archivio di Radio Radicale. Giovanni Falcone, il 14 febbraio del 1992, sentito come teste nel processo Giuseppe Giaccone, ha speso parole di elogio verso due persone che – dopo la sua morte e quella di Paolo Borsellino – saranno messe sotto una oscura luce. L’ex Ros Giuseppe De Donno subirà decenni di persecuzione giudiziaria; mentre l’avvocato Pietro Milio, scomparso nel 2010, padre dell’attuale legale che ha difeso i Ros al processo Trattativa, non sarà visto di buon occhio per aver difeso non solo Mario Mori e De Donno stesso, ma anche l’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada.
La confessione a Falcone dell’ex sindaco di Baucina Giuseppe Giaccone
Perché Falcone è stato sentito come testimone? E soprattutto chi è Giaccone? Quest’ultimo era uno stimato professore universitario di algologia con un passato da sacerdote, ma soprattutto era l’ex sindaco di Baucina, un piccolo paese in provincia di Palermo. Quando si presenta a Falcone appare come un uomo deciso a parlare. Come mai? Correva l’anno 1989, esattamente il 17 settembre, quando nel paese dell’ex sindaco fu assassinato un piccolo imprenditore, tale Giuseppe Taibbi. Gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno indagarono su quell’omicidio di matrice mafiosa e uscì fuori che, nonostante la modestissima entità dell’impresa, dietro c’erano grossi gruppi imprenditoriali multinazionali.
La Tangentopoli italiana scoperta da Falcone anni prima in Sicilia
L’ex sindaco Giuseppe Giaccone, qualche giorno dopo, decise di recarsi da Falcone per parlare di un giro di mazzette per gli appalti. Mise a verbale – con la presenza di De Donno che trascriveva le dichiarazioni – nomi di politici altisonanti, tra i quali anche un ministro. L’unico avvocato che fu disposto ad assisterlo è, appunto, Pietro Milio. Come dirà anni dopo l’ex giudice Antonio Di Pietro, la vera tangentopoli la scoprì Giovanni Falcone molti anni prima di “mani pulite”. Fu grazie a quell’indagine sull’omicidio a Baucina, che gli allora ex Ros – sotto l’impulso e coordinamento di Falcone – scoprirono l’enorme tavolino che vedeva seduti la mafia di Totò Riina, le grandi imprese nazionali e i politici. Una indagine che dette vita allo scottante dossier mafia-appalti, nel quale confluì anche il fascicolo Giaccone, considerato a posteriori “l’alpha della tangentopoli italiana”.
Mafia-appalti il movente delle stragi di Capaci e Via D’Amelio
Un dossier che, secondo tutte le sentenze sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, viene ritenuto il movente assieme a quello della vendetta di Cosa nostra per l’esito del maxiprocesso. Per essere più chiari, prendiamo in esame le parole dei magistrati nisseni nell’indagine “mandanti occulti bis”. Annotarono che tale movente era «rappresentato dall’interesse che alcuni ambienti politico–imprenditoriali e mafiosi avevano di evitare lo sviluppo e l’approfondimento di indagini, il cui esito positivo avrebbe interrotto l’illecito “approvvigionamento finanziario”, per l’ammontare di svariati miliardi, di cui imprenditori, politici e mafiosi beneficiavano mediante l’illecito sistema di controllo e di aggiudicazione degli appalti pubblici». Non solo. I magistrati nisseni scrissero nero su bianco che il movente mafia-appalti «aveva influito fortemente nella deliberazione adottata da “Cosa nostra” di attualizzare il progetto, già esistente da tempo, di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, atteso che era intenzione dell’organizzazione criminale neutralizzare l’intuizione investigativa di Falcone in relazione alla suddetta gestione illecita degli appalti, le indagini sulla quale avrebbero aperto già nel 1991 scenari inquietanti e, se svolte con completezza e tempestività fra il 1991 e il 1992, inquadrandole in un preciso contesto temporale, ambientale e politico, avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese della cosiddetta “Tangentopoli”».
Giaccone accusò Falcone, De Donno e Milio di avergli estorto i nomi
Come mai il giorno di San Valentino del 1992, Giovanni Falcone ha quindi deposto in un processo tenutasi a Roma? Accade che Giuseppe Giaccone, dopo aver verbalizzato i nomi di politici nazionali, decide di ritrattare, accusando Falcone e l’avvocato Milio di avergli estorto i nomi. In quegli interrogatori, Giaccone – come detto – aveva rilasciato rivelazioni “bomba”, aveva parlato di un giro di miliardi che gli imprenditori siciliani pagavano per ottenere l’aggiudicazione degli appalti a Baucina, Cimina e Ventimiglia di Sicilia. In particolare l’ ex sindaco aveva riferito di un incontro al quale partecipò anche un ministro che si impegnò a facilitare l’aggiudicazione degli appalti. Ribadiamo che da lì, soprattutto in seguito all’omicidio dell’imprenditore Taibbi, si sviluppò un’altra indagine più approfondita che coinvolgeva tutta l’isola e non solo, tanto che Falcone, appena qualche mese prima del deposito del dossier mafia-appalti avvenuto il 20 febbraio 1991, innanzi alla commissione Antimafia parlerà di “centrale unica” degli appalti. Nel gennaio del ‘ 91 Giuseppe Giaccone ci ripensa, vuole rimangiarsi le affermazioni – verbalizzate e sottoscritte – rilasciate a Falcone. Per raggiungere il suo obiettivo si reca negli uffici bunker di Roma dell’allora alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica. Gli consegna un voluminoso memoriale nel quale sostiene che Falcone, l’ex Ros De Donno e l’avvocato Pietro Milio, lo hanno indotto a dire determinate cose promettendogli in cambio una sorta di immunità. Sica gli disse di rivolgersi alla procura di Roma. Il fascicolo giunse nelle mani dell’allora sostituto procuratore della Repubblica di Roma Davide Iori. Il magistrato analizzò tutto e capì che Giaccone aveva mentito. Il pm lo portò al processo con l’accusa di calunnia continuata e aggravata. Si accertò con sentenza definitiva che quel memoriale fu un atto d’accusa falso e calunnioso nei confronti di Falcone e l’avvocato Piero Milio. Rimane il mistero di quella ritrattazione di Giuseppe Giaccone, così come il suo passaggio dall’allora alto commissario Sica che gli suggerì di denunciare alla Procura di Roma. Fortunatamente si scongiurò la macchina del fango nei confronti di Falcone. Chi toccò mafia-appalti o muore oppure veniva delegittimato. Anche De Donno, all’epoca fu ritenuto complice di Falcone nell’estorsione. Morto Falcone, morto poi Borsellino, iniziò nei suoi confronti, così come per Mario Mori, un lungo e devastante travaglio giudiziario che si è concluso con l’assoluzione. Nonostante ciò, ad oggi, i principali mezzi di comunicazione e i canali televisivi sia pubblici che privati, proseguono con il teorema. L’opinione pubblica, oramai è deformata. Tutte le persone legate a Giovanni Falcone, non solo professionalmente, ma anche da una profonda e sincera amicizia, saranno viste in cattiva luce. Quasi come se si trattasse di una vera e propria maledizione.
Covo di Riina, De Donno: “Sorvegliato per settimane prima della cattura? Ho fatto confusione con la villetta dei Ganci”
Dice di essersi confuso Giuseppe De Donno, l’ex colonnello del Ros dei carabinieri che aveva raccontato di osservazioni video del covo di Totò Riina, molto precedenti alla cattura del capomafia il 15 gennaio 1993. “Ho sicuramente fatto confusione tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni”, ha detto l’ex colonnello, braccio destro di Mario Mori. Riferendosi alla villetta di via Bernini, che non venne perquisita subito dopo l’arresto (la mancata perquisizione finì al centro di un processo con imputati Mori e il capitano Ultimo, entrambi assolti), De Donno dice: “In quel comprensorio insistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il covo di Salvatore Riina“. De Donno è il protagonista di un video inedito risalente al 2013, mandato in onda da Massimo Giletti a Non è l’arena, nel quale, alla presenza dello stesso Mori, sostiene che il covo di Riina è stato videosorvegliato per settimane prima dell’arresto del boss, contraddicendo dunque la versione sempre data dai carabinieri, e cioè che la videosorveglianza del cancello dal quale il 15 gennaio 1993 uscì Riina iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 gennaio. Dopo aver sottolineato che comunque si tratta di argomenti “di oltre trent’anni fa“, il carabiniere dice all’agenzia Adnkronos di voler offrire “una più corretta e completa informazione con riguardo alle frasi pronunciate in occasione della presentazione, anni fa, di un libro all’università di Chieti, e di cui si dato ampio risalto stampa, premesso che delle attività d’indagine dirette dal capitano Ultimo non conoscevo i dettagli operativi”. L’ex carabiniere sostiene che “nella foga e nella necessaria sintesi del racconto ho evidentemente sovrapposto ricordi giungendo poi a parlare del gruppo di lavoro che era stato costituito con i carabinieri di Palermo e che avrei dovuto dirigere per indagare sul circuito economico e politico di riferimento per Cosa nostra, iniziando le attività di indagine dalla documentazione che il boss, da poco catturato, aveva con sé, fornendo inconsapevolmente elementi ad interpretazioni erronee e fuorvianti”.VIDEO de NON È L’ARENA
Covo di Riina, la nuova versione di De Donno: “Spiato per settimane”
NEL 2013 – Il giallo della mancata perquisizione di via Bernini. Il colonnello all’Università di Chieti svela un particolare inedito sull’arresto del boss. Ma la sua tesi è in contrasto con quanto sostenuto finora dai carabinieri e da Mori
C’è una novità interessante sulla cattura di Totò Riina avvenuta il 15 gennaio 1993 e sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini 54 a Palermo, sulla quale c’è stato anche un processo per favoreggiamento contro i carabinieri del Ros, Sergio De Caprio, alias Ultimo, e Mario Mori, allora vicecomandante del Ros. Entrambi sono stati assolti nel 2005. Eppure un video inedito del colonnello Giuseppe De Donno, braccio destro di Mori, che non è stato mai nemmeno indagato, svela un particolare inedito fondamentale. De Donno, in pubblico, all’università di Chieti nel maggio 2013, offre una versione contrastante con quella resa nei processi da Mori. Il video ha quindi 10 anni ma è stato svelato e contestualizzato da Massimo Giletti durante la trasmissione di domenica 26 febbraio alla quale ha partecipato anche Antonio Ingroia, pm dell’inchiesta Trattativa e del processo per la mancata perquisizione del covo, secondo il quale: “Si tratta di una novità assoluta che meriterebbe un approfondimento investigativo nelle sedi opportune”.
Il colonnello De Donno, assolto in appello per la Trattativa Stato-mafia, sostiene nel 2013 alla presenza di Mori che il covo di Riina è stato video-sorvegliato per settimane prima dell’arresto del boss. Finora i carabinieri invece avevano sempre detto che la videosorveglianza del cancello dal quale poi il 15 gennaio 1993 uscì Riina sulla Citroen guidata dal fido Salvatore Biondino iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 stesso, senza che i pm fossero informati della fine del monitoraggio. Il Fatto ha contattato Giuseppe De Donno per avere da lui una spiegazione delle parole inedite dette a Chieti nel 2013. Invano.
Ovviamente si può pensare anche a un errore di memoria. Certo, errore clamoroso anche perché Mori era lì a Chieti accanto a De Donno e resta zitto. Comunque sarebbe importante un accertamento nelle sedi opportune come suggerisce Ingroia. Se non davanti ai pm, essendo passato troppo tempo per aprire un fascicolo dopo 30 anni, per lo meno potrebbe occuparsene la Commissione Parlamentare Antimafia quando mai sarà costituita. In quella sede sarebbe interessante risentire sul punto la versione di De Donno, Mori e De Caprio e anche quella di un carabiniere molto meno noto che non a caso aveva come nome di battaglia ‘Ombra’. Era lui l’uomo della squadra di Ultimo che stava nascosto dentro il furgone a Palermo nel 1993 a fare le videoriprese. Si chiama Giuseppe Coldesina. Nel 2005 al processo contro Mori e De Caprio raccontò le riprese del 14 gennaio 1993 quando Ninetta Bagarella e il suo autista uscirono dal cancello e quelle del giorno dopo del marito Totò Riina con il fedele Biondino. Sarebbe importante risentirlo. Soprattutto sulle sue attività dal 15 novembre 1992 al 14 gennaio 1993. Al processo contro Mori testimoniò che era sceso a Palermo dal nord per la caccia a Riina. Prima aveva video-ripreso per settimane fino al 15 novembre 1992 il cantiere di un palazzo dei fratelli Ganci, boss della Noce, legati a Riina, vicino a piazza Camporeale. Poi ha raccontato che le riprese sul palazzo finirono e lui si occupò di altro pur restando a Palermo. Infine ha detto che le videoriprese a via Bernini iniziarono (contrariamente a quanto affermato da De Donno a Chieti nel 2013) solo il 14 gennaio 1993. Il pm Michele Prestipino non fece molte domande a Ombra su cosa avesse fatto nel periodo mancante all’appello, cioé metà novembre-metà gennaio. Al processo del 2005 non era un tema centrale. Non c’era stata ancora la sparata del 2013 del colonnello De Donno sul Ros che aveva videoripreso per settimane il cancello di via Bernini. Non c’era ancora un video nel quale si vede Mario Mori con la testa bassa in silenzio che non corregge De Donno. In fondo Mori avrebbe potuto tranquillamente dire a Chieti: “Colonnello ma che stai dicendo? Già siamo imputati per la Trattativa (poi saranno condannati in primo grado e infine assolti in appello) e tu ti metti a dire balle in pubblico sulla videosorveglianza per settimane al covo di Riina, in contrasto con quello che io ho sempre detto?”. Mori invece non dice nulla del genere nel video mostrato da Giletti in tv. Qualcuno dovrebbe chiedergli perché.
Anche perché la domanda che scatena la risposta ‘scoop’ di De Donno del 2013 era rivolta proprio a lui. Nel video si vede un signore che chiede a Mori perché fosse così sicuro che non c’era nulla nel covo non perquisito. A quel punto De Donno, ruba la parola al suo ex capo e risponde al posto suo premettendo “io c’ero”. Poi, dopo essersi preso la scena spara che la villa di via Bernini “non era il luogo dove abitava Totò Riina, quello era il luogo dove abitava la famiglia”. E “perché possiamo affermare che quello non era il luogo dove viveva Riina?” si chiede De Donno retoricamente. Già perché? “Perché noi – spiega De Donno – quell’edificio di via Bernini lo abbiamo filmato per una serie di settimane precedenti (…) c’era questa macchina che usciva ma non avevamo identificato Ninetta Bagarella di cui non avevamo neanche una fotografia. Per cui noi non abbiamo mai filmato una macchina con a bordo personaggi che poi risultarono Riina e Biondino che andava a prendere Riina (…) per cui Riina si recava lì solo saltuariamente”.
Boom. In tutti i processi e in tutte le interviste i carabinieri hanno sempre sostenuto che l’osservazione del comprensorio di via Bernini 54 inizia la mattina del 14 gennaio e finisce la sera del 15.
La frase di De Donno del 2013 è più inquietante se la si correla, come ha fatto Massimo Giletti, a una seconda frase del 1993 a lui attribuita dal Corriere della Sera. Il carabiniere avrebbe confidato al giornalista Felice Cavallaro dopo l’arresto di Riina che “qualcuno per la vergogna sarebbe dovuto andare via da Palermo”. Quella frase secondo Cavallaro, anche lui presente alla trasmissione di domenica sera, sarebbe stata pronunciata da De Donno mentre parlava con i giornalisti a margine della conferenza stampa dopo l’arresto di Riina.
I giornalisti presenti a quel colloquio ebbero la sensazione che de Donno si riferisse proprio alle indagini su Riina. Forse nei video erano rimaste impresse personalità che entravano e uscivano da via Bernini? Al processo contro Mori sulla questione della mancata perquisizione del covo nel 2005 De Donno spiegò che i giornalisti avevano capito male. “Questa frase fu attribuita a un discorso collegato alle indagini per la cattura di Riina. Le cose non stavano così: io non ero a conoscenza di alcun particolare dell’indagine. Io non ricordo di aver detto questa frase (…) ma il dato fondamentale è che non stavamo parlando dell’arresto di Riina”. La sentenza di assoluzione nei confronti di Mori e De Caprio prese per buona questa tesi. Ora la nuova versione del 2013 di De Donno a Chieti sembra fatta apposta per rinfocolare i dubbi di allora.
Il dossier Mafia e Appalti e le “regole” di un colonnello troppo ardito
Resta il fatto che essa offre uno spaccato crudo ed eloquente di un discutibile modo di operare del Ros, o, più esattamente del gruppo di ufficiali che si strinsero sotto il comando del generale Subranni e dell’allora Col. Mori: un modus operandi sostanziatosi in una condotta poco rispettosa di regole e procedure o addirittura spregiudicata nello svolgimento delle attività info-investigative, nell’uso delle informazioni raccolte nel corso ditale attività e nella gestione delle fonti confidenziali, contrassegnata da un’opacità che andava ben oltre i limiti di autonomia e discrezionalità fisiologicamente intrinseci all’azione investigativa che si avvalga di questo genere di strumenti. Il tutto condito da insofferente alla sottoposizione alle direttive e al controllo dell’A.g. cui pure competeva la direzione delle indagini e da una visione ipertrofica della propria autonomia come organo di polizia, come se gli ufficiali predetti non riconoscessero altra legittima autorità all’infuori di quella inserita e riconosciuta nella loro catena di comando.
Così nel caso di Mori e De Donno, quest’ultimo particolarmente impegnato sul versante dell’indagine mafia e appalti: sono loro a decidere se, quando e soprattutto cosa riferire all’A.g. delle indagini loro delegate, o delle iniziative da loro autonomamente intraprese (per l’indagine mafia e appalti come per i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, prima e con Angelo Siino poi, per non parlare di Li Pera).
Il comportamento di De Donno
De Donno, in particolare, ha imbastito o propiziato l’avvio di un’indagine dell’A.g. di Catania sostanzialmente sui medesimi fatti che erano già oggetto di un procedimento pendente presso l’A.g. di Palermo e di un’indagine dalla stessa Autorità palermitana delegata al Ros e a lui affidata; ha attivamente cooperato con diversa autorità giudiziaria per sviluppare questa sorta di indagine parallela, coltivando per di più, o almeno, favorendo un’ipotesi ricostruttiva dei medesimi fatti che, quanto meno, si discostava dall’impostazione seguita dalla procura di Palermo.
E lo ha fatto valorizzando, dopo un numero imprecisato di colloqui investigativi cui – paradossalmente – era stato autorizzato dalla procura di Palermo, una fonte che figurava già tra gli indagati del procedimento “palermitano”: ma tutto ciò senza dame notizia all’A.g. di Palermo, così come ha taciuto all’A.g. catanese che il sedicente nuovo collaboratore di giustizia, contrariamente a quanto da lui dichiarato per giustificare la propria decisione di iniziare a collaborare con la procura di Catania, era stato più volte sentito dalla procura di Palermo che lo indagava per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., ma per ben due volte si era avvalso della facoltà di non rispondere e poi aveva reso un lungo interrogatorio (in data 5 marzo 1992) dinanzi ai magistrati della procura di Palermo titolari del procedimento ormai prossimo alla conclusione della fase delle indagini preliminari, insistendo nel protestare la propria innocenza e senza fornire alcun elemento utile per ulteriori sviluppi dell’inchiesta: una circostanza che avrebbe dovuto essere resa nota al pm di Catania, non fosse altro come elemento di valutazione dell’attendibilità del dichiarante.
De Donno non ha informato neppure il dr. Borsellino della decisione di Li Pera di aprirsi a un’iniziale collaborazione con la procura di Catania, benché ne avesse avuto la possibilità in occasione dell’incontro che ebbero il 25 giugno 1992 alla Caserma Carini (episodio che trova conferma nelle testimonianze di Sinico e Canale, anche se quest’ultimo, come rammenta il giudice di prime cure, dà una versione diversa delle ragioni per cui il dott. Borsellino aveva sollecitato quell’incontro che lo stesso Canale avrebbe poi provveduto a organizzare, o almeno della ragione che ne aveva fornito il pretesto).
Era un’occasione particolarmente ghiotta se si considera che, a suo dire, era stato lo stesso Borsellino a sollecitare quell’incontro per verificare la disponibilità di De Donno e del Ros a riprendere e approfondire un’indagine che entrambi convenivano fosse di assoluto rilievo nella lotta alla criminalità mafiosa; ma che tino a quel momento aveva sortito, sul piano giudiziario (con 6 imputati a giudizio, mentre per tutti gli altri dell’originario procedimento Siino+45 si profilava una imminente archiviazione) risultati di gran lunga inferiori a quelli auspicati e attesi dagli stessi inquirenti.
L’allora capitano De Donno, al pari del resto dell’allora colonnello Mori, nelle dichiarazioni rese al pm di Caltanissetta (nell’ambito del procedimento poi conclusosi definitivamente con il provvedimento di archiviazione più volte citato del 15 marzo 2000, in atti) si è detto certo che il dr. Borsellino fosse stato informato che Li Pera aveva deciso di collaborare e stava rendendo dichiarazioni alla procura di Caltanissetta. Ma sulle circostanze e da chi il dr. Borsellino ne sarebbe stato informato, De Donno ha reso dichiarazioni confuse e contraddittorie, oltre ad essere poco credibili ex se, spingendosi a fare affermazioni che sono state perentoriamente smentite da uno dei magistrati — peraltro contitolare dell’inchiesta su mafia e appalti — che era stato chiamato in causa come terminale attraverso cui la notizia, che sarebbe stata trasmessa riservatamente e in via ufficiosa dal pm di Catania, era pervenuta al dr. Borsellino.
È certo però che non ha mai detto di essere stato lui, De Donno ad informarlo. E quindi resta motivo di grave perplessità che non abbia sentito il bisogno di farlo lui stesso; o quanto meno, senza fare nomi e senza entrare nel merito della vicenda, per non violare il dovere di riserbo investigativo rispetto all’indagine condotta dall’A.g. di Catania, non avesse colto l’occasione di quell’incontro per allertare Borsellino sulla possibilità che vi fosse un nuovo collaboratore di giustizia disposto a riferire proprio sui fatti che avevano formato oggetto dell’indagine mafia e appalti cui lo stesso Borsellino si mostrava tanto interessato da sollecitarlo — una sollecitazione che dice di avere accolto, pur sapendo che erano altri i magistrati della procura di Palermo titolari dell’inchiesta – a svolgere un’indagine per la quale avrebbe dovuto rapportarsi solo a lui; e non lo avesse invitato a prendere contatti con l’Ufficio omologo di Caltanissetta.
L’incontro con Borsellino del 25 giugno
Così come desta serie perplessità che, sempre in occasione dell’incontro sollecitato da Borsellino ed effettivamente tenutosi il 25 giugno, nè Mori nè De Donno abbiano ritenuto di informarlo dell’iniziativa che avevano intrapreso di compulsare Vito Ciancimino come possibile fonte di informazioni utili ad analizzare e comprendere il contesto criminoso in cui inquadrare l’escalation di violenza mafiosa in atto: e ciò a prescindere dal fatto che De Donno avesse già incontrato l’ex sindaco di Palermo o fosse in procinto di incontrano, trattandosi comunque di un programma di lavoro investigativo che ben poteva integrarsi con il proposito loro esternato dal dr. Borsellino di sviluppare l’indagine sugli intrecci collusivi di natura politico affaristico mafiosa. Tanto più che, a dire dello stesso De Donno, il dr. Borsellino era convinto, anche se non glielo aveva detto espressamente, che l’indagine su mafia e appalti avesse un rilievo strategico perché puntava al cuore del potere mafioso e della sua più recente evoluzione e che su quel versante poteva annidarsi la vera causale della strage di Capaci.
D’altra parte, la dott.ssa Ferraro ricorda perfettamente che il capitano De Donno, alla sua obbiezione che di quell’iniziativa i carabinieri avrebbero dovuto e riferire all’A.g. e quindi al dr. Borsellino, piuttosto che al Ministro, le assicurò che ovviamente ne avrebbe informato il dr. Borsellino. E lo stesso Mori, nel datare sia pure con appRossimazione l’incontro tra la Ferraro e il De Donno, esclude che avessero già incontrato Vito Ciancimino perché se così fosse stato ne
avrebbero certamente parlato con il dr. Borsellino: così dando addirittura per scontato che l’allora procuratore aggiunto della procura di Palermo dovesse esserne informato.
Sta di fatto che Borsellino ne fu informato dalla Ferraro, e non dagli ufficiali del Ros.
Ed ancora più discutibile è stata la scelta sia di Mori che di De Donno di non rivelare quell’episodio, tacendo per anni: fino a quando non vennero chiamati dalla procura di Caltanissetta per chiarimenti sulle circostanze emerse dalla deposizione di altro magistrato che aveva riferito sui filoni d’indagine particolarmente attenzionati dal dr. Borsellino negli ultimi tempi, indicando tra gli altri proprio l’indagine su mafia appalti, della quale lo stesso Borsellino avrebbe parlato in particolare con il capitano De Donno.
La giustificazione addotta — e cioè che a quell’incontro non aveva fatto seguito neppure la redazione di un programma di lavoro e quindi tutto era rimasto allo stato di mero proposito, sicché nessuno dei due ufficiali ritenne che quell’episodio potesse avere il minimo interesse per l’A.g. che indagava sulla strage di via D’Amelio — non fuga il sospetto di reticenza. Non poteva sfuggire ai due ufficiali la rilevanza dell’episodio, e comunque la necessità che la competente A.g. ne fosse messa a conoscenza, considerati, da un lato, lo sforzo profuso per tentare di individuare la causale della strage proprio a partire dall’analisi delle più significative indagini curate dal dr. Borsellino o da lui attenzionate.
Le tante ombre sulla versione data da Mario Mori e Giuseppe De Donno
Entrambi, e De Donno prima e più di Mori, stando al loro racconto, sarebbero rimasti a sentire gli sproloqui al riguardo di Ciancimino più come atto di cortesia, giusto per stabilire un clima cordiale e di fiducia, e non irritare il loro interlocutore che per un reale interesse alle cose che questi andava dicendo. Eppure, questo disinteresse è inspiegabile sol che si consideri che era verosimile che Vito Ciancimino avesse una conoscenza approfondita del sistema di gestione degli appalti e di spartizione delle relative tangenti, avuto riguardo al ruolo che ne aveva contraddistinto la sua carriera di “politico” in affari, e di imprenditore aduso a lucrare sulle sue entrature nel mondo della politica e delle istituzioni, ma anche al ruolo di uomo-cerniera tra mondo degli affari e della politica e ambienti della criminalità mafiosa.
Ora, ammesso che interesse precipuo dei carabinieri fosse quello di raccogliere notizie e indicazioni utili alle indagini sulle stragi, è innegabile, perché sono loro stessi ad averlo detto, e i loro difensori vi incentrano buona parte delle argomentazioni difensive, che essi ritenevano l’indagine mafia e appalti suscettibile di ulteriori e importanti sviluppi con ricadute anche sul versante delle indagini mirate a individuare causale e responsabili delle stragi.
Quell’indagine, infatti, più di ogni altra puntava al cuore delle risorse strategiche e del potere di Cosa nostra. E già in tale ottica erano stati ben lieti di assicurare la loro disponibilità al dott. Borsellino che a sua volta li aveva gratificati della sua stima e della sua fiducia chiedendo loro di riprendere le fila dell’indagine mafia e appalti compendiata nella voluminosa informativa già consegnata a Giovanni Falcone (che proprio a Borsellino aveva raccomandato, una volta trasferitosi al ministero, di curarne gli sviluppi, come attestato da Liliana Ferraro), e di condurre nel massimo riserbo un’attività investigativa per la quale avrebbero dovuto rapportarsi soltanto a lui.
Ciancimino si propone come “infiltrato”
Ebbene, sia Mori che De Donno hanno in varie sedi dichiarato che, fin dal primo incontro, Vito Ciancimino esternò questo disegno, quasi una fissazione, di proporsi come infiltrato per conto dello stato nel sistema di gestione illecita degli appalti, forte delle sue entrature negli ambienti imprenditoriali (e politici). Ma di questa profferta è certo che non fu fatto il minimo cenno a Borsellino.
E ammesso che il primo incontro (di De Donno con Ciancimino) sia avvenuto in epoca successiva al 25 giugno, è difficile credere che non ve ne fosse stato alcuno prima del 10 luglio, e che prima di quella data — che è la data dell’ultima volta che Mori incontrò Borsellino — il Ciancimino non avesse ancora fatto cenno della sua proposta. Ma anche volendo accedere alla più improbabile ricostruzione della sequenza cronologia dei contatti tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros. — qual è quella secondo cui tutti gli incontri “preliminari”, e cioè quelli a quattrocchi tra De Donno e Ciancimino, siano avvenuti nella seconda metà di luglio ‘92, ossia in un arco temporale assai più ristretto di quello che si ricaverebbe dalle pur scarne indicazioni dei due ex Ufficiali (v. supra) — rimane il fatto che per loro stessa ammissione i carabinieri non hanno mai avuto né manifestato alcun interesse a coltivare, neppure come potenziale ipotesi di lavoro investigativo, quella proposta che liquidano come fantasiosa e comunque impraticabile, sebbene alcuni collaboratori di giustizia abbiano invece lasciato intendere che essa fosse fattibile, o che comunque
Ciancimino abbia continuato, attraverso legami imprenditoriali con soggetti a lui vicini, a giocare un ruolo rilevante nel sistema di spartizione degli appalti (cfr. Brusca, al processo Borsellino Ter: ivi adombra un possibile collegamento tra il sistema di gestione degli appalti, o meglio le indagini che mettevano in pericolo tale sistema, e la strage di via D’Amelio. Parla dell’interesse inedito di Riina per la Reale Costruzioni S.p.A., cui sarebbe stato cointeressato Vito Ciancimino, impresa che avrebbe dovuto estromettere e sostituirsi al ruolo strategico della Impresem di Filippo Salomone, nella gestione del sistema di spartizione degli appalti; e allude alla possibilità di imprese infiltrate dai carabinieri).
Ora, si poteva liquidare quella proposta per l’altissimo rischio che il proponente facesse una sorta di doppio gioco, non essendo animato da altro interesse che quello di trarne il maggior vantaggio per sé e magari di rilanciarsi sulla scena politico-imprenditoriale, una volta sistemate le sue pendenze giudiziarie.
Ma al netto di questo legittimo sospetto, deve riconoscersi che un personaggio come Vito Ciancimino aveva tutte le carte in regola per essere reclutato come agente sotto copertura per un’operazione del genere, considerati i suoi legami criminali, passati e attuali, e il ruolo che aveva ricoperto fino alla sua recente caduta in disgrazia (a partire dall’arresto nel giugno del ‘90, per reati contro la p.a. e gli ulteriori procedimenti per analoghi reati, nonché la condanna sopravvenuta il 17 gennaio ‘92 per associazione mafiosa).
Una proposta mai presa in considerazione
Invece, a dire di Mori e De Donno, questa eventualità, su cui pure l’aspirante infiltrato avrebbe tanto insistito, non venne mai presa in seria considerazione da loro. E se stettero a sentirlo tutte le volte che egli provò a convincerli della validità del suo progetto, lo fecero per pura cortesia, per non irritare la sua suscettibilità, per guadagnarsi la sua fiducia. Né, per altro verso, si sono mai preoccupati di annotare quanto Ciancimino era andato dicendo, nel corso dei loro colloqui, su Tangentopoli o sulla sua dichiarata conoscenza dei meccanismi della corruttela politico-affaristica.
E ciò contrasta con l’esaltazione che lo stesso De Donno ha fatto — in particolare nel corso della deposizione resa al processo Mori/Obinu – del potenziale ruolo di Ciancimino quale fonte preziosa per ricostruire i meccanismi del sistema tangentizio, ampliandone la lettura a scenari più ampi (fino ad adombrare un possibile collegamento con la causale delle stragi), divenuti poi oggetto di riflessione e di approfondimento anche nelle indagini più recenti: […]. Tra l’altro, in piena Tangentopoli, questo si che avrebbe potuto costituire un filone investigativo di grande interesse per i vertici istituzionali, ovvero per chi, investito delle più alte cariche e responsabilità pubbliche, non poteva non guardare con favore ad iniziative che fossero volte a ricondurre il sistema nei binari della legalità, neutralizzando le centrali della corruzione dilagante, e contribuendo al risanamento dello stato — e quindi al ripristino della fiducia dell’opinione pubblica nelle Istituzioni — sotto il profilo di una bonifica da collusioni e connivenze politico-affaristiche.
In ogni caso, dubbi e perplessità lasciano il posto ad un dato ineludibile: la versione resa da Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori — o dell’unico interrogatorio in cui ne parla — contrasta con quella degli ex ufficiali del Ros perché, a suo dire, la sua proposta alla fine venne accettata, sia pure solo come cavallo di Troia, e cioè come escamotage per consentirgli di infiltrarsi all’interno dell’organizzazione mafiosa e di giungere fino ai suoi vertici, potendo così fornire agli inquirenti informazioni preziose anche per la loro cattura o per prevenire ulteriori fatti delittuosi.
E quindi, o ha mentito Ciancimino nel suo interrogatorio — senza che Mori e De Donno obbiettassero alcunché — o hanno mentito i due Ufficiali. Ma è certo che anche su questo punto sarebbe stato opportuno chiedere ulteriori chiarimenti. E il meno che possa dirsi, a commento ditali risultanze, è che la ricostruzione offerta da Mori e De Donno è stata tutt’altro che trasparente, soprattutto nella parte che concerne le vere finalità del rapporto di collaborazione instaurato con Ciancimino e il tenore della “missione” affidatagli.
È stato il processo che ha violentemente diviso l’antimafia giudiziaria e non solo quella. Un processo che ha sfiorato alte cariche dello stato e persino un presidente della Repubblica, che ha portato sul banco degli imputati ministri, alti ufficiali dei carabinieri e capimafia tutti insieme.
La sentenza di primo grado, nell’aprile del 2018, è stata clamorosamente di condanna per il boss Leoluca Bagarella per il medico di Cosa Nostra Antonino Cinà, per il colonnello Giuseppe De Donno e per i generali Mario Mori e Antonino Subranni, per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
La sentenza di appello è stata clamorosamente di assoluzione per tutti. Tranne che per i mafiosi.
E, ancora prima, assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa di avere partecipato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Di più: di essere stato lui stesso l’origine del patto perché terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Assolto «per non aver commesso il fatto».
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d’Assise ma confermano che quella trattativa ci fu. Fu fatta non per favorire la mafia ma per «evitare altre stragi» e salvare l’Italia.
È una sentenza dove lo stato assolve sé stesso e che parla di «palesi aporie o forzature» nel primo grado, che sottolinea come nell’estate del ‘92 Cosa Nostra non giocasse in difesa ma in attacco: «L’obiettivo finale era costringere lo stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra».
Gli approcci di alti ufficiali dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino vengono definite “un’improvvida iniziativa“, la strage di via d’Amelio non fu un fattore di accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino ma nelle motivazioni viene rilanciata piuttosto la pista del dossier “mafia-appalti. Ipotesi molto azzardata e priva di un qualunque riscontro: questa comunque la convinzione dei giudici.
Un verdetto che capovolge il precedente e che ha aperto altre polemiche all’interno della magistratura, filosofie giudiziarie differenti che si scontrano ormai da quel lontano 1992.
A trentanni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, di sicuro c’è solo che Falcone e Borsellino sono saltati in aria e non si conoscono i “mandanti altri” che ne hanno ordinato la morte.
De Donno: “Non ci fu nessuna trattativa | L’inchiesta mafia e appalti e le stragi”
“Decidemmo di contattare in qualche modo la mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa, non c’é mai stato nulla da trattare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori (nella foto) sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Ciancimino ci disse che lo poteva fare solo se lo avessimo autorizzato a fare i nostri nomi con Cosa Nostra – ha proseguito – ‘Su queste cose si muore’, puntualizzò. In cambio lui voleva che facessimo qualcosa per i suoi processi. Gli dicemmo che non potevamo fare nulla. Erano già in fase avanzata e comunque un nostro intervento a suo favore avrebbe disvelato il suo rapporto con noi”.
Il racconto di De Donno
“I rapporti con Vito Ciancimino nascono nel giugno del 1992 dopo la morte di Falcone. Prima avevo avuto solo qualche incontro con il figlio Massimo nelle aule del Tribunale. In quel periodo, il generale Mori decise una serie di attività investigative per capire cosa stava succedendo. Valutammo di contattare Vito Ciancimino attraverso Massimo. L’idea fu mia e il colonnello Mori mi autorizzò”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno che nella sua deposizione al processo per favoreggiamento alla mafia al generale Mario Mori sta raccontando degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone. “Inizialmente, Massimo Ciancimino mi disse ‘ti faccio sapere’ e poi mi comunicò dopo qualche giorno la disponibilità del padre a incontrarmi – ha proseguito -. Mi recai nell’abitazione di Vito Ciancimino a Roma e da lì iniziò il nostro rapporto. Nonostante l’avessi arrestato in precedenza e fossi una delle cause dei suoi problemi giudiziari, Vito Ciancimino non nutriva rancore per me. Mi riconosceva il fatto di avere sempre agito con correttezza”. I primi incontri furono “interlocutori”. “Le prime tre volte, tutte tra le due stragi, furono molto pesanti, complesse e formative – ha raccontato -. Dovevo farmi accettare da Ciancimino, instaurare con lui un dialogo e fare in modo che si fidasse. Già incontrarlo era stato un enorme successo. Inoltre avevamo scelto Ciancimino anche perché in quel periodo era ancora in grado di gestire alcuni appalti. E’ chiaro che dietro questo c’era anche l’intento di giungere all’apoteosi di questo rapporto che sarebbe stata la collaborazione giudiziaria di Ciancimino. Ovviamente gli chiesi di avere elementi utili per capire quello che stava succedendo. Era l’esigenza di tutti decifrare gli accadimenti per indirizzare le indagini”. Gli incontri con Mori cominciarono dopo la strage di via D’Amelio. “Volevo – ha sottolineato De Donno – che Ciancimino parlasse con Mori. Era un capo e doveva parlare con un capo. Tra Mori e Ciancimino ci furono quattro incontri”.
“Non ho mai visto il papello. Anche il contropapello l’ho visto solo sui giornali. In ogni caso, quello che è scritto sul contropapello era quello che era scritto nel libro Le mafie. Si possono confrontare”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Secondo il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, il padre avrebbe consegnato a De Donno e Mori il papello con le richieste della mafia allo Stato per fermare le stragi. De Donno ha anche puntualizzato che “Vito Ciancimino non ha portato elementi utili alla cattura di Riina. Del resto lui era stato arrestato a dicembre. Le indagini che portarono alla cattura di Riina non furono in nessuna maniera aiutate da Ciancimino. Le piantine che portai a Ciancimino sono state poi acquisite dalle procura di Palermo”.
“Quando Paolo Borsellino ci chiese di riprendere l’indagine ‘mafia e appalti’ pensava di poter arrivare ai mandanti occulti della strage di Falcone. Proprio su questo punto si confrontarono e entrarono in contrasto anche i due pm in aula, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo”. Lo ha detto l’ex capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno, rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, imputato per favoreggiamento alla mafia davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. Il riferimento di De Donno ai due pm richiama una fase dell’ inchiesta sulla strage quando la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta seguivano indirizzi diversi. De Donno ha ricordato che Di Matteo sembrava più convinto del fatto che la pista ‘mafia-appalti’ potesse rappresentare un possibile movente dell’attentato di Capaci. Ingroia avrebbe avuto un’opinione meno convinta. L’ex ufficiale, che ha rivendicato spesso il merito di avere condotto un’indagine a largo spettro sulle connessioni tra la mafia e la politica nella gestione degli appalti, ha parlato anche del clima che si respirava al palazzo di giustizia di Palermo dopo la morte di Giovanni Falcone. “In quel periodo – ha detto – i rapporti tra Paolo Borsellino e il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, erano pessimi. Borsellino era assolutamente contrario al modo in cui veniva gestita la Procura. Questo lo sapevano tutti”. (Fonte ANSA)
La Trattativa “non costituisce reato”: assolti De Donno e Mori. Condannati per minacce solo i boss mafiosi. Marcello Dell’Utri assolto per non aver commesso il fatto
Una trattativa tra uomini dello Stato ed esponenti di Cosa nostra? C’è stata, solo che non costituisce reato. Almeno per quanto riguarda le condotte contestate agli esponenti delle Istituzioni. È questa la decisione che chiude il processo d’Appello sulle interlocuzioni tra pezzi delle istituzioni e la mafia nel biennio delle stragi. A emettere la sentenza, dopo più di tre giorni di camera di consiglio, la corte d’Assise d’Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino,con a latere il giudice Vittorio Anania. Il dispositivo letto all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli riforma largamente le decisioni del processo di primo grado.
Assolti politici e carabinieri – Alla fine del secondo grado i giudici hanno deciso di assolvere i vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno dall’accusa di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato perché il fatto non costituisce reato. Diversa la formula usata per assolvere l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri: secondo la corte lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi il reato non lo ha proprio commesso. Alla fine a essere condannati sono solo i mafiosi: il reato contestato a Leoluca Bagarella è stato derubricato in tentata minaccia nei confronti del primo governo Berlusconi: la pena, dunque, è stata abbassata a 27 anni con un anno di sconto rispetto al primo grado. Confermati, invece, i dodici anni di carcere inflitti ad Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Presenti all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo i rappresentati della pubblica accusa, i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che avevano chiesto la conferma delle condanne di tre anni e mezzo fa. A parte Cinà, collegato in videoconferenza dal carcere di Sassari, invece, nessuno tra gli imputati è comparso al bunker.
Le condanne di primo grado – Il 20 aprile del 2018 i giudici del processo di primo grado avevano condannato a dodici anni di carcere Mori e Subranni. Stessa pena per Dell’Utri e Cinà, che secondo l’accusa è il “postino” al papello, le richieste di Riina per fare cessare le stragi. Otto gli anni di detenzione che erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Bagarella, cognato del capo dei capi. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.
La trattativa? Ci fu, ma non è reato – Ora arrivano le decisioni dell’Appello che sono completamente diverse. Certo bisognerà aspettare di leggere le motivazioni – saranno depositate tra 90 giorni – ma di sicuro c’è che la sentenza di oggi stravolge gran parte della ricostruzione operata dai giudici di primo grado. Assolvere i carabinieri con la formula “perchè il fatto non costituisce reato“, vuol dire che il fatto c’è, è stato commesso ma evidentemente senza dolo, neanche eventuale. E il fatto, in questo caso, è l’accusa di aver trasmesso al governi in carica tra il 1992 e 1993 – quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia stragista dei mafiosi. Per la corte Mori, Subranni e De Donno aprirono effettivamente un canale di comunicazione con Cosa nostra ma senza alcuna intenzione di commettere un reato. Ecco perché per Cinà è stata confermata la condanna di primo grado: il medico di Riina, infatti, è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato ai carabinieri. Visto che Cinà è stato condannato, vuol dire che per i giudici il papello è effettivamente passato di mano: ma se il medico di Riina aveva effettivamente intenzione di veicolare la minaccia delle stragi nei confronti dello Stato, evidentemente per i giudici così non è stato per i militari. E’ probabile che su questa decisione abbia influito l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino: secondo l’originaria tesi dell’accusa l’ex ministro della Dc è l’uomo che chiede ai carabinieri di aprire la trattativa, perché intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Mannino, però, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assoltoin via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, per il giudici del rito abbreviato si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Una tesi che l’assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, adottata dalla corte d’Assise d’Appello, potrebbe avvalorare: servirà aspettare il deposito delle motivazioni per capirlo.
L’assoluzione piena di Dell’Utri – Diversa, invece, la situazione di Marcello Dell’Utri. Se il segmento della trattativa che riguardava i carabinieri poteva essere collegato all’assoluzione di Mannino, quello del fondatore di Forza Italia era completamente sganciato dai destini di Mori, De Donno e Subranni. Secondo la sentenza di primo grado, l’ex senatore è l’uomo che trasmette la minaccia mafiosa di Cosa nostra al primo governo Berlusconi. Una contestazione che invece per la corte d’Assise d’Appello Dell’Utri non ha commesso. Dunque per i giudici del processo di secondo grado l’ex senatore non era la “cinghia di trasmissione” dei desiderata dei boss nei confronti del primo esecutivo di Forza Italia. Si potrebbe spiegare in questo modo la riqualificazione di una parte delle contestazioni avanzate nei confronti di Bagarella. Anche secondo la corte d’Assise d’Appello il cognato di Riina è colpevole di minaccia ai governi in carica nel 1992 e 1993. Cambia tutto l’anno successivo, quando a Palazzo Chigi entra Berlusconi: in quel caso i giudici hanno modificato il reato di minaccia ad un Corpo politico dello Stato in una tentata minaccia. Vuol dire che per i giudici non c’è la prova che il messagio intimidatorio sia arrivato a Palazzo Chigi, o comunque che il governo in carica l’abbia recepito, reagendo di conseguenza. Ne deriva che questa parte del reato contestato a Bagarella si è già prescritta, per questo motivo la condanna del boss mafioso è stata abbassata di un anno.
Le reazioni dei legali (e pure della politica) – Chiaramente opposte le reazioni delle parti presenti in aula.”Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo”, si limita a dire il sostituto procuratore generale Fici. E’ un’assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro”, esulta l’avvocato Basilio Milio, storico legale dell’ex generale dei Ros. “Dopo anni di processo una sentenza ha ricostituito la correttezza del quadro probatorio arrivando a una soluzione che riteniamo condivisibile”, dichiara Francesco Centonze, che difende Dell’Utri. Commenti arrivano persino dalla politica con Matteo Salvini che decide di accodarsi all’esultanza degli imputati: “Felice per l’assoluzione di chi ha servito lo Stato ed è stato ingiustamente accusato per anni. Ennesima prova del fatto che una vera e profonda Riforma della Giustizia, tramite i Referendum promossi dalla Lega, è necessaria”. I deputati del M5s in commissione Giustizia, invece, hanno diffuso una nota per sottolineare che “da un passaggio del dispositivo della sentenza si evince che le assoluzioni di De Donno, Mori e Subranni sarebbero ricondotte alla consueta formula ‘perché il fatto non costituisce reato’. Quindi tutto lascia intendere che i fatti siano confermati e questo per noi fa sì che a livello politico e istituzionale rimangano intatte tutte le responsabilità emerse”. Molto amareggiato il commento di Salvatore Borsellino, che definisce la sentenza come “l’ipotesi peggiore che potessi immaginare perché sull’altare di quella trattativa è stata sacrificata la vita di Paolo Borsellino. Questo significa che mio fratello è morto per niente“.
Trattativa Stato-mafia, assolti gli ex Ros Mori e De Donno
Crolla il teorema: la Corte di assise di Palermo ha assolto il senatore Marcello Dell’Utri e i carabinieri del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, ribaltando la sentenza di primo grado
23 settembre, 2021 •
La Corte di assise di Palermo ha assolto il senatore Marcello Dell’Utri e i carabinieri del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno. Pena ridotta a 27 al boss Leoluca Bagarella, al medico mafioso Antonino Cinà la pena è stata confermata a 12 anni. In primo grado la Corte di assise, nel maggio 2018, aveva condannato a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12anni oltre allo stesso Dell’Utri gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni e Antonino Cinà, medico e fedelissimo di Totò Riina. Erano stati condannati a 8 anni l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino, figlio di Vito, poi stralciato e prescritto. «In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 – recita il dispositivo – assolve Giuseppe De Donno, Mario Mori e Antonio Subranni dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato». «Dichiara – prosegue – non doversi procedere nei riguardi di Leoluca Bagarella, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previari qualificazione del fatto come tentata minaccia pluriaggravataa corpo politico dello stato, per essere il reato così riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l’effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in 27anni di reclusione». «Assolve – prosegue la Corte – Marcello Dell’Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come soprariqualificato, per non avere commesso il fato e dichiara cessata l’efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi». La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell’Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l’importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La Corte d’assise ha per il resto confermato «nel resto l’impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cinà alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre. La corte ha fissato il 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni. «Siamo felici perché finalmente la verità viene a galla»: è la prima reazione del generale del Ros Mario Mori e dell’ex capitano Giuseppe De Donno, manifestata attraverso i legali. «È una bufala, un’invenzione, un falso storico», commenta a caldo l’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori. Insieme al collega Francesco Romito, che difende De Donno, ha sentito il proprio assistito: gli ufficiali si sono detti «felici» «perché finalmente la verità viene a galla».
L’atto d’accusa: “Patto scellerato tra Stato mafia”
Dal dispositivo della Corte d’assise di Palermo pronunciato il 20 aprile 2018 nell’aula bunker del Pagliarelli era emerso un duro atto d’accusa: la trattativa ci sarebbe stata, il patto scellerato tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sarebbe stato siglato. Con questa conclusione processuale, formulata in primo grado, si è confrontato il processo d’appello che si è aperto il 29 aprile 2019 e che oggi approda a sentenza. L’accusa, rappresentata dai sostituti pg Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, alla fine della requisitoria del 7 giugno scorso ha chiesto la conferma della condanne di primo grado: 28 anni per il boss Leoluca Bagarella,12 anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, gli ex carabinieri del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, nonché Antonino Cinà, medico e fedelissimo di Totò Riina. Condanna a 8 anni per l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno e per Massimo Ciancimino, per calunnia, quest’ultimo poi stralciato e prescritto.
Primo grado, le motivazioni
Le motivazioni del primo grado sono state depositate il 19 luglio 2018, nel giorno dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Dopo anni di udienze, boss e politici sono stati dichiarati colpevoli del reato di minaccia e violenza al corpo politico dello Stato. Per Marcello Dell’Utri sono state punitele condotte commesse contro il governo Berlusconi: i carabinieri del Ros sono stati condannati per i fatti commessi fino al 1993,Dell’Utri per i fatti del 1994; da una parte la trattativa sarebbe stata intavolata dai carabinieri, da un certo punto in poi da Dell’Utri. Condannati a 12 anni di carcere i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e il boss Antonino Cinà; a 28 anni Leoluca Bagarella, la pena più pesante. Otto anni al colonnello Giuseppe De Donno. Stessa pena per Massimo Ciancimino accusato di calunnia nei confronti dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre è stato assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Prescrizione per Giovanni Brusca. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza.