Teatro a Firenze, c’era una volta l’antimafia: elegia per Falcone e Borsellino

 

di Chiara Dino

Nel tempo che ci resta – elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di e con César Brie arriva a Firenze al Teatro Puccini

 

C’era una volta l’antimafia

L’ultima a morire è Agnese Borsellino, di morte naturale, bontà loro. Prima ci sono Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, 57 giorni dopo Paolo Borsellino, 8 anni dopo Tommaso Buscetta. Cinque ombre nell’aldilà si incontrano per provare a capire come si è arrivati alle stragi di Capaci e via d’Amelio, a chi conveniva e perché. Ma anche per svelare qualcosa della loro vita più intima.Uomini e donne a confronto con la storia, lo Stato e l’antistato

Il luogo è un magazzino abbandonato a Villagrazia (Palermo), la finzione scenica è uno spettacolo che sabato sera (ore 21) e domenica pomeriggio (ore 16.45) vedremo al Puccini di Firenze: Nel tempo che ci resta – elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di e con César Brie, un maestro del teatro, argentino ma «esule» in Italia, con lunghi periodi trascorsi in Bolivia e una tappa in Danimarca per la fondamentale che esperienza con l’Odin Teatret. Un teatro di parola e poesia, il suo. Politico e sentimentale, nel senso letterale. Non lascia indifferenti, emoziona. Ha emozionato anche Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via d’Amelio a Palermo e della moglie Agnese, attiva fino allo sfinimento nel denunciare i depistaggi nei processi sull’omicidio del padre e della scorta. Lei, dopo aver visto lo spettacolo si è commossa e ha detto a Brie: «Non cambiare nulla. È perfetto così».

Com’è nato questo spettacolo?

«È un progetto partito da una sollecitazione di Marco Bolla e Donato Nubili. Abbiamo lavorato per tre anni per scrivere il testo. Il punto di partenza è stata la lettura del bellissimo libro-intervista di Saverio Lodato a Tommaso Buscetta. La mafia ha vinto. Mi sono innamorato di questa figura tanto da aver deciso, in scena, di interpretarlo io».

«Buscetta è un uomo coerente fino alla fine. È lui che scardina per la prima volta l’omertà mafiosa. Non c’è stata sua affermazione che sia stata contraddetta dai riscontri investigativi. Ha avuto la lucidità di capire, quando collaborava con Giovanni Falcone, che se avesse parlato di politica non gli avrebbe creduto nessuno. E aveva ragione. Quando farà riferimento ad Andreotti, sarà condannato».

E invece di Falcone e Borsellino che idea si è fatta?

«Prima cosa: non mi piace pensare a loro come due eroi».

È il vizio dei siciliani e degli italiani. Li si considera eroi. La cosa deresponsabilizza…

«Esatto. Io credo che loro fossero due persone umanamente diversissime: uno di destra e l’altro di sinistra, Borsellino tradizionalista, geloso delle figlie e con il culto della famiglia e Falcone con una vita più sregolata — lui e la seconda moglie Francesca Morvillo erano praticamente stati adottati dai Borsellino — Erano molto amici e a legarli era un profondo senso del dovere e dello Stato. Nello spettacolo ho voluto sottolineare questo, e dare spessore umano alla storia che li riguarda. Ci sono loro a tutto tondo con le loro mogli. C’è la loro grande capacità investigativa — furono i due a scoprire Gladio e a rivelare come Riina controllava la Calcestruzzi — e la loro componente più intima. I 57 giorni che intercorrono tra la strage di Capaci e di via d’Amelio in scena sono resi con una Via Crucis».

Borsellino fece un incontro pubblico a Palermo, a Casa Professa, davanti a una città sgomenta, attaccando il Csm, la Cassazione. Sembrò un testamento di chi sapeva di essere condannato…

«Era una morte annunciata la sua. Una morte che poi è stata oggetto di depistaggi, menzogne, sottrazioni di prove: penso all’agenda rossa mai trovata. Nello spettacolo si parla anche di questo. Ma senza che si cada nella pratica del documentario. Il mio è e resta teatro. Teatro e poesia. Ecco perché commuove molto i giovani. D’altro canto è questo il compito del teatro».

Una sua ossessione sin da piccolo. Perché?

«Se non avessi fatto teatro non mi sarei salvato. Io, esule per la dittatura, orfano di padre a 15 anni — già allora mi misi a lavorare — ho capito che il lavoro dell’artista è quello che dà consistenza estetica al malessere. Lo rende tollerabile e comprensibile. Vale per ogni forma d’arte: io per esempio da piccolo scrivevo. Ma nel mio caso la sola scrittura non bastava. Mi mancava il corpo per essere intero».

Come le manca l’Argentina nella sua vita da esule qui in Italia?

«L’Argentina mi manca in una maniera così intensa che non mi riesce di parlarne. Davvero aveva ragione Rilke quando diceva che la patria dell’uomo è la sua infanzia. Sono tornato tante volte, quando ho potuto. Ora vivo qui: se facessi il mio mestiere in Argentina non potrei permettermi di far studiare le mie due figlie all’università».

Ma ci vive bene?

«Non si vive bene in Europa e in Italia in questo momento. I governi sono pilotati dalla finanza. I nostri figli e nipoti non avranno le certezze che abbiamo avuto noi, probabilmente neanche una casa».

E il teatro come sta?

«Male, malissimo. Il sogno degli anni Settanta è morto. Bisognerebbe ribaltare tutto, affidare i teatri di tutti i comuni ai giovani».

CORRIERE DELLA SERA 18.3.2023