«Questa sentenza è importantissima perché finalmente riconosce il diritto alla verità dei fatti.
Quanto accaduto ha segnato la storia recente del nostro Paese, contribuendo ad imprimere una svolta epocale di cui, forse, non tutti hanno ancora piena consapevolezza», afferma l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino e legale di parte civile della famiglia del magistrato ucciso a Palermo.

Avvocato Trizzino, perché la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta sul depistaggio nelle indagini sulla morte di Borsellino è importante per il nostro Paese?

Dopo l’omicidio di Borsellino possiamo tranquillamente affermare che è nata seconda Repubblica. La data del 19 luglio del 1992 è uno spartiacque.

La sentenza dei giudici nisseni ha messo alcuni punti fermi.

Certo, il primo è sicuramente che appartenenti alla Polizia di Stato hanno posto in essere un reato gravissimo, quello di calunnia aggravata, depistando fin dall’inizio le indaginiper l’identificazione degli assassini del magistrato.
Non ci sono più dubbi sul fatto che Mario Bo e Fabrizio Mattei con il loro operato hanno contribuito a “vestire il pupo”, ovvero a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino.
Dalle dichiarazioni di quest’ultimo, il primo processo, il cosiddetto “Borsellino Uno”, si concluse il 26 gennaio 1996 con condanne all’ergastolo per soggetti che erano invece innocenti e completamente estranei ai fatti. Parliamo di persone che sono rimaste in carcere per quasi venti anni.

Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per Mattei 9 anni e mezzo. Reato però prescritto in quanto è caduta l’aggravante mafiosa. L’altro poliziotto coinvolto, Michele Ribaudo, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.

Tralasciando la prescrizione, non vorrei che qualcuno desse però una ricostruzione ‘minimalista’ di quanto accaduto.

Come si può affrontare un processo del genere a distanza di così tanti anni?

E’ ovviamente molto difficile. La difficoltà non è stata solo determinata dal decorso del tempo che ha attenuato i ricordi, ma soprattutto per l’atteggiamento tenuto in aula dai diversi soggetti all’epoca coinvolti a vario titolo: coloro che avrebbero potuto dare un contributo alla esatta ricostruzione dei fatti, dall’ultimo dei poliziotti al capo dello Sco, il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, hanno posto in essere un atteggiamento reticente. Un atteggiamento che ha ricordato molto da vicino quello delle consorterie mafiose.

E’ un giudizio molto duro.

Ma è così. La mafia si basa sull’omertà e sulla compartimentazione. In questo processo la logica è stata la stessa. Pensi che le dichiarazioni di alcuni poliziotti sono state trasmesse in Procura per verificare una eventuale ipotesi di falso.

Un altro elemento importante è che collegio ha avuto coraggio. E non era affatto scontato quando si tratta di processi di questo genere.

Certo, i giudici sono stati coraggiosissimi, non si sono fermati a condannare l’operato dei poliziotti ma anche a censurare quello dei magistrati.

Questa vicenda ne ricorda altre in cui furono coinvolti apparati dello Stato. Il copione è sempre lo stesso. Senza andare molto lontano, penso al processo sui pestaggi alla caserma Diaz durante il G8 di Genova nel 2001 o la morte di Stefano Cucchi.

Concordo. Ma vorrei evidenziare anche un altro aspetto. Il silenzio da parte dei poliziotti in questo processo trova ‘giustificazione’ con il fatto che essi sono stati lasciati soli sul banco degli imputati, dove non vi erano i magistrati che hanno condotto le indagini e, almeno sulla carta, avrebbero dovuto coordinare la polizia giudiziaria. C’è stato timore.

Che spiegazioni si sente di dare?

La motivazione di carriera è provata. Il prefetto Arnaldo La Barbera che coordinava il gruppo d’indagine sugli omicidi di Falcone e Borsellino ebbe una carriera fulminante con promozioni rapidissime, arrivando a ricoprire posti di assoluto prestigio.

Chi c’è dietro la morte di Borsellino?

Gruppi di potere con interessi convergenti, penso a potentati economici. Ci fu una manovra a tenaglia. Eravamo anche agli inizi di Tangentopoli

E sulla scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino?

Quello è un altro aspetto inquietante. Non l’ha presa la mafia che non sapeva della sua esistenza. I mafiosi sapevano bene cosa Borsellino pensava di loro. L’ha presa chi aveva da temere da qualche possibile annotazione contenuta al suo interno.

Dopo la morte di Borsellino ci sono diversi episodi rimasti senza risposta.

Lucia Borsellino ed il fratello Manfredi si recarono al Palazzo di giustizia dopo qualche giorno dall’attento per andare nell’ufficio del padre a recuperare qualche suo oggetto personale ma trovarono l’ufficio completamente pulito, con la scrivania senza nulla sopra, nemmeno un foglio di carta. Chi è stato? Non si è mai saputo. C’era qualcosa di importante?

Questa sentenza, anche se di primo grado, potrà permettere la riapertura di altre indagini?

Credo di si. Penso, ad esempio, alla rivitalizzazione del

dossier mafia appaltia cui stavano lavorando i carabinieri del Ros allora comandati dal colonnello Mario Mori. 7 aprile, 2023