Trattativa Stato Mafia, i Pg: “Tremila pagine di sentenza, ma manca la prova della minaccia”

 

Per i procuratori generali della Cassazione: “Non hanno individuato chi ha detto cosa a chi e, soprattutto, in quale modo”. La Corte suprema dovrà decidere giovedì se rimandare o confermare con una assoluzione piena, dove però “il fatto non sussiste?”

Fiumi di inchiostro nella stragrande maggioranza dei giornali, centinaia di trasmissioni televisive, libri, docufilm e non per ultimo le migliaia di pagine delle motivazioni dei giudici sulla sentenza del processo della cosiddetta “Trattativa Stato-mafia”, ma non si è mai riusciti a dimostrare come, dove e in che modo gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno avrebbero veicolato la presunta minaccia mafiosa al governo. Ed è quello, in estrema sintesi, che si sono chiesti i sostituti procuratori generali della Cassazione. Tante parole, suggestioni, ipotesi, ma finora la prova non è stata affatto dimostrata.

“Il fatto non costituisce reato”, è la sentenza di assoluzione nei confronti dei carabinieri che erano il fiore all’occhiello del giudice Giovanni Falcone. Ma il problema che si sono posto i pg della Corte Suprema, è che di questo fatto non ve ne è traccia. E se questo fatto c’è stato, ma in questi 15 anni di processo tra il primo e secondo grado non è stato provato, allora rimane assurdo che non vi è dolo. Per questo, i procuratori generali chiedono l’annullamento della sentenza nei soli confronti degli ex ros. Se la minaccia è stata veicolata, allora il dolo c’è. Ma se non c’è stata, meritano l’assoluzione con la formula più ampia. Ovvero che il fatto non sussiste.

La tesi trattativa, nel corso degli anni, è già stata decostruita pezzo per pezzo. Colui che venne considerato il mandante politico della trattativa, ovvero l’allora ministro Calogero Mannino, è stato definitivamente assolto. Sono rimasti quindi gli ex Ros che, dialogando con Don Vito Ciancimino, avrebbero preso da soli l’iniziativa di “trattare” per fermare le stragi, veicolando la minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi. Tale “minaccia” potrebbe essere stata per via orale o per via del cosiddetto papello di Riina. Entrambi appunto delle ipotesi non dimostrate. Il papello consegnato dal Massimo Ciancimino, il figlio di Don Vito, si è rivelato una grossolana manipolazione. Rimane l’ipotesi che la minaccia sia stata veicolata oralmente dai carabinieri. Ma come, dove e a chi? I giudici non sono riusciti a dimostrarlo.

Nella requisitoria, i procuratori generali della Cassazione, hanno, di fatto, bacchettato le motivazioni della sentenza di secondo grado. Ovvero che i giudici avrebbero “dovuto selezionare i fatti rilevanti ai fini dell’integrazione della minaccia qualificata al Governo, verificandone l’accadimento facendo applicazione della regola BARD”. Ma che cos’è questa regola, fondamentale per una sentenza? BARD sta per “beyond any reasonable doubt”, ovvero “Colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio”. Non si può emettere una sentenza per “approssimazione”. E i pg della Cassazione sottolineato che le motivazioni avrebbero “dovuto portare a individuare chiaramente chi ha detto cosa a chi e, soprattutto, il quale modo”.  E nelle 3000 pagine si parla di tutto di più, ma “manca di concentrarsi adeguatamente sulla sussunzione specifica dei fatti ritenuti accertati nella fattispecie di reato, posta dall’imputazione”. Ed è mancata altresì “una precisa ricostruzione del contenuto della minaccia, di come sia stata rivolta e della sua ricezione (o direzione) al Governo come organo collegiale”.

Come è sempre stato scritto su Il Dubbio, l’unica “prova”, ma del tutto debole, e che è ovviamente citata nella sentenza, riguarda la mancata proroga del 41 bis. Sappiamo che nel 1993, l’allora ministro della giustizia Giovanni Conso non rinnovò il carcere speciale per circa 300 soggetti. Nella realtà, si tratta di una mancata proroga a seguito della sentenza della Corte Costituzione (i giudici supremi hanno stigmatizzato la proroga automatica collettiva e indicato una valutazione caso per caso) e solo una piccolissima parte erano mafiosi, tra l’altro di basso profilo. Tuttavia, per i procuratori generali della Cassazione, il riferimento a tale mancata proroga “risulta del tutto inidoneo a supportare la conclusione circa l’integrazione del reato ex art. 338 c.p. (minaccia al corpo politico di Stato, ndr), per almeno tre ordini di ragioni”.

La prima ragione è degna di nota perché viene sottolineata una finissima incongruenza logica. Se la minaccia è stata ideata a partire dall’omicidio Lima, tanto da fondare la competenza alla procura di Palermo (altrimenti il luogo naturale sarebbe dovuto essere Caltanissetta) non si vede “come il male ingiusto potesse essere prospettato al fine di ottenere la mancata proroga di provvedimenti che, all’epoca di quell’omicidio, non erano previsti dalla legge (posto che l’art. 41-bis è stato introdotto solo dopo) e non erano dunque neppure stati adottati”. Non è poco. Come sappiamo, il 41 bis fu introdotto dopo la strage di Via D’Amelio dove perse la vita Borsellino e la scorta. “Manca, nella sentenza impugnata, qualsiasi valutazione di merito, su una diversa riconfigurazione dei fatti, che possa renderli compatibili con la minaccia così come focalizzata”, sottolineano i procuratori generali.

L’altra ragione, è che le decisioni sul 41 bis sono di competenza esclusiva del Ministro (all’epoca di Grazia e Giustizia) e, quindi, le presunte minacce non possono ritenersi dirette al Governo come organo collegiale. Quindi, secondo i pg, non si intravvede il “corpo politico dello Stato”.La terza ragione è quella che pretende la regola BARD. Non è stato dimostrato chi, come e in che modo l’ex ministro Conso abbia ricevuto la minaccia. In altre parole, risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al Ministro e in che modo gli sia stato rappresentato. Nel punto, l’unico che conta, “la sentenza ricostruisce solo congetturalmente la veicolazione della minaccia, ma addirittura manca di indicare il preciso contenuto delle richieste, essenziale invece per poter scriminare la violenza o minaccia diretta al Governo come organo collegiale (punita dall’art. 338 c.p.) rispetto a violenze dirette a ostacolarne l’attività di contrasto (punite dall’art. 289 c.p.)”. I procuratori generali, sottolineano che “anche qui si tratta di valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto, che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”.

In soldoni, i giudici – così come d’altronde la pubblica accusa – non sono riusciti a dimostrare nulla. Una impresa ardua visto che è entrato di tutto di più, tranne le prove. Non solo non si trovano, ma tutta la tesi si scontra con la logica. D’altronde, com’è detto, la tesi ha già perso, strada facendo, dei pezzi. I procuratori generali della corte suprema, chiedendo anche la conferma dell’assoluzione piena per l’ex senatore Marcello D’’Utri, smontano gran parte della narrazione. Ma si può chiedere di rifare il processo per gli ex ros, quando è già chiaro che – come dicono i pg stessi – il fatto non è dimostrato? Domani, giovedì 27 aprile, la Corte Suprema dovrà prendere una importante decisione. Sono passati troppi anni, tanta sofferenza e tante risorse sprecate. Mori e De Donno meriterebbero una assoluzione con la formula più ampia possibile. Ma dovrebbe essere sancita già da ora, non tra qualche anno ancora. Alla cassazione l’ardua sentenza.  


 

PROCESSO “TRATTATIVA STATO-MAFIA