La foto: Ninni Cassarà, Paolo Borsellino, Angiolo Pellegrini, Giuseppe Ayala – Assediati da cronisti e fotografi, con le telecamere e i microfoni sempre puntati addosso, a Falcone e ai suoi uomini non resta che inventare una via di fuga. Una domenica mattina sgattaiolano dal sottopassaggio che dall’hotel di Rio de Janeiro dove pernottano conduce direttamente alla spiaggia. “Lo avevo scoperto durante il sopralluogo che avevo fatto al nostro arrivo, per ragioni di sicurezza. Così proposi di sgusciare via da lì per andare a visitare le feiras, i famosi e coloratissimi mercatini che nei giorni di festa si tengono a Ipanema, al confine con Copacabana”. Ma, nonostante le precauzioni, un flash riesce a immortalare la passeggiata degli strani “turisti”. E l’indomani il quotidiano O Globo pubblica un primo piano del giudice intento a osservare il banchetto dei piranha sotto un titolo che dice: “A Rio il nemico della mafia”. Qualche settimana dopo l’FBI avrebbe rivelato riservatamente che, in occasione di quel viaggio in Brasile, era stato programmato un attentato contro la delegazione siciliana: non era chiaro chi fosse il mandante, ma i dettagli sull’esecuzione non mancavano (c’era il camorrista napoletano trapiantato in Sud America e c’era il funzionario di polizia brasiliana pagato per spiare i movimenti del magistrato). Se il colpo è saltato – dicono ancora i federali – il merito è di quella torma di fotoreporter che non vi ha mollati un attimo. Falcone ordina che l’informazione rimanga riservata: “Non vorrei doverli pure ringraziare pubblicamente” mugugna. Si riferiva ai giornalisti…
Il generale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini lo chiamavano “Billy the Kid”. E’ stato uno degli uomini diGiovanni Falcone. Un mastino, classe 1942, sbarcato nella “terra di mezzo” nel 1981 mentre infuriava la guerra di mafia, mentre le lupare venivano sostituite dai fucili d’assalto di fabbricazione sovietica, mentre i corleonesi spargevano terrore sotto il Monte Pellegrino e sulla tratta Palermo-Catania correvano appalti e subappalti, spregiudicate operazioni immobiliari, mazzette, false fatturazioni miliardarie, industriali collusi, colletti bianchi e rispettabilissimi cavalieri del lavoro.
L’allora capitano Pellegrini assume il comando della sezione Anticrimine dell’Arma dei carabinieri.Un ruolo scomodo: la mafia in Sicilia ha seminato una lunga scia di cadaveri eccellenti e tiene l’isola sotto scacco. Molto più di quanto si voglia ammettere. Unica speranza, un giudice palermitano che con alcuni colleghi ha fatto della lotta alle cosche la sua missione: Giovanni Falcone. Ha bisogno però di uomini fidati che portino avanti le indagini a modo suo. E Pellegrini non si tira indietro: mette insieme una squadra di fedelissimi – la banda del «capitano Billy The Kid» – e va a infilare il naso dove nessuno ha mai osato, guadagnandosi l’amicizia e la stima del magistrato. Mentre i viddani di Totò Riina e Binnu Provenzano falcidiano a colpi di kalashnikov le vecchie famiglie, carabinieri, polizia e magistrati si alleano in un’azione congiunta che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. Il maxiprocesso potrebbe essere il colpo decisivo, e invece… Questo libro ricostruisce dall’interno, a ritmo serrato, il periodo più drammatico ed eroico della guerra a Cosa Nostra: quello che vide uno sparuto gruppo di uomini coraggiosi combattere davvero e dare nuova speranza alla Sicilia; ma anche quello che vide cadere Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. Forse inutilmente, perché il vero nemico rimase senza volto: un oscuro, ambiguo potere politico che prima negò mezzi, risorse e possibilità, e poi smantellò la squadra. In fondo, a voler vincere quella guerra, erano davvero in pochi.
Per la prima volta, Pellegrini, oggi generale in pensione, attraverso i suoi ricordi raccolti dal giornalista e scrittore Francesco Condoluci ha raccontato le mille avventure di quella stagione insanguinata, vissuta a stretto contatto con colui che sarebbe saltato in aria a Capaci il 23 maggio 1992: strage ancora lontana nel tempo, eppure così vicina già in quegli anni Ottanta che percorrono le pagine del libro“Noi, gli uomini di Falcone. La guerra che ci impedirono di vincere” (Sperling & Kupfer).
Angiolo Pellegrini e Francesco Condoluci La TRAMA
Una volta giunto a Palermo Pellegrini mette insieme una squadra di fedelissimi guadagnandosi l’amicizia di Giovanni Falcone. E’ il tempo dell’azione congiunta tra carabinieri, polizia e magistrati che culmina nel rapporto dei 162 e nell’estradizione di Tommaso Buscetta. E’ il periodo più drammatico della lotta a Cosa Nostra, portata avanti mentre i “soldati” di Totò Riina e Bernardo Provenzano falcidiavano a colpi di Kalashinikov le vecchie famiglie e per le strade di Palermo trucidavano Dalla Chiesa, D’Aleo, Chinnici, Cassarà, Montana. E’ il periodo del maxiprocesso. Che poteva essere il colpo decisivo e che invece non lo fu. Perché? Forse – ed è questa la tesi di Pellegrini perché “il vero nemico rimase senza volto: un oscuro, ambiguo potere politico che prima negò i mezzi, risorse e possibilità, e poi smantellò la squadra. In fondo, a voler vincere quella guerra, erano davvero in pochi”. Il generale racconta inoltre come Falcone, seguendo la scia del ciclone Buscetta (nel frattempo altre due confessioni, quella di Totuccio Contorno, vecchio braccio destro di Bontate, e quella di Nino Calderone, fratello del boss catanese Pippo, offrivano nuovi spunti di indagini), riuscì a far luce sui delitti politici di Reina, Mattarella, La Torre. E a ordinare altri due arresti epocali: quelli dei cugini Nino e Ignazio Salvo, gli ex intoccabili esattori di Salemi, finiti in manette sotto gli occhi di una Palermo sgomenta. Di quel terzo livello politico-mafioso fatto di nomi eccellenti e comitati d’affari. Si poteva cantare vittoria? Macché. Da quel preciso momento inizia a propagarsi quella che Pellegrini chiama “contestazione strisciante” capitanata dai “crociati del garantismo, da magistrati che sollevarono dubbi procedurali sul maxiprocesso, da una campagna stampa contro la giustizia spettacolo e il pentitismo”. L’ex capitano racconta la strana agitazione provata in quel periodo. Una sorta di presagio gli faceva ronzare in testa il vecchio detto siciliano del “più si vince, più si perde” (in palermitano: chiussai si vince e chiussai si perde). Un giorno – ricorda – si chiude nel suo ufficio (circolava voce che l’avrebbero trasferito: cosa che avvenne nel 1985) – e annota nell’agenda personale le sue riflessioni a proposito delle cose successe negli ultimi anni: dal processo Chinniciai viaggi in Brasile, alle confessioni di Buscetta, al blitz di San Michele, agli ultimi clamorosi arresti.
Tra le chicche del libro di Pellegrini (che fu il primo – scriveAttilio Bolzoni nella prefazione – a inseguire segretamente Provenzano custodendo le carte in una grande scatola di acciaio di fronte alla scrivania) spunta la spedizione compiuta nel novembre 1984 in Sud America per assistere alle rogatorie dei complici di Buscetta arrestati l’anno prima e ancora in attesa di estradizione. Arrivati laggiù, il pool guidato da Falcone viene travolto da una forza mediatica che nessuno si aspettava. I canali tv aprono i telegiornali con la notizia dello sbarco degli investigatori. “Solo in quel momento – racconta Pellegrini – mi resi davvero conto di quanto la fama di Giovanni Falcone avesse ormai varcato i confini dell’Italia. Tutti, all’estero, sapevano chi fosse e che cosa stesse facendo. I processi che aveva istruito, le indagini che stava conducendo e la collaborazione con le più alte personalità del mondo giudiziario americano gli avevano fatto guadagnare un rispetto e un’ammirazione che forse non aveva nemmeno nel suo Paese”. Del resto, avevano fatto il giro del mondo le immagini della scorta, dell’auto blindata e di quell’elicottero che seguiva dal cielo ogni suo spostamento. E lui, Falcone? “Si schermiva. Il più divertito era invece Paolo Borsellino(vedi video intervista Rai News a Pellegrini). Con i brasiliani riusciva persino a conversare nella loro lingua. Lo guardavamo increduli mentre si lanciava in lunghe e approfondite chiacchierate con i giornalisti”. Sosteneva che era facile il portoghese, che era uguale al dialetto genovese.
In Canada
Lui era appena arrivato da New York dove, dopo la rogatoria, aveva assistito all’interrogatorio di Buscetta da parte dei viceprocuratori distrettuali Charles Rose e Richard Martin, all’interno di una base militare dove l’ex boss era stato condotto e messo in detenzione. L’esame del superpentito di Cosa Nostra da parte delle autorità giudiziarie americane rientrava nell’accordo che Italia e Stati Uniti avevano stipulato l’estate precedente, al momento dell’estradizione di don Masino dal Brasile. Il giudice era sbarcato in Nord America insieme ai colleghi magistrati Guarnotta e Giusto Sciacchitano; in quella missione li accompagnavano i due ufficiali Antonino Rametta e Pasquale Petrosino della Guardia di Finanza, e Alessandro Pansa del nucleo centrale anticrimine di Roma. i”Noi, gli uomini di Falcone”.Nello scatto in Canada, da sinistra, il Generale Pellegrini, il Giudice Falcone, il Capitano Petrosino GdF, un Ispettore della polizia canadese e il Sost. Proc. Sciacchitano. Fonte: Gruppo FB Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino 7 Gennaio 2018
Il magistrato e il capitanoLa tacita intesa di due solitudini. Sguardi, battute, gesti che valgono più di ringraziamenti e di esplicite approvazioni, l’incondizionata fiducia nello Stato, il ritrovarsi fianco a fianco dalla parte della giustizia; era questa l’amicizia tra l’uomo Giovanni Falcone e l’uomo Angiolo Pellegrini.
Nel capitolo “I miei ricordi con Falcone” troviamo la testimonianza del generale dei Carabinieri Angiolo Pellegrini che, neanche quarantenne, assunse il comando della sezione Anticrimine di Palermo dal 1981 al 1985. Soprannominato dai suoi “Billy the Kid”, Pellegrini guadagnò ben presto la fiducia di Falcone grazie alla proposta di un nuovo metodo investigativo, che poneva al centro la tracciabilità degli spostamenti delle grandi somme di denaro in mano alla mafia, un modo per poter ricostruire una mappa della criminalità organizzata, una macchia d’olio che dalla Sicilia si allargava in tutto il mondo.
Ancora, fu Pellegrini a consegnare al magistrato il primo rapporto Michele Greco + 161, una documentazione che si rivelò fondamentale per il Maxiprocesso, che con la sentenza finale della Cassazione vedrà confermati 19 ergastoli per un totale di 2665 anni di reclusione. Un’operazione immensa.
Definito dal capitano come «lo scienziato dell’attività istruttoria e investigativa», Falcone era un magistrato capace di intuire i meccanismi mafiosi fino ad allora sconosciuti alle autorità: alla fine degli anni Settanta mancava ancora una visione globale poiché i crimini erano trattati troppo spesso come casi singoli, isolati. Lo scambio di informazioni cartacee tra i vari paesi era lento e spesso per errore finiva dimenticato in un cassetto. Falcone aveva colto la necessità di un confronto diretto con l’altro: bisognava spostarsi nel luogo dell’indagine, fosse anche oltreoceano. Era rigoroso negli accertamenti, preciso, verificava ogni dettaglio per allontanare qualsiasi possibile dubbio della corte.
Furono quattro anni di intenso lavoro, ma alla fine, composte tutte le tessere del mosaico, Giovanni Falcone e la sua squadra riuscirono a dimostrare che Cosa Nostra aveva un’organizzazione unitaria, verticale, con appendici in tutto il mondo. Per la prima volta la giustizia fece breccia nella rete mafiosa, moltissimi furono condannati e la popolazione se ne accorse. Sta forse qui il merito più grande di Falcone, Borsellino, Pellegrini e di tutti quelli che hanno dedicato la vita alla lotta contro la criminalità: l’aver dato alle persone la speranza di un cambiamento e di aver risvegliato le coscienze civili latenti.Ma il racconto di anni di collaborazione professionale e intensa lotta alla mafia tra un capitano e un magistrato si sofferma sull’assunto che entrambi prima di tutto erano uomini. Uomini come noi, che una sera sfuggirono alla scorta per perdersi tra le vie di Roma e sentire il profumo della libertà, che malgrado ci fosse sempre qualcuno a remare contro, non si diedero mai per vinti. Uomini capaci di scelte che li hanno resi degli eroi.
Falcone poteva dare l’impressione di essere freddo, serio, chi lo conosceva sapeva però che la sua era solo una profonda consapevolezza. Consapevolezza del peso di una toga che difficilmente una volta indossata si riesce a togliere a proprio piacimento, consapevolezza dei rischi e della responsabilità dello Stato nei riguardi dei cittadini. C’è affetto nei ricordi di Pellegrini che racconta a parole un amico che invece parlava poco, ma che preferiva trasmettere la sua approvazione e la sua fiducia prestando una penna stilografica, una delle passioni segrete del magistrato.
Tra le righe anche un velo di amarezza: non è facile essere uno dei pochi sopravvissuti. La casualità della vita ha voluto che quel fatidico 23 maggio 1992, il comandante Pellegrini atterrasse a Punta Raisi poco dopo Falcone, e che i due non facessero il tragitto in macchina insieme, come spesso invece capitava. Che si dica “destino” o “fortuna”, è difficile non interrogarsi sul corso degli eventi, e su quali siano le responsabilità e i doveri dei superstiti. Avere avuto l’onore e il privilegio di essere stato al fianco di Giovanni Falcone si riflette nell’obbligo morale di trasmetterne la memoria, portando avanti i suoi ideali, i suoi metodi vincenti, le sue stesse parole.
Giovanni Falcone non si sentì mai sconfitto: anche dopo la chiusura del pool antimafia, dopo aver accettato il trasferimento a Roma, dopo gli attacchi dei giornali, sapeva di essere nel giusto e che la strada da seguire ormai era stata tracciata. Molti lo giudicarono battuto, condannato all’isolamento, Pellegrini racconta però che in un suo personale momento di sconforto dopo i funerali del giudice Scopelliti, in uno dei tanti viaggi in macchina, Falcone con determinazione e speranza gli disse: “Vinti? Mai! […]”.
Il magistrato Falcone ha firmato pagine di storia del nostro paese, è stato testimone di giustizia e instancabile ambasciatore di verità, senza di lui la lotta alla mafia probabilmente non esisterebbe così come la intendiamo oggi. Ma l’uomo Giovanni non è stato da meno: ha combattuto un mostro enorme e malgrado la morte ne è uscito vincitore, lasciando in eredità a tutti noi il valore del coraggio. La Repubblica