Perché alcuni ristoranti, anche in Italia, continuano a utilizzare nomi “mafiosi”?
Il sogno di Parigi svanisce per la figlia di Totò Riina, chiude il ristorante
Il sogno parigino della figlia di Riina è durato poco. Lucia Riina, 40 anni, si era trasferita nella Ville Lumiere una dei quattro figli del boss corleonese stragista Totò, morto nel 2017 in carcere dove era finito dopo 24 anni di latitanza.
La più giovane dei rampolli Riina era sbarcata a Parigi nell’autunno 2018 aprendo il bistrot “Corleone by Lucia Riina” dove alle pareti aveva appeso le sue opere pittoriche. A gennaio 2019 dopo che la notizia si era diffusa e i media avevano fatto servizi provocando reazioni anche del sindaco di Corleone cui non era piaciuto il nome della cittadina nell’insegna, e suscitando anche l’aggressività del marito di Lucia, Vincenzo Bellomo, che ha inseguito operatori televisivi lanciandogli contro oggetti, la coppia aveva deciso di togliere il nome pesante dal ristorante.
“Non ho cercato di provocare né di offendere nessuno – aveva detto Lucia – volevo soltanto valorizzare la mia identità di artista-pittrice. E anche mettere in risalto la cucina siciliana. Affinché non ci sia nessun malinteso, vi annuncio che ho deciso di ritirare il mio nome dall’insegna del ristorante e dalle pubblicità, anche se mi dispiace che la mia identità di pittrice e di donna venga negata”.
Ma nel luglio 2019 Lucia con marito e figlia ha deciso di salutare rue Daru e tornare a Corleone. Nel paese dei boss che hanno gestito Cosa nostra per un quarantennio però la donna da qualche tempo non si vede. C’è chi dice si sia trasferita scegliendo una meta lontana. Nessuno in paese parla apertamente ma qualcuno sussurra che i Bellomo siano andati in Canada.
La figlia di Totò Riina annuncia: “Toglierò mio nome da ristorante a Parigi” e risponde a chi la accusa “Mia vita trasparente”
Pascal Fratellini, ultimo discendente della famiglia di un celebre trio di artisti circensi originari di Firenze che fece fortuna in Francia, socio dei Bellomo nel locale parigino, dice che Lucia ha lasciato Parigi nell’estate 2019 “non avevano legami, non parlavano bene il francese, e forse mancavano loro i familiari”.
“Andare a trovare lo zio – aggiunge – o il fratello che sono in carcere era molto difficile. Per loro i legami sono importanti.
Quando stavano in Francia la madre chiamava tutti i giorni per avere notizie: ‘Cosa succede a Parigi?’” Il bistrot parigino non ha riaperto dopo il lockdown. Fratellini spera di riaprire a breve anche se “il ristorante è solo una parte della mia attività, il mio principale business sono i locali notturni che scontano però la crisi in modo più forte”. Blog Sicilia 6.9.2020
“La mafia” come marchio? Se i clienti non cambiano ristorante non se ne esce
21/10/2016 L’Ue blocca la catena di ristoranti “La mafia” in Spagna, buona notizia, ma potrebbe non bastare. A meno che non siano i clienti a dire “no grazie”. Basterebbe chiedersi come sarebbe mangiare in una catena chiamata “l’Eta”.
“L’Ufficio Marchi e Disegni – Divisione Cancellazioni -dell’Unione europea ha deciso di annullare il contrassegno numero 5510921 accogliendo il ricorso dell’Italia per l’invalidità del marchio alla catena di ristoranti spagnoli “La Mafia” (“La Mafia se sienta a la mesa” “La mafia siede a tavola”, ndr.), che però ha presentato ricorso. Inizia ora una lunga battaglia alla quale si oppone un gruppo di quasi 40 ristoranti in tutta la Spagna con più di 400 dipendenti, che ha costruito la propria immagine proprio sulle storie criminali italiane».
Lo annuncia così la Coldiretti ed è una risposta nuova a una storia antica: stavolta è una catena di ristoranti, altre volte erano menu con insalate che si chiamano cosa nostra, e amenità simili. La notizia buona è che, finalmente, l’Ue si è svegliata, dato che fin qui si usava trincerarsi dietro il fatto che nessuno di quelli di cui sopra violava le norme sui marchi dei singoli Stati. Stessa scusa per la catena di pessimo gusto spagnola, che sottolineava tra l’altro che l’ambasciatore italiano non «dovrebbe essere considerato nell’ambito di quel pubblico – la famiglia media spagnola che vuole mangiare italiano – perché, in qualità di rappresentante dell’Italia, può offendersi facilmente e di conseguenza di lui non si dovrebbe tenere conto».
Ecco a questo proposito sarebbe proprio interessante sapere come vedrebbero i sudditi di Re Filippo VI l’idea di aprire in Italia una catena di ristoranti spagnoli chiamandoli L’Eta (l’organizzazione terroristica basca che ha causato in Spagna poco meno di 900 morti), mettendoci come sottotitolo l’Eta si siede a tavola e facendo sedere famigliole italiane a condividere allegramente paella e pulpo a la gallega, sotto la gigantografia di Artapalo (nome di battaglia del capo militare arrestato nel 1992).
Chissà se troverebbero altrettanto suscettibile e di parte il punto di vista dell’ambasciatore spagnolo in Italia nel caso. L’Ue ha deciso che: «Il marchio deve essere dichiarato invalido per tutti i beni e servizi in contestazione», accogliendo le ragioni dell’Italia, perché: «L’accostamento del termine “mafia” manipola l’immagine estremamente positiva della cucina italiana. Il sottotitolo “se sienta a la mesa” , siede a tavola, è un tentativo di volere attribuire un carattere di benignità al nome di una delle organizzazioni più pericolose mai esistite in Italia». E ancora perché: «Le organizzazioni criminali di tipo mafioso sono una chiara e presente minaccia per tutta l’Unione europea perché non sono attive solo in Italia ma anche in altri Stati membri: la Spagna è uno dei Paesi preferiti da molte di loro».
Il problema è che la cancellazione di un marchio è un successo – ammesso che il ricorso in appello confermi – che da solo può fare poco, se non cambia la cultura. La notizia cattiva, infatti, è che delle 294 recensioni al locale di Siviglia su Tripadvisor, delle quali moltissime in lingua italiana, poche notano il cattivo gusto del nome e solo una non è disposta a passarci sopra per valutare la qualità del cibo come se niente fosse. Si intitola “Vergognoso il nome” ed è stata pubblicata l’8 giugno 2013. Vi si legge: «E’ di oggi 8 giugno 2013 la notizia che a Vienna qualcuno faceva affari con panini che esaltavano la mafia. Sono solo passato davanti a questo ristorante di Siviglia, in Plaza Duque, e ho avuto la stessa sensazione che qualcuno vuole guadagnare facendosi forte di un nome che significa delitti e orrori, uccisioni di uomini coraggiosi, magistrati, giornalisti, donne e bambini, eroici preti, militari carabinieri, poliziotti… E’ da rifiutare, La Mafia a tavola, anche se con Marlon Brando».
Se i primi a dire “no grazie” e a cambiare ristorante non sono gli italiani in Spagna, non per spirito di corpo, ma per naturale repulsione per quello che un marchio simile può rappresentare, sarà difficile che altri si pongano il problema. Ma così non se ne esce. Tolto un marchio se ne fa un altro.
Elisa Chiari FAMIGLIA CRISTIANA
I ristoranti e i prodotti stranieri con nomi che si ispirano alla mafia
Dalle pizzerie “Cosa Nostra” al caffè bulgaro “Mafiozzo”, sono decine e decine e c’è chi ritiene che danneggino l’immagine dell’Italia
In tutto il mondo ci sono almeno 300 ristoranti che si richiamano alla mafia nel nome, secondo una stima che ha fatto Coldiretti, la principale associazione italiana di produttori agricoli, attraverso la banca dati del sito di consigli di viaggio Tripadvisor. E ci sono anche centinaia di prodotti alimentari, dal vino al caffè agli snack, con marchi che si ispirano alla criminalità organizzata italiana. A volte questo fenomeno viene chiamato “mafia marketing”, e qualcuno chiede che sia maggiormente stigmatizzato e sanzionato, ritenendo che danneggi l’immagine dell’Italia all’estero rafforzando luoghi comuni offensivi.
È un fenomeno che esiste da molto tempo: ristoranti che si chiamano “Baciamo Le Mani” o “Cosa Nostra” ci sono ovunque, e spesso l’immagine richiamata nell’insegna o nel logo del ristorante o della pizzeria è lo stereotipo del mafioso con la coppola o il gangster italo-americano degli anni Venti con il mitra in mano. D’altra parte anche in Italia è pieno di ristoranti che si chiamano “Il padrino” e che evocano, più che altro, la figura di Marlon Brando nel film di Francis Ford Coppola del 1972. È una forma di marketing che a volte funziona e a volte no: un bistrot aperto a Parigi dalla figlia di Totò Riina, “Corleone by Lucia Riina”, ha chiuso nel 2020.
Rientra in un altro ordine di problemi invece il fatto che molti ristoranti in Italia siano utilizzati dalla criminalità organizzata come strumento di riciclaggio del denaro. Secondo un’analisi sempre di Coldiretti, i locali a rischio di infiltrazione mafiosa sarebbero 15mila. È difficile però che le organizzazioni criminali scelgano nomi come “Cosa Nostra” o “Mafia” per i propri locali.
Secondo Coldiretti, il fenomeno del marketing che si richiama alla mafia va combattuto e se possibile bloccato. Per il presidente Ettore Prandini l’Unione Europea «deve fermare l’utilizzo commerciale di marchi infami che sfruttano gli stereotipi legati alle organizzazioni mafiose e rischiano di penalizzare l’immagine dell’intero agroalimentare tricolore».
Alcune iniziative c’erano già state in passato. Nel 2019 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva detto che la catena di ristoranti spagnola “La mafia se sienta a la mesa” non doveva utilizzare quel nome perché «banalizza l’organizzazione criminale italiana». I proprietari si erano difesi sostenendo che il logo conteneva una rosa, non un’arma, e che quindi non c’era nessun richiamo alla violenza. I ristoranti della catena si chiamano ancora così, in tutta la Spagna.
Secondo Coldiretti è proprio la Spagna il paese con la maggiore concentrazione di ristoranti che si richiamano nel nome alla mafia: ce ne sarebbero 63. Seguono Ucraina (38) e Brasile (28). Ma pizzerie, bar, ristoranti di questo genere ci sono dappertutto: India, Stati Uniti, Giappone, Australia, Germania, Canada, e poi Giordania, Sri Lanka, Vietnam, Malesia, Moldavia.
I nomi non sono molti fantasiosi. In Spagna ci sono anche “El Padrino” e “La Dolce Vita del Padrino”. In Ucraina c’è il “Karaoke Bar Mafia” e la catena di locali “Mafia”. In Germania ci sono i “Burger Mafia” e in Brasile gli “Al Capone Pizza di Mafia”. Negli Stati Uniti c’è “Sushi Mafia”, mentre in Finlandia un locale si chiama “Don Corleone”. In Russia un ristorante si chiama “Camorra”.
C’è poi l’altro fenomeno denunciato sempre da Coldiretti: è quello dei prodotti alimentari che, come i ristoranti, hanno nomi che si richiamano alla mafia. Gli esempi sono tanti: c’è per esempio un whisky scozzese, contenuto in una bottiglia a forma di mitra, che si chiama Cosa Nostra. In Germania c’è il Fernet Mafiosi, sul quale è disegnata una pistola. In California viene prodotto il vino Il Padrino e in Inghilterra ci sono gli snack Chilli Mafia. In Portogallo c’è un cartone da tre litri di vino rosso che si chiama Talha Mafia Pistol, e ha una macchia di sangue stilizzata sull’etichetta.
In Bulgaria invece è in vendita il caffè Mafiozzo. C’è poi tutto il capitolo delle salse: un condimento per la carne prodotto in Germania si chiama Mafia Coffee Rub Don Marco’s mentre in Finlandia una salsa ha il nome di Pork Mafia Texas Gold. In Belgio esistono le salse Sauce Maffia e Sauce Maffioso; negli Stati Uniti è in vendita la Wicked Cosa Nostra. C’è poi un portale in cui si vendono caramelle che si chiama candymafia.com e un libro di ricette con il titolo The Mafia Cookbook. Tutto questo comporta, secondo Coldiretti, un danno di immagine piuttosto grave che si aggiunge a quello complessivo della contraffazione e falsificazione dei prodotti alimentari italiani.
Se al ristorante la Mafia diventa marketing
Pizza, spaghetti, mafia. L’Italia degli stereotipi, delle frasi fatte, del folklore più nero dello humor, che a volte si traduce in pietre della storia del costume, ma che molto spesso “stroppia”. Come ogni cosa che è decisamente in eccesso. E se tutti – chi più chi meno – ricordiamo le scene al ristorante de Il Padrino, è su altri ristoranti che si è focalizzata la lente della Coldiretti e del 6° Rapporto sulle Agromafie e sui crimini nell’Agroalimentare, che lancia un vero allarme “Mafia Style“, stimando in milioni di euro il giro di affari di imprese che strizzano l’occhio agli cliché della criminalità organizzata.
Un passo oltre l’Italian Sounding, infatti, c’è il mafia sounding, che si è scoperto essere un vero e proprio calderone sommerso – ma non troppo – di attività che utilizzano nomi e rimandi alla mafia come vere e proprie strategie di marketing. Il ristorante Riina di Parigi, gestito dalla figlia dell’ex “capo dei capi” di Cosa Nostra, è solo l’ultimo di una lunga serie di casi similari, salito agli onori della cronaca per lo scandalo legato alla figura, ancora troppo contemporanea, del boss e dei suoi crimini.
Ma il caso va oltre la memoria della famiglia corleonese e ha i contorni di un deciso problema di costume e percezione. Uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni è quello della catena di ristoranti spagnoli “La mafia se sienta a la mesa“; da Valencia a Madrid portano a tavola una cucina di stile italiano, lasciando che i clienti si siedano in un piccolo circo, dove alle pareti invece di folkloristiche scene che ripropongono – come in altre parti del mondo – scene di vita quotidiana del nostro Paese, ci sono murales che raffigurano i più sanguinari e famigerati boss mafiosi della storia recente. Da Lucky Luciano ad Al Capone, con un nutrito repertorio nel mezzo.
E se in Nuova Zelanda l’infelite uscita di una catena di fast food che ha messo in commercio il “Pablo Escoburger“, ha fatto indignare i social, in questo caso – diffuso – dei ristoranti Mafia Style, non si registra nessun tipo di reazione. Secondo Coldiretti, che insieme ad Eurispes ha stilato il Rapporto, “si trovano ristoranti e pizzerie “cosa nostra” dal Messico all’Egitto”, con casi anche in Nazioni lontanissime come il “Minnesota” o la Thailandia; una sorta di plebiscito del marketing che avvolge i cinque continenti quasi senza soluzione di continuità. Trovare un ristorante “Bella Mafia” è decisamente semplice, ma la tendenza sta uscendo dalla porta dei ristoranti per entrare sugli scaffali di supermercati e botteghe, anche in Paesi che vengono canonicamente considerati più civili e meno suggestionabili.
Come la Norvegia, dove è recentemente stato mandato in onda uno spot che pubblicizza i Cannoli Siciliani, eccellenza agroalimentare molto amata, ma qui lanciata al grido di “mafiakaker eller cannoli“, ossia “il dolce della mafia“. Un esempio per tutti, quello del Paese scandinavo, che è però in ottima compagnia con il “caffè mafiozzo” – che, come denuncia coldiretti, pare essere comune in Bulgaria -, la “saucemaffia“, salsa per fast food reperibile a Bruxelles, il Syrah “Padrino” prodotto in California o il Fernet Mafiosi, un liquore in vendita sul mercato tedesco, la cui bottiglia è vestita ad hoc, “con tanto di disegno di un padrino, mentre sul collarino della bottiglia è addirittura raffigurata una pistola”.
E se il portale, che vende caramelle sfuse per bambini, CandyMafia, può quasi sembrare una boutade, il sito di consigli culinari MamMafiosa diventa in realtà inquietante, con la possibilità di selezionare una musica a tema da cui farsi accompagnare mentre si legge la biografia di Angelina Torricelli, proprietaria del blog che racconta della sua vita da ignara moglie di boss e di come abbia scoperto la reale occupazione del marito solo il giorno in cui è stato ucciso. Un business milionario, quindi, con ramificazioni tentacolari, dalle caramelle al liquore, fino ai libri di cucina – esempio su tutti “The Mafia CookBook” – che “banalizza, attraverso gli stereotipi, un periodo doloroso e recente della storia italiana” apportando, anche se fra frizzi, lazzi e battute che sembran divertenti, un danno “notevole al made in Italy”, forse anche più subdolo e profondo di quello dei prodotti falsi. LA REPUBBLICA 29.2.2019
Da “Baciamo le mani” a “Cosa nostra”: almeno 300 ristoranti hanno un nome che ricorda la mafia
Nella classifica dei Paesi con più locali ispirati al “mafia sounding” si piazza la Spagna con 63 ristoranti, grazie soprattutto alla catena “La Mafia se sienta a la mesa” diffusa in tutto il territorio nazionale che fa mangiare i clienti sotto i murales dei gangsters più sanguinari da Vito Cascio Ferro a Lucky Luciano, fino ad Al Capone, mentre al secondo – rileva Coldiretti – si piazza l’Ucraina (38 tra ristoranti, bar e pizzerie) davanti al Brasile (28). Seguono Indonesia (23), Russia (19), India (16), Giappone (15), Polonia (11), Usa (8), Portogallo e Australia che chiudono la top ten con a pari merito con 5 casi. Ma attività che richiamano Cosa Nostra si trovano ormai dappertutto, dalla Germania alla Thailandia, dal Messico alla Corea del Sud, da Panama alla Moldavia, fino a Giordania, Malesia, Sri Lanka, Taiwan, Vietnam e Canada, solo per citarne alcuni. Un fenomeno odioso che – sottolinea Coldiretti – nasce in molti casi dall’ignoranza o dalla scarsa sensibilità verso il dolore provocato dalla criminalità organizzata al quale andrebbe posta fine una volta per tutte. Nel caso della catena di ristoranti spagnola “La mafia se sienta a la mesa” l’Unione europea, su richiesta dell’Italia, ha addirittura annullato la concessione del marchio in quanto contrario all’ordine pubblico e al buon costume, anche se i locali sono ancora aperti in tutto la Spagna. “L’Unione europea deve fermare l’utilizzo commerciale di marchi infami che sfruttano gli stereotipi legati alle organizzazioni mafiose e rischiano di penalizzare l’immagine dell’intero agroalimentare tricolore in un momento in cui le esportazioni hanno raggiunto il record storico contribuendo alla ripresa del Sistema Paese”, ha affermato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini. Redazione Agenzia Nova
No all’insegna “Falcone e Borsellino” per la pizzeria, ristoratore tedesco perde in appello
A dare notizia della sentenza emessa in Germania è la presidente della Fondazione Falcone, sorella del giudice ucciso dalla mafia. “Ristabilito il senso del rispetto. Ci sono argomenti su cui non si può scherzare”
Nella sua pizzeria a Francoforte, non potrà utilizzare la denominazione “Falcone”, né da sola né come parte di un insegna, né tantomeno sul menu o nel materiale pubblicitario. Così hanno deciso i giudici di appello tedeschi accogliendo il ricorso presentato dalla sorella del giudice ucciso dalla mafia e ribaltando la sentenza di primo grado che aveva dato ragione a Costantin Ulbrich. A darne notizia è la presidente della Fondazione Falcone: “E’ una sentenza che ristabilisce il senso del rispetto. Ci sono nomi e argomenti sui quali non è possibile ironizzare, scherzare e tantomeno – commenta Maria Falcone – speculare a fini commerciali”.
La vicenda risale a circa due anni fa, quando Ulbrich aprì un’attività chiamata “Falcone e Borsellino”. Su una delle pareti del ristorante erano state accostate una foto dei giudici uccisi dalla mafia e quella di don Vito Corleone del famoso film “Il padrino”. Dopo aver scoperto il fatto, Maria Falcone aveva presentato ricorso per inibire al commerciante l’uso del nome ma in primo grado l’istanza era stata respinta perché, aveva scritto il tribunale, “Falcone ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria”.
Oggi invece il ricorso è stato accolto dai giudici che hanno inoltre riconosciuto come “Maria Falcone – si legge nella nota inviata dalla Fondazione – abbia una legittima pretesa al diritto alla richiesta di risarcimento in base al diritto al nome e al diritto alla personalità post mortem. ‘La violazione del diritto alla personalità post mortem del giudice Falcone da parte di atti commerciali discutibili perché contrastano con la sua vita e il suo lavoro è fondamentalmente da approvare’”, scrivono infine i giudici. Nel caso in cui il ristoratore – che dopo una pioggia di critiche aveva comunque cambiato nome all’attività – non rispettasse la sentenza, rischierebbe un’ammenda fino a 250 mila euro e una condanna fino a 6 mesi. 15 luglio 2022 PALERMO TODAY
Falcone e Padrino insieme in foto, tribunale tedesco: «Qui la mafia non è sentita»
Giovanni Falcone assieme al Padrino in foto, per il tribunale tedesco, non ha bisogno di tutele. Succede proprio in questi giorni in Germania, dopo che un ristoratore ha appeso la foto di Falcone e Borsellino accanto a quella delPadrino. Immediatoricorso ma il tribunale tedesco lo ha respinto. Maria Falcone, la sorella del giudice: «Non ci fermeremo qui».
Un ristoratore di Francofortesceglie per il suo nuovo ristorante il nome Falcone e Borsellino. Nell’allestimento degli interni l’uomo, per una motivazione artistica, decidedi affiancare alla foto dei giudici anti mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino proprio all’immagine di Vito Corleone, il Padrino. La sorella, Maria Falcone, è dal 1992 un’attivista italiana, fondatrice della Fondazione Falcone e dopo aver scoperto il tutto decide di fare ricorso. L’associazione tra il padrino e Falcone viene considerata come una violazione della memoria dei due magistrati antimafia. Ma le cose non sono andate come dovevano perché il tribunale tedescoafferma che il giudice ha operato prettamente in Italia e quindi non sono cause che alla Germania interessano.
La dichiarazione del tribunale tedesco dopo aver esaminato la richiesta di violazione della memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: «In Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria».
Falcone e il Padrino nella stessa stanza: «Faremo ricorso»
I muri del locale, oltre alle foto dei Magistrati e a quelle del Padrino, presentano una serie di buchi a simboleggiare fori di proiettile. Una scelta discutibile per il fatto che sono due tipi di personaggi completamente diversi e non dovrebbero mai essere considerati come simili. Nel ricorso, la professoressa Maria Falcone richiede al tribunale tedesco di vietare al ristoratore del locale, Constantin Ulbrich, di utilizzare il nome Falcone. Giovedì 3 dicembre Il tribunale ha affermato: «Il ricorso è respinto perché sono passati quasi 30 anni dalla morte di Falcone e il tema della lotta alla mafia non è più così sentito tra i cittadini. Inoltre il giudice ha operato principalmente in Italia e in Germania è noto solo a una cerchia ristretta di addetti ai lavori e non alla gente comune che frequenta la pizzeria».