Un tribunale pieno di fantasmi dà la caccia ai killer di Falcone A Caltanisetta solo due magistrati in servizio, e il procuratore è pronto ad andarsene
Benvenuti alla centrale dell’«intelligence», benvenuti al Nucleo centrale investigatori. Attraversate questi giardinetti, salite la scalinata: seguiteci, prego, nella visita alle stanze in cui il Grande Mistero sarà dipanato, dove si prepara il riscatto dello Stato, il trionfo della Giustizia, la sconfitta di Cosa Nostra, l’inesorabile condanna dei colpevoli. E’ presidiato, il palazzo di giustizia di Caltanissetta. Da un agente solo, va bene, e neppure tanto informato. Scusi, dov’è la Procura? «Al primo piano…».
Invece è al quarto. Lo si può scoprire dopo aver aperto la porta idraulica di un ascensore, aver premuto tutti i tasti, scoperto che non funziona, girato corridoi bianchi e deserti alla ricerca di un usciere, incontrato finalmente un caritatevole applicato di cancelleria. Ma ne valeva la pena. Coraggio signori, finalmente siamo giunti al «Trib». Dice proprio così, il grande cartello scritto in rosso: qualcuno, chissà quando, ha spezzato in due la dicitura «tribunale». Difficile sarebbe stato trovare un simbolo più efficace e assieme più grottesco di questa guerra combattuta a metà, un segno più sintetico dello sconforto. Sì, perché ad attraversare queste sale, a percorrere questo deserto attraversato da fantasmi lamentosi, vien da chiedersi se davvero non sarebbe il caso di prendere in parola Peter Secchia. Di rispondergli immediatamente «accettiamo». Di cogliere al volo, prima che cambi idea, l’offerta lanciata dall’ambasciatore americano dopo il funerale delle vittime di Capaci.
Che gli Stati Uniti ci prestino non solo gli investigatori, ma anche i poliziotti, le armi, gli schedari, le auto, i dollari, i computers, i blindati. Tutto, pur di evitare questo disastro.
C’è una ragazza, in Procura, che accoglie il visitatore con cortesia. E’ un magistrato. Si chiama Caterina Chinnici. Ricordate questo nome? Suo padre era il consigliere istruttore che nell’84 a Palermo saltò su un’auto-bomba. Lei è qui da pochi mesi, non ha ancora l’esperienza e l’anzianità per occuparsi dei casi più gravi. Può solo raccontare: «Mio padre era un padre anche per Falcone, con la morte di Giovanni è come se avessi perso un fratello». In fondo al corridorio, l’ufficio di Salvatore Celesti, il procuratore capo, è presidiato da tre giovanotti che chiacchierano in una stanzetta, uno seduto a una scrivania, l’altro di fronte alla scrivania, il terzo sulla scrivania. Il procuratore non c’è, si trova a Palermo. Ma cos’altro potrebbe aggiungere dopo la sconsolata dichiarazione di ieri: «Faremo di tutto, faremo il possibile, ma cosa vuole, le nostre forze sono quelle he sono… Ho solo un sostituto cui affidare il caso». Le cifre? Rieccole.
Sono esattamente le stesse che solerti cronisti poterono rilevare dopo l’omicidio Chinnici, dopo quello del giudice Livatino, o dopo le grandi inchieste sui giudici palermitani.
La Procura dovrebbe avere sette sostituti, ne ha tre, di cui uno solo in grado per anzianità di seguire indagini del genere. Una sezione civile che non apre da dieci mesi, nuovi processi fissati al 1996. Novecento processi penali, novemila civili che si disfano negli archivi. Tre giudici in via di trasferimento. Gli avvocati non ne possono più, venerdì scorso hanno proclamato quindici giorni di astensione dalle udienze. «Era il giorno prima dell’attentato», tiene a puntualizzare Umberto Cascino, presidente dell’Ordine, ma anche lui in via provvisoria. «Allora non immaginavamo che potesse accadere una cosa così atroce, ma al tribunale di Caltanissetta la situazione resta identica. E’ una catastrofe». Peggio: un’offesa, un insulto alla coscienza, uno sberleffo a chi crede che nella lotta alla mafia qualcosa si possa ancora fare.
Guardate questo robusto e pacato signore che in fondo ad un altro corridoio, in fondo ad un altro ufficio da dirigente, approfitta dell’arrivo di un po’ di giornalisti per lanciare l’ennesimo grido d’aiuto. Si chiama Placido D’Orto, è il presidente del tribunale, da anni segnala, sollecita, protesta, s’indigna. «Qui rischiamo di diventare il simbolo della disfatta dello Stato, Caltanissetta non è più neanche Forte Apache, è un luogo lasciato completamente allo sbando… Lo dico da anni al Csm. Combattere la mafia con questi mezzi significa usare solo pa¬ role vuote e rituali».
Parole, sempre le stesse parole. Sentite Sebastiano Bongiorno, giudice per le indagini preliminari.
Aveva chiesto di andare ad Agrigento, gli avevano detto di sì, adesso ha cambiato idea ma formalmente non è né lì ne qua: «Ho rinunciato, ma non è solo un bel gesto. L’ho fatto perché dicono che io rappresenti la memoria storica della indagini in questa zona. Ma in un certo senso, vista la posizione in cui mi trovo, è come se in questo mo- mento a parlarvi ci fosse un signor nessuno. Pensare che l’ufficio delle indagini preliminari dovrebbe funzionare ventiquattr’ore su ventiquattro…». E questo brusco signore con barba e occhi chiari? Ma è lui, il nuovo investigatore. E’ lui il sostituto che, unico per anzianità ed esperienza, può rappresentare Caltanissetta nella procura Distrettuale Antimafia. Si chiama Francesco Potino. «Io l’unico? Neanche tanto, non è che abbia poi un’espe- rienza così vasta. Sono abilitato e basta. Cosa penso di quest’indagine?
Che questa Procura non è in grado di affrontarla. E della Procura Distrettuale? Che come innovazione sta servendo a nulla. Non ho avvertito particolari vantaggi, in compenso trovo tutto più complicato. Adesso ci sono molte più carte da firmare». E questo giovanotto con barba e occhiali? Ma sì, rappresenta la terza forza della Procura. Si chiama Raffaele Califano, viene da Avellino. E’ uno di quei «giudici bambini» catapultati da queste parti dopo l’omicidio Livatino, e sui quali si appuntò l’ironia di Cossiga. Trattare solo con questi mezzi.
Lui dice: «Alle indagini sull’omicidio Lima furono distaccati 12 sostituti, poi divenuti cinque.
Per questo delitto si prevede un lavoro molto più complicato e qui, alle volte, non riusciamo a comporre neanche i collegi giudicanti…». Altri organigrammi, altre cifre, altre proteste? No, può bastare. Non ce n’è bisogno, basta andarsi a rileggersi i giornali del 1981, ’82, ’83, *84, ’85, e via fino ad oggi. Altre prospettive? Guardate, signori, l’archivio del tribunale, al secondo piano. Ammirate gli incartamenti che vomitano polvere, i fascicoli che chiunque potrebbe rubare o bruciare. Guardate la faccia dell’archivista quando chi si chiede se qui dentro l’informatizzazione non è ancora arrivata («No. Ma poi i computers chi li farebbe funzionare?»).
Attraversate ancora una volta questi corridoi ampi e deserti. Vi è rimasta ancora qualche speranza?
Povero Falcone, povera moglie, poveri agenti: a fare giustizia sul loro eccidio dovrebbe essere un tribunale che della lotta all’antimafia è la fortezza Bastiamo Giuseppe Zaccaria Sopra un’immagine della strage di sabato scorso, in cui hanno perso la vita il giudice Falcone, la moglie e tre agenti della scorta.