TRATTATIVA STATO-MAFIA. STORIA DI UN TEOREMA GIUDIZIARIO

 

PAGINE A CURA DI DAMIANO ALIPRANDI


TUTTO HA INIZIO CON LE DICHIARAZIONI DI GIOVANNI BRUSCA E SALVATORE CANCEMI, TRA IL 1994 E IL 1998: PARLARONO ANCHE DEL “PAPELLO” DI RIINA, RITIRATO FUORI DAL FIGLIO DI “DON VITO”

Ecco come è nato il teorema “trattativa”: dai pentiti a Ciancimino jr.

La tesi giudiziaria della Trattativa Stato- mafia è una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, lotta tra correnti all’interno dell’ex Democrazia cristiana, atti amministrativi da parte dell’allora Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria o dell’allora ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise, in particolare il reparto speciale dei carabinieri (Ros), viene riletta sotto la lente “trattativista”. Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, si avanzano sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole.

Ma come nasce il teorema al livello giudiziario? Tutto parte da alcune dichiarazioni dei pentiti Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi fatte tra gli anni 1994 e 1998. Le date sono importanti, così come i due pentiti. In quel determinato periodo, entrambi, in qualche modo l’uno echeggiava l’altro nelle dichiarazioni. Cancemi, in quegli anni, ha riferito ai magistrati di presunti accordi di Totò Riina con ‘persone importanti’ che avrebbero garantito l’impunità dalle stragi e interventi a favore di Cosa nostra sulle questioni degli ergastoli, dei processi, dei pentiti e altri gravi problemi che opprimevano la loro organizzazione mafiosa. Cancemi ha associato tali ‘persone importanti’ ai nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi e alla volontà di Riina, addirittura già prima del ’92, di servirsi di costoro.

Nel 1996, sopraggiungono le dichiarazioni di Giovanni Brusca nelle quali si cita per la prima volta il” papello” che avrebbe scritto Riina nell’ambito di una ‘trattativa’ con soggetti appartenenti alle istituzioni, che ‘si erano fatti sotto’. Ricordiamo che Brusca era appena stato arrestato e ha deciso subito di collaborare. Nel ’96, rispondendo alle sollecitazioni di chiarimenti degli inquirenti, ha spiegato che i presupposti di quella conversazione tra lui e Riina rendevano evidente che quest’ultimo si riferisse al fatto che qualche politico o appartenente alle istituzioni, intimidito dal livello degli ultimi attentati di Cosa nostra, aveva cercato un contatto con i capi corleonesi per vedere di scendere a patti con loro. Brusca ha spiegato che era altrettanto evidente che Riina avesse risposto a quell’invito inviando il “papello” ‘per avere riscontro’ (espressione usata da Brusca per chiarire contesto e punto di vista di Riina). Ricorda che, a un certo punto, poiché quella risposta al “papello” tardava, Rina mediante Salvatore Biondino, gli aveva mandato a dire che era necessario dare un altro ‘colpetto’ per riattivare l’interlocutore.

Attenzione. Poi Brusca avrebbe reso le sue dichiarazioni sulla trattativa col “papello”, reiterandole e aggiornandole nel 1997 e nel 1998 nel contesto delle indagini preliminari e del dibattimento di primo grado a Firenze sulle stragi del continente, e dei processi sulle stragi Falcone e Borsellino. Nel contesto del processo di Firenze si diceva incerto se collocare la data dell’episodio prima della strage di via D’Amelio o dopo. Mentre però davanti alla Corte di Caltanissetta nel procedimento del Borsellino ter, dichiarava che l’affiorare dì altri ricordi gli aveva consentito di inserirlo tra le due stragi, prima cioè della strage in cui era rimasto ucciso Borsellino. Una memoria che cambia, oscilla fin dai primi momenti e nei contesti nei quali si trovava.

Bisogna precisare che Giovanni Brusca ha dato un ottimo contribuito alla giustizia per tutto ciò di cui era protagonista (pensiamo alla strage di Capaci) e testimone diretto. Ma nel passato ha anche riferito episodi che non sono stati ritenuti veritieri. Ma innanzitutto nel 1996, periodo nel quale parlò di questo “papello”, Brusca raccontò fatti del tutto fasulli. Ad esempio il racconto del suo incontro con Luciano Violante – all’epoca presidente della commissione antimafia – sul volo Roma Palermo e che poi, fra mille polemiche che gli costarono lo status di pentito, ritrattò. Al primo processo Dell’Utri del ’97 se ne era perfino uscito così: “via via che facevamo le stragi da Capaci a via d’Amelio, fino alle stragi del ’93, la sinistra sapeva”. E come non dimenticare, sempre in tandem con Cangemi, quando aveva riferito agli inquirenti di Caltanissetta – e siamo nel 1997 – che fu l’allora procuratore Giuseppe Pignatone a far uscire le notizie sul dossier mafia-appalti e addirittura definirlo come un sodale di Antonino Buscemi – una delle persone coinvolte nella famosa indagine dei Ros – che faceva da sponda per la Feruzzi Gardini? Gli inquirenti non lo definirono credibile, sul presupposto che tali dichiarazioni riecheggiassero, in termini generici, quelle rese, già nel 1994, da Salvatore Cancemi. Sempre in coppia.

Ma per quanto riguarda la vicenda del “papello” e trattativa, la coppia Brusca e Cancemi, invece viene presa sul serio. Il primo atto lo si può leggere nella richiesta di archiviazione di “Sistemi Criminali” presentata dai procuratori di Palermo Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia. Siamo nel 2000, e nella richiesta stessa si dà atto dell’apertura di un procedimento sulla trattativa Stato-mafia. I due pm, in sostanza, sono i primi a gettare le basi di questa inchiesta basandosi appunto sulle dichiarazioni dei due pentiti. Già allora, infatti, la Procura di Palermo aveva vagliato l’ipotesi che il “papello” di cui aveva parlato il Brusca attenesse a un progetto strategico di ricatto ad un organismo politico. Ma nel 2004 dovettero archiviare il procedimento. Gli stessi pm avevano ritenuto, all’epoca, che i riscontri investigativi effettuati non avessero colmato i numerosi ‘buchi neri’ che si presentavano nelle ricostruzioni iniziali.

Il procedimento viene riaperto nel 2008, perché subentra nella scena Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Il suo è un singolare percorso processuale. Mentre collaborava con la procura palermitana fornendo “prove” che per la maggior parte verranno sconfessate, riferiva di visite di avvertimento da parte di fantomatici uomini in divisa, presunti emissari del fantomatico signor ‘Carlo/ Franco’, di minacce epistolari e verbali di morte, di intimidazioni fatte pervenire presso le abitazioni di Palermo e di Bologna, mai tempestivamente denunciate, a suo dire, per non gettare allarme a fronte della messa in circolazione – contestualmente alla progressione delle sue accuse – , di presagi di eventi sempre più catastrofici ai suoi danni. Nell’avventura processuale di Ciancimino non può nemmeno sottacersi della calunnia operata ad arte ai danni di Gianni De Gennaro (all’epoca Capo della polizia) per cui il dichiarante sarà sotto processo e condannato; così come la vicenda dei candelotti di dinamite (detenuti in quantità tale da poter fare esplodere un intero isolato del centro di Palermo) fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell’aprile del 2011, per il cui possesso riporterà un’altra condanna.

Senza nemmeno dimenticare che nel frattempo verrà indagato da un’altra procura, e poi condannato, per aver riciclato il “tesoro” di suo padre don Vito. Eppure è grazie a Massimo Ciancimino che finalmente la procura di Palermo è riuscita a imbastire il processo nel 2013 ricorrendo al reato di minaccia al corpo politico dello Stato. È da qui che prende vita la tesi Trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta? A partire dal febbraio del 1992, le minacce mafiose all’allora ministro Calogero Mannino sarebbero finalizzate a creare un rapporto di interlocuzione con il mondo politico per contenere l’azione repressiva dello Stato. Quindi Mannino, tramite l’allora capo dei Ros Antonio Subranni, ordinò l’avvio di una trattativa per salvare la sua pelle. Gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno si misero al servizio della politica instaurando il dialogo con Vito Ciancimino, che sfociò nella redazione di un documento proveniente da Riina, il “papello”, con una serie di richieste scritte sui benefici per la organizzazione mafiosa. Documento fatto pervenire per il tramite di Antonino Cinà, medico di Riina.

Tutta questa narrazione è stata smantellata a partire dalle sentenze precedenti (ci sono tanti processi “clone”) e con il sigillo finale dalla Cassazione. Parliamo della sentenza del 27 aprile che ha escluso ogni responsabilità degli ufficiali del Ros – peraltro già assolti in appello sotto il profilo della mancanza di dolo – negando ogni ipotesi di concorso nel reato tentato di minaccia a corpo politico. Per quanto riguarda la minaccia nei confronti del governo Berlusconi, di cui era accusato Marcello Dell’Utri, la sentenza ha confermato quanto deciso dalla Corte di assise di appello di Palermo, che ne ha riconosciuto l’estraneità del primo. In soldoni non è vero che l’ex ministro Mannino dette l’input all’avvio della trattativa, non è vero che gli ex Ros hanno veicolato la minaccia al governo e non è vero che quest’ultimo si è piegato di fronte alle minacce. Così come non è vero che Marcello Dell’Utri avrebbe proseguito la trattativa veicolando la minaccia mafiosa al suo amico Silvio Berlusconi quando era appunto presidente del Consiglio nel 1994.

 

Quel contatto don Vito-Ros che diede il “la” all’invenzione della trattativa

DOPO LE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO, L’ALLORA GENERALE MORI PROVÒ A SEGUIRE NUOVE STRADE PER ARRIVARE ALLA CATTURA DI RIINA, CERCÒ NUOVE FONTI QUALIFICATE. IL TUTTO MENTRE COSA NOSTRA COLPIVA ANCORA

Ma come sono andati i fatti, e cosa ci racconta la storia di quegli anni terribili che hanno avuto l’apice massimo tra il 91 e il 93? La trattativa tra gli ex Ros e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino in che termini si è svolta? Bisogna sempre contestualizzare. A Palermo vigeva da anni un clima di terrore mafioso, acuitosi tra il ’91 e il ’92. I corleonesi potevano uccidere senza esitare chiunque li contrastasse. Il delirio di onnipotenza di Totò Riina, il suo sentirsi a capo di un’organizzazione che potesse contrastare lo Stato, si aggravò in corrispondenza col periodo di massima repressione giudiziaria (il maxiprocesso imbastito dal pool antimafia, dove spiccavano Falcone e Borsellino) e di rottura dei vecchi equilibri che l’organizzazione mafiosa aveva mantenuto con parte del potere politico.

La mafia, prima di Riina, non era meno feroce, più “moderata”, o addirittura rispettosa di valori. Semplicemente manteneva un rapporto paritario con le altre forze politiche ed economiche. Con l’avvento dei corleonesi (definizione coniata per la prima volta dall’allora generale Antonio Subranni), Cosa nostra ha avuto l’ambizione di sottomettere lo Stato. Due sono state le strategie volute da Riina. Da un lato il versante economico politico attraverso non solo il condizionamento degli appalti pubblici, ma – tramite prestanomi appartenenti a Cosa nostra stessa come i fratelli Buscemi – entrando direttamente in società con grosse imprese nazionali. Non solo. Risulta dagli atti che Riina aveva creato una impresa tutta sua, la Reale, che sarebbe dovuta diventare lo strumento per creare una cerniera tra il mondo mafioso, quello politico e soprattutto l’ imprenditoria di livello nazionale. Sempre Riina aveva avuto l’ambizione, poi fallita, di favorire la secessione della Sicilia tramite un movimento politico, una sorta di Lega del sud, per creare un vero e proprio Stato mafioso.

Non è un caso che soprattutto Giovanni Falcone ha accuratamente spiegato che non esisteva un Terzo livello che eterodirigesse Cosa nostra. La realtà era ancora più complessa e drammatica. Riina voleva stare al di sopra di tutti. Questa era la peculiarità dei corleonesi. E nel contempo ha deciso di trucidare chiunque fosse di intralcio nel suo progetto. Basta riprendere una sua affermazione che fece sia durante le sue chiacchierate intercettate al 41 bis, sia quando fu sentito dall’allora capo procuratore nisseno Sergio Lari: “Se me la facessi con i servizi segreti, non mi chiamerei Totò Riina”. La sua strategia economica, era però accompagnata dal braccio armato. Gli omicidi eccellenti partono dalla sua volontà di neutralizzare chiunque potesse diventare un ostacolo per la sua ambizione “imprenditoriale”.

Non va dimenticato che a Palermo operava la commissione presieduta da Riina, vertice gerarchico di una associazione criminale violentissima e gerarchicamente organizzata su tutto il territorio, che godeva di consenso popolare, con migliaia di adepti e una rete di professionisti e funzionari pubblici collusi. Riina fu uno dei principali responsabili della feroce guerra di mafia protrattasi degli anni ’80. Ricordiamo che nella sola Palermo disponeva di squadre di killer permanentemente dedicate ai suoi ordini omicidiari. Ciò era contrastato da un numero di appartenenti alle forze di polizia e di magistrati assolutamente non dimensionato alla gravità che il fenomeno aveva assunto, nel contesto di uno Stato debole. Dopo la strage di Capaci e subito dopo quella di Via D’Amelio ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato. Tutto era fermo, la procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Un “nido di vipere”, come definì Paolo Borsellino. Tutti hanno in mente le parole del magistrato Caponnetto: «È finito tutto» disse a un giornalista, uscendo dall’obitorio dopo l’ultimo saluto a Borsellino.

In quel frangente, tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi, l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia.

Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi chiari rapporti con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattarlo. All’epoca di questo fatto, verificatosi nella seconda metà del ’92, Ciancimino era già stato condannato dal Tribunale di Palermo alla pena di 10 anni di reclusione per il reato di associazione di stampo mafioso e per corruzione aggravata, e che, in stato di libertà, risiedeva a Roma, in un appartamento di via San Sebastianello, attendendo il verdetto della Corte d’appello e continuando a coltivare i suoi interessi, sempre col supporto dell’assistenza del figlio Massimo. Gli ex Ros Mori e De Donno conoscevano a fondo per ragioni professionali la biografia criminale e le vicende giudiziarie di Ciancimino. Oltretutto il ‘caso di don Vito” era di dominio pubblico, anche per essere stato al centro dell’inchiesta della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia in Sicilia, che nel ’72 aveva consegnato i primi risultati del suo lavoro al Parlamento, e sotto i riflettori della stampa, soprattutto negli anni delle indagini di Giovanni Falcone. E fu proprio De Donno, in particolare, che aveva partecipato attivamente a quelle indagini su appalti del comune di Palermo gestiti da don Vito.

Ma in che consistevano questi contatti? La procura di Palermo ne ebbe a conoscenza attraverso la dichiarazione di Ciancimino, resa su sua istanza il 17 marzo del ’93 quando si trovava presso il carcere di Rebibbia. Innanzi al procuratore capo Giancarlo Caselli e al sostituto Antonio Ingroia spiegò che, nel corso dell’interlocuzione con Mori e De Donno, dai primi contatti avuti con l’intermediatore ‘ambasciatore’ dei boss, Antonio Cinà, aveva preso atto della diffidenza e dell’arroganza di questi ultimi e inoltre aveva anche preso atto della chiusura del colonnello Mori verso ogni ipotesi di trattativa finalizzata a delle concessioni ai corleonesi, e pertanto, dopo una pausa di riflessione, aveva deciso di aiutare gli stessi carabinieri alla cattura di Riina, passare il Rubicone e riscattare la sua vita (così si espresse). Ma il suo arresto, il 19 dicembre ’92, aveva fatto morire sul nascere la sua collaborazione. Vito Ciancimino dichiarava ai Pm, tra le altre cose, di avere accettato di incontrare allora i carabinieri poiché turbato, sconvolto e sgomento dalle uccisioni di Salvo Lima, dalle stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino e preoccupato delle conseguenze, solo negative, che ciò avrebbero portato alla Sicilia e in ultima analisi a tutta l’Italia.

Già emerse che quella “trattativa” fu un bluff da parte di Mori come raccontò lui stesso quando fu sentito come teste al processo di Firenze sulle stragi continentali. Ma anche Ciancimino nel contempo bluffava. In quel momento pensava, a torto, di poter ottenere qualche beneficio per sé visto che era sotto processo per associazione mafiosa. D’altronde, per comprendere la personalità di Ciancimino basterebbe leggere la nota di Giovanni Falcone del 17 dicembre del 1985 dove sintetizza con semplicità e precisione gli intrighi di cui questi era capace, per incrementare le sue rendite illecite e nascondere la titolarità e la provenienza del suo patrimonio.

L’operazione condotta da Mori e De Donno non era nulla di indicibile. Fu fatta in un momento drammatico. D’altronde i pentiti nascono così. Lo spiegò molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. L’unica pecca è che Ciancimino aveva una personalità per nulla affidabile. E infatti mai divenne collaboratore di giustizia. Ritornando a Totò Riina, alla fine la pagò cara a causa della sua megalomania. Ha voluto fare la guerra allo Stato. E l’ha persa. Dopo di lui, la mafia ritornò a essere quella di prima. Significativa l’intercettazione del 2000 tra Pino Lipari, l’uomo degli appalti, con un suo sodale. Parlano di un summit con Bernardo Provenzano. La discussione fu proprio sul cambio di strategia. Quella della “sommersione”, in maniera tale di agire indisturbati senza destare allarme.

Lipari, infatti, spiega al suo interlocutore: «Gli dissi: ‘figlio mio, né tutto si può proteggere, né tutto si può avallare, né tutto si può condividere di quello che è stato fatto! Perché del passato ci sono cose giuste fatte … e cose sbagliate …!’». Ci vengono in aiuto le dichiarazioni di Antonino Giuffrè, corroborate appunto da questa intercettazione. Escusso dai magistrati, spiega che durante il famoso summit, si parlò della gestione degli appalti. «Il discorso appalti era stato affrontato – ha spiegato Giuffrè – e in tutta onestà diciamo che era abbastanza un discorso sempre di attualità e che noi per quanto riguarda il discorso della tangente riuscivamo sempre a controllare abbastanza bene. Ed anche in questo sempre su consiglio di Pino (Lipari, ndr), cercare di non fare rumore cioè alle imprese quando magari c’era qualche impresa di questa che era un pochino tosta, diciamo che non si metteva a posto, di non fare nemmeno rumore, cioè facendo fuoco, danneggiamenti… cioè di muoversi con le scarpe felpate, cercare di non fare, muoversi senza fare rumore ». La mafia “rumorosa”, ovvero quella stragista, ha perso trent’anni fa. Il declino è iniziato con la cattura di Riina grazie ai Ros, poi saliti ingiustamente sul banco degli imputati.


Lo stop al 41 bis? Riguardò appena 11 affiliati: tra loro neppure un boss di Cosa nostra

IN MIGLIAIA DI ATTI L’UNICA “PROVA” SAREBBE LA REVOCA DEL “CARCERE DURO” DECISA DALL’ALLORA GUARDASIGILLI CONSO MA LA SCELTA FU IMPOSTA DA UNA SENTENZA DELLA CONSULTA

Tutte le motivazioni della sentenza Trattativa Stato-mafia, sia di primo che secondo grado, sono composte da migliaia di pagine, il 90 percento delle quali non vertono sulle singole posizioni degli imputati. O meglio, non si limitano a provare il reato per il quale sono accusati, ma tendono a ricostruire gli eventi che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri, passando dai tentativi di golpe dei primi anni Settanta, al sequestro Moro, sino al terrorismo brigatista e alla P2, oltre, ovviamente, alle stragi mafiose. Per essere più chiari, prendiamo in esame la sentenza d’appello: nelle 3000 pagine, alla fine l’unica presunta prova della minaccia veicolata al governo è la famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 detenuti. Ebbene, anche in questo caso si è fatta una gigantesca disinformazione mediatica.

Parliamo del caposaldo dell’avvenuta trattativa Stato-mafia. Cosa ci racconta questa narrazione? La sostituzione dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti costituì il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo la tesi, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo un alleggerimento dei 41 bis realizzato, nel novembre del ’93, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro.

Ancora una volta, si rilegge la storia con il metodo dietrologico. Una metodo non scientifico, che mette in soffitta la giurisprudenza e soprattutto il funzionamento dello Stato di Diritto. Purtroppo sono state strumentalizzate le parole di Giovanni Conso, l’allora ministro della Giustizia che decise di non prorogare il 41 bis a 336 detenuti. In realtà, è stato abbastanza chiaro quando fu sentito per la prima volta in un processo, parliamo quello di Firenze sulle stragi continentali. che si può ascoltare su Radio Radicale. Parliamo del 15 febbraio del 2011. Alla domanda su quelle mancate proroghe, Conso spiegò che tale decisione è stata presa a seguito della sentenza della Corte costituzionale. Purtroppo, quando è stato sentito altre volte, lo stesso Conso – non citando più quella sentenza – e spiegando solamente che tale decisione la prese in solitudine anche con la speranza che potesse in qualche modo “favorire” la cosiddetta l’ala moderata di Cosa nostra, offrì inconsapevolmente la stura alle suggestioni.

Ma la verità dei fatti chiarisce ogni minimo dubbio. La sentenza della Consulta è la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993. Ricordiamo che il 29 ottobre – quindi 3 mesi dopo la sentenza – lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria inviò un documento in cui si chiedeva a diverse autorità – dalla magistratura alle forze dell’ordine – un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. A questo si aggiunge un particolare non di poco conto. Il 30 luglio del’ 93 – quindi due giorni dopo la sentenza della Consulta – l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e pena chiese un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41 bis direttamente ai Ros. L’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni ripose di non essere d’accordo sul mancato rinnovo del 41 bis. Un dettaglio fondamentale: secondo la tesi della trattativa, sarebbero stati i Ros a veicolare la minaccia, in particolare il fantomatico papello di Riina. E invece cosa fecero? L’esatto opposto: si opposero alla decisione di non prorogare.

La sentenza della Consulta, frutto dei ricorsi del tribunale di sorveglianza con i quali si chiedeva l’illegittimità costituzionale del 41 bis, ha salvato il carcere duro ma nel contempo ha chiesto che i rinnovi del regime speciale non fossero collettivi, ma valutati caso per caso. L’allora ministro Conso, fine giurista, ha applicato tale decisione. Erano tutti detenuti mafiosi? Assolutamente no. L’esatto contrario. Dei 336 decreti in scadenza, il regime del carcere duro non è stato rinnovato soltanto per diciotto detenuti appartenenti a Cosa nostra (a sette dei quali è stato, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato); per nove detenuti appartenenti alla ‘ndrangheta; per cinque detenuti appartenenti alla Sacra corona unita; per dieci detenuti appartenenti alla camorra. Dunque gli aderenti a Cosa nostra contenuti in quell’elenco erano pari a meno del 5,5 percento di tutti i detenuti con decreto in scadenza e, ciò nonostante, all’epoca, né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia né dalla Dna, né dalle altre forze di polizia richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro.

Il mutamento di regime carcerario per quei diciotto soggetti ridotti, peraltro, nel giro di pochi mesi, a seguito di una nuova applicazione, a soli undici, non ha quindi nulla a che fare con il frutto di un patto scellerato. Parliamo semplicemente di una scelta politico amministrativa condizionata da una pluralità di eventi: il nuovo rigoroso trend interpretativo della norma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza del 28 luglio 1993; la mancanza di una motivazione che non doveva essere generale e astratta come quella inviata in risposta dalla Procura di Palermo, ma puntuale e individualizzata per ogni sottoposto; non da ultimo, la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno delle carceri – a tratti, e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità – già avviata col precedente capo del Dap Amato, mediante la nota del 6 marzo 1993: distensione che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità organizzata, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione essi siano. Tutto il teorema, si regge evidentemente su una grave carenza di cultura giuridica.

 

IL PAPELLO  Una patacca confezionata malissimo ma che è stata considerata il cardine del processo

Nel primo articolo, abbiamo spiegato chi parlò per prima del “papello” e delle innumerevoli contraddizioni e oscillazioni dei racconti da parte di Cancemi e Brusca. La chiave di volta che permise l’avvio del processo trattativa Stato-mafia è Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Dal cilindro tirò fuori il “papello” fornito in fotocopia nell’ottobre del 2009. Agli osservatori attenti, non può sfuggire una prima ed evidente manipolazione.

Basterebbe vedere la foto originale pubblicata in questa pagina. Nello stesso foglio mostrato da Ciancimino junior, a fianco della lista dei punti del “papello”, viene appiccicato l’originale, e non la fotocopia, del post-it manoscritto a matita dal padre che recita: ‘consegnato spontaneamente al colonnello dei carabinieri Mario Mori dei R.O.S.”. Messa così, ad occhi meno allenati, sembrerebbe che tale post-it fosse relativo al “papello”. Si è scoperto che in realtà si riferiva alla consegna del suo libro “Le mafie”. Ma prendendo questo foglietto e appiccicandolo alla fotocopia di questo presunto “papello”, può dare la percezione che sia una conferma della veridicità. Quindi già questo particolare appare come una grossolana manipolazione.

Ma è interessante in che modo Massimo Ciancimino consegna ai Pm palermitani il “papello”, su cui si fondava buona parte del teorema giudiziario. Ciancimino lo aveva fornito solo in fotocopia, senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte, all’estero, non gli avrebbe impedito la consegna dell’originale. Era evidente come le fotocopie da costui consegnate in atti, con l’uso di carte e inchiostri datati, impedissero l’accertamento delle epoche degli originali oggetto della copiatura. Lo stesso Ciancimino aveva invece, come detto, fornito l’originale e non la fotocopia del post-it manoscritto a matita dal padre, appiccicato alla fotocopia del “papello”. Non solo. Non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il “papello” dall’estero, né perché non potesse rivelarne l’identità ai Pm. Ma, come se non bastasse, nemmeno ha indicato chi potesse essere colui che ha scritto questo “papello”. Ci sono state perizie e non risulta che sia la scrittura di Vito Ciancimino, Totò Riina, Bernardo Provenzano e qualsiasi altro personaggio. Di sicuro, l’autore di questo “papello” non può essere una “mente raffinatissima”. Si può notare l’errore che suscita ilarità nel penultimo punto: “Arresto solo fragranza Reato”. Casomai “flagranza”.

Ricordiamo che il “papello” viene consegnato nel 2009 da Massimo Ciancimino, ma – come ha ben argomentato la giudice Marina Petruzzella che ha assolto l’ex ministro calogero Mannino – “dopo aver sommerso gli inquirenti di documenti del padre (selezionati a sua scelta e consegnati nei tempi scanditi a suo piacimento) e di informazioni rimodulate, di volta in volta, a seconda delle evoluzioni del racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando”. Anche la data della presunta consegna del “papello” ai Ros è importante. Si parla del 41 bis, ma fu ripristinato solo dopo la strage di Via D’Amelio. E comunque nessun punto è stato mai rispettato durante gli anni delle mai esistite trattative Stato- mafia. Le super carceri vennero chiuse, ma per altri motivi (le condanne da parte degli organismi internazionali) e solo nel 1997 con il decreto dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick.


Il Protocollo Farfalla? In realtà fu solo una “dietrologia di Stato” che non portò alcun risultato

L’OPERAZIONE, EFFETTUATA TRA IL 23 GIUGNO 2003 E IL 18 AGOSTO 2004, PUNTAVA A INDIVIDUARE UNA PRESUNTA REGIA MAFIOSA DIETRO LE PROTESTE CONTRO IL 41 BIS, CRIMINALIZZATE MEDIATICAMENTE MA DA INQUADRARE NEL CONTESTO STORICO

Durante il lungo processo Trattativa Stato-mafia è entrato di tutto di più. Elementi sempre utili per suggestionare soprattutto l’opinione pubblica, anche perché non hanno nulla a che fare con il capo d’accusa. Tanto si era parlato, ma si parla tuttora oggi, del cosiddetto “Protocollo Farfalla”. Un’operazione di intelligence condotta dall’allora Sisde guidato da Mario Mori in accordo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Giovanni Tinebra. Come vedremo, fu in realtà un episodio che è l’esatto contrario di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Casomai parliamo di una dietrologia di Stato, visto che tale operazione consisteva nello scoprire una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Un po’ come quando, nel 2020, ci sono state le pesanti rivolte carcerarie e, persone come i magistrati Nino Di Matteo e altri, hanno teorizzato che dietro ci fosse una regima mafiosa per arrivare a trattare con lo Stato.

Per comprendere quante suggestioni abbia creato questa operazione condotta dall’intelligence di Mori, basterebbe riportare le parole di Claudio Fava, quando era vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia: «Dobbiamo capire il perché sia stato creato un documento del genere, perché interessavano particolarmente i detenuti al 41 bis, con quale scopo si sarebbero dovuti incontrare certi personaggi, con quale obiettivo, e se si volesse in quel modo ottenere o proporre qualcosa. Questo diventa un passaggio della trattativa da ricostruire e da svelare, sul piano penale e politico». Il paradosso è che il “Protocollo Farfalla”, fu davvero una operazione – a detta di chi scrive –scellerata. Ma che rispecchia esattamente il retropensiero degli odierni accusatori di Mori. E infatti tale operazione effettuata tra il 23 giugno 2003 e il 18 agosto 2004, fu del tutto fallimentare. La denominazione “farfalla” prende ispirazione dall’associazione “Papillon”, creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni della casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie non violente in collaborazione con i movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie.

Ma come mai il nome di questa operazione di intelligence si è ispirata proprio a “Papillon”? Nell’agosto del 2002, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis, fu ritrovato un volantino di “Papillon Rebibbia Onlus”. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde. Perché? Come già detto, quell’operazione di intelligence nacque a seguito del sospetto che dietro le proteste contro il 41 bis ci fosse una regia mafiosa. Ancora meglio lo spiega la relazione del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) redatta a conclusione di un approfondito lavoro: «Lo scenario storico, le pressioni nelle carceri, l’obiettivo prioritario indicato nella relazione al Parlamento del secondo semestre del 2003, suggerirono l’adozione di azioni informative tese anche a verificare eventuali saldature tra interessi criminali e aree politiche di matrice garantista». In sintesi, si era trattata di una sorta di “dietrologia di Stato” che intravvedeva addirittura le forze politiche garantiste in combutta con le organizzazioni criminali. In pratica, il “Protocollo Farfalla” sembrava avere la stessa forma mentis di uno di quei servizi che manda in ondaReport dove si allude a complotti del genere.

Per capire meglio, bisogna inquadrare il contesto storico e la criminalizzazione mediatica delle proteste contro il 41 bis. Le norme dell’articolo 41 bis furono inizialmente adottate – a seguito della strage di Via D’Amelio – con un carattere temporaneo per una durata limitata a tre anni (fino al 1995). Il 41 bis fu prorogato per ben tre volte e il 31 dicembre 2002 fu reso ordinario dal governo Berlusconi. Con l’approssimarsi dell’ultima scadenza, si riaccese il dibattito, anche politico, sul carcere duro.

Ricordiamo ad esempio l’inchiesta sul 41 bis dei radicali Maurizio Turco e Sergio D’Elia che documentarono seri problemi di legittimità. Anche i detenuti al 41 bis si fecero parte attiva di questo dibattito e nel marzo 2002 il noto mafioso Pietro Aglieri inviò al procuratore antimafia Pier Luigi Vigna e al procuratore di Palermo Pietro Grasso una lettera sullo speciale regime carcerario; nella missiva si auspicavano “soluzioni intelligenti e concrete” al problema del carcere duro così come fino a quel momento applicato. Nel luglio 2002 Leoluca Bagarella, durante il processo presso la Corte d’assise di Trapani, rilasciò dichiarazioni spontanee nelle quali chiedeva una riconsiderazione, in termini politici, del regime previsto dall’articolo 41 bis.

Nello stesso periodo, in una decina di istituti di pena in cui si applicava il carcere speciale, si verificarono iniziative di protesta e scioperi della fame dei detenuti. Il caso mediaticamente più eclatante fu, però, l’esposizione di due striscioni: il primo, “Uniti contro il 41- bis”, esposto allo stadio di Palermo e il secondo su iniziativa dei tifosi del Bologna in cui si esprimeva solidarietà ai tifosi palermitani per la libertà di parola. I media dell’epoca diedero risonanza a tali manifestazioni e alimentarono il dibattito. Al centro delle polemiche vi erano anche alcuni parlamentari, indicati dai criminali al carcere duro come traditori, poiché, una volta eletti, avrebbero cambiato il proprio pensiero sull’articolo 41 bis. Si ricordano, a tale proposito, le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè in riferimento ai parlamentari Nino Mormino e Antonino Battaglia. Tali polemiche furono ribadite da una lettera firmata da alcuni detenuti di Novara, tra cui Francesco Madonia e Giuseppe Graviano (oggi ritornato in auge per via delle inchieste della procura di Firenze), i quali rimproveravano avvocati penalisti entrati in Parlamento di aver cambiato posizione: «da avvocati avevano deprecato il 41 bis, da parlamentari invece non avevano combattuto il carcere duro».

È in questo contesto che si avviò l’operazione di intelligence. Sappiamo che l’operazione “Farfalla” si concluse con un nulla di fatto: non c’era nessuna regia occulta dietro le legittime proteste. Resta però un interrogativo: si dice che tale operazione si sia svolta fuori da ogni tipo di controllo, compreso quello della magistratura. Ciò però cozza con la testimonianza dell’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. Che cosa ha raccontato? «Venni a conoscenza che all’interno del Dap era stata costituita, a mia totale insaputa, una centrale di ascolto che intercettava i mafiosi. Io ho sempre cercato di fare il ministro occupandomi anche dell’apparato, per cui la cosa non mi piacque assolutamente, perché poteva anche avere altri risvolti, magari a priori assolutamente legittimi. Ma volli vederci chiaro, anche per testimoniare un po’ il fatto che, se fossi stato informato su questioni di questa gravità, sarebbe stato meglio. Senza avvisare l’allora capo del dipartimento Tinebra del blitz, chiesi di fare il giro della palazzina e entrai in un reparto in cui c’erano non ricordo più se tre, quattro o cinque centrali di ascolto, con persone che indossavano delle cuffie e che ascoltavano non so chi». Prosegue il senatore Castelli: «Diedi incarico all’allora mio capo di gabinetto di svolgere indagini di natura puramente informale. Lui, dopo qualche tempo, mi disse che effettivamente era tutto regolare e che tutto avveniva sotto l’egida della magistratura ». Quindi a quanto pare, la magistratura ne venne formata eccome. Nulla di oscuro. La relazione del Copasir ha concluso che tale operazione non poteva che risultare fallimentare, così come poi è stata, con il coinvolgimento di uomini del Dap, del Sisde e probabilmente anche della magistratura che sono stati distolti da attività più utili e produttive per l’Italia e per i cittadini. Si legge nella relazione che l’assenza di riscontri documentali e la gestione poco trasparente dell’attività, ha giustificato ricostruzioni e letture dietrologiche di deviazioni, calibrate su una ipotetica trattativa tra lo Stato e la criminalità organizzata. Questi i fatti. Ma ancora oggi si cita a caso il “Protocollo Farfall”a, ben sapendo che l’opinione pubblica non è a conoscenza dei fatti nudi e crudi. Tutto è utile per preservare il brand “Trattativa”.

 

 

Depistaggio strage via D’Amelio, ad ottobre l’appello per i tre poliziotti