Sabato 23 maggio 1992 Lungo l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo per Capaci, esplode una carica di 500 Kg di tritolo al momento del passaggio del giudice Falcone e della scorta. La prima vettura del corteo viene completamente investita dall’esplosione. Gli agenti di scorta Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo vengono uccisi sul colpo. Sulla seconda vettura del corteo viaggiano Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e l’agente di scorta Giuseppe Costanza. Francesca Morvillo muore pochi ore dopo a causa delle gravi lesioni interne riportate, stessa sorte per Giovanni Falcone che spira tra le braccia di Paolo Borsellino. L’agente di scorta Costanza riporta alcune ferite ed un forte choc ma sopravvive all’attentato. Feriti ma salvi per miracolo anche gli alti tre agenti che viaggiavano sulla terza vettura blindata che chiudeva il corteo di scorta a Falcone: Paolo Capuzzo, 31 anni, Gaspare Cervello, 31 anni e Angelo Corbo, 27 anni. Paolo Borsellino viene informato telefonicamente poco dopo le 18 da un collega dell´attentato che ha coinvolto l´amico Giovanni. In quel momento Borsellino e´ nella bottega del barbiere Paolo Biondo in via Zandonai a Palermo: appena terminata la telefonata prende due banconote da diecimila lire, quasi le lancia Biondo e balza fuori dalla bottega. Si precipita a casa dove informa i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta dell´accaduto. La moglie Agnese non e´ al momento a casa. Borsellino si reca subito dopo con la figlia Lucia all´ospedale civico di Palermo dove sono stati portati i feriti della strage: chiede dov´é Falcone, i medici lo riconoscono, lo prendono sotto braccio, lo accompagnano oltre una porta a vetri. Lucia lo aspetta fuori finche´ lui non ricompare dopo diversi lunghi minuti: e´pallido, curvo, smarrito. Il giudice abbraccia la figlia, dice poche parole: “E´ morto cosi´, tra le mie braccia.” [40] I primi membri del governo ad arrivare a Palermo sono i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, giunti in elicottero nel pomeriggio. Rimangono per circa venti minuti nell´istituto di medicina legale. Insieme a loro anche il Presidente della Commissione antimafia Gerardo Chiaromonte, il procuratore Pietro Giammanco, il prefetto Mario Jovine ed il questore Vito Plantone. Nessuno di loro rilascia dichiarazioni all´uscita della camera mortuaria.[41] Molti membri di Cosa Nostra in carcere all´udire la notizia dell´attentato festeggiano. Nel carcere di Spoleto i boss brindano davanti alla televisione e Salvatore Madonia, della famiglia di Resuttana, apre una bottiglia di champagne pronta da tempo: “U sceccu u pigghiaru (l´asino, il ciuccio, l´hanno preso, ndr)”, urlano soddisfatti dandosi pacche sulle spalle.[42]
Domenica 24 maggio 1992: Alle 9 del mattino, nell´atrio al pianterreno del palazzo di giustizia viene allestita la camera ardente. Quando arrivano le bare, tutti i magistrati, con la toga sulle spalle, sfilano in silenzio. Con Borsellino c´e´ tutta la famiglia: Agnese, Manfredi, Lucia e Fiammetta. C´e´ Antonino Caponnetto, bianco in volto, con un fazzoletto stretto tra le mani, arrivato in volo da Firenze dove da poco e´ andato in pensione. Una forte contestazione, al Palazzo di giustizia di Palermo, investe il presidente della Repubblica supplente Giovanni Spadolini ed i due ministri che lo accompagnano: Scotti e Martelli. Quando il corteo entra nel vasto atrio del palazzo, dalle transenne dietro alle quali e´ ammassato un folto pubblico partono fischi e grida: “vergogna”, “fuori”, “andatevene via”, “tornatevene a Roma”. Spadolini ed i ministri riescono comunque a raggiungere la camera ardente dove sono esposte le salme del giudice Falcone e della moglie e dei tre agenti della scorta deceduti al momento dell´attentato.[43] Alla Camera ardente la madre del pugliese Vito Schifani ricorda. “Tante volte tornava a casa all’una alle due di notte. Ora non ricevero’ piu’ la sua telefonata che mi avvertiva del ritardo”. Le e’ accanto l’anziano marito e la nuora Rosaria, ventiquattro anni, minuta, capelli castani. La giovane si abbandona alla disperazione ed e’ sorretta da un parente. Avvicina alla cassa il figlio di quattro mesi, Antonio Emanuele, e gli dice: “Guarda dov’e’ papa’ “. La donna ha voluto vedere per l’ultima volta il corpo straziato del compagno. Inutilmente medici e magistrati hanno tentato di impedirglielo nell’Istituto di medicina legale. “Almeno ho potuto accarezzargli le mani, lo amero’ sempre”. Sabato i coniugi erano stati assieme, fino a tre ore prima dell’agguato della mafia. Sarebbe stato, in quel giorno, l’ultimo turno di servizio per Schifani. Il poliziotto siciliano era molto apprezzato. Spesso gli assegnavano particolari missioni, servizi investigativi speciali contro le cosche. Erano pugliesi gli altri due agenti morti. Accanto alla bara di Rocco Di Cillo, 30 anni, la fidanzata Alba Terrasi piange sommessamente, poi esplode: “Perche’ ti hanno chiamato in turno? Saresti ancora vivo…”. E la madre dell’agente ucciso: “Portami con te. Perche’ l’hanno fatto, eri bellissimo…”. A Treggiano, alle porte di Bari, tutti conoscevano il poliziotto. Di mattina, sotto casa dei genitori, una modesta abitazione vicina alla piazza principale del paese, parenti e amici si raccolgono. La persiana e’ chiusa. Qualcuno sta gia’ mettendo i manifesti segnati a lutto ai lati del portoncino. Rocco era tornato appena due settimane fa a Triggiano. Aveva presentato alla famiglia la fidanzata palermitana. Il giovane aveva deciso: si sarebbe sposato l’anno prossimo. Ed era gia’ pronta la nuova casa nel centro pugliese. Di Cillo aveva chiesto il trasferimento, ma avrebbe dovuto aspettare almeno due anni. Assegnato dall’ 88 al servizio scorte, non aveva detto alla madre che sabato pomeriggio avrebbe accompagnato il magistrato. Per tranquillizzarla, le aveva anzi assicurato di essere da tempo impegnato in un ufficio: nessun motivo di preoccupazione quindi, nessun rischio. “Rocco era il migliore di noi – dice Giuseppe Panfilo, un coetaneo che si e’ arruolato con lui in polizia – era paziente, gentile con tutti. Lo ricordo quando da ragazzi ci si accapigliava: Rocco era alto e forte, incuteva soggezione; ma usava sempre l’arma della convinzione. Credo che per questo decise di fare il poliziotto, aveva un naturale senso della giustizia, detestava i violenti e i prepotenti. Lo sfottevo: gli dicevo che assieme a Falcone faceva anche lui una vita blindata”. “Era venuto anche qui in Comune – dice il vicecomandante dei vigili Nicola Quaranta -. Rocco era orgoglioso della sua ragazza e dell’ Alfa 75 che aveva comprato a Palermo”. Il sindaco di Triggiano, Nicola Pompilio, ha proclamato il lutto cittadino. Ancora dolore tra i familiari di Antonio Montinaro, trent’anni, originario di Calimera, nel Leccese. Era l’uomo piu’ vicino a Falcone: l’agente incaricato delle perquisizioni. Gli amici ricordano il giovane come un tipo allegro, spensierato, con la battuta pronta. A 19 anni era entrato in polizia. La questura di Bergamo era stata la sua prima sede, poi a Taranto e a Bari prima di essere trasferito a Palermo per le scorte durante il maxi processo. In quei mesi conobbe Tina Martines Mauro: dopo le nozze chiese il trasferimento definitivo nel capoluogo siciliano. Lascia due bambini. Montinaro parlava con entusiasmo delle sue esperienze di lavoro. Piu’ di una volta aveva manifestato l’orgoglio di affiancare il giudice Falcone nei suoi spostamenti. Lo diceva anche alle quattro sorelle, raccomandando pero’ di non raccontare nulla alla madre Carmela, sofferente di cuore. Nella camera ardente, uno dei fratelli dell’agente riesce soltanto a dire: “Questo dolore e’ troppo grande”.[44]
Nel pomeriggio Paolo Borsellino torna in procura a Palermo, é come se non riuscisse a staccarsi dall´ufficio, forse per restare piú vicino a Falcone. E si tuffa nelle indagini, iniziando in quello stesso momento la sua marcia di avvicinamento ai misteri di Capaci, alle ragioni per cui Falcone é stato assassinato, e a qulle che, alla fine, cancelleranno anche la sua vita. Parla con i colleghi, legge e rilegge il dossier sull´omicidio di Salvo Lima, assassinato a Mondello due mesi prima. Riprende il rapporto dei carabinieri del ROS su mafia ed appalti, un´inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e culminata con l´emissione di ordini di cattura firmati dal procuratore capo Pietro Giammanco, a quel tempo al centro di una nuova polemica: é accusato di aver “insabbiato” la parte che chiama in causa alcuni politici nazionali e regionali. Gli stessi personaggi che saranno successivamente indagati od arrrestati in seguito a nuovi accertamenti. [45]
Lunedì 25 maggio 1992 Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica. Per arrivare all´elezione di Scalfaro sono stati necessari sedici scrutini a partire da mercoledí 13 maggio.[47]
A Palermo si svolgono i funerali di Falcone, della moglie e della scorta. La tensione è altissima. Gli agenti delle scorte di Palermo formano un cordone attorno alle bare e nessuno può avvicinarsi. Uno di loro grida alle autorità in prima fila: ”Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi“. “Mafiosi, io vi perdono, solo dovete mettervi in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare, di cambiare, di cambiare, dovete cambiare, cambiare, cambiare radicalmente i progetti di morte che avete.” É l´urlo straziante di Rosaria Costa, ventidue anni, vedova del poliziotto Vito Schifani, uno dei tre agenti di scorta di Falcone, massacrati nell´attentato. Rosaria é una donna minuta, vestita di nero, con il volto segnato dal dolore. Con voce che esprime un´immensa dignitá , ad un tratto sale sull´altare, prende il microfono e lancia il suo sconvolgente appello ai mafiosi, che rimbomba tra le navate della grande chiesa “A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo stato – scandisce Rosaria – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia che sono anche qui dentro, certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c´é possibilitá di perdono. Io vi perdono.” Rosaria vacilla, é emozionata, stremata, contratta dalle lacrime e dal dolore. Al suo fianco, don Cesare Rattoballi, il cugino sacerdote, che la sostiene quando lei, affranta, sembra venir meno alle sue forze. Nella commozione genrale Rosaria prosegue: “Tornate ad essere cristiani, per questo preghiamo in nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.” La giovane donna ha la forza di gridare ancora: “Ti preghiamo per la cittá di Palermo che avete reso una cittá di sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia e la speranza.” Quella di Rosaria é una preghiera laica, animata da due sentimenti contrapposti: la speranza che gli “uomini della morte” ascoltino il suo appello e “cambino vita”, e la dolorosa convinzione che i mafiosi non siano in grado, non vogliano riappropriarsi della loro dignitá di esseri umani. Quasi parlando con se stessa, tra le lacrime, Rosaria Schifani conclude il suo intervento in chiesa mormorando con un filo di voce: “… ma loro non cambiano, non cambiano”.[48] Mentre Rosaria si accascia fra le braccia di don Rattoballi, numerosi agenti addetti alle scorte non reggono alla tensione e spingono i cordoni di sicurezza per avvicinarsi agli uomini delle Istituzioni. I poliziotti avanzano minacciosamente verso Spadolini e Scotti per gridare la propria rabbia e reclamare “giustizia”. La urlano piú volte, questa parola, mentre i colleghi in divisa faticano non poco a trattenerli e calmarli. La tensione sale alle stelle. Il clima di doloroso dissenso si trasmette alla folla che assiepa le navate e che gremisce la piazza antistante alla chiesa di San Domenico: migliaia e migliaia di persone urlano, spingono e contestano con fichi ed insulti l´arrivo dei rappresentnati delle forze politiche ed istituzionali. La ressa é enorme, la gente sembra aver perso la testa, qualcuno sputa; i volti dei politici, anche quelli dei vertici delle forze dell´ordine sono tesi, atterriti. É il momento piú critico di tutta la cerimonia. La contestazione dilaga e l´incolumitá dei vertici dello stato appare in pericolo. Politici, prefetti, ministri, deputati sembrano in balia della folla inferocita, sono terrorizzati. Nonostante gli sputi e gli spintoni, i lanci di monetine e gli insulti, le guardie del corpo riescono ad erigere saldi cordoni, per impedire incidenti e consentire agli “uomini degli apparati” di guadagnare l´uscita sani e salvi. Non ci sono feriti. Le bare vengono portate a braccia fuori dalla chiesa tra urla di proteste, fischi, applausi. Gli applausi sono tutti per i servitori dello stato, per le vittime del terrosrismo mafioso, quattro uomini ed una donna, ormai sigillati in quelle casse di legno avvolte dal tricolore. Le telecamere riprendono tutto, la rabbia della gente, la paura delle istituzioni. É l´immagine di un paese allo sbando.[49] Al palazzo di giustizia di Palermo si svolge una riunione tesissima fra i membri del CSM, Martelli ed i magistrati di Palermo. Dalla cronaca di Andrea Purgatori per il Corriere della Sera: Aula Magna del Palazzo di Giustizia. Ore 13.40. Il guardasigilli Claudio Martelli sta leggendo la decima delle tredici cartelle del suo discorso e, fissando la muta platea dei giudici siciliani, adesso scandisce con voce di pietra: “Quel che tecnici improvvisati, magistrati di parte e politici faziosi non avevano capito lo ha perfettamente capito la mafia. Le critiche maliziose, le insinuazioni subdole, i tentativi di delegittimazione…”. Su quel “subdole” e su quel “delegittimazione”, come una molla, scatta il sostituto procuratore di Sciacca, Lorenzo Matassa: “Come puo’ dire queste cose!”. Poi un coro: “Taci, mascalzone!”. E dal centro della sala, la rabbia che gli gonfia la mascella e gli occhi, il sostituto procuratore di Palermo Gioacchino Scaduto, grida: “Ma come si fa? Usciamo! Andiamocene via!”. Giovanni Spadolini alza lo sguardo, sbalordito. Afferra la campanella, per interrompere il pericoloso circuito di una protesta che, dopo l’omelia della vendetta, dopo gli insulti ai politici sul sagrato di San Domenico, rischia di travolgere anche questa straordinaria seduta del Csm, convocato per commemorare l’ultimo giudice ammazzato nell’ultima strage di mafia. Ma Martelli e’ impassibile. Non perde il controllo dei nervi. Continua a scandire le sue valutazioni, durissime. Conclude: “…la mafia ha scritto la parola fine alle polemiche eliminando fisicamente chi meglio l’aveva saputa combattere, confermando agli occhi dei dubbiosi, dei disonesti e dei rivali invidiosi che Falcone restava per la mafia il pericolo numero uno”. Ritorna il silenzio nell’aula magna. Per poco. Questo Palazzo di Giustizia e Veleni e’ ormai una pentola a pressione con il coperchio saltato. Lo si era capito gia’ domenica, davanti alle bare allineate. Lo conferma la reazione che ai discorsi di Spadolini e di Martelli viene dalla base, dalla truppa sempre sott’ organico dei magistrati siciliani. Sbattuti in prima linea e adesso tirati dentro la polemica sulla “delegittimazione” d’un amico, bocciato dal Csm nella sua corsa alla guida d’una Superprocura antimafia proprio alla vigilia della esecuzione. Dunque, Falcone e’ stato ucciso anche perche’ pubblicamente isolato dai suoi stessi colleghi? Martelli non dice questo. Ma nemmeno tace la sua profonda convinzione. Che “piu’ di un magistrato attivo nelle associazioni di categoria e in questo stesso Consiglio lo contesto’ apertamente e duramente, anche tra coloro che fino a qualche giorno prima egli riteneva gli fossero piu’ vicini”. E tuttavia, aggiunge il ministro di Grazia e Giustizia, “non e’ perduta” la battaglia di Falcone, come perduta non andra’ la sua “lezione di serieta’ , di sobrieta’ , di professionalita’ “. Falcone “vivra’ ” se ci saranno altri magistrati capaci di “raccogliere il suo testimone facendo rivivere la sua energia morale, la prova del suo coraggio e della sua indipendenza”, se “anche superando le nostre incomprensioni, faremo lo Stato piu’ forte contro la mafia, i mafiosi, i loro poteri e protettori, a cominciare da quelli che s’ annidano nella politica e nei pubblici poteri, spazzando via i polveroni, i depistaggi, le dietrologie fuorvianti”, se infine verranno qui in Sicilia e a Palermo “implacabilmente combattuti e vinti” i santuari mafiosi. Pochi applausi, grande tensione. Che nemmeno Spadolini riesce ad allentare, richiamando nel suo discorso d’ apertura il Paese alla scelta di una possibile e unica strada: “Quella della lotta per riaffermare il potere visibile della Repubblica contro tutti i centri di potere occulti, inquinatori della vita pubblica e distruttori della civile convivenza”. Ricorda la strage di via Fani e l’assassinio di Moro e l’esempio eroico di Falcone, ricorda sua moglie, i tre agenti della sua scorta. “Questo e’ il giorno del dolore. E’ il giorno dello sdegno e della esecrazione”, dice. Ma occorre andare avanti, nell’unita’ del Paese: “Occorre far si’ che l’ intera nazione respinga l’attacco che, una volta di piu’, e’ stato portato al cuore delle sue istituzioni democratiche. Dalla vittoria contro la delinquenza dipende l’avvenire della Repubblica”. E invece gli applausi arrivano con forza polemica a sostegno del discorso del vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni. Che ricorda i tre agenti della scorta di Falcone, tutti gli agenti di scorta, “i nostri collaboratori di ogni giorno, uomini con i quali condividiamo i rischi, che ci sono di esempio nella loro umilta’ e dedizione al servizio”. Che, rivolto a Martelli, rivendica la liberta’ di giudizio del Csm a proposito della Superprocura e nella valutazione di tutti i candidati “altamente titolati” a guidarla, non solo di Falcone. Che insiste: “Vorrei assicurare il ministro che ci siamo mossi ben al di sopra e al di la’ della babele delle polemiche. Ma quando un organismo deve decidere, deve essere lasciato libero. Non ci possiamo lasciare vincere dalle passioni”. Piove, su Palermo e sul Palazzo di Giustizia e Veleni. “Sono cinquant’anni che il ministero dell’Interno e’ in mano alla Dc. Questo non succede nemmeno nella Repubblica delle banane”, grida Matassa in faccia a Spadolini. E Scaduto, con gli occhi arrossati: “Calunnie, quelle di Martelli. Che ministro spero lo resti ancora per poco. Io non condividevo le idee di Giovanni ma ero suo amico, ero amico di Franca. In un momento di dolore, come si fa a dire queste cose…”.[50] Giuseppe di Lello si alza e si allontana: “Dissento dal tentativo del ministro Martelli di collegare le critiche mosse dai magistrati alle scelte di politica giudiziaria fatte ultimamente da Falcone con il suo assassinio. Se c’e’ stata una delegittimazione questa è venuta da parte del potere politico che ha esposto Giovanni Falcone come unico avversario valido contro il braccio armato della mafia. Senza che la classe di governo mostrasse identica determinazione nel fare pulizia al suo interno.”[51] Andreotti (dimissionario Presidente del Consiglio) dichiara in parlamento: “Il governo non intende in alcun modo deflettere dalla linea perseguita per combattere la piovra mafiosa con gli strumenti dell’ordinamento democratico.” Bossi tuona alla camera sulla “strategia della tensione che non è finita e che riparte dal Palazzo”. Il ministro dell’interno Scotti dichiara che “la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri”. [52] Inoltre ricorda che già all’indomani dell’omicidio aveva lanciato un allarme congiuntamente al Capo della Polizia Parisi basato sulle dichiarazioni della fonte Elio Ciolini e di altre molto più serie ed attendibili fonti.[53] Il capo della polizia Vincenzo Parisi indica i tre possibili moventi della strage di Capaci: fermare l’uomo destinato a guidare la Superprocura, vendetta mafiosa, intimidire il paese.
“Il giorno dopo la strage di Capaci – ricorda quindici anni dopo don Cesare Rattoballi, oggi parroco di Godrano, a due passi da Palermo – Borsellino rimase per quasi tutta la notte a vegliare la salma di Falcone e la cosa che mi colpí fu che portó a spalla tutti i feretri, tranne quello del marito di mia cugina, Rosaria Schifani. A lei si avvicinó abbracciandola e restandole vecino anche nei giorni successivi.”
Prosegue don Rattoballi: “I nostri rapporti si intensificarono da quel giorno. Borsellino era convinto che la lacrime di mia cugina dal pulpito di San Domenico avessero smosso i cuori dei mafiosi. A casa sua, mi disse: Cesare, ho ricevuto segnali dal carcere, anche i piú duri stanno crollando, bisogna insistere.”
Quella cerimonia a San Domenico, finita nel caos della contestazione, viene metabolizzata con difficoltá da Borsellino, come un´esperienza altamente traumatica. Pallido, muto, il procuratore aggiunto resta per tutto il tempo della funzione vicino alla bara di Falcone. Guarda quello spettacolo doloroso con angoscia. La crisi di credibilitá delle Istituzioni, la tremenda crisi che si é manifestata ai suoi occhi tra le navate della chiesa non puó che colpire profondamente un uomo di stato come Borsellino, che per quelle Istituzioni nutre un´autentica venerazione. Gli errori, certo, sono degli uomini, non dei ruoli. Ma quanto la gente onesta di Sicilia, dopo il “botto” di Capaci, é disposta a fare ditinzione tra uomini e ruoli?
La sera, tornando a casa, Borsellino é sconvolto, affranto, rifiuta persino di parlare a suo figlio di quello che ha visto a San Domenico. Ricorda Manfredi: “Mio padre rimase sotto choc per quello che aveva visto in chiesa quella mattina. La contestazione dei palermitani, le urla, il lancio di monetine contro gli esponenti di governo, la rabbia trattenuta a stento dai cittadini, lo avevano turbato profondamente, a tal punto che la sera, tornando a casa, non volle neanche rispondere alle mie domande.” [54]
Enzo Biagi ricorda sul Corriere della Sera il matrimonio di Giovanni Falcone con Francesca Morvillo. “Ero a cena con Giovanni Falcone e con Francesca Morvillo, una sera del 1987, in casa di un amico, Lucio Galluzzo, a Palermo: a mezzanotte andarono a sposarsi. “Come due ladri“, dissero poi, solo quattro testimoni, cosi’ vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali, e si erano ritrovati, con la voglia di andare avanti insieme, fino in fondo, fino alla strada che dall’ aeroporto conduce in citta’. “Perche’ non fate un bambino?” chiesero una volta a Giovanni. “Non si fanno orfani – rispose – si fanno figli”.” [55]
Sul Corriere della Sera compare un ritratto di Francesca Morvillo: Ci sono tre cassetti pieni di foto. Dovrebbero raccontare i viaggi, le brevi fughe, le rapide vacanze, le gite in barca, le domeniche casalinghe di Giovanni e Francesca Falcone ma il mare, i paesaggi, gli sfondi s’intravedono appena e non si capisce mai dove sono scattate queste centinaia di istantanee, tutte centrate sul volto, sul sorriso, sugli occhi di un angelo con la piega dei capelli sempre in ordine, dolce e naturale nei suoi tratti pacati, sereni, concilianti. Partivano e tornavano solo con i primi piani di lei che fingeva di protestare, felice perche’ quelle erano dichiarazioni d’amore. Ed ogni volta le sembrava di rivivere le stesse esplosioni di quella sera del ’79, a casa di amici, quando con uno sguardo comincio’ la loro bellissima storia, adesso tranciata nel sacrificio di un massacro temuto nel tempo, esorcizzato con battute spiritose, rinviato ma quasi atteso con il tormento di chi e’ costretto a convivere giorno e notte con il terrore di un futuro incerto. I loro matrimoni erano falliti e, insieme, cominciavano un’avventura che coincideva con le prime devastanti imprese di una mafia ancora piu’ sanguinaria e spregiudicata di quella agraria. Lei, bella ed elegante, al Tribunale dei minorenni doveva combattere ogni giorno contro la disperazione di ragazzi che non avrebbe mai voluto condannare “perche’ sono stati gia’ condannati dalla vita”, come ripeteva ai colleghi. Lui si trovava di fronte una strada tutta in salita perche’ un’inedita strategia antimafia imponeva di entrare nelle banche siciliane, violare i santuari della finanza, studiare economia, attrezzarsi culturalmente come mai era accaduto prima e come chiedeva il nuovo capo dell’Ufficio istruzione, Rocco Chinnici, l’uomo che scopri’ e difese Falcone anche quando qualche alta toga di questo infido Palazzo palermitano provo’ ad infangare la bellissima storia d’amore indicandola come “una tresca”. Al presidente della Corte di appello, Falcone rispose sprezzante: “Non abbiamo nulla da nascondere e nulla da rimproverarci. Faccia pure cio’ che ritiene di dovere…”. Non accadde nulla ma a Chinnici fu consigliato di riempire “di minuzzaglia”, di tante piccole indagini, quel giovane magistrato che rischiava di “rovinare l’economia di Palermo”, come lo stesso Chinnici annoto’ nei suoi diari. Amarezze. Sgambetti a volte provocati da intese inconfessabili fra potenti della politica e della magistratura, a volte da gelosie e rancori personali. Piccolezze umane che Giovanni e Francesca provavano a tenere fuori dalla porta di casa, al quarto piano di un moderno palazzo di via Notarbartolo, una sorta di bunker in pieno centro con tanto di garritta, autoblindo e uomini armati sul marciapiede. Fra mobili e divani Ottocento, bei tappeti, ricordini d’argento alle vetrine, ricercate collezioni di stilografiche e una gamma in continua evoluzione di Tv color, videoregistratori, stereo, e computer avevano costruito un rifugio con i tavoli sempre coperti di codici, fascicoli processuali, schede e sentenze. Qui si e’ rafforzata un’intesa perfetta che adesso sembra raccontata dalle foto accarezzate dalla mamma di Francesca, la signora Lina Morvillo, una presenza costante perche’ lei abita in un appartamento vicino. In questa bomboniera gia’ ammantata dalla nebbia dei ricordi ci sono ancora i divani coperti dai drappi che Francesca aveva adagiato prima della sua ultima partenza per Roma. Un modo per evitare la polvere. Ma la signora Lina proprio sabato mattina era salita per l’acqua alle piante e, vedendo quei divani coperti, ha avuto un attimo di smarrimento: “Mi fanno impressione”. Solo un soffio leggero al cuore, poi scoppiato la sera davanti al Tg con la notizia sull’attentato che nessuno le aveva comunicato perche’ anche il figlio Alfredo, pure lui magistrato in Procura a Palermo, fremeva in ospedale sperando nel miracolo. Si sono sposati una sera di maggio, cinque anni fa, in municipio, in gran segreto con pochi testimoni e con la complicita’ di Leoluca Orlando, il sindaco allora in sintonia con Falcone. Un atto ufficiale per suggellare il tenero intreccio di due personalita’ distinte ma ormai dipendenti l’una dall’altra. Lui vulcanico, pronto a gite improvvise e ad una cena fra amici dopo 9 ore di interrogatori. Lei riflessiva, capace di trasmettere serenita’ ma attratta da compagnie briose, come ai tempi dell’universita’, quando si laureo’ giovanissima vincendo il concorso in magistratura a 22 anni appena, felice di questo regalo al papa’ magistrato, subito dopo morto sotto i ferri di un medico che per errore gli trancio’ la vena iliaca. Un dolore infinito evocato da Francesca per spiegare perche’ non poteva lasciare Palermo: “Mia madre senza di me muore”. Cosi’, aveva deciso di non seguire il marito a Roma, ma di dividere la sua vita e la settimana: da lunedi’ a mercoledi’ mattina in Corte di appello e subito dopo aereo per Roma con la valigia zeppa di carte processuali. Pur tornando dalla mamma per i weekend, poteva finalmente stare vicino al suo Giovanni, curare quelle due stanzette dell’alloggio ricavato al distretto di polizia, fra il Pantheon e Montecitorio, e rivelare un grande segreto agli amici: “Siamo andati al supermercato e Giovanni ha fatto la spesa con me”. Era la conquista di una normalita’ sempre negata a Palermo dove lei non poteva chiedere nulla al marito, dove si era rassegnata a fare un abbonamento per la prosa del Biondo e per i balletti del Massimo, ad organizzarsi con un paio di amiche per vedere i film piu’ recenti. Fu allora, con la bomba inesplosa nell’89 dell’Addaura, che Francesca tremo’ davvero, incerta del destino ma certa del suo ruolo di compagna di un uomo-simbolo. Lo scongiuro’ solo una volta: “Parti!”. Poi accetto’ di vivere in quella villa di giorno, tornando a Palermo tutte le sere e lasciandolo solo, con la scorta, luci e stereo accesi, perche’ la mafia capisse che non mette paura, che non puo’ vincere.[56]
Martedì 26 maggio 1992 Scalfaro incontra gli agenti delle scorte di Palermo durante una visita nel capoluogo siciliano e si impegna in prima persona nel sostenerli nella lotta alla criminalità organizzata.
Paolo Borsellino rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica in cui indica la coincidenza tra l’omicidio di Falcone e la notizia appresa a Napoli pochi giorni prima da alcuni colleghi del CSM che si era formata la maggioranza per approvare la candidatura di Falcone alla guida della DNA. Borsellino sostiene inoltre che le puntate a Palermo di Falcone si sarebbero presto diradate perché la moglie aveva ottenuto la nomina a commissario esaminatore per i concorsi in Magistratura presso il ministero di Grazia e Giustizia a Roma. La notizia era ampiamente nota al Palazzo di giustizia di Palermo. L’omicidio viene fatto a Palermo perché è un omicidio di mafia e come tale va fatto dove la mafia controlla il territorio. Il controllo totale del territorio assicura al mafioso l’impunità. Borsellino afferma tra l’altro che “non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste”. [57]
Paolo Borsellino rilascia un´intervista anche al Corriere della Sera in cui sottolinea come il nome di Giovanni Falcone fosse circolato nei giorni immediatamente precedenti alla strage di Capaci come possibile candidato per il ministero dell´interno in un governo tecnico. “Ma Giovanni Falcone ne aveva nemici? Perché a giudicare dalle reazioni di questi giorni si direbbe di no” chiede il giornalista. “Io so che nel 1988 doveva prendere il posto di Caponnetto come consigliere istruttore e gli preferirono Meli. Poi tentó d’andare al Csm e non ce la fece. Non voglio parlare di nemici, peró le cose sono andate in questo modo. Tragga lei le conseguenze” la secca risposta di Borsellino. Il giornalista chiede poi al procuratore aggiunto di Palermo la sua opinione sui moventi della strage: “Anche se la domanda puó sembrarle superficiale, Giovanni Falcone é stato ammazzato per quello che aveva fatto o per quello che avrebbe potuto fare? Per le sue indagini o per la Superprocura?”. “Per quello che aveva fatto, sicuro – risponde Borsellino – per la sua capacitá , la sua volontá. Sará pure un’ osservazione elementare ma per il momento io proprio non riesco a fare che osservazioni elementari. Certo per le organizzazioni mafiose c’ era anche qualcos’ altro e di estremamente pericoloso che Falcone poteva fare. Lei sa benissimo che si era parlato di lui come candidato alla Superprocura ma era circolata intensamente anche una voce che lo dava candidato in una soluzione tecnica come ministro dell’ Interno”. Paolo Borsellino sottolinea infine la scelta di Cosa Nostra di colpire Giovanni Falcone in Sicilia: “Che lui sia stato la persona piu’ in grado di condurre indagini penetranti nell’ universo mafioso e che quindi per le organizzazioni criminali sia sempre stato un nemico estremamente pericoloso non ci vuole molto a capirlo. E non ci vuole nemmeno molto a capire perche’ lo abbiano ammazzato ora: con il prossimo trasferimento della moglie a Roma, un lungo trasferimento, le sue abitudini palermitane, che poi consistevano nei viaggi del fine settimana, si sarebbero diradate o almeno fortemente alterate.” [58]
Il Procuratore distrettuale di New York Charles Rose dichiara: ”Il massacro è tutto made in Italy. E’ la filiale siciliana di Cosa Nostra che ha voluto, ordinato ed organizzato l’assassinio. La mafia americana, lo so per certo, disapprova. Perché le famiglie americane non avrebbero mai né tollerato né tanto meno ordinato un gesto terroristico così vistoso e simbolico. La mafia non vuole simboli, vuole potere e soldi. Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura. In più è un atto di solitudine della mafia siciliana, perché in questo momento nelle centrali americane di Cosa Nostra, nelle ville dei boss colombiani, dovunque la mafia faccia affari, sono in molti a scuotere la testa e a preoccuparsi di quello che la filiale siciliana ha fatto. Se i boss di Sicilia avessero chiesto a quelli americani la loro opinione, qui gli avrebbero chiesto se stessero diventando pazzi. Le varie organizzazioni collaborano strettamente negli affari. I colombiani e gli americani forniscono di cocaina l’Europa, passando per la Spagna, per l’Italia, per l’Olanda. Gli italiani vendono l’eroina agli americani e periodicamente gli emissari si incontrano per discutere forniture, prezzi, riciclaggi di denaro, banche complici, siano esse nelle isole Caiman, nelle Bahamas o nella Svizzera, oggi un po’ sospetta perché i magistrati elvetici collaborano un po’ troppo con le inchieste. Ma quando si tratta di misurarsi con gli Stati e le leggi delle singole nazioni, ognuno deve sbrigarsela da solo. Qualche tempo fa nel corso dell’istruttoria Musso e della famiglia Lucchese abbiamo saputo che Cosa Nostra in Florida aveva chiesto ai colombiani il favore di eliminare una persona scomoda nella stessa Florida. I colombiani hanno subito risposto “no grazie. Noi vi forniamo la roba, i vostri omicidi ve li fate da voi”. Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi, senza più neppure il coraggio di guardare in faccia le sue vittime, una mafia che deve ammazzare con il telecomando, è una mafia che sta perdendo la guerra, che sente l’alito della legge sul collo. E che è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove.”[59]
Sul Corriere della Sera compare un´intervista a Tina Montinaro, vedova di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone: Quarta panca, un posticino per tutti e tre. Lei, fasciata di nero, bella e sfinita nei suoi 32 anni, e’ l’immagine di una tragedia che la diretta tv fa rimbalzare di casa in casa come una riproduzione della Pieta’. Alta e immobile, un braccio cinge un bimbo di 17 mesi col ciuccio in bocca e una mano sfiora il capo riccioluto di un altro marmocchio di 4 anni mentre i suoi occhi umidi volano sulla folla e s’aggrappano alla bara del marito, Antonio Montinaro, agente scelto, caposcorta di Falcone, ombra perenne del giudice. Scorrono le parole dei salmi, dell’omelia, delle preghiere e Tina, che ascolta sfiduciata, scuote appena il capo quando l’altra giovanissima vedova chiede dal pulpito ai mafiosi di inginocchiarsi in cambio del perdono. “No, loro non si inginocchiano”, commenta Tina con un sussurro carico di diffidenza per questa “citta’ senza amore”, come spiega senza perifrasi col suo accento napoletano, intatto nonostante i sei anni a Palermo accanto al suo Antonio: “Dopo Falcone la giustizia e’ andata a farsi fottere. E quindi non ne chiedero’ perche’ anche se la chiedessi nessuno ne farebbe. Ai mafiosi magari danno 30 anni, ma poi l’anno appresso glieli riducono a 15 e molti sono gia’ liberi dopo qualche mese. La mitraglia ci vorrebbe”. Accarezza i suoi piccoli e promette sottovoce: “Non vi faro’ vivere qui figli miei, non vi faro’ vivere dove hanno ucciso papa’. Dovro’ lasciare il mio negozio di detersivi ma andremo via da Palermo”. I suoi capelli dai riflessi rossi sono raccolti da un cerchietto sopra la fronte alta, su un viso di cera segnato da grandi occhi neri e dal profilo mediterraneo che conquisto’ Antonio a prima vista. Riesce a sorridere e a piangere insieme ricordando l’abbordaggio con quel giovane alto, dinoccolato, riccioluto e anche un po’ fiero e pieno di se’ : “Lascia i tuoi amici e le tue amiche. Non uscire con loro. Non sai che cosa ti perdi. Con me non guarderai solo le stelle”. Gli occhi di Tina brillano con lacrime frenate schiacciando le labbra fra i denti: “Mi disse proprio cosi’. E io andai con lui. Ci sposammo dopo pochi mesi. Ero felice. Avevo trovato il mio uomo per sempre. E invece l’ho perduto, non c’e’ piu’, c’e’ solo il vuoto”. Accadde un pomeriggio nella Palermo del primo maxiprocesso quando Antonio arrivo’ in missione da Bergamo e trovo’ alloggio nelle tre torri, i tre palazzoni affittati dalla Prefettura per i mille uomini di scorta. Era di passaggio e sperava di avvicinarsi presto a Lecce, magari facendo il pendolare con Calimera dove c’era papa’, un pescivendolo, e mamma, una vecchina con i capelli colore dell’argento, anche lei ieri stretta nella quarta panca. Ma Antonio non torno’ piu’ a casa. Anzi brigo’ per restare. Perche’ nella sua nuova citta’ aveva trovato la donna della sua vita, Tina, e un ideale chiamato Giovanni Falcone. “Si’ , Falcone per lui era un Dio. E in effetti era uno dei pochissimi uomini puliti. Antonio ha fatto la morte di cui parlava sempre. Lo ripeteva spesso: “Se devo morire voglio morire con lui”. Un giorno lo sapranno anche loro…”, sospira Tina, dolce nelle carezze per il piccolo Giovanni, riccioli chiari e il ciuccio verde come la tutina con una frase colorata, “Je suis tendre” (sono tenero). Si addormenta sul poggiapiedi Gaetano e lei lo tira su adagiandolo sulla panca, riagganciando con lo sguardo la “sua” bara: “Che mi resta di Antonio? Mi resta il ricordo di venerdi’. Si’ , venerdi’ scorso, il giorno del mio compleanno. Non e’ potuto tornare a pranzo ma poi si e’ fatto perdonare. La sera e’ rientrato prima del solito e siamo stati fino a tardi insieme con i bambini. Una festa. L’ultima. Sabato mattina e’ andato via, un boccone in mensa e poi all’aeroporto per Falcone, il suo ideale, il suo modello”. [60]
Il capogruppo del Psi alla Camera, Salvo Ando’, rilancia la accuse rivolte dal ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli ai membri del CSM ed ai colleghi di Giovanni Falcone che ne avevavo criticato la candidatura a Procuratore Nazionale Antimafia. “Quello che hanno fatto al giudice Falcone – ritiene Ando’ – impone una discussione franca, vera, innanzitutto dentro il Csm. Cio’ per capire quanto la fredda, paziente, distruttrice opera di delegittimazione del magistrato siciliano abbia oggettivamente favorito l’azione criminale decisa dalla mafia. Si pone per il Csm una questione morale che nessuno, in questo momento, puo’ illudersi di occultare piangendo “piu’ forte” degli altri”.[62]
Mercoledì 27 maggio 1992 Paolo Borsellino torna a parlare pubblicamente di Falcone, come se non riuscisse a tenere per sé le riflessioni, come se avesse bisogno di condividere con l´opinione pubblica la sua ansia spasmodica di sapere, di capire, di conoscere. E a chi sostiene che Falcone fosse stato delegittimato e lasciato solo, replica: “Non condivido affatto l´opinione che Falcone fosse persona delegittimata”, dichiara al giornalista del Tg1-Linea notte, e di questa intervista il Tg1 delle 20.30 trasmette uno stralcio.
“Falcone – ammette Borsellino – aveva sicuramente degli avversari all´interno della magistratura, ma manteneva tutta la sua legittimazione e voglio dire di piú; ammesso che gli fosse fallito l´intento di essere nominato procuratore nazionale, come tutti sanno, anche recentemente, grossi esponenti politici avrebbero addirittura fatto l´ipotesi che Falcone avrebbe potuto approdare alla carica ancora piú prestigiosa, finanche come ministro degli Interni.” La voce della possibile candidatura di Falcone per un incarico in un governo di tecnici era stata infatti formalizzata dal segretario del Pri Giorgio La Malfa.
A pochi giorni dalla strage, le indagini girano ancora a vuoto, si fatica a ricostruire la dinamica dell´attentato sull´autostrada, ma l´insistenza sulla carica autorevole mantenuta al ministero dia Falcone, rivela la convinzione di Borsellino che questa autorevolezza, insita nel ruolo di favorito al vertice della Superprocura, o addirittura di candidato in pectore per il ruolo di ministro degli Interni, possa in qualche modo aver costituito un movente per gli stragisti decisi a fermare a tutti i costi questa progressione di carriera.[63] Il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto denuncia le gravi carenze di organico della Procura, destinata ad occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci: ”Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al CSM.” [64] Solo il procuratore Celesti ed il sostituto Polino sono titolari dell’indagine sulla strage di Capaci. Tutte le inchieste riguardanti i giudici di Palermo, Trapani ed Agrigento vanno a Caltanissetta per il meccanismo della legittima suspicione (Processi Montalto, Carlo Palermo, Saetta, Addaura, ecc.). Caltanissetta è il terminale più delicato del sistema giudiziario siciliano. Eppure i posti liberi restano senza aspiranti, i concorsi vanno deserti. Per esempio per la carica di Procuratore capo è pendente una sola domanda, quella di Tinebra, già capo della Procura di Nicosia. Durante la trasmissione televisiva L’istruttoria condotta da Giuliano Ferrara su Italia 1 il ministro della giustizia Claudio Martelli dichiara: ”Bisogna riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore. Ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere alla carica. Non lo avevano fatto perché davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto per quella carica. E’ necessario dare loro la possibilità di concorrere.” [65] Il ministro Martelli invia una lettera al CSM per suggerire la riapertura dei termini del concorso per il capo della DNA. “In seguito alla tragica scomparsa di Giovanni Falcone – scrive Martelli – segnalo l’opportunita’ di riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore”. E aggiunge: “Prego considerare che la proposta e’ dettata da spirito costruttivo in relazione all’ esigenza di permettere la partecipazione al concorso” di tutti gli aspiranti. Secondo il ministro, “ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere perche’ davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto a quella carica”. La prima reazione ufficiale da parte del CSM é del consigliere Gianfranco Viglietta (Magistratura democratica), il quale mostra un senso di sorpresa davanti all’ iniziativa del ministro. “Nella storia del diritto amministrativo – dice Viglietta – non si é mai vista una cosa del genere. Non ci sono precedenti. Sono molto perplesso. Pero’ preferisco non aggiungere altro, perché con l’aria che tira é meglio stare zitti. Ad ogni modo, c’é una richiesta formale, la valuteremo in Consiglio e poi si vedra’.” [66]
Giovedì 28 maggio 1992 Alla presentazione a Roma del libro “Gli uomini del disonore” di Pino Arlacchi al tavolo siedono Vincenzo Parisi, Pino Arlacchi, Vincenzo Scotti, Paolo Borsellino e Leonardo Mondadori. Al termine della presentazione del libro si parla di Falcone e della superprocura, dal pubblico viene una domanda: “Dottor Borsellino, prenderebbe il posto di Falcone?” Borsellino esita alcuni secondi poi replica: ”No, non ho intenzione…”. A sorpresa interviene il ministro Scotti che dichiara: “Lo candido io. Con il collega Martelli abbiamo chiesto al CSM di riaprire i termini del concorso ed invito formalmente il giudice Borsellino a candidarsi.” Borsellino è imbarazzato ma dal suo viso trapela un’indignazione senza confini: ”Non so … comunque, nel caso dovesse esser proposto il mio nome, sarà necessario procedere alla riapertura dei termini per la presentazione delle candidature.” [67]
Appena rientrato a Palermo Borsellino parla con il suocero Angelo Piraino Leto e gli chiede un consiglio sul modo migliore per respingere la proposta di Scotti. L’improvvida uscita del ministro sconvolge Borsellino, perché né il Ministro degli Interni né altri gli hanno chiesto preventivamente un’opinione. Inoltre esporlo in questo modo equivale a metterlo nel centro del mirino mafioso. Uno dei più probabili scopi della strage di Capaci era infatti stato quello preventivo, cioè la mafia aveva voluto bloccare la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Pochi giorni dopo Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il maresciallo Canale con queste parole: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”. [68]
Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, ha testimoniato che la sera di quello stesso giorno era a tavola con altri associati all’organizzazione Cosa Nostra quando il TG3 trasmise le immagini di una conferenza stampa in cui Scotti e Martelli esposero la richiesta al CSM di riaprire il concorso per la Superprocura facendo esplicitamente il nome di Paolo Borsellino. All’udire queste parole Madonia esclamò: ”E murì Bursellinu”. [69] La proposta di Scotti e Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore (ufficializzata da una lettera inviata dal ministro Martelli al vice-presidente del CSM Galloni e sostenuta dai repubblicani) è peraltro destinata a morire prima di nascere. Infatti la legge prevede che i termini del concorso possano essere riaperti solo nel caso in cui i candidati proposti dalla commissione per gli incarichi direttivi del CSM siano bocciati dal plenum. Sono pesantemente rafforzate le misure di sicurezza attorno al PM milanese Antonio Di Pietro in seguito ad alcune attendibili minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia.
Il CSM nomina Procuratore Capo di Caltanissetta il magistrato Giovanni Tinebra. Domenico Sica, prefetto di Bologna ed ex-alto commissario antimafia, rilascia un´intervista relativa ai suoi rapporti con Giovanni Falcone. “Una delle storie – afferma Sica – che piu’ mi hanno fatto arrabbiare, anche se sarebbe meglio usare una parola piu’ greve, e’ quella che fra me e Falcone ci fosse continuamente un conflitto e qualche breve periodo di pace. Non e’ vero, abbiamo lavorato insieme una ventina d’anni, ognuno facendo la sua parte, in un rapporto di sana dialettica. Se vi erano disaccordi si discuteva, poi a volte qualcuno cambiava idea, perche’ solo gli stupidi non la cambiano mai”. Falcone, per Sica, non era stato solo. “La solitudine – ha spiegato – e’ la condizione obbligata per un giudice che lavora seriamente. Ma nella sua attivita’ ministeriale, che e’ un lavoro di equipe, non poteva essere isolato. Nelle ultime conversazioni non mi era sembrato angosciato anche se ovviamente aveva messo in conto i rischi della professione. Poteva sembrare accigliato, ma in privato si poteva scherzare di tutto, anche di cose orribili, per sdrammatizzare”. Non sa, Sica, se come dicono negli USA l’attentato e’ una prova di debolezza delle cosche, sgradito per giunta a Cosa Nostra. “Voglia Iddio che si tratti di un segno di decadenza. Se e’ un colpo di coda creera’ malumore, e si potrebbe aspettare una serie di morti ammazzati”. Non e’ stata nemmeno necessaria secondo Sica la presenza di una “talpa”: chiunque avrebbe potuto vedere l’elicottero che volava sopra il corteo blindato. Ma contro la mafia il prefetto ha un rimedio: l’infiltrazione nel suo ambiente, la piu’ tradizionale opera di intelligence per sapere in anticipo cio’ che il nemico ha in mente.[70] Domenico Sica cita un elicottero che avrebbe sorvolato lo svincolo su Capaci nell´immediatezza della strage il 23 maggio. La stampa ha infatti dato notizia di un veivolo che sarebbe stato notato il giorno della strage, un Piper, in giro sull’asse dell’autostrada per Palermo proprio alle ore 17.58.[71]
Venerdì 29 maggio 1992 Paolo Borsellino riguardo alla sua possibile candidatura alla guida della DNA dichiara: ”Nessuno ha chiesto la mia disponibilità.” [72]
I colleghi della Procura di Palermo che gli sono più vicini invitano Borsellino a respingere l’offerta fattagli dal ministro perché lo ritengono cento volte più utile come procuratore aggiunto a Palermo che come Superprocuratore a Roma. Antonio Ingroia e Vittorio Teresi scrivono un documento in cui chiedono formalmente a Borsellino di rimanere. Lo firmano Roberto Scarpinato, Alfredo Morvillo, Gioacchino Scaduto, Leonardo Guarnotta, Gioacchino Natoli. Paolo Borsellino approva inizilamente l’iniziativa, corregge persino alcune frasi che possono sembrare polemiche. “Finalmente l´appello fu partorito e si decise che sarebbe stato dato alla stampa il lunedí, e poi sarebbe seguita la sua adesione” ricorda Antonio Ingroia.[73]
Il Ministro Claudio Martelli rilascia una dichiarazione a proposito della candidatura di Borsellino alla guida della DNA: “Non intendo fare nomi. Non mi faccio intrappolare.” [74]
Anche il ministro Enzo Scotti precisa di non aver presentato candidature: “Ma come responsabile dell´ordine e della sicurezza, posso auspicare che la Dna sia messa quanto prima in condizione di operare e nel modo migliore. Ho sollecitato Borsellino a candidarsi, mi sono augurato e mi auguro che lo faccia”. [75]
A palazzo dei Marescialli, sede del CSM, i magistrati assistono con fastidio al balletto delle ingerenze istituzionali sulla Superprocura, tra riaperture dei termini, candidature e smentite. “La gravita´ della situazione impone determinate scelte, ma certe regole vanno rispettate”, avverte Ernesto Stajano, presidente della commissione incarichi direttivi. La candidatura anomala di Borsellino é stroncata. “Se non é certo discutibile il valore dell´uomo, non immagino in quale ordinamento giuridico possa inquadrarsi l´eventuale riapertura del concorso – gli fa eco Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore a Catania – inoltre rimangono immutate le perplessitá sull´utilitá di una struttura come la cosiddetta Superprocura.” Si schiera con il governo, invece, il procuratore di Nicosia Giovanni Tinebra, che a breve sostituirá il procuratore Celesti a Caltanissetta: é l´occasione – dice – per non disperdere ed utilizzare al meglio l´esperienza maturata da Borsellino accanto a Giovanni Falcone in piú di un decennio di lotta alla mafia. Il paese chiede una risposta forte e credo che il CSM saprá darla nell´ambito delle sue responsabilitá istituzionali.” [76]
Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica: ”La condanna a morte di Falcone era programmata da tempo. E’ stata anche rinviata ad un certo punto. Poi è diventata improrogabile. E questo per due motivi: la decisione della Cassazione a gennaio di confermare gli ergastoli ai capi della cupola (Michele Greco, Salvatore Riina, Francesco Madonia e Pippo Calò) e la quasi certa nomina di Falcone a superprocuratore. Va precisato che una strage come quella di Capaci, così eclatante, così spettacolare, non è mai nell’interesse della mafia. Chi sta in galera e l’ha ordinata non corre rischi, ma a venire assediati dalla reazione dello Stato sono i mafiosi che stanno fuori e questo altera equilibri ed alleanze. Non ho dubbi che dovremo aspettarci altri delitti eccellenti. Potrà toccare ad un magistrato, ad un ministro, ad un poliziotto. Ci sarà la guerra adesso, un terremoto che potrebbe rovesciare il patto di ferro dei vincenti che dura ormai da 15 anni. E adesso ci saranno sicuramente molte azioni diversive nel resto d’Italia per allentare la pressione dello stato su Palermo.” [77]
Sabato 30 maggio 1992 In un comunicato diffuso dagli uffici di Via Arenula si afferma che “il Ministro Martelli non ha mai avanzato la candidatura del procuratore Borsellino a capo della DNA. Il guardasigilli ha solo chiesto la riapertura dei termini per il concorso a quell’incarico e si rifiuta categoricamente di fare candidature.” [78]
La Commissione incarichi direttivi del CSM boccia la proposta Scotti-Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore della DNA. La decisione verrá trasmessa al plenum del CSM che delibererá in maniera definitiva.[79]
Domenica 31 maggio 1992 In serata Paolo Borsellino telefona ad Antonio Ingroia: “Sai”, dice, “ho ripensato al vostro documento, è meglio non far nulla. Ho parlato con Giammanco, mi ha dato un consiglio che penso vada seguito. Questa vostra lettera potrebbe farmi diventare il parafulmine del contrasto tra il ministro di Grazia e Giustizia ed il CSM sulla scelta del superprocuratore. Il mio no potrebbe essere strumentalizzato nel braccio di ferro tra il CSM e Martelli sul nome di Cordova. La vostra presa di posizione potrebbe dare spunto ad altri per insistere sul mio nome, è un circolo vizioso in cui non voglio entrare.” [80]
Borsellino, dopo essersi consultato con il suocero Angelo Piraino Leto, ex presidente del tribunale, con fama di insigne giurista, scrive una lettera privata al Ministro Scotti in cui rifiuta in modo cortese ma fermo la candidatura a superprocuratore nazionale antimafia. Lascia poi al Ministro la decisione se divulgare oppure no la notizia ed i contenuti della missiva:
Onorevole signor ministro, mi consenta di rispondere all´invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l´eventuale assunzione dell´ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorissisimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell´incarico, ovvero si considerarono non leggittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che é sicuramente quella piú direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalitá mafiosa. Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all´eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera. RingraziandoLa sentitamente. Paolo E. Borsellino [81]
La lettera rimarrà riservata. Scotti farà cenno al rifiuto di Borsellino solo dopo la strage di Via D’Amelio in un’intervista a Panorama.
Borsellino ha rifiutato, e nessuno lo sa. Contesta il metodo, ma ora inizia a difendere nel merito quella stessa struttura che, vivo Falcone, aveva criticato insieme con la grande maggioranza dei suoi colleghi. La strage di Capaci é lo spartiacque che ribalta i ragionamenti, scardina le convinzioni piú solide, costringe a guardare in faccia una Cosa Nostra mai vista prima, che con il tritolo punta al cuore dello stato. Borsellino é solo, non c´é piú Falcone con cui scambiare notizie ded impressioni, ma del suo amico, adesso, si sente in dovere di difendere pubblicamente le strategie antimafia. Intervistato dal Gr1 dice: la Superprocura voluta da Giovanni Falcone “avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operó nel suo periodo migliore il pool antimafia di Palermo.” Borsellino sottolinea la continuitá tra il pool antimafia e la superprocura, nella metodologia di lavoro adottata da Falcone, e ricorda come erano state proprio le conseguenze della gestione “del tutto insoddisfacente” delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone, dopo la dissoluzione del pool, ad avere “inciso enormemente sulla decisione di Giovanni Falcone di lasciare la Procura di Palermo, perché si era reso conto che con una visione cosí parcellizzata del fenomeno mafioso (il procedimento che ne scaturí venne diviso in dodici tronconi ndr) da un´unica sede giudiziaria non fosse possibile ripetere quello che era successo nella fase originaria e di sviluppo del maxiprocesso.” [82] Filtrano le prime indiscrezioni su un decreto anticriminalitá che i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli dovrebbero presentare in consiglio dei ministri la settimana successiva. In primo luogo, nelle inchieste su fatti di mafia sara’ concesso un tempo piu’ lungo per le indagini preliminari: un anno e non soltanto 6 mesi. Inoltre le forze di polizia avranno la possibilita’ di muoversi con una maggiore autonomia. Attualmente hanno l’obbligo di informare l’autorita’ giudiziaria entro 48 ore, fornendo tutto il materiale raccolto. Invece verra’ loro concesso di operare con piu’ tranquillita’ e informare “senza ritardo” il magistrato. Poi provvedimenti in favore dei pentiti riguardo la sicurezza personale e la possibilita’ di avere una vita al riparo dalle vendette. Infine un rafforzamento degli organici degli agenti di custodia, duemila guardie in piu’.[83]
Lunedì 1 giugno 1992 Il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara invia una serie di lettere al procuratore Giammanco, all’aggiunto Borsellino, ai sostituti Lo Voi e Natoli ed al presidente della corte di assise Pasquale Barreca in cui ritratta tutte le accuse fatte ai mandanti dell’omicidio Lipari.
Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Borsellino in via Cilea a Palermo. E’ una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i famigliari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i famigliari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà l’appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente.[2]
Martedì 2 giugno 1992 All´indomani della strage di Capaci, per Borsellino e´ scattato il piano di protezione. In prefettura si studiano le abitudini del Magistrato e si scopre che durante la settimana ha tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la visita all´anziana madre. Viene rafforzata la vigilanza in via Cilea, davanti all´abitazione di Borsellino, dov´e´ impossibilie posteggiare, cosi´ come davanti alla chiesa. Al magistrato viene assegnata un´altro auto di scorta. Ma gli agenti di scorta sollecitano invano l´istituzione di una zona rimozione in via D´Amelio, dove il magistrato va spesso a trovare la madre. In quella strada, un budello chiuso tra due palazzi, restano parcheggiate tre file di auto: ai bordi dei due marciapiedi e persino al centro della carreggiata.
E quella mattina di giugno, affacciata al balcone del quarto piano di via Mariano D´Amelio, dove abita con la figlia Rita, Maria Lepanto, l´anziana madre del giudice Borsellino, si accorge di movimenti sospetti di “gente strana” nel giardino adiacente al palazzo, oltre un muro di cinta non molto alto. Con una telefonata avverte il figlio Paolo che invita la polizia a dare un´occhiata. All´alba del giorno dopo arriva sul posto una squadra di agenti guidati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera. Scoprono alcuni cunicoli nascosti sotto il manto stradale con tracce di presenze recenti.
L´allarme in via D´Amelio e´ costante, i famigliari di Borsellino, nei giorni successivi all´attentato di Capaci, vivono in tensione, sono preoccupati, stanno all´erta. Ricorda Rita Borsellino: “Subito dopo la strage Falcone, io stessa avevo avvertito le forze dell´ordine della presenza in via D´Amelio di una macchina abbandonata, con i finestrini abbassati; dovetti segnalarlo due o tre volte prima che venisse un carro attrezzi a portarla via.[3]
La terza commissione del CSM accetta la disponibilità offerta dai due magistrati Carmelo Petralia e Francesco Paolo Giordano di affiancare il procuratore di Caltanissetta Celesti ed il sostituto Polino che stanno indagando su Capaci.
Giovedi´ 4 giugno 1992 Dopo l´uccisione dell´eurodeputato Salvo Lima, per “capire”, per esplorare le informazioni di coloro che all´interno di Cosa Nostra hanno vissuto per anni, la Procura della repubblica di Palermo decide di interrogare negli Stati Uniti i pentiti Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. Giammanco decide che due sostituti procuratori, i cui nomi non vengono resi noti, partiranno alla volta degli USA, dove Buscetta e Mannoia sono sotto regime di protezione da parte delle autorita´ federali. La decisione assunta in procura, finalizzata non soltanto ad un tentativo di lettura del delitto “dall´interno” del sistema di relazioni di Cosa Nostra, ma anche alla ricognizione di come questo sistema si rapporti con la politica, si concretizza dopo la strage di Capaci. Ma poi subisce uno stop improvviso. Borsellino si propone a Giammanco per effettuare personalmente la rogatoria. L´obiettivo e´ superare le reticenze di don Masino sui rapporti tra mafia e politica. Il procuratore di Palermo inizialmente esita: Borsellino, formalmente, ha solo la competenza per indagare sulla mafia di Trapani ed Agrigento. Ma l´aggiunto insiste: e´ convinto che don Msino ha da raccontare molte cose utili sull´uccisione del proconsole di Andreotti in Sicilia. Poi, ad un tratto, Giammanco cede: una mattina di inizio giugno chiama Borsellino, e lo autorizza alla partenza. Lui e´ stupito di aver ottenuto la possibilita´ di partecipare alla rogatoria. Prenota il volo per le prime pre del pomeriggio dell´indomani, fissa la camera in albergo, si prepara per il viaggio. La sera, a casa, riempie una valigia, appronta una serie di appunti, legge, si documenta. Il giorno dopo, pero´, si ferma tutto. Borsellino torna a casa all´ora di pranzo e chiede ad Agnese: “Che si mangia?” Lei resta interdetta: “Ma come? Stai per partire e vuoi sederti a tavola?” E lui, laconico: “Non parto piu´”. Non dice nient´altro, non fornisce spiegazioni. “Mio marito – ricorda Agnese – si sedette a tavola, e guardando il TG che dava gia´ la notizia della sua partenza per gli Stati Uniti, sorrise amareggiato”. La rogatoria negli USA per sentire Buscetta si fara´ molti mesi piu´ tardi, quando Borsellino sara´ gia´ morto, Giammanco non sara´ piu´ procuratore, e a Palermo si sara´ insediato ormai Giancarlo Caselli. Ancora una volta, l´intuizione di Borsellino si rileverá esatta: le nuove dichiarazioni di don Masino verranno considerate “esplosive” ed apriranno uno squarcio sul connubio mafia-politica, dando roigine all´inchiesta giudiziaria su Giulio Andreotti. [6]
Il plenum del CSM boccia definitivamente a larga maggioranza la proposta del ministro dela giustizia Martelli di riaprire i termini per il concorso alla guida della superprocura nazionale antimafia.[7] L´unica strada aperta per il governo rimane quella di un decreto ad hoc che riapra i termini.
Venerdi´ 5 giugno 1992 Sono giorni plumbei, Borsellino li trascorre con il cuore in pena, sempre alla ricerca di tracce che possano portarlo sulla pista piu´ vicina alla verita´ della strage di Capaci. Eppure, di tanto in tanto, qualcosa lo conforta, ed e´ la sensazione che la gente di Sicilia sia dalla sua parte, dalla parte dei giudici onesti, dalla parte di chi cerca, disperatamente, di salvare il paese dalla deriva del terrore, di restituirlo alla legalita´. Racconita Ingroia che uan sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente lo raggiunge in pieno.
“Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di piu´. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di si´. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. “Sai Antonio”, mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, “stavo per mettermi a piangere anch´io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco.” Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricordera´ per sempre. La chiamera´ “la cena degli onesti”. [8]
Il Pds si schiera a favore della proposta del ministro Claudio Martelli di riaprire i termini per il concorso a capo della Dna ed appoggia la candidatura di Paolo Borsellino: “la candidatura di Paolo Borsellino alla guida della Superprocura é seria e potrá diventare attuale se si riapriranno i termini del concorso”. [9]
Durante un´operazione condotta dalla squadra mobile di Milano vengono arrestati nel capoluogo lombardo Vesna Turk e Brisa Basic, 25 e 23 anni, di Belgrado, incensurati e Wilson Palokaj, un albanese di 25 anni con precedenti penali. Nell´abitazione dei tre vengono sequestrati due pani di esplosivo al plastico ed una bomba anticarro, mentre nell´autovettura del Palokaj vengono recuperati 25 candelotti di dinamite. Sempre nell´abitazione viene rinvenuta una piantina in cui sono evidenziati sette luoghi della cittá: tre stazioni ferroviarie (la Centrale, Porta Garibaldi e Porta Vittoria), Piazza Duomo, le sedi della Sip in via Melchiorre Gioia e in via Gallarate, il carcere di San Vittore. Gli inquirenti si mostrano molto cauti nell´avanzare ipotesi e nell´accreditare una voce circolata poco dopo l´operazione secondo la quale uno dei possibili obiettivi avrebbe potuto essere il PM Antonio Di Pietro, che in quei giorni frequentava assiduamente il carcere di San Vittore per condurre degli interrogatori. Fra gli atri documenti sequestrati gli investigatori rinvengono anche un numero telefonico che porta ad una “famiglia” corleonese con base a Milano. Un sottufficiale delle forze dell´ordine si lascia scappare: “Un circolino su piazza Duomo, tre sulle stazioni… Luoghi privilegiati da chi ha in mente una strage”. [10]
Domenica 7 giugno 1992 Ai funerali di Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta c´é stato un grande assente: il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Lo fa notare il deputato del Pri Giuseppe Ayala, ex pm di Palermo, nel corso di una cerimonia di commemorazione di Falcone, organizzata a Milano. Il senatore Claudio Vitalone, sottosegretario agli esteri, non perde tempo e lo attacca: “Ayala ha inspiegabilmente dimenticato che proprio quel giorno il presidente Andreotti era impegnato davanti al parlamento per rispondere alle interrogazioni di tutti i gruppi politici sul criminale agguato. Ma quel che piú addolora e sorprende é che proprio Ayala, nell´odiosa sortita, abbia mostrato di dimenticare quanto l´opera di Falcone sia stata sostenuta, incoraggiata e valorizzata dal governo Andreotti che a essa ha legato numerosissime iniziative per la lotta alla criminalité mafiosa, affidando a Falcone nel medesimo ambito compiti e responsabilitá di primario rilievo anche sul piano internazionale.” [12] Sempre il sottosegretario Vitalone, ex magistrato della procura di Roma ed ex vicepresidente della commissione antimafia, si autocandida a sorpresa alla guida della Superprocura. In un´intervista al settimanale Panorama dichiara: “Per dirla tutta la Superprocura l´ho inventata io una decina di anni fa. In un disegno di legge dell´aprile 1981 sulle misure penali e processuali relative al terrosrismo, teorizzavo giá la necessitá e l´urgenza di un unico ufficio giudiziario per dare nuovo impulso e miglior coordinamento all´azione degli organi di polizia. Oggi si tratta di mafia e non di terrorismo ma il principio ispiratore é lo stesso.” [13] Nella notte un attentato intimidatorio viene compiuto contro gli uffici di polizia del quartiere San Lorenzo, il “regno” della famiglia Madonia. Una Citroen “Dyane” rubata poco prima nei pressi della Fiera del Mediterraneo viene incendiata all’ingresso del commissariato. Qualche secondo dopo una telefonata al 113 chiarisce ulteriormente il significato di quell’avvertimento incendiario: “Se non la finite vi diamo pugni in testa”. Gli investigatori sembrano escludere che Cosa Nostra sia l´autrice dell´attentato e puntano l´attenzione verso la piccola criminalitá dello Zen di Palermo, ma la tensione resta comunque alta.[14]
Lunedì 8 giugno 1992 La Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Carnevale annulla i mandati di cattura per Mario Battaglini e Francesco La Ruffa affermando che l’articolo 416-bis non è applicabile nel caso un cui sia accertato solo uno scambio di voti fra mafia e politica senza che questo si sia tradotto in un concreto aiuto dei politici per le cosche.
Il Consiglio dei ministri approva il Decreto antimafia Scotti-Martelli:
- Il tempo massimo delle indagini preliminari viene portato ad un anno (prolungabile di altri 12 mesi per le inchieste più complesse) per i delitti di mafia ed i reati connessi.
- Vengono inasprite le pene per chi si rende colpevole di falsa testimonianza di fronte alla AG.
- Vengono introdotte le norme di attuazione di una legge sui pentiti del gennaio 1992 sulla protezione di chi abbandona l’organizzazione criminale. Altre norme del decreto-legge consentono di evitare, salvo che sia assolutamente necessario, ripetute audizioni dello stesso testimone nei vari processi collegati. Saranno acquisiti i verbali di testimoni ascoltati all’ estero e quelli di altri procedimenti.
- Vengono limitati i permessi per i detenuti di mafia.
- La polizia giudiziaria deve riferire senza ritardo all’AG una notizia di reato acquisita e non più entro 48 ore, può accogliere successivamente altri elementi utili alle indagini anche senza l’autorizzazione del PM.
- Non sarà più necessario dimostrare in ogni processo di mafia l’esistenza dell’associazione criminale Cosa Nostra in quanto ci si potrà rifare a sentenze già passate in giudicato che abbiano riconosciuto tale organizzazione.
- Viene introdotto nell´ordinamento penitenziario l´articolo 41bis, il regime di carcere duro riservato ai detenuti per reati di mafia: “Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica anche a richiesta del ministro degli interni, il ministro di grazia e giustizia ha altresi´ la facolta´ di sospendere, in tutto od in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell´articolo 416 bis, l´applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.” Ma non solo. Il testo limita notevolmente i diritti dei detenuti protagonisti di atti eversivi. A parte i collaboratori di giustizia, tutti gli altri potranno ottenere i benefici “solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalita´ organizzata o eversiva.” Esclusa ovviamente qualsiasi possibilita´ di concessione delle misure “quando il procuratore nazionale antimafia od il procuratore distrettuale comunica, d´iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l´ordine e la sicurezza pubblica, l´attualita´ di collegamenti con la criminalita´ organizzata.”
Dopo aver elencato alcune nuove disposizioni in materia di colloqui a fini investigativi con detenuti di ufficiali di polizia giudiziaria, del procuratore nazionale antimafia e di funzionari dell´Alto commissariato per la lotta alla mafia, il decreto stabilisce l´aumento di duemila unitá dell´organico del Corpo di polizia penitenziaria. Con questo provvedimento, che contiene fra l´altro l´aumento di duemila unita´ dell´organico del Corpo di polizia giudiziaria, il governo pone le premesse per un duro giro di vite nelle carceri, che scattera´, tuttavia, solo dopo il sacrificio di Paolo Borsellino.[15]
I primi risultati concreti del decreto governativo non sono incoraggianti: complessivamente vengono ricondotti in carcere 240 soggetti che per la maggior parte godevano dell’istituto della semilibertà (52 in Calabria, 37 in Sicilia, 32 in Sardegna e 39 in Lombardia). Si tratta quasi esclusivamente di “soldati”, nessun boss di spicco compare nella lista.
Il decreto non contiene nulla in merito alla riapertura dei termini per il concorso a Superprocuratore nazionale antimafia, problema che verrá affrontato sotto forma di emendamento al decreto stesso quando sara’ discusso in Parlamento per la conversione in legge. Nel frattempo, il 30 giugno, la Corte costituzionale affrontera’ il conflitto sorto tra Csm e ministro della Giustizia e la soluzione giuridica che verra’ trovata sara’ utilizzata per allargare anche ad altri giudici, oltre a Cordova e Lojacono, la rosa dei candidati alla carica di Superprocuratore antimafia. Il quotidiano Corriere della Sera indica ancora Paolo Borsellino come candidato prescelto dal governo.[16]
Dagli USA arrivano in Italia i riconoscimenti al lavoro di Falcone. Da Washington giugne a Roma il direttore del FBI William Sessions, che incontra il ministro Martelli e poi visita l´ufficio al ministero che fu del direttore generale degli Affari penali assassinato nella strage di Capaci. Il direttore del FBI annuncia che l´amministrazione Bush senior ha deciso di dedicare a Falcone una lapide commemorativa; verra´ sistemata nello stesso ufficio di Washington dove, proprio alla presenza di Falcone, fu istituito il gruppo di cooperazione italoamericano per la lotta alla criminalita´ mafiosa.[17]
Si insedia a Caltanissetta il pool di magistrati che collaborera’ alle indagini sulla strage di Capaci. Si tratta dei sostituti Paolo Giordano e Carmelo Petralia, provenienti dalla Procura della Repubblica di Catania, e di Pietro Vaccaro, che prestava servizio in quella di Messina: affiancheranno il collega Francesco Polino, unico sostituto rimasto a Caltanissetta, sotto le direttive del Procuratore Salvatore Celesti, titolare dell’ inchiesta. Uno dei sostituti sara’ inviato a Palermo per seguire da vicino gli sviluppi dell’ indagine.
Martedì 9 giugno 1992 Paolo Borsellino e´ Roma: in mattinata va alla Dia, e poi all´alto commissariato antimafia, di pomeriggio vede il sociologo Pino Arlacchi. Alla sera, alle 19, rientra a Palermo. Qui, un gruppo di cittadini, organizza una prima resistenza civile antimafia. Nasce il comitato dei lenzuoli, un´associazione di persone che espongono alle finestre ed ai balconi di casa lenzuoli bianchi con scritte antimafia. E´ un movimento sorto spontaneamente dopo la strage di Capaci per evitare “che il tragico evento venga riassorbito nella normalita´ e nell´indifferenza”. Dietro la sua organizzazione c´é Giuliana Saladino, ex giornalista a “L´Ora” in pensione, scritttrice di libri inchiesta, spirito battagliero ed appassionato.
Roberto Scarpinato, PM di Palermo, commenta con queste parole il decreto Scotti-Martelli: “Questa è una legge sporca di sangue. Non mi sembra che tutto questo segni un salto di qualità nella lotta alla mafia, sono leggi che noi chiediamo da anni. Come avevamo chiesto la legge La Torre, la legge sui pentiti dopo l’omicidio del giudice Livatino, non è che noi giudici abbiamo cominciato a riflettere su queste cose solo dopo la strage di Capaci. Ecco perché dico che queste leggi sono sporche di sangue, sono profondamente indignato…Condannare o sbattere in galera 30, 40, 50 persone significa che noi cerchiamo di svuotare il mare con un secchiello. Se davanti ad un massacro come quello di Capaci, che rappresenta il punto massimo di tensione che può raggiungere questo paese, questo è il massimo che riusciamo a produrre, allora vi dico che sono scoraggiato. Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti.” [19] Scarpinato chiede anche la rimozione del questore di Catania che aveva inviato a Palermo il giorno successivo alla strage di Capaci una segnalazione fatta il 21 maggio su un possibile attentato dinamitardo da effettuarsi su un’autostrada siciliana. “La cosa che mi scandalizza di più” dice Scarpinato ”è che questa persona resti al suo posto, qui nessuno paga per qualcosa, ci troviamo di fronte a persone assolutamente incapaci e queste restano al loro posto”. Cicala, presidente dell’ANM, afferma: ”E’ necessaria una sistematica trasformazione degli strumenti repressivi, non è sufficiente la frettolosa elaborazione, dopo ogni omicidio, di un pacchetto di misure da esporre in televisione.” [20] Giuseppe Di Lello, GIP di Palermo: ”Sono provvedimenti incisivi per chi è già detenuto, ma il problema non sta qui. Ci si aspettava non solo modifiche del codice di procedura penale, ma anche qualcosa che incidesse sull’accumulazione mafiosa, sulla trasparenza…abbiamo fallito con il codice Rocco, ma torniamo proprio a quello, si accentua la repressione ma il problema non è la repressione. E dopo l’ondata repressiva quelli sono più forti di prima.” [21] Ma anche il giudizio dell´intera magistratura italiana é negativo. “La positiva valutazione di singole disposizioni contenute nel recente decreto antimafia non puo´ far dimenticare le responsabilita´ di chi ha atteso una strage per assumere iniziative da tempo suggerite dagli operatori del settore” affermano Mario Cicala, Franco Ippolito e Giovannni Tamburrino, rispettivamente presidente, segretario generale e vicepresidente dell´Associazione nazionale magistrati (Anm), in un comunicato diffuso dalla stampa. Secondo la linea del sindacato dei magistrati, il “necessario presupposto di un´efficace lotta alla mafia e´ la rescissione degli intrecci tra settori politici, affari e criminalita´ organizzata.” L´Anm parla sulla base “delle concrete sperienze dei magistrati impegnati in processi di criminalita´organizzata” e sottolineando che “tale giudizio e´ oggi autorevolmente ribadito dal Parlamento europeo”, ricorda che l´Associazione, “sin dalle assemblee seguite all´uccisione di Rosario Livatino e di Antonio Scopelliti, ha elaborato un insieme di puntuali proposte, di cui solo una parte viene oggi recepita nel decreto legge.” [22] La manovalanza criminale, pero´, manifesta gia´ tutto il suo scontento. La falange armata, sigla che gia´ rivendico´ la strage di Capaci, riappare in una misteriosa intimidazione ai direttori delle carceri. Una telefonata anonima giunge alla redazione dell´ANSA di Palermo. Un uomo, con uno spiccato accento catanese, riferendosi ai provvedimenti adottati dal governo, dice: “Quelli della Falange armata, i politici, hanno ottenuto quello che volevano, noi no.”
Alla domanda “Noi chi?”, l´anonimo risponde: “E ora lei lo capisce; certe cose non sono state rispettate, percio´ noi non rispetteremo piu´ i loro interessi.”
L´anonimo aggiunge che il carcere non si doveva “toccare” e quindi rivolge una minaccia a quattro direttori di carceri. Gli investigatori non attribuiscono particolare importanza alla telefonata. E forse, stavolta, sbagliano. Le restrizioni carcerarie, quelle che non sono ancora operative e che diventeranno (ma solo piu´ avanti) la materia del 41bis, sono, da subito, lo spauracchio che gli strateghi occulti dello stragismo, in combutta con i capi di Cosa Nostra, agitano davanti agli occhi dei manovali mafiosi per manipolarli, farli infuriare e spingerli a portare avanti l´offensiva di sangue.
Ma alcuni interrogativi meritano di essere qui posti: a cosa si riferisce l´anonimo telefonista quando allude alle “cose” che “non sono state rispettate”, ovvero il carcere che non si doveva “toccare”? A quale patto? Siglato tra quali interlocutori? Chi aveva promesso qualcosa? E che cosa? Chi aveva promesso che il carcere non si doveva toccare, e cioe´ che dopo la strage di Capaci non vi sarebbe stato un trattamento piu´ duro per i mafiosi detenuti? E a chi era stata fatta questa promessa? [23] Martelli sollecita il CSM a sospendere il giudice Di Pisa dopo che questi è stato condannato in primo grado come “il corvo” di Palermo. In realtà la data per la discussione del caso al CSM è già stata fissata da tempo.[24] Due auto rubate con a bordo ciascuna tre individui vengono intercettate da un vigile di fronte al palazzo di giustizia di Catania. Quando il vigile si avvicina per un controllo le auto fuggono. Poco prima era entrato il magistrato Felice Lima con la scorta.
Venerdì 12 giugno 1992 Paolo Borsellino incontra il collega Vittorio Aliquo´, anche lui procuratore aggiunto a Palermo, fuori dall´orario di lavoro, alle 20.30, e soprattutto fuori dall´ufficio: lo va a trovare a casa, per una chiaccherata a quattr´occhi. Di cosa parlano? Dice Aliquo´: “Solo di ferie. Si approssimava il periodo delle vacanze e dovevamo metterci d´accordo sui turni. Paolo mi disse: parti tu, e quando torni, vado in ferie io.”
Proprio in quei giorni, intanto, ha annunciato la sua decisione di collaborare Leonardo Messina, l´ex picciotto di San Cataldo, che nei mesi successivi svelera´ ai magistrati il piano di un golpe messo a punto da una cupola di corleonesi, esponenti della massoneria deviata, e uomini dei servizi, per trasformare l´Italia, dopo il crollo dei partiti tradizionali, in una federazione di regioni asservita ai poteri criminali. I due aggiunti vengono incaricati di incontrare il detenuto per raccoglierne le dichiarazioni. Aliquo´ ricorda: “Con Paolo, quella sera, parlammo anche degli imminenti interrogatori del nuovo pentito, cercando di stilare un calendario.” Borsellino segna l´incontro sulla sua agenda .[26] Il Viminale apre un’inchiesta sulla gestione della questura di Catania e toglie al vice-questore Vincenzo Roca l’indagine sul mancato allarme della strage di Capaci affidandola ad un pool di investigatori provenienti da Palermo e da Roma. Vincenzo Calcara conferma le sue accuse alla mafia di Castelvetrano. Descrive una seconda volta il progetto per uccidere Paolo Borsellino con un fucile di precisione o con un’autobomba sull’autostrada Trapani-Palermo. Ed aggiunge: “Le cosche non perdoneranno mai al giudice Borsellino di aver messo in ginocchio una della famiglie piú potenti di Trapani”. Calcara insiste sul pentimento e sugli incontri con il giudice Borsellino: “Ogni volta che me trovo davanti, penso: guarda un po´, proprio io dovevo ucciderlo e ricordo le parole che mi disse quando gli chiesi se non avesse paura. Rispose: é bello morire per ció in cui si crede”. [27]
Sabato 13 giugno 1992 Ore 17 Falcone (Cossiga) (dall´agenda grigia di Paolo Borsellino). Agnese Borsellino non ricorda bene cosa accadde quel pomeriggio di sabato. E quando, anni dopo durante il processo Borsellino Ter, le viene chiesto di commentare l’appunto con il nome di Cossiga, ritrovato sull’agenda grigia, si limita a formulare un´ipotesi: “Quel giorno mio marito si doveva incontrare con il presidente della Repubblica Cossiga. Forse era incerto, non sapeva se si sarebbe incontrato o meno, allora l´ha messo tra parentesi.” Francesco Cossiga invece quell´incontro se lo ricorda bene. Lui, che da sole tre settimane aveva smesso i panni di capo dello stato, quel pomeriggio é a Palermo per visitare, in forma strettamente privata, la tomba di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, nel cimitero di Sant´Orsola. Cossiga, accompagnato dal prefetto Mario Jovine, depone prima un mazzo di fiori sulla tomba dei due magistrati, quindi su quella dell´agente Vito Schifani. Qui si inginocchia a pregare accanto alla vedova del poliziotto ucciso, Rosaria Costa, che ad un certo punto gli dice: “Presidente preghi forte, voglio sentir cosa dice…” poi, insieme, ad alta voce, recitano il De Profundis, un Pater ed un´Ave Maria.
Cossiga si reca poi in visita a casa dei parenti di Falcone, dove lo attendono anche quelli di Francesca Morvillo. Prima di lasciare Palermo, per rientrare a Roma, l´ex presidente della Repubblica si trattiene per trenta minuti a Villa Paino, che e´ la sede della prefettura, ma anche la residenza del governo a Palermo. Li´alle 17, incontra Borsellino. I due si stringono la mano, si accomodano su un divanetto, scambiano alcune considerazioni sull´attacco stragista che ha colpito il paese. E soprattutto, sull´antimafia dopo Falcone.
“Glielo dissi chiaro e tondo – ricostruisce oggi Cossiga – e´ inutile che si agiti: lei é il successore e l´erede di Falcone. Lei e nessun altro.” Borsellino, tornando a casa, segna l´appuntamento sull´agenda.[28]
Lunedì 15 giugno 1992 Il boss Giovanni Zichittella cade vittima di un agguato mafioso nel centro di Marsala. Un killer a volto scoperto lo uccide con 4 colpi di pistola ed un colpo di grazia alla nuca. Poi si rivolge ai testimoni e grida: ”Avete capito? Qui comandiamo ancora noi!”.[30]
Venerdì 19 giugno 1992 Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del ROS, invia un rapporto al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che numerose fonti, mafiose e non, hanno parlato di una decisione di Cosa Nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino. Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale, il Ministro della Difesa Andò e l’ex-ministro Calogero Mannino. Il rapporto numero 541 intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti” afferma che nell’ultimo anno gli organi dello Stato hanno esercitato un’indiscutibile pressione sulla criminalità organizzata, sia in termini di inasprimento normativo, che in termini di positivo impegno investigativo…nelle ultime settimane abbiamo proceduto ad una analisi dei dati disponibili, con l’obiettivo di ottenere un quadro delle strategie operative di Cosa Nostra e di individuare il movente e gli esecutori di eclatanti delitti di mafia riconducibili anche ad una precisa strategia di attacco allo Stato. Il documento cita l’uccisione del maresciallo Guazzelli, di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e degli uomini della scorta, dell’eurodeputato Salvo Lima. Poi il rapporto prosegue delineando un panorama molto preoccupante: le informazioni raccolte sia in ambienti estranei al crimine organizzato sia all’interno di quel mondo hanno consentito di ottenere da più fonti di fiducia notizia sull’esistenza di una volontà dei vertici di Cosa Nostra di opporsi con determinazione all’offensiva dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti. Il primo consiste nel fare pressioni, in forme indirette, su esponenti politici per ridurre l’impegno dello Stato contro la criminalità. Il secondo invece consiste nell’eliminare fisicamente alcuni inquirenti che si sono messi in evidenza nella recente proficua attività di repressione di Cosa Nostra. Poi il rapporto prosegue mettendo in rilievo le caratteristiche dei possibili obiettivi: gli onorevoli Calogero Mannino e Salvo Andò potrebbero essere future vittime di Cosa Nostra…il maresciallo Canale potrebbe correre pericolo per la sua incolumità poiché si è distinto in operazioni antimafia e per avere in particolare contattato alcuni esponenti di spicco della criminalità siciliana successivamente colpiti da provvedimenti della magistratura. Il Cap. Umberto Sinico correrebbe pericolo di vita per l’attività di contrasto di una delle maggiori famiglie mafiose palermitane…il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità ai vertici di Cosa Nostra. Del contenuto del documento furono subito informati i diretti interessati prima ancora che fosse completato e spedito al comando generale dei carabinieri e da questo alla Procura di Palermo, alla Prefettura, alla Questura ed all’Ufficio dell’Alto Commissariato.[36] Ai due politici fu rafforzata la scorta, il Cap. Sinico ricevette l’invito di lasciare la Sicilia, il maresciallo Canale ricevette un analogo invito ma decise di restare per motivi familiari e professionali e cominciò a girare con un’auto blindata. Borsellino vide raddoppiata la sua scorta.[37]
Sabato 20 giugno 1992 Il questore di Catania Bonsignore trasferisce d’ufficio l’ispettore capo Maravigna dalla squadra volanti ad un commissariato periferico. Il Maravigna in qualità di segretario regionale del SIULP aveva di recente denunciato in una lettera aperta le inefficienze dei vertici della questura nel coordinamento della lotta alla mafia. Giuseppe Ayala rivela durante un convegno a Genova che Falcone teneva un diario in cui aveva annotato tutto della sua recente vita professionale a Palermo: “Ho deciso quasi d’impeto, io non voglio alzare polveroni, ma non voglio neanche essere reticente. C’e’ una cosa che forse verrà fuori: Giovanni scriveva tutto. Aveva un diario puntualissimo, del quale ha messo a conoscenza – che io sappia – me ed episodicamente Paolo Borsellino. E’ una cronaca molto dettagliata del Palazzo di Giustizia di Palermo…Conoscerla, se il dischetto verrà fuori, sarebbe un ulteriore modo per rendere giustizia a Giovanni. Io non so se il dischetto è stato trovato, non ho, come è ovvio, nessuna veste per interferire nelle indagini, spero tuttavia che venga trovato e che venga letto. Io mi impegno formalmente a confermare tutte le circostanze che vi sono annotate e con me – ne abbiamo già parlato – ci sono altri magistrati di Palermo pronti a farlo. Se il diario saltasse fuori, la parola di Giovanni non resterebbe isolata perché un dovere morale ci imporrà di dire che Giovanni ha scritto la verità, che quel diario è una cronaca di storia vera, vissuta. Io spero che il dischetto salti fuori.”[38] Dal materiale sequestrato dall’autoritá giudiziaria negli uffici e nella casa di Falcone per ora del diario non vi è ancora traccia. Ma il diario purtroppo non salta fuori. Del dischetto di cui parla Ayala ha ricevuto notizie, subito dopo la strage, il magistrato titolare dell´inchiesta, Salvatore Celesti. Ma le ricerche fatte nell´ufficio di Falcone al ministero, e nelle abitazioni di Palermo e di Roma, nel corso delle perquisizioni formali, non hanno dato alcun risultato.
Tra i collehgi, le parole di Ayala provocano scetticismo: “Non ho mai sentito parlare di questo diario – afferma Gioacchino Natoli, che di Falcone fu collaboratore all´ufficio istruzione – i diari sono sempre fatti privati. Andrei molto cauto nel fare certe affermazioni. A meno che non si vogliano scambiare appunti di carattere professionale per appunti privati.” E Giacomo Conte, che ha lavorato con Falcone a partire dal 1985, aggiunge: “Non sono al corrente dell´esistenza di un diario, se vi fosse potrebbe essere una validissima chiave di lettura delle drammatiche vicende cominciate con la nomina del consigliere istruttore nel 1987 e conclusesi con la strage di Capaci.”
Altri, invece, confermano, aprendo uno scenario di veleni nei rapporti tra Falcone e le forze investigativer palermitane.
“Confermo le dichiarazioni del giudice Ayala sull´esistenza della memoria storica del giudice falcone in cui venivano annotate le percezioni od i segni della sua vita di magostrato e le percezioni ed i segni del malessere esistente nella citta´ di Palermo”, dichiara il senatore Maurizio Calvi (Psi), gia´ vicepresidente della commissione antimafia. “Me lo disse – precisa Calvi – lo stesso Falcone in occasione del viaggio della commissione a Vienna. Mi parlo´ dell´intreccio tra mafia, citta´ di Palermo e pezzi importanti delle istituzioni nel senso che lo stesso non si fidava in alcun modo della questura di Palermo ne´ del comando dei carabinieri di Palermo ne´ tantomeno di alcuni pazzi importanti all´interno della prefettura di Palermo.”
Calvi e´ un fiume in piena: “Gia´ in quell´epoca, prima dell´importante attentato nella sua villa al mare, il giudice Falcone presentiva sensi del suo malessere e della sua morte; di un giudice cioe´ che sarebbe saltato in aria a seguito dell´esistenza di questi intrecci. Falcone asseriva in quell´occasione che qualsiasi operazione nella citta´ di Palermo doveva avvenire all´oscuro di questi apparati e la stessa gestione del pentito Contorno avveniva al di fuori di quell´ambiente”. Calvi sostiene anche che “il giudice Falcone, proprio per la delicatezza ella situazione, ogniqualvolta aveva la necessita´di assumere informazioni andava direttamente presso gli uffici della questura o dei carabinieri a ritirare personalmente fascicoli proprio perche´ non si fidava in alcun modo di questi apparati.”
Il delitto Falcone “e´ potuto avvenire all´interno di questi intrecci e di questo sistema.” “Sono a disposizione – conclude Calvi – per chiarire i termini di queste delicate questioni che possono parire spaccati importanti di verita´, qualora si rintracciasse questo memoriale.”
E Borsellino? per ora non si sbottona: “Non conosco le dichiarazioni di Ayala nei suoi esatti termini, l´eventuale esistenza di appunti riservati di Giovanni Falcone non puo´ in senso assoluto essere oggetto di mie dichiarazioni. Se si trattasse di appunti personali solo i suoi famigliari potrebbero decidere di renderli pubblici. Se si trattasse di appunti utili alle indagini solo l´autorita´ giudiziaria procedente sarebbe arbitra della loro pubblicazione.”
E a Calvi replica cosi´: ” Mi auguro che Calvi e tutti quelli che sono a conoscenza di elementi utili alle indagini vadano a riferirli al procuratore della Repubblica di Caltanissetta Salvatore Celesti, invece di rilasciare dichiarazioni alla stampa.” [39]
Domenica 21 giugno 1992 Scotti è molto indeciso se accettare l’incarico di vice-presidente del consiglio con incarico agli interni ad interim. Questa pare essere la proposta di Amato e dei colleghi DC. Ma Scotti appare indeciso. “Sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace sarà l’azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo, c’è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere. Bene, a questi signori io ho già detto che io non andrò più a Palermo ad accogliere insulti e monetine al loro posto. Nessuno può pensare che, dinanzi alla guerra che bisogna scatenare alla mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nei tempi e nei consensi può proseguire il lavoro iniziato da me e da Martelli. E’ una politica che va confermata ed una legittimazione di quella politica passa per la riconferma di entrambi.” [40] I capitoli di questa strategia antimafia comprendono l’istituzione della DIA, della DNA, delle procure distrettuali, le disposizioni anti-riciclaggio, il provvedimento anti-racket, le norme sullo scioglimento dei consigli comunali inquinati dal malaffare, la legge sui collaboratori di giustizia, la riforma di alcuni articoli del codice penale per l’istituzione del cosiddetto doppio binario per processi di mafia ed ordinari. Molte di questi strumenti non sono però a regime: la legge sui pentiti manca di un regolamento attuativo, gli scioglimenti dell’amministrazione locale non hanno ancora toccato i grossi centri del mezzogiorno, la DIA tarda a decollare, la DNA ancora non c’è. Scotti avverte intorno a sé l’indifferenza della maggioranza che si prepara ad appoggiare il governo Amato e lancia un messaggio piuttosto ambiguo ai suoi colleghi di partito che a suo parere non lo sosterrebbero nella lotta alla criminalità organizzata.
Un giorno tra il 22 ed il 28 giugno 1992 Borsellino concede al giornalista Lamberto Sposini l’ultima intervista filmata della sua vita. Afferma tra le altre cose che le misure di sicurezza per lui e per la sua famiglia sono state notevolmente appesantite a causa del grave pericolo che lui corre. Nonostante tutto Borsellino conferma la sua determinazione nel proseguire il proprio lavoro, anche se ha la certezza che il prezzo da pagare sarà molto alto.
Lunedì 22 giugno 1992 Continuano le indiscrezioni sui diari di Falcone. Sia l’Espresso che La Repubblica riportano episodi che Falcone avrebbe raccolto nel diario. Si tratta della cronaca dettagliata degli ultimi mesi di Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo e dei suoi contrasti con il Procuratore capo Giammanco. Il senatore socialista Maurizio Calvi, ex vicepresidente della commissione antimafia, conferma l’esistenza dei diari di Falcone. Inoltre afferma che Falcone durante un viaggio a Vienna gli parlò dell’intreccio a Palermo tra la mafia e pezzi importanti delle istituzioni, nel senso che Falcone non si sarebbe fidato in alcun modo né della questura di Palermo, né del comando dei carabinieri di Palermo, né tanto meno di alcuni personaggi importanti della prefettura di Palermo.[41] Ayala esprime forti dubbi sulle dichiarazioni di Calvi. Nella polemica interviene anche Scotti con un articolo pubblicato sul Popolo, in cui esprime “tristezza per il diffondersi di veleni allo scopo di confondere ciò che ancora non è chiaro sulla strage di Capaci, quasi ad alimentare, secondo un’antica ed abusata tradizione, immotivatamente e con cattiveria, speculazioni e polemiche sulle Istituzioni dello Stato preposte a combattere la mafia ed ogni forma di crimine organizzato. Mi chiedo a chi e a che cosa tutto questo giovi e se non sia controproducente per l’attività investigativa degli apparati di sicurezza sapere che a loro carico si nutrono sospetti e si gettano ombre in uno scenario nel quale essi si aspetterebbero fiducia, comprensione, stimoli, collaborazione per proseguire nel loro dovere alla ricerca della verità. Fa piacere leggere, secondo le testimonianze di altri, che pure sono stati legati al giudice palermitano da strettissimi e quotidiani rapporti di collaborazione, che Giovanni Falcone era soprattutto un giudice e che tutti i suoi segreti di giudice erano e sono agli atti processuali. Occorre fare come lui, assorbire con il sorriso contrasti e polemiche, ma restare fermi e convinti che occorre continuare a percorrere la strada che, proprio anche grazie a lui, è stata tracciata nella lotta al crimine mafioso e che ora occorre rendere operativa.” [42] Vengono depositate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul maxi-processo. Viene pienamente riconosciuta la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra. Fra l’altro viene rigettata la richiesta dei difensori che invocavano la nullità della sentenza perché le dichiarazioni dei pentiti dovevano essere confermate da prove concrete: per la Cassazione il riscontro può anche essere costituito da dichiarazioni incrociate di più collaboratori di giustizia. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno poi messo sullo stesso piano l’appartenenza e la partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso. Per la suprema corte “è l’associazione nel suo insieme che deve concretare gli estremi della fattispecie penale, bastando per il partecipe l’appartenenza, con la consapevolezza che l’associazione agisce anche grazie al suo apporto.” Inizia a circolare in ambienti istituzionali palermitani una lettera anonima di otto pagine che avvelena l’aria di Palermo ponendo pesanti domande sull’attività delle forze dello stato nella lotta alla mafia in Sicilia. Il documento spiega che Lima muore per mandare un messaggio ad Andreotti mentre un altro gruppo sta scalando i vertici della politica siciliana. Si descrivono incontri tra big della DC e boss di Cosa Nostra, si afferma che Totò Riina era contrario alla uccisione di Falcone, si mischiano molti elementi palesemente falsi a mezze verità. Il risultato è quello di ammorbare l’aria della città perché si vede che l’autore del documento è comunque qualcuno che conosce attentamente la materia della quale si parla. Il Ministro Martelli rilancia la pista estera per l’indagine sulla strage di Capaci durante una visita in Sudamerica: “Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana”.[43]
Martedì 23 giugno 1992 Ad un mese dalla strage di Capaci si svolge a Palermo una grande manifestazione antimafia alla quale partecipano diecimila persone. Un cordone umano unisce il Palazzo di Giustizia e la casa del giudice Falcone in via Notarbartolo. Alla sera si svolge una fiaccolata per le vie della città. Borsellino parla alla parrocchia di Sant’Ernesto, ricorda l’amico Giovanni e gli anni del pool: “Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.” [44]
Il procuratore di Caltanissetta Celesti afferma che non c’è alcun mistero relativo al diario di Falcone, ma tra le carte ed il materiale sequestrato non compare ancora nulla che sia riconducibile alle dichiarazioni di Ayala, Borsellino, Guarnotta, La Licata e Lodato. Anche nella borsa che il giudice aveva con sé al momento della strage questo diario o meglio qualche sua traccia non sono stati trovati. Fra l’altro la borsa di Falcone è stata consegnata alla procura di Caltanissetta solo il 27 maggio dopo le proteste del procuratore Celesti. La borsa era in mano alla magistratura palermitana ed il giudice che per primo ne aveva esaminato il contenuto era stato Alberto Di Pisa insieme al collega Giuseppe Pignatone e a personale della DIGOS, stando a quanto riferito dal Di Pisa stesso.[45] Aldo Rizzo, già giudice, parlamentare del PDS e vicesindaco della giunta Orlando nel 1987, si prepara a presiedere la nuova giunta comunale di Palermo. Si tratta di un pentapartito con Dc, Psi, Pli, Psdi e Pri. La candidatura di Rizzo era stata fatta da Calogero Mannino. La Rete di Orlando si oppone nettamente. Il PDS ed i movimenti dicono pure di no ma si preparano ad una “opposizione costruttiva”.
Mercoledì 24 giugno 1992 Il Sole 24 Ore pubblica un articolo a firma di Liana Milella in cui viene riportato il contenuto di alcune pagine del diario di Falcone. Il magistrato gliele consegnò personalmente intorno alla metà di luglio del 1991. Viene citata tutta una serie di episodi che testimoniano le difficoltà che Giammanco aveva creato a Falcone nello svolgimento delle indagini all’interno della procura di Palermo. Sono riportati fatti accaduti tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 (Falcone si trasferisce a Roma nel mese di marzo 1991):
- Primi di dicembre 1990: si è lamentato col maggiore Inzolia di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina.
- 7 dicembre 1990: ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.
- Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Roma) per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.
- 10 dicembre 1990: sollecitato la definizione di indagini riguardanti la regione al capitano De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino), assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei CC in tale previsione.
- 13 dicembre 1990: nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.
- 18 dicembre 1990: dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili con il vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece, sia egli, sia Pignatone, insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.
- 19 dicembre 1990: altra riunione con lui, con Schiacchitano e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra.
- Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio.
- Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’On. Avellone, a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa (gli ultimi due non fanno parte del pool).
- 10 gennaio 1991: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del G.I. Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con inputazione di peculato. Il G.I. ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una “ardita” ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca.
- 16 gennaio 1991: apprendo oggi che, durante la mia assenza ha telefonato il collega Moscati, sost. Proc. della Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente telefonando a Moscati.
- 17 gennaio 1991: solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contradddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa Nostra.
- 26 gennaio 1991: apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito al processo Mattarella da Lazzarini Nara. Protesto per non esser stato preventivamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impegno ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e lealtà per risposta.
- 6 febbraio 1991: oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa.[47]
- La prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annulla la sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo che nel ’91 aveva condannato all’ergastolo Paolo Alfano, Salvatore Montalto, Salvatore Rotolo e Vincenzo Sinagra. I quattro erano accusati di aver ucciso nel 1982 durante la guerra di mafia i due boss Cesare Manzella e Ignazio Pedone. Gli imputati comunque rimarranno in carcere perche’ condannati all’ ergastolo in altri processi. I giudici della suprema corte, dopo circa tre ore di camera di consiglio, hanno poi dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale e quelli di altri sette imputati. I magistrati hanno inoltre respinto i ricorsi di altri diciassette accusati tra cui Salvatore Badalamenti e Giuseppe Gambino.
Il maxi-ter, che ha visto tra gli imputati boss come Michele Greco, Pippo Calo’ e Salvatore Riina, era cominciato il 21 aprile dell’ 88 ed era stato istruito come stralcio del primo processo alla mafia degli anni ‘ 80. Durante il dibattimento i giudici palermitani erano andati piu’ volte negli USA e a Roma per ascoltare i “pentiti” Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Antonino Calderone. La sentenza della Corte d’assise d’appello, dopo aver inflitto i quattro ergastoli che sono stati annullati oggi, aveva confermato anche l’assoluzione di boss come Michele Greco detto il “Papa”, del fratello Salvatore e di altri presunti appartenenti alla “cupola” come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calo’, Francesco Madonia, Bernardo Brusca e Giovanni Scaduto. La Corte aveva anche confermato la condanna a 22 anni di carcere per il “pentito” Vincenzo Sinagra, omonimo del primo, e ridotto le pene per altri imputati tra cui Vincenzo Milazzo, presunto esponente di spicco della mafia trapanese.
Sempre nell’ambito di uno stralcio del maxiprocesso, ma per fatti legati a un traffico di droga tra USA e Sicilia, la prima sezione presieduta da Carnevale dispone un nuovo dibattimento per Alfredo Bono, condannato in secondo grado a otto anni. I giudici della suprema corte hanno poi annullato, sempre nei confronti del presunto esponente di Cosa Nostra, un’altra sentenza della corte di Assise di Palermo che nell’ 87 lo aveva condannato a diciotto anni e un’ordinanza di rinvio a giudizio che il giudice istruttore della Procura di Palermo aveva spiccato sempre nei suoi confronti nell’ 85.[48]
Caponnetto rilascia un’intervista a La Repubblica in cui afferma che “Giovanni Falcone cominciò a morire il 18 gennaio 1988, quando il CSM gli preferì Meli alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c’è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato…Ed è molto grave che ancora oggi continui ad imperversare la giurisprudenza di Carnevale.” [49] In mattinata una telefonata raggiunge la redazione de L´ESPRESSO: Massimo Ciancimino chiede di poter parlare con il giornalista Giampaolo Pansa al quale dice: “Mio padre ha bisogno di vederla. Vuole chiederle una cosa. Puó andare a trovarlo domani mattina?”. Pansa replica: “Sta bene, verró verso le dieci.” [50]
Giovedì 25 giugno 1992 Gianpaolo Pansa incontra Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo. Ciancimino comunica a Pansa di aver iniziato a scrivere un libro con le sue memorie: “Quando hanno ucciso Falcone, volevo interromperlo. Ma poi ho visto alla tivú il dottore Borsellino che, in una chiesa di Palermo, diceva: chi ha criticato Falcone, oggi non ha piú diritto di parola. Allora mi sono infuriato. Io non avrei piú il diritto di parola? Cosí ho deciso di continuare.” Ciancimino durante il dialogo con Pansa parla degli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone e cerca di allontanare le responsabilitá da Cosa Nostra: “Chi ha ucciso l´uno e l´altro si é opposto in qualche modo al progetto dei due padroni d´Italia (Giulio Andreotti e Bettino Craxi ndr). Quei due delitti possono essere stati fatti entrambi dalla mafia. Ma io non credo che sia stata la mafia ad uccidere Lima e Falcone.” Ciancimino passa poi a diffamare Giovanni Falcone: “Il dottore Falcone era soprattutto un uomo di potere. Intelligentissimo, furbissimo, sapeva tutto. E arrivava lá dove nessuno sapeva arrivare. Era un giudice che voleva comandare. Se fosse stato soltanto un magistrato, non si sarebbe fermato a me ed ai cugini Salvo, gli esattori. Sarebbe andato avnti. Invece, quando ha visto che la DC faceva quadrato attorno a Rosario Nicoletti, il segretario regionale, che dopo di noi era il suo obiettivo, allora lui si é fermato. Il dottor Di Pietro, che é solo un magistrato, mica si ferma, no? Falcone voleva il potere. E s´era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d´Italia, perché diventava il capo vero di tutti i giudici, piú importante del ministro della giustizia. I ministri passano, ma il superprocuratore resta in carica per quattro anni, quattro anni! E puó essere riconfermato per altri quattro. Adesso la superprocura non la faranno piú. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone é morto.” Ciancimino mostra poi tutto il suo livore contro i rappresentanti dello Stato che hanno affrontato e che combattono Cosa Nostra a viso aperto: “Falcone mi ha martirizzato. Ha fatto di me un capo espiatorio. Lui spasimava di interrogarmi. E, dopo lunghe trattative, alla fine mi trovai di fronte a lui. Falcone mi chiese: “E allora, signor Ciancimino?” Lo fissai e gli dissi: “Non intendo risponderle, dottor Falcone.” Quasi gli venne un colpo.”
“Ed il dottor Borsellino?” prosegue Pansa. “Lui vale meno del dottor Falcone”, borbottó Ciancimino. “Ed il dottor Ayala?”, chiede nuovamente Pansa. “Intelligente, ma debole. Sapeva molte cose. E capiva. Peró non aveva la forza per essere un protagonista.” “E Giammanco?” Ciancimino fece un gesto come per dire: non merita neanche parlarne! “E Caponnetto?” incalza Pansa. “Non contava nulla. Il vero capo é sempre stato Falcone” ribatte il Ciancimino. Infine Ciancimino attacca Tommaso Buscetta: “Gli hanno messo in bocca quello che volevano. È sempre stato soltanto uno degli ultimi, non un capo. Come poteva sapere tutte quelle cose?” Quando Giampaolo Pansa chiede: “Ci saranno altri delitti dopo Lima e Falcone?”, Ciancimino risponde: “E chi puó dirlo? Certo ai due padroni d´Italia gli hanno tagliato le dita, peró…”
Borsellino convoca[51] in una sede segreta (caserma Carini, Palermo) due ufficiali dei carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno ed il colonnello Mario Mori, autori di un voluminoso rapporto sul tema mafia-appalti in Sicilia. Questo rapporto essi lo avevano già consegnato al procuratore Giammanco il 20 febbraio 1991, ma gli sviluppi investigativi erano stati scarsi. “La convocazione segreta – ricorda il PM Luca Tescaroli – era dovuta al fatto che il magistrato voleva mantenere il massimo riserbo, ad ulteriore dimostrazione della situazione di disagio e tensione che già caratterizzava i suoi rapporti con Giammanco. Ai due ufficiali Borsellino propose la costituzione presso il ROS di un gruppo coordinato da De Donno, che avrebbe dovuto riferire unicamente a lui.”[52]
De Donno ha nel frattempo avviato un contatto con Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. [53] Lo scopo è quello di indurre Vito Ciancimino a collaborare con la giustizia. Vito Ciancimino é libero ma in attesa di giudizio per associazione a delinquere, abuso d´uffico e truffa.
Mario Mori ha collocato temporalmente il primo contatto tra il cap. Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino nel periodo tra il 23 maggio ed il 25 giugno, cioé prima dell´incontro alla caserma Carini di Palermo con Paolo Borsellino. Dopo il 25 giugno sarebbe arrivata la risposta da parte di Vito Ciancimino che si sarebbe detto disponibile ad aprire un canale di comunicazione. Successivamente il cap. Giuseppe De Donno avrebbe incontrato Vito Ciancimino 2-3 volte nel mese di luglio 1992 nella casa romana di proprietá del Ciancimino.[54]
Il cap. Giuseppe De Donno ha confermato la ricostruzione fatta dal suo superiore Mori, ma ha collocato i 2-3 incontri con Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo in un periodo di tempo piú largo, cioé quello compreso fra la strage di Capaci e quella di via D´Amelio.[55]
Di questi colloqui il De Donno parlerà solo con il suo diretto superiore colonnello Mori e questi con il generale Antonio Subranni, non con Paolo Borsellino.
L´incontro alla caserma Carini di Palermo verrá descritto dagli ufficiali Mori e De Donno il 27 marzo 1999 durante un´udienza del processo BORSELLINO TER.
Il magistrato Antonio Ingroia riguardo a tale incontro ha espresso alcune perplessitá.
Il 28 febbraio 1999 Ingroia ha dichiarato al settimanale AVVENIMENTI: “So che Borsellino aveva buoni rapporti investigativi con i carabinieri, ma non mi risulta che attorno a quel rapporto (il rapporto mafia-appalti del ROS di Palermo ndr) sia andato mai oltre incontri ricognitivi e per capire. Non ebbe sul punto, per quanto ne so, incontri investigativi.” “Dunque Borsellino non si occupava di quel rapporto?” chiede l´intervistatore. “Per quanto ne so é cosí. E dunque mi pare improprio che Borsellino si sia convinto di quella pista come del movente della bomba di Capaci. Lo dico per cognizione diretta: negli ultimi giorni prima di morire Borsellino si occupava di altro… Se si fosse occupato di quel rapporto del ROS me lo avrebbe detto. Ed invece quel rapporto e quella veritá sul movente di via D´Aemlio esce fuori adesso. Mi chiedo: perché, se c´era quella veritá giá nel 1992 si é atteso tanto tempo per tirarla fuori? E le mie diffidenze su questa storia aumentano.”
Anche alla luce di un dato inedito: nella pagina dell´agenda grigia di Borsellino, relativa al 25 giugno 1992, quell´incontro non é segnato. C´é su quell´agenda, la radiografia di ogni sua giornata, di ogni suo spostamento e di ogni suo incontro, ma su quella pagina il magistrato annotó un normale pomeriggio in procura, iniziato alle 16 e concluso alle 20 con il rientro a casa. [56]
Gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo si recano con il collega maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone per interrogare Girolamo D’Adda sulle circostanze inerenti la strage di Capaci ed i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”. Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.[57]
Il quotidiano L’Unità prendendo spunto da una nota dei diari di Falcone pubblica un’inchiesta sulla mancata cattura di Riina nel 1990 in seguito ad un contrasto nelle indagini tra polizia e carabinieri: questi ultimi stavano raccogliendo notizie sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Riina quando la polizia si sarebbe intromessa con un’improvvida indagine patrimoniale che avrebbe allertato il boss di Cosa Nostra, vanificando i risultati raggiunti.
Alla biblioteca comunale di Palermo si svolge in serata un pubblico dibattito organizzato dalla rivitsa MICROMEGA a cui partecipa anche Borsellino:
“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.
In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa. Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.” [58]
Quella sera, nell´atrio della biblioteca comunale, il Procuratore aggiunto di Palermo si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferira´ direttamente “a chi di competenza”, all´autorita´ giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire l´intreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia? Non lo sapremo mai. Oggi Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un avvertimento cosi´ esplicito”. A chi? E perche´? La moglie Agnese, che da casa segue l´intervento della biblioteca comunale su un´emittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo di voce: “Se fa cosi´, lo ammazzano…”[59]
Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico é assoluto. Ma quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. Il cronista del Corriere della Sera scrive il giorno successivo: “Chi e’ Giuda? La gente, in piedi ad applaudire, lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”. [60]
Anche il Fbi, come Scotti e al contrario di Charles Rose, crede che la strage sia stata decisa da un grumo di interessi mafiosi non solo siciliani. Lo si apprende nell´ambito della trasferta americana dei pubblici ministeri Carmelo Carrara e Giusto Sciacchitano, volati negli Stati Uniti per interogare il pentito Francesco Marino Mannoia e suo padre Rosario nel quadro dell´indagine in corso per individuare altri forzieri delle cosche siciliane e colombiane, oltre che i loro collegamenti operativi. Gli affari tra mafiosi e colombiani furono disegnati per la prima volta nel 1990 da Giovanni Falcone che raccolse la deposizione di un oriundo siciliano, Joe Cuffaro, di Miami, arrestato dalla Dea e convinto a collaborare. Secondo un´agenzia di stampa, il lavoro di Carrara e Sciacchitano potrebbe avere punti di contatto con le indagini sulla strage di Capaci, che esula pero´ dalle competenze dei giudici palermitani.[61]
Venerdì 26 giugno 1992 Dopo la denuncia della biblioteca, Paolo Borsellino si rituffa nelle indagini, che per l´area ristretta delle sue competenze sono quelle delle cosche di Trapani ed Agrigento. “In quei giorni accade una cosa mai verificatasi a casa nostra – racconta Agnese Borsellino – Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e con i figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. E´ diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. Si e´ reso conto, pur nella sua umilta´, che in quel momento e´ l´unico ad avere la capacita´ e la volonta´ di lavorare con questi ritmi massacranti.” Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. “Pur di continuare il suo lavoro e´ disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre piu´ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici e´ tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero´ ricevere in cambio, ne e´ convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall´ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi”. [62]
Borsellino incontra per la prima volta negli uffici della procura di Roma Gaspare Mutolo, il quale fa mettere a verbale la sua decisione di iniziare a collaborare con la giustizia, parlando peró “solo con il giudice Paolo Borsellino, sotto la tutela del dottor Gianni De Gennaro”. Mutolo aveva già espresso il suo desiderio di collaborare il 15 dicembre 1991 chiedendo di parlare con Giovanni Falcone, ma questi gli aveva spiegato di non poter esaudire la sua richiesta in quanto non svolgeva più funzioni inquirenti. Falcone aveva comunque convinto Mutolo a svolgere un colloquio investigativo con l’allora vice-direttore della DIA Gianni De Gennaro. Inoltre aveva informato della decisione di Mutolo i vertici della procura di Palermo. Passano i mesi, c’è la strage di Capaci. Mutolo fa un nome: “Voglio parlare con Paolo Borsellino, mi fido solo di lui.” La segnalazione arriva ai vertici della procura di Palermo mentre Borsellino è in Germania per le indagini su Palma di Montechiaro. Giammanco aveva deciso di assegnare il collaboratore all’aggiunto Aliquò ed ai sostituti Lo Forte e Natoli mettendo a rischio il proseguio del rapporto. Quando Borsellino venne a conoscenza dei fatti vi fu una tesa riunione in procura al termine della quale Giammanco assegnò il fascicolo ad Aliquò, Lo Forte e Natoli con l’impegno di coordinarsi con Borsellino. Mutolo accettò la proposta, ma non fece mai mistero di considerare come vero interlocutore solo Borsellino. Quest’ultimo decide di non uscire allo scoperto e scontrarsi con Giammanco per non aprire un nuovo fronte di polemiche: i pentiti, le indagini in corso non possono aspettare. “Dopo, solo dopo, se sarà il caso, affronteremo di petto Giammanco” confida Borsellino ai colleghi più fidati della procura.[63]
Mutolo comunica a Borsellino che intende verbalizzare le sue dichiarazioni seguendo un percorso ben preciso: prima la descrizione completa delle famiglie mafiose, componente per componente, mandamento per mandamento. Terminata questa prima parte, Mutolo si dice disposto a verbalizzare i nomi dei referenti di Cosa Nostra all´interno delle Istituzioni. “Bisogna prima mettere fuori gioco il corpo armato – dice Mutolo – poi passeró ai nomi dei generali. Non serve che io spari subito le grandi rivelazioni, se c´é un esercito pronto a mettere a tacere me e tutti i giudici che cominceranno ad indagare… É troppo pericoloso scrivere tutto da subito, le aule del Tribunale di Palermo non sono affatto sicure. Le informazioni circolano ed i rischi che arrivino ai diretti interessati sono alti”. [64]
“Sento di dover escludere che Falcone tenesse un diario del tipo di quelli di Chinnici o di Insalaco”. Borsellino, conversando con i giornalisti a margine di un convegno di Magistratura indipendente, che si tiene a Giovinazzo, in provincia di Bari, torna a parlare del diario di Falcone, e di nuovo conferma l´autenticita´ degli scirtti pubblicati dal Sole24ore, anche se precisa che non si tratta di un vero e proprio diario, bensi´ di appunti “con date e riferimenti a fatti di natura processuale o comunque legati al lavoro del suo ufficio.” Il Magistrato ricorda di aver letto quegli appunti in occasione del trasferimento di Falcone al ministero di grazia e giustizia e conclude di non volere esprimere nel merito alcun giudizio “perche´ se dovro´ farlo, lo faro´ all´autorita´ giudiziaria.” [65] Il CSM sospende dalle funzioni e dallo stipendio Alberto Di Pisa, il magistrato condannato in primo grado per essere il Corvo di Palermo.
Sabato 27 giugno 1992 A Palermo si svolge una grande manifestazione antimafia alla quale partecipano centomila persone. La manifestazione é promossa dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. Nella sua cronaca dalla manifestazione Corrado Stajano scrive: É una giornata di sole e sembra persino bella, Palermo, un tempo chiamata Felicissima. Ma guardando e mirando con attenzione il mare e Monte Pellegrino ci si rende conto della gigantesca colata di cemento della speculazione edilizia e della mafia che dalla fine degli anni Cinquanta in avanti ha calcificato e sconciato la citta’ , basta guardare i blocchi delle case oltre via Liberta’ , dalla parte di viale Lazio e giu’ giu’ verso l’ aeroporto. Un cemento impastato di sangue. A ogni nome, a ogni targa stradale corrisponde infatti un morto ammazzato. Non solo morti qualunque – quelli sono centinaia ogni anno – ma morti di rango. Perche’ non c’ e’ citta’ in Europa, neppure nel mondo, forse in Colombia, dove in pochi anni sono stati assassinati tutti, proprio tutti gli uomini dello Stato, il presidente della Regione, il capo dell’opposizione, il consigliere istruttore, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il capo della mobile, i magistrati, i commissari, i medici legali, i poliziotti, i carabinieri. Ecco, l’elicottero che lascia la sua ombra proprio sulla via Carini dove dieci anni fa furono uccisi il generale Dalla Chiesa, sua moglie, l’agente di scorta. Ecco l’elicottero che lascia la sua ombra sulla via Cavour dove davanti alla bancarella di libri fu assassinato il procuratore della Repubblica Costa. Una geografia di lapidi, Palermo. [68]
Domenica 28 giugno 1992 Di ritorno da Bari, a Fiumicino, Borsellino con la moglie Agnese e Liliana Ferraro aspettano di imabarcarsi per Palermo nella saletta vip. Ad un tratto, arriva il ministro della difesa Salvo Andó, socialista, che lo saluta, gli si avvicina e gli dice che deve parlargli. Borsellino si allontana e si apparta con Andó , che subito gli racconta preoccupato dell´informativa del Ros, stavolta spedita alla procura di Palermo, che li indica entrambi come possibili bersagli di un attenato mafioso.
Un terzo obiettivo indicato dal Ros é il pm di Milano Antonio Di Pietro. Andó gli chiede informazioni ulteriori, pareri, consigli. Borsellino impallidisce, poi va su tutte le furie: non ne sa nulla. É persino imbarazzato, ma deve confessare ad Andó di essere totalmente all´oscuro dell´informativa.
Il procuratore Pietro Giammanco, destinatario ufficiale della nota riservata del Ros, non gli ha comunicato niente.[69]
Lunedí 29 giugno 1992 Appena arrivato a Palermo, Borsellino si precipita nell´ufficio di Giammanco, e protesta: “Lo so bene che da una minaccia ci si puó difendere poco, ma é mio diritto conoscere tutte le notizie che mi riguardano.” Urla, si indigna. Per la rabbia, sferra un gran pugno sul tavolo, e si ferisce la mano.
E Giammanco? “Farfugliava, farfugliava qualcosa”, racconterá la sera Borsellino ai familiari. “Farfugliava. Diceva: ma che c´entra, la competenza é di Caltanissetta.”
Ricorda Lucia Borsellino: “Quando papá ci parla di quell´episodio, sfoga tutta la sua amarezza. Raccontandoci di Giammanco, si chiede mille volte il motivo di quel silenzio, giungendo peró alla conclusione che niente potrá giustificarlo.” [73]
Paolo Borsellino ha in programma un viaggio a Roma per interrogare alcuni collaboratori di giustizia ma prima di partire rilascia un´intervista a Gianluca di Feo, inviato del Corriere della Sera: “Ci sono alcuni pentiti che possono diventare un’ arma importante. Falcone stava cercando di fare il possibile per sfruttarli. Ma qualcuno lo ostacolava. Ora tocca a noi. Se a Roma ci aiutano. Altrimenti…”. Sono le prime ore del mattino di pochi giorni fa. Paolo Borsellino e’ nello studio della sua casa, non molto lontano dal luogo della nuova strage. Palazzine tutte uguali, abitate da funzionari statali. Fuori il blindato e le auto degli agenti. Non sembrano tesi ma piu’ stupiti di vedere un visitatore di primo mattino. L’ uomo della scorta che mi accompagna nell’ascensore e’ molto triste. Commentiamo il caldo, ma i suoi pensieri sono rivolti altrove. Ha gia’ ricevuto l’ordine di prepararsi ad uno spostamento: dovra’ difendere il suo magistrato verso l’ aeroporto, lungo quella autostrada dove gia’ tre suoi colleghi hanno trovato la morte. Borsellino viene incontro fuori dall’ingresso dell’ appartamento. Sono solo le 7.30 ma sembra in piedi da molte ore. Si scusa per il mancato appuntamento del giorno prima. Un pomeriggio di attesa nell’atrio del palazzo di Giustizia, tra il rabbioso carosello delle vetture blindate e la routine dei carabinieri di guardia. Invano. Solo a tarda notte risponde al telefonino: “Sono rammaricato, altri impegni. Ma se ce la fa le dedico le prime ore di domani. Le migliori”. E cosi’ e’ stato. Mi fa accomodare nello studio buono, quello non ingombrato dalle carte dei procedimenti. Arredamento semplice ma con gusto. C’e’ l’ aria di una residenza precaria che una mano femminile ha voluto addolcire. Iniziamo subito la conversazione. Il tema e’ di quelli che scottano: mafia e traffico d’ armi. E i possibili legami con l’assassinio di Falcone. Ma immediatamente si scontrano due punti di vista. Quello del giornalista in cerca della grande trama e quello siciliano piu’ attento alla realta’ dell’isola. Con l’enorme esperienza di chi ha sezionato la vita di Cosa Nostra. “Commercio di droga e di armi hanno caratteristiche simili – sosteneva Borsellino – richiedono investimenti enormi e danno grandi profitti. Ecco perche’ possono esistere canali finanziari comuni per questi traffici. Ma non mi risulta che uomini della mafia agiscano in prima persona nel business delle armi. Non e’ il loro campo, non hanno competenza. Preferiscono affidarsi ad altri. Che talvolta cercano anche di truffarli”. E tutta la conversazione e’ continuata lungo questi binari. Ogni volta il procuratore riporta la discussione in un’ottica siciliana. Alle domande su banche, partiti e grandi gruppi finanziari collusi risponde riconducendo la materia sul piano dei fatti, anche minimi. Ma sempre nell’isola. Sembrava quasi volere ignorare la dimensione mondiale delle cosche. In realta’ il suo era un metodo di lavoro. Pareva voler dire: inutile sprecare energia in inchieste troppo difficili e a vasto raggio, dove e’ complicato trovare elementi di prova. Meglio lavorare sul piccolo, sulla struttura e l’attivita’ diretta delle famiglie. E soprattutto meglio concentrare la lotta in Sicilia, dov’e’ il cuore del problema. Emergeva un’impostazione del confronto con la mafia diversa da quella suggerita da Falcone. A tratti era una scelta piu’ disillusa, dettata da una profonda conoscenza delle difficolta’ che si incontrano. I suoi discorsi erano velati da un diffuso pessimismo. Ma non voleva mollare. Ecco perche’ pareva deciso ad abbassare il tiro pur di avere i mezzi per lottare contro le cosche. Senza nessuna certezza di vittoria. Conservava troppe memorie di amici e colleghi sacrificati invano: non voleva dare battaglia a dei mulini a vento quando c’ erano tanti mostri da combattere. E tanta amarezza sulla sorte di Giovanni Falcone, tradito e abbandonato. “Non bisogna cercare lontano le cause della strage di Capaci. I mandanti sono qui in Sicilia. E i motivi sono piu’ tecnici di quello che si dice. Giovanni aveva contattato alcuni pentiti che potevano essere preziosi. Ma veniva ostacolato in tutti i modi. Con le rivelazioni di quelle persone si poteva fare molto. Alcune erano ai margini di Cosa Nostra. Ma erano lo stesso in grado di infliggerle un colpo durissimo. Ecco perche’ lo hanno ucciso”. “Ora questo compito spetta a noi. A me soprattutto. Stiamo facendo il possibile. Hanno promesso una legge sui pentiti: tra poche ore volo a Roma per discutere di questo. Senza, ogni tentativo sara’ inutile”. Ma chi erano questi collaboratori che facevano tanta paura alle cosche? Borsellino non ha fatto nomi. Pero’ ha parlato a lungo di Giuseppe Lottusi, il cassiere dei Madonia e dei narcos colombiani. Un finanziere milanese che aveva trasferito i fiumi di dollari della cocaina. Lottusi e’ stato preso grazie a un pentito americano, un’inchiesta realizzata dall’ Fbi e coordinata da Falcone. “Lottusi – sottolineava Borsellino – non e’ un affiliato, e’ un esterno alla mafia che ha gestito il piu’ grande business criminale degli anni Ottanta. Ma per questo e’ un anello debole nella catena dell’omerta’ “. A questo punto la discussione viene interrotta dall’arrivo della moglie. Per un attimo i grandi temi si sciolgono nel familiare. L’assegno, il documento, il conto da pagare. Poi la realta’ della vita blindata riemerge. Con aria malinconica Paolo Borsellino dice: “Non so se rientro stasera…”. La moglie non lo lascia neanche finire: “Lo so, non ti preoccupare per me”. Negli occhi della donna tanta paura: si vede che farebbe di tutto per tenerlo con se’ , ma sa che nulla potrebbe trattenere il giudice dal suo dovere. Ormai e’ tardi. Anche la nostra intervista e’ al termine. Lascio il magistrato con l’ appuntamento a reincontrarci quando sara’ superprocuratore. Come risposta ricevo un sorriso, l’ unico di quelle ore. Per pochi attimi il suo volto si illumina, poi torna ad essere teso. Preso da una tempesta di pensieri terribili.[74]
Nel primo pomeriggio Borsellino si imbarca da solo su un Super80 diretto a Roma. Sull´aereo incontra l´inviato dell´UNITÀ Saverio Lodato. I due si siedono accanto.
Ecco il racconto del giornalista: “Chiaccherammo di quella sera alla biblioteca comunale […]. Mi disse che a settembre i giornali avrebbero avuto di che scrivere. Ma precisó che non si tsava occupando della strage di Capaci. Confermó ancora una volta l´autenticitá dei diari di Falcone. E tornammo a parlare della superprocura. Intende accettare la candidatura? Gli chiesi. Non me losogno neanche, rispose.” [75]
Il giudice Vincenzo Geraci scrive una lettera di replica al Corriere della Sera che in una corrispondenza del 27 giugno (Borsellino: “Distrutto da qualche Giuda”) aveva indicato in Geraci il Giuda che avrebbe tradito Giovanni Falcone il 18 gennaio 1988, giorno della nomina da parte del CSM di Antonino Meli a Consigliere Istruttore di Palermo: “Per la consuetudine d´intimitá avuta con il Dottor Borsellino (e per la conseguente conoscenza dei fatti che me ne é derivata), credo che egli non intendesse fare riferimento a me accennadno al Giuda che si sarebbe impegnato a prendere in giro Falcone allorquando questi decise di concorrere alla successione di Caponnetto. Avendo tuttavia Borsellino taciuto il nome di questo “Giuda”, contestulamente accennando alla decisione del CSM in favore di Meli, é stato inevitabile che, a causa della posizione da me assunta all´epoca in seno al CSM di cui facevo parte, sia stato io identificato nel traditore cosí genericamente evocato. Non posso dolermi dell´equivoco in cui é incorso l´uditorio che ascoltava Borsellino alla biblioteca di Palermo né del cronista che lo ha fedelmente riportato. Debbo dolermi invece del fatto che Borsellino, non dando un nome al “Giuda”, abbia “detto” e “non detto”, cosí propiziando l´equivoco e mostrando un´inclinazione culturale di segno diametralmente opposto al carattere proprio dell´occasione antimafia in cui egli é intervenuto.” [76]
Martedì 30 giugno 1992 In un appartamento segreto a Roma Paolo Borsellino, Vittorio Aliquò ed Antonio Manganelli iniziano a stilare un verbale delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina. Questi illustra la centralità degli appalti pubblici nel sistema che lega in Sicilia i mafiosi, i politici e gli imprenditori. In questo settore un ruolo chiave è rivestito da Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”. Inoltre Messina cita esplicitamente il gruppo Ferruzzi come uno dei punti referenti imprenditoriali di Cosa Nostra: “Riina è interessato alla Calcestruzzi spa, che agisce in campo nazionale.” [77] Aldo Rizzo viene eletto sindaco di Palermo alla guida di una giunta pentapartito. Il PDS annuncia un’opposizione seria ma costruttiva a livello comunale, mentre a livello regionale appoggia direttamente la giunta formata dai tradizionali partiti di governo.
Mercoledì 1 luglio 1992 Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino[1]:
Ore 7.00 Roma (Holiday Inn)
Ore 9.00 SCO
Ore 15 Dia
Ore 18.30 Parisi
Ore 19.30 Mancino
Ore 20 Dia
L´agenda grigia di Paolo Borsellino (mercoledí 1 luglio 1992)
Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino, entrambi procuratori aggiunti a Palermo, si recano a Roma per interrogare Gaspare Mutolo. Alle 15, nello stanzone della Dia, davanti a Borsellino ed Aliquó, al tenente colonnello Domenico Di Petrillo ed al vicequestore Francesco Gratteri, entrambi della Dia e all´ispettore di polizia Danilo Amore, Mutolo comincia a declinare le proprie generalitá, per aprire la verbalizzazione ed iniziare il suo racconto nero sulla mafia.[2] L’aspirante collaboratore dice a Borsellino che conosce il nome di alcuni funzionari dello stato corrotti, cita Bruno Contrada e Domenico Signorino, ma preferisce prima parlare solo di fatti di mafia perché teme molto le conseguenze delle sue rivelazioni. Durante il colloquio Borsellino riceve una telefonata e, secondo la testimonianza di Mutolo, gli dice: “Sai Gaspare, devo smettere perché mi ha telefonato il ministro, manco una mezz’oretta e vengo.” [3]
Sempre stando alle parole di Mutolo, Borsellino torna dopo circa un’ora molto preoccupato, tanto che fumava così distrattamente da avere due sigarette in mano. Mutolo chiede: “Dottore cos’ha?” e Borsellino gli rivela di aver appena incontrato il dottor Parisi ed il dottor Contrada, pertanto lo invita a verbalizzare subito quanto di sua conoscenza riguardo alle infiltrazioni della mafia nello Stato. Mutolo si rifiuta e ripete di voler prima verbalizzare quanto gli è noto sull’organigramma mafioso. Su chi abbia incontrato Paolo Borsellino al Viminale il primo luglio 1992 la ricostruzione non é ancora del tutto chiara: Vittorio Aliquò ricorda due telefonate del Capo della Polizia a Borsellino e ricorda di essere andato assieme a lui al Ministero. Aliquó conferma di aver incontrato Vincenzo Parisi al Viminale e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell´ufficio del neo-ministro Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insiedato. Aliquó non rammenta un incontro con Contrada ed esclude che Borsellino gliene abbia parlato. [4] Aliquo´ afferma però di non essere stato tutto il tempo con Borsellino. Mancino non ricorda l’incontro con Borsellino ma non esclude che possa essere avvenuto: “Non ho precisa memoria di tale circostanza, anche se non posso escluderla […]. Era il giorno del mio insediamento, mi vennero presentati numerosi funzionari e direttori generali […]. Non escludo che tra le persone che possono essermi state presentate ci fosse anche il dottor Borsellino. Con lui peró non ho avuto alcun specifico colloquio e perció non posso ricordare in modo sicuro la circostanza […] non sapevo della sua presenza a Roma ed escludo, quindi, di aver io provocato un colloquio dello stesso con me. Non escludo che il capo della polizia possa, di sua iniziativa, aver invitato il giudice Borsellino per presentarlo a me.” [5]
E’ stato accertato comunque dai magistrati di Caltanissetta che Borsellino incontrò Parisi.[6]
Se Borsellino quel giorno ha incontrato Contrada, non lo ha confidato a nessuno, tranne che a Mutolo. E, forse, ma il ricordo non é troppo preciso, anche al PM Pietro Vaccara, applicato dalla Procura di Caltanissetta per le indagini sulla strage di Capaci. Dice oggi Vaccara: “Ricordo, ma sono passati tanti anni, che Borsellino mi disse di aver visto Contrada che usciva da una porta del ministero, forse la stanza del capo della polizia Parisi, mentre lui entrava. É un ricordo flebile, nel senso che io lo colloco certamente dopo il 1° luglio, in una data prossima alle mie ferie, scattate il 15 luglio. Con Borsellino al mio ritorno dovevamo incontrarci a Caltanissetta, ma poi c´é stata la strage…”.[7]
Venerdí 3 luglio 1992 Paolo Borsellino ha un colloquio investigativo con il collaboratore Vincenzo Calcara. [11] Riina e Provenzano “sono come due pugili che mostrano i muscoli, uno di fronte all´altro.” A sorpresa, subito dopo il pomeriggio del Viminale, Borsellino sceglie il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” per formulare, per la prima ed unica volta, l´ipotesi di una spaccatura al vertice di Cosa Nostra. Una spaccatura tra i due leader mafiosi corleonesi che non sfocia in una guerra tra clan ma in una prova di forza nel contrapporsi con le armi alla politica ed alle Istituzioni: uno si intesta l´omicidio di Salvo Lima, l´altro la strage di Capaci; chi avrebbe fatto cosa, nell´intervista non é specificato. I due delitti, secondo il magistrato, costituiscono una conferma del fatto che “i due pugili stanno mostrando i muscoli, come se ciascuno volesse far sapere all´altro quanto é forte, quanto é capace di fare male.”
Nell´intervista Borsellino spiega la sua tesi: “Si nascondono a Palermo, su questo non c´é dubbio: il controllo del territorio per mafiosi del loro calibro é importante, direi fondamentale. Non si possono “governare” picciotti ed affari lontano dalla Sicilia. Tuttavia ho l´impressione che tra i due boss dei corleonesi non corra piú buon sangue. Ripeto, é solo un´impressione. Non sappiamo niente altro…” “Un paio di mesi fa la moglie di Provenzano ha riaperto casa a Corleone. Lei, insieme con i due figli. Figli che, appena nati, sono stati registrati all´anagrafe: tutto regolare. Da anni: solo che siamo stati capaci, noi forze dell´ordine, noi inquirenti, di saperlo quando abbiamo notato la presenza della donna a Corleone.” “Dico questo per far capire che, in fondo, non é sempre stata incessante, senza tregua, la caccia ai superlatitanti: Riina e Provenzano, appunto. Questo episodio, il ritorno della moglie di Provenzano a Corleone, ci ha fatto subito pensare che di lí a poco qualcosa di grosso sarebbe successo all´interno di Cosa Nostra. Eppure non c´é stata e non c´é, apparentemente, nessuna guerra di mafia. O, per meglio dire, non quello che noi avevamo immaginato. C´é stato l´omicidio di Salvo Lima, c´é stata la strage di Capaci. No, non é che consideriamo questi avvenimenti roba di poco conto. Ci mancherebbe altro. Piuttosto, confermano quello che dicevo prima: i due pugili, Riina e Provenzano, stanno mostrando i muscoli.” Il giornalista domanda: “Si fermerá questa catena di omicidi eccellenti?” “Non lo so – risponde Borsellino – ma niente lascia pensare che tutto sia finito. Anzi.” [12]
Con una telefonata alla sede di Palermo dell´Ansa, la falange armata rivendica la paternitá dello scritto anonimo fatto circolare a Palermo nel quale si parla delle future attivitá della mafia anche in relazione a uomini e vicende della politica.[13]
La procura di Gela chiede il rinvio a giudizio di 117 presunti mafiosi appartenenti alle due cosche che dal 1987 al 1991 si sono date battaglia lasciando nelle stradine della citta’ 110 morti. Sotto accusa 56 uomini della potente famiglia Madonia e 61 del clan Ianni-Cavallo. La situazione degli uffici giudiziari a Gela é al collasso: il procuratore Angelo Ventura, accusato dai carabinieri di non aver collaborato alla cattura di pericolosi latitanti, e´ sotto procedimento disciplinare al CSM che é chiamato la prossima settimana a deliberare su un eventuale trasferimento del magistrato per incompatibilitá ambientale. L’ organico della procura e’ al completo ma, oltre al procuratore capo, prevede un solo aggiunto, Roberto De Felice, 27 anni, romano, al suo primo incarico che in un´intervista al Corriere della Sera dichiara: “E’ ridicolo creare una procura con due soli giudici. Questi livelli di organico non sono previsti nemmeno nella piu’ sperduta delle citta’ italiane. Cio’ mi fa pensare molto male di chi ha firmato il decreto istitutivo del tribunale. Dicono che Gela e’ una citta’ ad alto rischio mafioso eppoi prevedono questi organici. Come mai?”. “Gia’ … ma come si riesce a lavorare in queste condizioni?” chiede il giornalista. “Facciamo il possibile – risponde De Felice – un lavoro massacrante che, tutto sommato, ci ha anche permesso di ottenere buoni risultati. Ma ora basta, abbiamo dato”. “Cosa vuol dire?” domanda ancora l´intervistatore. “No, basta. Ho gia’ presentato domanda di trasferimento- risponde De Felice – sarebbe stato bello continuare a lottare contro la mafia, ma non certo in queste condizioni”. [14]
Sabato 4 luglio 1992 Paolo Borsellino si reca al Palazzo di Giustizia di Marsala per la cerimonia di saluto che era già stata rinviata altre volte dopo il trasferimento a Palermo. Nel capoluogo siciliano assieme a Borsellino si sono trasferiti il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale ed il sostituto Antonio Ingroia. Si insedia a Marsala il nuovo procuratore Antonino Silvio Sciuto. Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia, senza mai nominarlo cita il collega Vincenzo Geraci, il quale aveva scritto che a Marsala Borsellino era andato perché voleva una procura con il mare, e riceve una lettera di saluto dai “suoi” sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua la protettiva negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa.
Una lettera che Borsellino incornicierá ed appenderá nello studio di casa: Carissimo Paolo, al di lá dei saluti ufficiali, anche se sentiti, un momento privato, un colloquio tra noi. Noi tutti siamo qui a Marsala con te fino dal tuo arrivo, ma ognuno di noi porta nel suo cuore un pezzetto di storia da raccontare sul lavoro a Marsala, nella procura che tu hai diretto. Ci piacerebbe ricordare tante situazioni impegnative o tristi o buffe che ci sono capitate in questa esperienza comune, ma l´elenco sarebbe lungo e, allo steso tempo, insufficiente. Possiamo comunque dirti di aver appreso appieno il significato di questo periodo di lavoro accanto a te e le possibilitá che ci sono state offerte: l´esperienza con i pentiti, i rapporti di un certo livello con la polizia giudiziaria, sono situazioni rare in una procura di provincia, e la tua presenza ci ha consentito di giovarci di queste opportunitá. Abbiamo goduto, in questi anni, di un´autorevole protezione, i problemi che si presentavano non apparivano insormontabili perché ci sentivamo tutelati. Qualcuno ci ha riferito in questi giorni che tu avresti detto, ironizzando, che ogni tuo sostituto, grazie al tuo insegnamento, superiorem non recognoscet. Sai bene che non é vero, ma é vero invece che la tua persona, inevitabilmente, ci ha portati a riconoscere superiore solo chi lo é veramente. Ci sono state anche delle incomprensioni, e non abbiamo dimenticate nemmeno quelle: molte sono dipese da noi, dalle diversitá dei caratteri e dalla natura di ognuno; altre volte, peró, é stata proprio la tua natura onnipotente a vedere ogni cosa dalla tua personale angolazione, non suscettibile di diverse interpretazioni. Tuttavia, anche in questo sei stato per noi un “personaggio”, ti sei arrabbiato, magari troppo, ma con l´autoritá che ti legittimava e che mai abbiamo disconosciuto. Anche nel rapporto con il personale abbiamo apprezzato l´autorevolezza e la bontá, mai assurdamente capo, ma sempre “il nostro capo”. E poi te ne sei andato, troppo in fretta, troppo sbrigativamente, come se questo forte rapporto che ci legava potesse essere reciso soltanto con un brusco taglio, per non soffrirne troppo. Il dopo Borsellino non te lo vogliamo raccontare: pur se uniti tra noi, in tantissime occasioni abbiamo sentito che non c´eri piú, e in molti abbiamo avvertito il peso, talvolta eccessivo per le nostre sole spalle, di alcune scelte, di importanti decisioni. E adesso il futuro, il tuo, ma anche il nostro. Noi ti assicuriamo, giá lo facciamo, siamo all´erta, sappiamo che cosa vuol dire “giustizia” in Sicilia ed abbiamo tutti valori forti e sani, non siamo stati contaminati, e se é vero che “chi ben comincia…”, con ció che segue, siamo stati molto fortunati. Per te un monito: é un periodo troppo triste ed é difficile intravederne l´uscita. La morte di Giovanni e Francesca é stata per tutti noi un po´ la morte dello stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c´erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo stato in Sicilia é contro lo stato, e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello stato. I “tuoi” sostituti. [15]
Un giorno della seconda settimana di luglio 1992 Rosaria Schifani, vedova dell´agente di scorta Vito Schifani ucciso nella strage di Capaci, visita in serata Paolo Borsellino e la sua famiglia. Nel corso dell´incontro il magistrato dice a Rosaria: “Ti staremo vicini Rosaria cara, avrai il nostro affetto e faremo giustizia per il tuo Vito”. All´incontro sono presenti la moglie di Paolo, Agnese, e i tre figli Manfredi, Fiammetta e Lucia. Rosaria é piena di dubbi e chiede a Borsellino: “Giudice io sono utile?” “Rosaria, tu sei molto utile” risponde il magistrato. E la signora Agnese la ringrazia. “Di che cosa?”, chiede Rosaria. “Del coraggio che ci dai…”, é la risposta. Rosaria é molto turbata dal dubbio se partire e lasciare la Sicilia o se rimanere a Palermo. Borsellino la incoraggia: “Non bisogna abbandonare la Sicilia perche’ questa terra diventera’ bellissima”. Nello studio del giudice quella sera parlano delle speranze, del perdono e dei pentiti. Borsellino le descrive la conversione di Vincenzo Sinagra: “É cambiato. Era una belva ed e’ diventato un essere umano”. Quando per un po’ si trovano soli, Rosaria chiede: “Ha paura?”. Ed il magistrato, fumando nervoso, risponde: “Non ho paura”. Poi, fermandosi un attimo, aggiunge: “Ma ho paura per mia moglie, per i miei figli”.[17]
Lunedì 6 luglio 1992 Paolo Borsellino incontra in via informale nella sua casa di via Cilea il giornalista del Corriere della Sera Luca Rossi che, passando da Palermo, decide di fare visita al magistrato. Rossi riporterá una parte del contenuto di questo colloquio in un articolo che sará pubblicato 15 giorni dopo sul Corriere della Sera: “Che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa piu’ indagini in Sicilia?”
Ho detto: “Adesso Falcone sei tu. Lo capisci?” Borsellino ha sorriso, con una specie di dolore obliquo, tagliato. Era quindici giorni fa, in via Cilea 97, a casa sua, a Palermo. Ero andato a trovarlo solo per parlare, non dovevo ancora scrivere nulla. Volevo solo sapere come stava, cosa succedeva a Palermo. Con Sette avevo deciso di iniziare una lunga inchiesta sullo stato delle cose in Sicilia seguendo proprio Paolo Borsellino. Ero preoccupato. L’avevo visto in Tv, subito dopo la morte di Falcone, e non mi sembrava piu’ l’uomo che conoscevo: era lento, paralizzato. Pensavo che ora, dopo Falcone, c’era lui: che sarebbe stato il prossimo. Quel giorno ho fatto fatica a trovare le parole, ma a un certo punto glielo ho detto; ha sorriso ancora, ha risposto che lo sapeva, ma che da questo punto di vista si sentiva esattamente come Falcone. Ha detto testualmente: “Anche per me la morte e’ un bottone della giacca”. Borsellino e’ sempre stato un uomo straordinariamente coraggioso; riusciva a ironizzare sul pericolo, era sprezzante, fatalista e deciso. Quando l’ho rivisto, due settimane fa, non era piu’ cosi’. La morte di Falcone l’aveva spaccato in due, l’aveva svuotato. L´inclinazione dello sguardo, la lentezza dei gesti e delle parole: era come se non avesse piu’ energia. “Confesso -. mi ha detto quel pomeriggio – che devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle”. E allora, poche pratiche cose da dire. Borsellino stava seguendo le indagini sull’ omicidio di Falcone, aveva un’ipotesi. Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione d appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando. Era solo un’ipotesi, e comunque non poteva darmi dettagli. Si puo’ pensare che anche la sua morte abbia un rapporto con quest’ipotesi, ma e’ altrettanto probabile che la sua fine e quella di Falcone fossero segnate comunque, da sempre. Negli ultimi giorni, Borsellino stava interrogando un nuovo pentito, che definiva “di straordinario interesse, perche’ ci da’ un’immagine della mafia in questo momento, in tempo reale, e non, com’e’ capitato spesso con altri pentiti, vecchia magari di qualche anno. Il pugno di ferro, la dittatura di Toto’ Riina sulla mafia, produce un terrore costante all’interno dell’organizzazione di Cosa Nostra. I membri vivono un’ossessione continua, quotidiana: si chiedono esclusivamente chi potrebbe ucciderli, e quando. Questa situazione ha prodotto un’incredibile fioritura di pentiti, quasi una trentina. Una cosa assolutamente straordinaria”. Ma lui era rimasto solo, come sempre in questi casi. Abbiamo parlato della Superprocura, che il ministro della Giustizia Claudio Martelli gli aveva indirettamente offerto. Era in dubbio, oscillava: tendeva comunque a non accettare. La Superprocura era un’idea di Falcone e Borsellino pensava che solo con Falcone avrebbe avuto un senso. Non ci credeva molto; diceva che, senza la visione complessiva e strategica che ne aveva Falcone, sarebbe stato difficile farla funzionare. “E poi – ha detto – se me ne vado da qui, da Palermo, non ho piu’ nessuno che mi faccia da sponda. Qui non e’ rimasto nessuno. Non ci sono piu’ inchieste, non c’e’ un lavoro organico: che cosa posso coordinare da Roma se nessuno fa indagini in Sicilia?”. Si era ritagliato uno spazio lavorando soprattutto sul Trapanese e l’Agrigentino: non su Palermo, per evitare contrasti con il procuratore capo Giammanco. Lo riteneva responsabile della “fuga” di Falcone da Palermo. “Falcone diceva di essere stato costretto all’immobilita’: di essere stato messo in condizione di non poter lavorare. Per questo, aveva accettato il ruolo amministrativo che Martelli gli aveva offerto agli Affari penali. Ma doveva tornare prima possibile al suo lavoro, alle inchieste. Anche in questa logica vedeva il progetto della Superprocura”. In qualche modo, mi dispiaceva che Borsellino non volesse accettare l’offerta di Martelli: non riuscivo a immaginare nessuno in grado di sostituire Falcone meglio di lui. E pensavo, proprio per la sua sicurezza, che fosse meglio accelerare, insistere: andare a Roma, portarsi sempre al centro, rimanere in qualche modo “importante”. Invece Borsellino voleva stare tranquillo, non esporsi piu’ di tanto. “Devo aspettare un paio d´anni, che Giammanco se ne vada: in questo caso, avro’ buone probabilita’ di diventare il procuratore capo di Palermo”. Bene. Fin qui ho cercato di essere ragionevole, di dire quello che posso. Sto volando verso Palermo. Questa notte non ho dormito un minuto. Vedo la costa gialla davanti a punta Raisi. Ci sono tutti questi giornali aperti, in aereo, che dicono: “massacro, ucciso Borsellino”. Io ho una nausea costante, non riesco a cancellarla. Volevo bene a Paolo Borsellino. Gliene volevo davvero. Io non ce la faccio piu’. [18]
Fuga di notizie sull’operazione di polizia Pianosa, che comporta il trasferimento graduale di numerosi detenuti mafiosi nel carcere di massima sicurezza di Pianosa. L’ inizio dell’operazione sarebbe previsto per la terza settimana del mese. Il neo-ministro dell’Interno Nicola Mancino fa visita alle forze di polizia di Palermo. Accompagnato dal Capo della Polizia Vincenzo Parisi esordisce nella riunione con i vertici dell’ordine pubblico dell’isola affermando: “Mi colloco nel solco tracciato dal mio predecessore Scotti.” [19] Dopo la riunione si svolge un incontro con i giornalisti ed il ministro parla dei diari di Falcone: “Li ho letti, noi ce ne stiamo occupando ai vari livelli, almeno per quanto attiene al Viminale, sia dal punto di vista dell’accertamento dell’attendibilità, sia dal punto di vista dell’accertamento di eventuali manipolazioni. Una volta le interpolazioni erano di facile accertamento, oggi naturalmente il computer non consente a chi riflette, a chi valuta, a chi analizza, di accertare se un periodo sia stato successivamente manipolato. Ecco stiamo facendo questi accertamenti.” Il ministro non chiarisce se fa riferimento agli appunti pubblicati sul Sole 24 Ore oppure ad altri sui quali sta lavorando la Procura di Caltanissetta. Nessuno fino ad ora aveva messo in dubbio l’attendibilità dei diari di Falcone. Vincenzo Parisi fa il giro degli uffici giudiziari di Palermo e scopre la vulnerabilitá di Borsellino. Persino il capo della polizia ne resta sconvolto.
Ecco il ricordo di Agnese Piraino Leto, nella sua testimonianza al processo Borsellino TER: “Dieci giorni prima che mio marito morisse, il capo della polizia é arrivato a Palermo, ha fatto un giro in procura e si é accorto che alle spalle di mio marito c´era un vetro normale ed allora lui si é lamentato come mai nessuno si fosse accorto che c´era questo vetro, enorme ma un vetro normale, ed allora subito ha fatto mettere il vetro blindato nella stanza di mio marito. C´era la scrivania con la poltrona che dava le spalle a questo vetro, dunque era anche quello un punto vulnerabile. E poi, che io sappia, gli addetti ai lavori, il Comitato di sicurezza non lo so che cosa abbiano deciso, questo sará scritto nei verbali, sotto i miei occhi non ho visto niente di particolare, insomma non si sono prese delle precauzioni e dei provvedimenti che potessero ostacolare il preannunciato progetto criminale. A me non risulta nient´altro, ecco. Soltanto ricordo che mio marito era piú sicuro quando era fuori la cittá di Palermo che quando si trovava in cittá. Era molto preoccupato per la sua incolumitá e per la nostra. Ed era anche disposto a sottoporsi a qualsiasi sacrificio pur di salvarsi, pur di salvare gli uomini della sua scorta, pur di salvare la nostra famiglia.”[20]
Il Presidente del Consiglio Giuliano Amato da Monaco in Germania afferma: “Falcone è stato ucciso a Palermo ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove.”
Martedì 7 luglio 1992 Dietrofront di Mancino ed Amato sulle dichiarazioni rilasciate il giorno precedente. Amato: “La frase sulla strage di Capaci va riferita non ad un episodio specifico, ma alla capacità di coordinamento della mafia mondiale.” [21] Mancino: “Non ho nessun elemento per porre in dubbio l’autenticità dei diari di Falcone, la mia era un’ipotesi scolastica.”
Paolo Borsellino, il tenente Carmelo Canale ed il sostituto Teresa Principato si recano a Manheim in Germania per interrogare Gioacchino Schembri, mafioso di Agrigento catturato in una recente operazione antimafia e sospettato di essere uno dei killer di Rosario Livatino.
Ad attenderli nella cittadina tedesca, Borsellino, Canale Principato trovano un imponente spiegamento di forze, una scorta armata, un corteo di otto auto blindate. L´albergo prenotato é stato trasformato in un autentico “fortino”, la polizia ha installato un sistema di intercettazioni telefoniche che registra tutte le conversazioni in entrata ed in uscita, ogni persona viene passata ai “raggi x”. Borsellino si concede un piccolo fuori programma, entra in un negozio, per acquistare un regalo per Massimo, il figlio del suo collega ed amico Diego Cavaliero, che domenica prossima sará battezzato a Salerno. Per il bimbo sceglie un regalo tradizionale, una collanina d´oro. Le teste di cuoi impazziscono. Si precipitano all´interno del negozio, ogni angolo viene ispezionato da cima a fondo, perquisito, bonificato, e solo dopo permettono a Borsellino di entrare per fare il suo acquisto.
Il magistrato sorride sotto i baffi, ed ironizza: “Proprio come a casa!” Poi si torna al lavoro. Entrati in carcere, i giudici italiani vengono informati da un funzionario della Bka, la polizia tedesca, che un connazionale, tale Egon Schinna, uno spacciatore di piccolo calibro, detenuto nella stessa cella di Schembri, ha cominciato a collaborare, rivelando che il siciliano é uno dei killer del giudice Rosario Livatino. La notizia é importantissima, promette una svolta decisiva nelle indagini su quel delitto ancora insoluto. Borsellino appare galvanizzato, e non perde il suo spirito fanciullesco.
La sera prima dell´interrogatorio, in una trattoria locale, sorvegliati dalla scorta, cenano tutti assieme. Borsellino, Canale e Principato, tra enormi boccali di birra e kartoffelsalad, la tipica insalata di patate. Borsellino non resiste, ha voglia di scherzare, e ripete ridendo “birra e patatuten”, brindando con le teste di cuoio che lo guardano senza capire e ridono pure loro. Ma l´indomani, in carcere, quando é seduto faccia a faccia con Schembri, il giudice sembra un altro. Senza giri di parole, ma senza scoprire il compagno di cella che lo ha tradito, guarda lo stiddaro negli occhi e gli fa capire che é spacciato, che é meglio che collabori, che sanno tutto di lui e della sua azione di morte contro Livatino. L´irriducibile impallidisce farfuglia, sembra proprio pronto alla resa.[22]
Mercoledí 8 luglio 1992 Schembri parla come un fiume in piena. É il primo a violare l´omertá di Palma di Montechiaro raccontando i mille segreti della faida. Rivela i retroscena dei crimini commessi dai suoi amici e dai suoi nemici. Parla dei cadaveri eccellenti: i giudici Livatino e Saetta, il maresciallo Guazzelli. “Finito l´interrogatorio – ricorda Canale – sono rimasto da solo nella stanza con lui, e gli ho chiesto come se la passasse. Lui mi rispose che da molto tempo non gli era possibile avere contatti con la moglie. Uscito dalla stanzetta, ne parlai subito con Borsellino che giró la richiesta di Schembri ai poliziotti di guardia. Loro sembravano contrari, ma Borsellino chiese di assecondare il desiderio del detenuto, al piú presto. Lo accontentarono. Passarono dieci minuti, e si presentó la moglie. Io entravo ed uscivo dalla stanza, per controllare il colloquio tra i due, per evitare che potesse succedere qualcosa che mettesse in difficoltá le guardie. Fissando il divanetto dove i due si erano seduti, a un tratto, Borsellino, con uno sguardo eloquente, mi disse: “Canale, ora basta, faccia uscire la moglie. Non vorrei che il colloquio si trasformi in qualcosa di piú … intimo.” Cioé, non disse queste testuali parole, disse qualcosa di diverso, usó una frase in dialetto siciliano, dal significato inequivocabile, che capiamo solo noi. Ma Schembri aveva capito che si poteva fidare di quel giudice. E salutandolo, Borsellino gli chiese: “Allora, Schembri, ci rivediamo presto?” Il palmese sorridendogli, fece cenno di sí. Borsellino gli lasció sul tavolo il suo pacchetto di Dunhill con tre sigarette. Non fecero in tempo a rivedersi mai piú.” [24]
Il plenum del CSM approva le proposte formulate dalla Commissione incarichi direttivi di concerto con il ministro di grazia e giustizia per i nuovi procuratori generali presso le Corti d’appello di Catania e di Cagliari. Con 25 voti favorevoli, uno contrario ed una astensione, e’ designato a dirigere la procura generale di Catania Giuseppe Di Mauro, 67 anni, attualmente consigliere della Corte di cassazione. All’unanimita’ e’ approvata la proposta della Commissione di affidare la procura generale di Cagliari a Francesco Pintus, 63 anni, anche lui consigliere presso la Suprema Corte. [27]
Giovedí 9 luglio 1992 Borsellino rientra dalla Germania insieme al maresciallo Canale ed al sostituto Teresa Principato. Sotto la scaletta dell’aereo c’è una sola auto di scorta.
Quando Borsellino rientra dalla Germania dovrebbe incontrare la figlia Fiammetta all’aeroporto di Fiumicino. Infatti Fiammetta è in partenza per Bangkok insieme all’amico Alfio Lo Presti. Purtroppo l’aereo del magistrato atterra a Ciampino per una variazione di programma. Borsellino e la figlia non si vedranno più.
Quello stesso pomeriggio Borsellino va direttamente alla sede dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia per interrogare Leonardo Messina, il pentito di San Cataldo (Caltanissetta), che sa tutto della mafia nissena, che aprirá uno squarcio di luce sulle trame segrete della massoneria in combutta con la mafia e l´alta finanza di riciclatori. Messina parla di guerre sanguinarie tra i clan, descrive omicidi e sparatorie, agguati e massacri, poi chiede: “Dottore, una cortesia, me lo fa un autografo?”. Borsellino resta di stucco: “Un autografo?”. “Si – risponde il pentito – é per i miei figli, me l´hanno chiesto loro, la conoscono, la vedono in tv.” Borsellino, al successivo incontro, si presenta con una cartolina: “In ricordo delle lunghe giornate trascorse con vostro padre. Paolo Borsellino.” [28] In quei giorni Borsellino e Messina si incontreranno almeno un’altra volta. “Il decreto antimafia va bene cosí com´é, se modifiche ci saranno esse dovrebbero riguardare solo le norme processuali”: cosí Martelli risponde ai giornalisti, lasciando la commissione giustizia del senato, dove si sta esaminando il decreto anticriminalitá, varato l´8 giugno scorso, che dovrebbe andare in aula mercoledí 15 luglio.[29] Anche se appare ormai improbabile che il decreto possa essere trasformato in legge in tempo utile. Scadra’ l’8 agosto e il governo sara’ costretto a ripresentarlo.
La Corte costituzionale decide in merito al conflitto sorto fra il ministro di grazia e giustizia Martelli ed il CSM in modo sostanzialmente favorevole al primo. Il dispositivo della sentenza della Corte recita: “Spetta la ministro della giustizia non dare corso alle delibere del CSM di conferimento di uffici direttivi ai magistrati quando, da parte della commissione competente del CSM, sia mancata un´adeguata attivitá di concertazione, ispirata al principio di leale cooperazione, ai fini della formulazione della proposta; e, conseguentemente, essendo mancata nella specie la suddetta attivitá, spetta al ministro non proporre al Presidente della Repubblica il decreto di conferimento dell´ufficio direttivo di presidente della corte di appello di Palermo relativo alla delibera del CSM in data 11 dicembre 1991. Non spetta al ministro della giustizia non dare corso alle delibere del CSM sul conferimento di uffici direttivi quando, nonostante che sia stata svolta un´adeguata attivitá di concertazione nei sensi indicati nel capo precedente, non si sia convenuto in tempi ragionevoli tra la commissione del CSM ed il ministro sulla proposta da formulare”.
Mario Cicala, presidente dell´ANM, commenta: “la decisione della Consulta suscita preoccupazione per il possibile uso strumentale della sentenza”. Il ministro Martelli si definisce soddisfatto.[31]
Venerdì 10 luglio 1992 Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino[32]:
- Roma Sco, Alto Commissario Ore 18.30 Ros
- Cena Cc
L´interrogatorio di Leonardo Messina é appena concluso, Borsellino e Canale decidono di andare a cena, da soli. Scelgono una trattoria all´aperto, si siedono. Borsellino ordina “olive e sarde salate per antipasto”. E parla, parla tutta la sera. Parla dei suoi figli. Gli é dispiaciuto non incontrare Fiammetta all´aeroporto, spera che si diverta in vacanza. É felice che Lucia abbia deciso di laurearsi in Farmacia. “Ho sempre avuto nelle narici l´odore dei medicinali di un tempo, mio padre li teneva nei contenitori di ceramica poggiati sugli scaffali del retrobottega della farmacia. Chissá come sarebbe stata la mia vita, se avessi fatto quel mestiere.” É orgoglioso di Manfredi, dei suoi studi di Giurisprudenza. “Quando lo guardo mi rivedo ragazzo.” Canale ricorda che Borsellino, quella sera, “era felice.” Scherzando gli confida persino che, se potesse rinascere, vorrebbe fare il portiere di un palazzo. In divisa. “Potrei vendere l´uovo fresco agli inquilini, ritirare al posta, pagare le bollette della luce e del telefono.” E perché? Per potersi permettere tanti, tantissimi rapporti umani, senza dover sempre considerare il rischio di trovarsi coinvolti in amicizie imbarazzanti. Non sa, allora, Borsellino, che anche il suo fidato maresciallo Canale, anni dopo, sará coinvolto in un processo per collusioni con Cosa Nostra dal quale uscirá assolto con il dubbio.[33]
Sabato 11 luglio 1992 Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino:[35]
- Roma Sco Ore 16.30 Salerno con Cavaliero
Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, parte per una vacanza in Indonesia insieme ad alcuni cari amici di famiglia: il ginecologo Alfio Lo Presti, la moglie Donatella Falzone, i figli Giorgia e Salvatore, compagni inseparabili di Fiammetta.
Domenica 12 luglio 1992 Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino:[36]
- Battesimo di Massimo
“Sono le sei del mattino, quando mi sveglio” ricorda il tenente Carmelo Canale. “Nella camera d´albergo che condividiamo, il procuratore é giá al lavoro. Lo vedo scrivere su questa agenda rossa. Gli chiedo: ma che fa? Vuol diventare pentito pure lei? Non stará prendendo nota su cosa abbia mangiato ieri sera a cena e chi c´era con noi?” La sera precedente, a cena, erano in quattro: con Borsellino e Canale, c´erano Diego Cavaliero ed il sostituto procuratore Alfredo Greco. “Carmelo – risponde gelido Borsellino – per me é finito il tempo di parlare. Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch´io ho le mie cose da scrivere. E qua dentro ce n´é anche per lei.” [37]
Il quotidiano Corriere della Sera riporta che il finanziere Filippo Alberto Rapisarda, parte civile nel processo contro gli amministratori della Cassa di Risparmio di Asti in corso davanti alla prima sezione del tribunale penale, e’ stato rinviato a giudizio per bancarotta. La decisione e’ stata presa dalla corte d’ Appello al termine di una lunga serie di provvedimenti adottati nell’ ambito dell’ inchiesta sui risvolti penali della “Pmi”, una societa’ del gruppo “Bresciano” (a sua volta al centro di un annoso contenzioso tra la cassa di Risparmio di Asti e Rapisarda). Filippo Alberto Rapisarda e’ stato rinviato a giudizio per bancarotta documentale e distrazione, in relazione ad un mutuo attinto per conto della “Pmi” da lui acquistata.[38] Sempre il Corriere della Sera riporta la notizia della richiesta di rinvio a giudizio per abuso in atti d´ufficio continuato ed aggravato del deputato regionale siciliano Salvatore Leanza giá sospeso dal suo incarico il 27 aprile 1992 dal Gip. Tale sospensione dall´incarico di assessore aveva provocato alla fine del mese di aprile le dimissioni del governo regionale siciliano.[39]
Pochi giorni prima di domenica 19 luglio 1992 Una lettera minatoria viene recapitata alla Procura di Palermo con minacce di morte e tre foto, quelle di Paolo Borsellino e di altri due giudici della direzione antimafia.[40]
Lunedì 13 luglio 1992 Il ROS di Palermo comunica ai vertici della Procura e delle forze dell’ordine che è stato segnalato da attendibili fonti confidenziali l’arrivo di un carico di esplosivo in città. I possibili obiettivi, sempre secondo l’informativa, sono Borsellino, il maresciallo Canale, il capitano dei carabinieri Sinico, i politici Salvo Andò e Calogero Mannino.[41]
Nel pomeriggio, un poliziotto della scorta guarda Borsellino in volto, lo vede preoccupato, teso, troppo teso, non puó fare a meno di chiedergli: “Dottore, cosa c´é? È successo qualcosa?” Borsellino, come se non potesse trattenersi, gli dice di botto: “Sono turbato, sono preoccupato per voi, perché so che é arrivato il trirolo per me e non voglio coinvolgervi.” L´agente sbianca, resta senza parole.[42] Di quei giorni, gli ultimi della vita di Borsellino, la moglie Agnese ricorda la fretta, la frenesia di lavorare, la paura di avere poco tempo, la consapevolezza di essere un bersaglio vivente. “Era turbato. Gli facevo tante domande, e lui non mi rispondeva. E io dicevo: “Ma perché non mi rispondi?”. “Non vi voglio esporre” mi ripeteva “e poi: non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare…” Era turbato, sí, tantissimo.” Agnese ricorda quell´angoscia di correre contro il tempo, per arrivare alla veritá prima di essere fermato. Ma quale veritá? “Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: é una corsa contro il tempo, per arrivare alla veritá prima di essere fermato. Ma quale veritá? “Ricordo – racconta Agnese – che Paolo mi ripeteva sempre: é una corsa contro il tempo quella che io faccio. Sto vedendo la mafia in diretta, devo lavorare tanto, devo lavorare tantissimo.” [43]
“Il tritolo é arrivato con un carico di “bionde”, l´ha scoperto la finanza ed é arrivato per me, Orlando ed un ufficiale dei carabinieri.” É la rivelazione che Borsellino fa in un giorno di giugno a padre Cesare Rattoballi, dirigente dell´Agesci, l´associazione cattolica degli scout, il sacerdote che é diventato suo confidente nelle ultime settimane.
Don Rattoballi é cugino di Rosaria Schifani, é rimasto vicino alla giovane vedova che ha lanciato l´anatema contro i mafiosi, dal pulpito della chiesa di San Domenico, nel giorno dei funerali di Falcone, e delle altre vittime di Capaci. Conosce Borsellino fin dagli anni settanta, gli si é avvicinato in modo particolare in quelle settimane di fuoco, dopo il “botto” sull´autostrada, imparando a leggerne i silenzi, le inquietudini, a rispettarne gli sforzi per scoprire la veritá sull´attacco allo stato.
Anche in questi giorni di luglio, mentre la cittá si va svuotando per le ferie, don Cesare sente il bisogno di andare a far visita all´amico, senza una ragione precisa, guidato dall´affetto o dall´istinto. Il sacerdote é solo, varca il metal detector del Palazzo di giustizia, s´infila nel vecchio ascensore, sale al secondo piano, scivola silenzioso fino in procura. Bussa alla porta di Borsellino. Lo saluta, gli sorride. Si siede di fronte a lui. Non sa ancora che questo sará il loro ultimo incontro.
“Quella mattina, non lo dimenticheró mai – ricorda il sacerdote – era un giorno di luglio, me ne andai in procura, non ricordo per quale ragione, bussai alla porta di Borsellino, lo salutai, lui mi accolse con un sorriso, ci mettemmo a chiaccherare. Parlammo di tante cose, era sereno, preoccupato solo per il futuro dei suoi ragazzi. Ad un tratto mi disse: “Io sono come quello che guarda i quadri, chissá se li potró piú vedere”. Più tardi, quando fui sul punto di andarmene, mi fermó di colpo e mi chiese: “Aspetta, prima di andare via mi devi confessare”. E lí, nel suo ufficio, tra le sue carte, si raccolse e si confessó.
Rattoballi non era il suo confessore abituale. “Paolo – ricostruisce oggi il parroco – sosteneva che il sacramento della riconciliazione si puó ottenere da qualsiasi sacerdote, e quindi non aveva un confessore fisso”. Quella mattina, chiaccherando con don Cesare, l´amico, ma soprattutto il sacerdote, Borsellino coglie al volo l´occasione. Si confessa. Vuole essere purificato. Vuole essere pronto.[44]
Martedì 14 luglio 1992 L´agenda grigia di Paolo Borsellino (martedí 14 luglio 1992) Il Viminale suggerisce a Leoluca Orlando di contenere al massimo le attività pubbliche esterne vista la grave situazione di pericolo che sta correndo. Giacomo Ubaldo Lauro, calabrese già appartenente alla ‘ndrangheta rifugiatosi in un paese del Nord Europa, avverte il console italiano del luogo che si sta tramando un attentato a Palermo contro Borsellino. Comunicata a Roma l’informazione il giorno stesso, essa verrà trasmessa a Palermo solo il 25 luglio, cinque giorni dopo la strage di Via D’Amelio.[45] Nel giro di 24 ore scompaiono nei dintorni di Alcamo in provincia di Trapani Vincenzo Milazzo e la sua compagna Antonella Bonomo. Il Milazzo era ritenuto un uomo di vertice del mandamento alcamese di Cosa Nostra (solo nel 1996 grazie alla collaborazione di Gioacchino La Barbera si saprá che il Milazzo e la Bonomo vengono uccisi da un commando di Cosa Nostra quello stesso giorno a poche ore di distanza uno dall´altro). La giornata centrale del “Festino” di Palermo che dal 1625 onora Santa Rosalia, patrona della cittá e che da oltre un secolo viene conclusa da uno spettacolo pirotecnico, diventa l´occasione per una grande fiaccolata nel Foro Italico, in ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta uccisi dalla mafia il 23 maggio.
Alla manifestazione popolare partecipano migliaia di cittadini che sfilano in corteo lungo la passeggiata a mare, mentre alcuni attori su un palco interpretano brani scritti per l´occasione.[46]
Mercoledì 15 luglio 1992 L´agenda grigia di Paolo Borsellino (mercoledí 15 luglio 1992) Carla Del Ponte, giudice svizzero e collaboratrice di Falcone, rilascia un’intervista in cui afferma di sentirsi minacciata e di non poter momentaneamente fare ritorno in Italia. Attualmente collabora con Antonio Di Pietro nell’inchiesta sulle tangenti milanesi, ma nega che le minacce ricevute siano legate a questo filone di indagini. I giudici della procura distrettuale antimafia di Palermo ribadiscono la necessità che venga approvato in tempio brevi, dal Parlamento, il recente decreto anticrimine che prevede fra l´altro nuove misure in favore dei pentiti. “Senza il loro apporto – sostengono i magistrati – é illusorio pensare che si possa combattere efficacemente la mafia.” [47]
Il palazzo di giustizia é quasi deserto. É il giorno della festa di Santa Rosalia. Borsellino incontra Ingroia che sta andando in ferie. Borsellino é silenziosamente contrariato, vorrebbe che il suo braccio destro restasse al suo fianco per proseguire il lavoro. Ma Ingroia ha giá prenotato una casa per le vacanze e non puó rinviare. Lo rassicura: si tratta comunque di una sola settimana da trascorrere al mare, a San Vito Lo Capo, a pochi chilometri da Palermo. Borsellino, che al mattino mantiene un atteggiamento di “silenzioso rimprovero”, il pomeriggio incontra di nuovo il Pm.
“Lo vidi sorridere per l´ultima volta – racconta Ingroia – quando gli dissi che sarei rimasto fuori soltanto per il weekend, promettendogli che sarei tornato giá in ufficio lunedí.” Borsellino si é rasserenato. Si alza, abbraccia Ingroia, lo saluta. Il Pm va via, ancora un po´ dispiaciuto di lasciarlo solo in quel palazzo deserto.[48]
Un giorno fra il 15 ed il 19 luglio 1992 Borsellino incarica il tenente Canale di ripescare dall’archivio della sezione anticrimine un rapporto sulla Duomo Connection, inchiesta sui tentacoli della mafia a Milano.[49]
Paolo Borsellino confida al maresciallo Canale che entro l’estate avrebbe arrestato il Procuratore Giammanco, perché doveva raccontare quanto di sua conoscenza sull’omicidio Lima.[50]
Giovedì 16 luglio 1992 Borsellino si reca a Roma per interrogare Mutolo ed altri collaboratori. Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino:[51]
- Roma
- Dia
- Ore 13.30 De Gennaro
L´agenda grigia di Paolo Borsellino (giovedí 16 luglio 1992)
La corte di appello del tribunale di Palermo presieduta da Pasquale Barreca assolve Nitto Santapaola, Mariano Agate, Francesco Mangion ed Antonio Riserbato dall’accusa di essere gli autori dell’omicidio Lipari. La ricostruzione dell’accaduto era stata possibile anche grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara.
Un confidente dei carabinieri di Milano rivela che si sta preparando un attentato ad Antonio Di Pietro e a Paolo Borsellino. La fonte è ritenuta altamente attendibile ed il raggruppamento ROS di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano ed a quella di Palermo. L’informativa è inviata per posta ordinaria ed arriverà a Palermo dopo la strage di Via D’Amelio. In seguito a questa notizia viene pesantemente rafforzata la scorta a Di Pietro ed alla sua famiglia, il PM milanese non dorme neppure a casa sua.
Il maresciallo Cava del ROS di Milano tenta anche di mettersi in contatto diretto con la Procura palermitana ma senza risultato.
Borsellino interroga Gaspare Mutolo. É l´ultimo interrogatorio, dura parecchie ore. Il pentito accetta di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ma oggi non si fa in tempo, se ne riparlerá lunedí prossimo. É tardi. Borsellino chiude il verbale senza neppure una parola, sempre piú incupito. Saluta Mutolo, ed é l´ultima volta che lo vede.[52]
Prima di salutare Mutolo, Borsellino riceve una telefonata dalla figlia Fiammetta in partenza da Londra per Bangkok. Il magistrato ne parla con il collaboratore il quale racconta le preoccupazioni per i suoi figli che hanno dovuto cambiare residenza insieme alla madre e che ogni settimana cercano di tornare dai loro amici nonostante il grosso rischio che ció comporta. “Stia tranquillo Mutolo – dice Borsellino – i figli sono tutti uguali, indipendentemente dalla vita che vorremmo fargli condurre, il loro mestiere é farci preoccupare. L´importante é che sappiano sempre che sono il bene piú importante della nostra vita.” [53]
A Roma si svolge un incontro tra il ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli ed i ventisei procuratori distrettuali antimafia. La discussione verte sul decreto legge anticrimine presentato dal governo l´otto giugno. Martelli invita i procuratori a pronunciarsi “su ció che va mantenuto e su ció che puó essere utilmente modificato.” I titolari delle ventisei procure richiedono al ministro di mantenere ferma la struttura portante del decreto limitandosi ad apportare ad esso solo modifiche di “chiarificazione o integrazione”.[54]
Anche il Procuratore di Firenze, Pier Luigi Vigna, condivide lo spirito del provvedimento ma auspica modifiche sull´individuazione delle fattispecie di reato relative alla criminalitá organizzata.[55]
Il quotidiano Corriere della Sera rilancia un´intervista rilasciata dal magistrato elvetico Carla Del Ponte al Nouveau Quotidien di Losanna in cui la Del Ponte rivela di aver ricevuto recentemente minacce di morte: Carla Del Ponte, il procuratore di Lugano che ha lavorato per anni con Giovanni Falcone sul fronte antimafia, che ha indagato con Ilda Boccassini sugli affari delle cosche trapiantate a Milano e che ora collabora con Antonio Di Pietro nell’ inchiesta sulle tangenti, ammette di sentirsi in pericolo, lascia capire di essere stata minacciata recentemente e di “non potere andare in Italia”. In un’ intervista al Nouveau Quotidien di Losanna, spiega: “Dipende dai segnali che mi sono arrivati. Per ora non ho bisogno di protezione. Ho una scorta solo quando mi serve… Per fortuna le cose evolvono con lentezza, ma puo’ darsi che un giorno io non possa piu’ circolare liberamente”. Dopo le minacce a Di Pietro, gli allarmi ripetuti piu’ volte per i giudici antimazzette, dopo i veleni di Milano e le polemiche di Roma, si apre dunque un nuovo fronte. Carla Del Ponte e’ da tempo la sponda piu’ preziosa a Lugano per i giudici italiani. Esperta di riciclaggio, conosce a fondo tutti i meccanismi con cui le famiglie mafiose o i manager senza scrupoli lavano i soldi sporchi negli asettici paradisi finanziari svizzeri. Finora ha lottato contro i narcotrafficanti. Ma l’ indagine di Di Pietro l’ha messa di fronte a una criminalita’ diversa, ai corrotti, ai corruttori, alle bustarelle, ai pagamenti estero su estero finiti nelle cassaforti segrete dei partiti. E lei, che da mesi ha ingaggiato un braccio di ferro con le banche del Canton Ticino per ottenere i nomi di politici e imprenditori che hanno conti nascosti oltreconfine, e’ nel mirino di qualcuno. Di chi? I suoi timori a venire in Italia chiariscono almeno da dove provenga il pericolo. C’e’ in ballo la mafia, oppure Tangentopoli? Risposte sicure non ce ne sono. Dal magistrato non viene nessuna conferma. L’ipotesi che porta a Cosa Nostra pare la piu’ consistente: la Del Ponte era con Falcone quando i mafiosi tentarono per la prima volta di uccidere il giudice all’Addaura, nell’89. E certo, comunque, che la paura torna a far capolino anche nell’ inchiesta milanese. Carla Del Ponte dedica anche una lunga reprimenda ai cronisti italiani che hanno seguito la vicenda delle mazzette: “Se la pubblicita’ deriva una volta o l’altra da un processo, la cosa non mi disturba. Ma detesto quanto mi succede con lo scandalo delle tangenti. I giornalisti italiani hanno superato ogni limite. Non sono Rambo e la notorieta’ dei giudici ticinesi dipende molto dalla vicinanza dell’ Italia, dove esiste una criminalita’ di qualita’ con ramificazioni anche da noi”.[56]
Venerdì 17 luglio 1992 L´agenda grigia di Paolo Borsellino (venerdí 17 luglio 1992)
In mattinata Paolo Borsellino incontra a Roma il capo della polizia Vincenzo Parisi per rivolgergli una richiesta particolare: il rafforzamento della propria scorta. La richiesta é stata formulata da dieci agenti del nucleo scorte di Palermo che si rendono conto che il magistrato é in immediato pericolo di vita e le misure per proteggerlo sono insufficienti. Gli agenti chiedono a Parisi solo di essere armati e di avere il via all´operazione.
Dopo il colloquio con Parisi il sistema con cui viene organizzata la scorta di Borsellino resta invariato.[57]
Borsellino rientra a Palermo. Dall´agenda grigia di Paolo Borsellino:[58]
- Ritorno da Roma alle 15
Di ritorno da Punta Raisi, Borsellino fa un salto in procura per mettere i verbali in cassaforte, fare qualche telefonata e salutare i colleghi. Li abbraccia anche, uno per uno. “Loro si meravigliano – racconta Rita Borsellino – perché é una cosa che Paolo non ha mai fatto. Almeno tre o quattro di loro, e tra questi Ignazio De Francisci e Vittorio Teresi, affermano di essere rimasti sconvolti da quell´episodio: “Paolo, ma che stai facendo?” E lui, al solito scherzando: “E perché vi stupite? Non vi posso salutare?” [59]
“É l´ultima volta che sento Borsellino al telefono – ricorda Carmelo Canale – é appena rientrato da Roma, dove era andato ad ascoltare Mutolo. All´interrogatorio, in un primo momento, dovevo andare anch´io. Ma dopo avermi avvertito della partenza prevista per mercoledí, Borsellino mi dá il controordine. Spiega che Giammanco gli ha vietato di portarmi con sé, sostiene che siccome il pentito é gestito dalla Dia, é preferibile che nessuno esterno alla struttura diretta dal generale Giuseppe Tavormina partecipi. Va da solo, quindi, peró appena rientrato mi chiama. Mi chiede novitá sul versante delle indagini su Palma di Montechiaro, mi anticipa come si é svolto il colloquio ocn Mutolo. Lo sento stanco, amareggiato, affaticato. Vorrei incontrarlo, ma sto per lasciare la Sicilia per due giorni, ho un impegno familiare, gli chiedo di accompagnarmi, potrá riposare dopo mesi di lavoro pesantissimo. Lui dice che non é possibile, ha troppo lavoro arretrato. Mi fa una promessa: lunedí partiamo per il nuovo interrogatorio con il palmese Gioacchino Schembri, in Germania. Al rientro ce ne andiamo per una decina di giorni. La meta l´ha giá scelta: l´Asinara. C´é un mare stupendo, producono del formaggio fresco che é la fine del mondo. Le nostre mogli non avranno vetrine da guardare? Pazienza. Si divertiranno lo stesso. Mi saluta: a lunedí . É l´ultima volta che sento la voce di Borsellino.”
Canale sostiene anche che, nel corso di quella telefonata, Borsellino gli avrebbe rivelato che Mutolo ha accusato Bruno Contrada.[60]
Dalla procura, Borsellino torna a casa in auto. A guidare la Croma c´é una carabiniere della Dia. Il magistrato tira fuori dalla tasca il suo cellulare, compone un primo numero, poi un secondo e parla concitatamente. Il carabiniere che lo ascolta riferisce che era “stravolto”. Riesce a captare solo qualche parola: “Adesso noi abbiamo finito, adesso la palla passa a voi”. I due cellulari chiamati dal magistrato sono intestati al comune di Nicosia ed alla procura di Firenze.
“Mi pare che poi si accertó – dirá Gioacchino Genchi, consulente informatico delle procure – che uno fosse il dottor Vigna e l´altro il dottor Tinebra, in quanto il cellualre era allora a lui in uso.”
Quel giorno Tinebra si é insediato alla guida della procura di Caltanissetta. Borsellino, che non fu mai interrogato, voleva essere ascoltato? [61]
Borsellino arriva in famiglia nel tardo pomeriggio, teso, nervoso. A casa, peró, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: “Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo.”
Non fa il nome di Mutolo, non puó farlo, ma confida a suo figlio che c´é un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d´onore vicini a Riina Ma c´é di piú, anche se quel di piú Manfredi lo verrá a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ecco perché Borsellino é cosí nervoso. Ad un tratto propone ad Agnese: “Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po´d´aria, ma senza scorta, da soli.”
Agnese é stupita. “Da soli, Paolo, cosa c´é? É successo qualcosa?”
“Andiamo”, ordina.
La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che é tormantato da mille angosce., mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa é successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha acccusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo é sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell´interrogatorio era cosí traumatizzato da avere addirittura vomitato. “Stavo malissimo”, dice. Anni dopo, Agnese, sentita come teste nel processo Borsellino TER, ricorda: “Mutolo gli aveva annunciato che avrebbe dovuto parlare di Signorino, peró mio marito ha detto pure: “Se ne riparla la prossima settimana, perché é tardi e dobbiamo […] abbiamo chiuso giá il verbale, dunque se ne riparla lunedí.”
La moglie di Borsellino afferma che Paolo quella sera non fa altri nomi. E lei non insiste con le domande, cogliendo il suo profondo turbamento. “Non gli ho fatto altre domande, sapevo che avrebbe significato ferirlo ancora di piú. Capivo che dentro di lui provava un dolore immenso.” Che ha detto di cosí sconvolgente Mutolo a Borsellino? Ha parlato solo di Contrada e di Signorino? Ha parlato d´altro? [62]
Il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara telefona a Paolo Borsellino per commentare la sentenza del processo Lipari con la quale la corte di appello aveva mandati assolti Nitto Santapaola, Mariano Agate, Francesco Mangion due giorni prima. Borsellino dice a Calcara che si vedranno presto per parlare in particolare di rapporti mafia, massoneria e potere politico. [63]
Di mattina alle 9 circa, un furgoncino Ford Transit grigio chiaro, con targa d´importazione tedesca, condotto da un cinquantenne brizzolato dall´accento palermitano, si ferma a fare rifornimento presso l´area di servizio Reggello, sull´autostrada del sole, all´altezza dell´uscita di Valdarno. L´uomo fa il pieno pagando trentacinquemila lire. Nell´attesa scambia due chiacchere con l´addetto al carburante, gli dice che in Germania la benzina costa meno e che in Italia la situazione politica é critica. E conclude: “Quello che é successo a Falcone é niente, deve succedere qualcosa di piú grosso tra qualche giorno…” Il giorno successivo alla strage, il 20 luglio, il benzinaio ricorda le parole di quell´uomo ed informa una pattuglia della stradale fermatasi a fare benzina. Con un fonogramma, vengono diramate le ricerche in tutta Italia, “con particolare raccomandazione ai porti dei traghetti in partenza da e per la Sicilia”. Ma ormai é troppo tardi. [64]
Sabato 18 luglio 1992 Borsellino lavora in procura la mattina in procura e nel pomeriggio si reca a far visita alla madre in via D’Amelio, per assisterla durante la visita del cardiologo Pietro Di Pasquale, che aveva promesso un consulto domiciliare. La sorella di Paolo, Rita, non é in casa, ma c´é sua figlia Marta, che fa compagnia alla nonna. Paolo Borsellino é rilassato, insolitamente scherzoso, in un periodo cosí cupo. É seduto nella stanza da pranzo con la madre e con Marta quando arriva una telefonata. É Rita, che chiama da fuori.
Risponde Marta:
- Sai mamma? C´é qui lo zio Paolo. Lo zio Paolo che ha il babbio [che ha voglia di scherzare, N.d.A.]
- Ah si? Passamelo.
- Pronto, Rita?
- Paolo, ciao. É venuto il dottore? Che ha detto?
- No, Di Pasquale non é venuto. Gli si é rotta la macchina.
- Ah, e ora?
- Non ti preoccupare. Ho parlato con lui. Ed abbiamo deciso cosí: domani, dopo pranzo, vengo a prendere la mamma e la accompagno a casa sua. Pietro ci aspetta.
- La visita a casa sua?
- Si, si, me lo ha promesso lui stesso.
- Ma… Paolo, io domani non ci sono. Devo andare a Trabia con tutta la famiglia.
- Non c´é problema, Rita, vengo a prenderla io la mamma, la porto con me.[65]
Prima di rincasare Borsellino si ferma all´hotel Astoria Palace, in via Montepellegrino. Lí incontra David Monti, il Pm di Aosta in vacanza in cittá che gli ha telefonato per incontrarlo e salutarlo. Monti é il magistrato che condurrá a metá degli anni novanta l´inchiesta Phoney Money, su un giro di miliardi riciclati nel quale sono coinvolti faccendieri italiani in rapporti molto stretti con i servizi segreti americani.[66]
Tornando a casa, quella sera, Borsellino saluta il suo portiere, don Ciccio, lo abbraccia e lo bacia. Anche in questo caso sono effusioni insolite, atipiche, mai manifestate prima. Il portinario del palazzone di via Cilea le riferirá, commosso, ai familiari del giudice, nei giorni successivi alla strage.[67]
Il quotidiano Corriere della Sera pubblica un´intervista di Enzo Biagi a Maria Falcone, sorella di Giovanni, la quale sottolinea come tra i moventi della strage di Capaci vi sia la possibilitá che Giovanni Falcone diventasse Procuratore nazionale antimafia:
Enzo Biagi (EB):“Perche’ lo hanno ucciso?”
Maria Falcone (MF):”Lo avevano deciso da anni, era il simbolo della lotta alla mafia. E avevano il terrore che la superprocura nelle sue mani potesse colpirli, con una forza, una organizzazione, che non c’ erano mai state. E anche un avvertimento agli altri magistrati: lui era il bersaglio piu’ difficile da colpire; state attenti, arriviamo dove vogliamo. A Roma, Giovanni se ne andava qualche volta anche in giro da solo, o con un amico, si liberava dalla scorta. Sarebbe bastato anche un killer per colpirlo. Invece hanno voluto dimostrare la loro potenza: e lo hanno inseguito in Sicilia, e assieme alla moglie, volutamente. Sapevano che c’ era con lui Francesca”.
Maria Falcone spiega fra le altre cose le ragioni che indussero il fratello Giovanni a chiedere il trasferimento dalla procura di Palermo al ministero di grazia e giustizia a Roma:
- EB:“Come visse l’andata a Roma? Perche’ decise di andarsene?”
- MF: “Se ne e’ andato, come si capisce dagli appunti che ha lasciato, perche’ gli era impossibile lavorare a Palermo in una atmosfera che gli consentisse di raggiungere quegli scopi che si era posti. Tra lui e il procuratore capo c’era completa divergenza di vedute. Non esisteva piu’ quell’ armonia dei tempi di Caponnetto; sentiva che le cose stavano andando in una direzione sbagliata, ma non voleva provocare un nuovo dibattito, che la stampa avrebbe trasformato in una montagna di veleni, che avrebbe delegittimato, a vantaggio della mafia, il Palazzo di Giustizia. Partendo mi disse: “Sono sicuro di poter fare a Roma molto di piu’ di quello che ormai posso fare qui a Palermo”.
- EB: “Chi erano i suoi amici?”
- MF: “Pochi. Alcuni colleghi, tra cui certamente Caponnetto e Borsellino, e poi qualcuno fuori: anche dei giornalisti”.
- EB:“E quelli che l’avversavano?”
- MF:”Tantissimi. Sia nella magistratura come nella politica”.
- EB: “Il giudice Caponnetto ha dipinto Leoluca Orlando come uno che aveva con suo fratello, cito tra virgolette. “rapporti di stima e di affetto, e ricambiato”. E cosi’ ?”
- MF: “No”.
- EB: “Come viveva?”
- MF: “Trovava nel lavoro la sua vera realizzazione. Amava il mare, stare coi suoi, con le persone di cui era sicuro al cento per cento”.
- EB: “Quali attacchi lo hanno piu’ amareggiato?”
- MF: “La contesa con il giudice Meli per il posto di consigliere istruttore; gli attacchi ingiusti di un suo ex amico, il giudice Geraci, che l’osteggio’ dentro e fuori il Consiglio superiore, e che adesso dice: “Era il migliore di tutti noi”, e la posizione del Giornale, e infine le accuse di Leoluca Orlando che gli attribuiva di tenere chiusa nei cassetti la verita’ sui grandi delitti. Gli dicevo spesso: “Perche’ non ti difendi? Perche’ non quereli?”. “E lui, sempre pacato: “Maria, le cose vanno fatte nelle sedi istituzionali appropriate”. [68]
Domenica 19 luglio 1992 Alle 5 di mattina Borsellino riceve una telefonata dall’altra parte del mondo, sono Fiammetta e l’amico Alfio Lo Presti che gli telefonano per sentire come sta e per parlare con lui. Dopo la telefonata Borsellino scrive una lettera ad una professoressa di Padova che lo aveva invitato per un dibattito. Quell´invito non é mai arrivato a Borsellino, e la docente protesta: essere un giudice famoso e stracarico di lavoro non deve far dimenticare le buone maniere. C´é anche un questionario con dieci domande: Come e perché é diventato Giudice? Cosa sono la Dia e la Dna? Quali le differenze tra mafia, camorra, ´ndrangheta e sacra corona unita? Quali i rapporti tra la mafia italiana e statunitense? Borsellino, con una pazienza davvero infinita, risponde con una lunga lettera alla professoressa risentita, una lettera che oggi sembra quasi un testamento spirituale:
“Gentilissima” professoressa, uso le virgolette perché le ha usate Lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa, e “pentito” mi dichiaro e dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del Suo Liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio. Intanto vorrei assicurarle che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto. Se le Sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero telefonico presso la Procura di Palermo è (…), utenza alla quale rispondo direttamente. Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro. Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dott. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della Vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno. Il 24 Gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stata “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda, non ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni di lavoro sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro. Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi a intermediari di sorta o telefoni sbagliati. Oggi non è per certo il giorno più adatto per risponderLe perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho più tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente poiché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle sue domande.
1) Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalla necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dare sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso. Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle (…) legali, delle divisioni ereditarie ecc. Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Cons. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal Civile, il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma, se amavo questa terra, di essi dovevo esclusivamente occuparmi. Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista poiché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.
2) La Dia è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative che, fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non coordinato. La Dna è una nuova struttura giudiziaria che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le… circoscrizioni territoriali. Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza e autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi, anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.
3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa è suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato. Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo al contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro ecc., che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato. E’ naturalmente una fornitura apparente perché a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato ad alcuni (pochi) togliendolo ad altri (molti). La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra dei mezzi economici prima indispensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione. Il conflitto inevitabile con lo Stato con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale. Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, ‘ndrangheta, Sacra Corona Unita ecc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra, ma non ne hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.[69]
Alle 7.00, squilla nuovamente il telefono. A quello´ora, é una chiamata insolita. Agnese si preoccupa, si alza dal letto, raggiunge lo studio, ascolta. La conversazione dura pochi minuti. Agnese sente Paolo replicare infuriato: “No, la partita é aperta.” Poi il rumore della cornetta sbattuta sul telefono.
“Che succede?”
Borsellino alza gli occhi, si accorge di averla svegliata, ma é troppo arrabbiato persino per scusarsi: “Lo sai chi era? Quel… Era Giammanco”
Poi, congestionato per la rabbia, le racconta che il procuratore l´ha chiamato dicendogli che per tutta la notte non ha chiuso occhio, al pensiero di quella delega sulle indagini di mafia a Palermo, al pensiero delle polemiche sugli interrogatori di Mutolo. I tempi sono maturi, gli annuncia Giammanco, perché finalmente questa delega gli venga conferita. Il capo la firmerá domani mattina, in ufficio, e gliela conferirá prima della sua partenza per la Germania. Si, ma perché lo chiama di domenica? A quell´ora?
“Ma perché tanta fretta?” chiede Agnese.
Quella delega la aspetta da mesi. Eppure Borsellino, piuttosto che contento é turbato, arrabbiato. Passeggia, si agita, fa su e giú per il corridoio di casa.
Riferisce alla moglie: “Lo sai che mi ha detto? Cosí la partita é chiusa.”
“La partita? E tu?”
Borsellino alza ancora la voce: “E io? Non l´hai sentito? Gli ho urlato: la partita é aperta.” Altro che chiusa, sono comportamenti di cui Giammanco dovrá rendere conto al momento e nella sede piú opportuna, spiega Borsellino alla moglie. Poi si accorge che nello studio é arrivata pure Lucia.
“Oh Lucia, pure tu ti sei svegliata? Mi dispiace… Senti, gioia, vuoi venire con noi a Villagrazia? Magari riusciró a vederti un po´abbronzata.”
Borsellino ora sorride, programma all´istante la giornata: subito a Villagrazia a prendere il sole, poi insieme a Lucia a prendere la nonna per portarla dal cardiologo, infine ritorno a casa: la ragazza a studiare, lui a lavorare.
Ma Lucia é irremovibile. “Non posso, mi dispiace, lo sai che domani ho un esame.”
Neanche Manfredi, quella domenica, accetta di accompagnare papá al mare, nel villino estivo, in un orario cosí mattiniero. “La sera prima – ricorda il ragazzo – avevo fatto tardi, volevo prendermela comoda, cosí ggli dissi: vai avanti, papá, poi ti raggiungo.”
Né Lucia né Manfredi lo accompagnano. Borsellino é un po´ seccato, ma non cambia i suoi programmi. Agnese esce di casa per prima, quella mattina, si avvia a Villagrazia con un cugino, il marito la raggiungerá verso le dieci. Quando piú tardi anche Manfredi arriva a Villagrazia, sono giá le undici, ed il ragazzo trova davanti al villino gli agenti della scorta.
Lo informano: “Suo padre é uscito in barca, con l´amico Vincenzo Barone, é andato a fare un bagno al largo.” Dopo il bagno, con il motoscafo i due amici vanno a Marina Longa, si intrufolano in un condominio privato in cui si entra dal mare. Lí c´é un risotrante dove Agnese é andata a comprare del pesce, con un´amica. Il giudice spera di incontrarla per tornare in barca, insieme a lei. Ma non la vede. La moglie, infatti, é appena rincasata a piedi. Quando torna a casa, Borsellino si affretta verso il villino di Pippo e Mirella Tricoli, vecchi amici di famiglia, per pranzare con loro.[70] C´é un vassoio di panelle e crocchette, il pesce, i dolci. Il pranzo é disteso, sereno. Eppure Pippo Tricoli, testimonierá che quel giorno, senza farsi sentire dai familiari, Borsellino, preoccupatissimo, gli confida i suoi timori: “É arrivato il tritolo per me.” É l´ultimo segnale di allarme lanciato da un uomo ormai consapevole di essere rimasto solo. All´improvviso squilla il cellulare: é Antonio Manganelli, dirigente del servizio centrale operativo della polizia. Gli comunica i dettagli sulla partenza per la Germania, e Borsellino tira subito fuori l´agenda rossa, per annotare gli spostamenti previsti. Quando il pranzo si conclude Borsellino si sposta davanti alla tv per seguire la sua antica passione, il ciclismo. Quel giorno c´é un´altra tappa del tour de France. Poi saluta gli amici, per un piccolo riposo pomeridiano.
“Vado a dormire un po´”, dice, e torna al suo villino, da solo. Si distende sul letto, ma non chiude occhio. Agnese troverá sul comodino il posacenere pieno di cicche di sigarette. Ne ha fumate cinque in poco piú di un´ora.[71]
Quando Borsellino torna in giardino, Lacoste azzurra, jeans, mocassini leggeri Tod’s, regalo di Lucia, sono le 16.30. Ha con sé la borsa portadocumenti dove ha la sciato scivolare le sue carte, l´inseparabile pacchetto di Dunhill, il costume bianco, ancora un poco umido. E dove ha riposto la sua agenda rossa, fresca degli ultimi appunti della giornata.
Passa dal villino degli amici, affianco al suo, saluta tutti, abbraccia e bacia Pippo Tricoli, con uno slancio inusuale, che lascia stupito l´amico, poi Manfredi e Vincenzo Barone lo accompagnano allo slargo davanti al cancello, dove sostano le auto blindate.
“Ciao a tutti” si congeda. “Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore.” Apre lo sportello posteriore della Croma blindata, e lí posa la sua borsa. Un ultimo saluto. L´auto parte sgommando verso l´autostrada che conduce a Palermo. Comincia il viaggio, l´ultimo viaggio di Paolo Borsellino.[72]
Manfredi Borsellino ha ricordato il commiato del padre con queste parole: “Il ricordo che piú mi é rimasto impresso di mio padre é quando il 19 luglio ci ha salutati al villino al mare e si é allontanato per andare in via D´Amelio. Mi ricordo che ci ha salutati come se veramente fosse un po´ l´ultimo saluto. Mi ricordo che comunque, nonostante tutto, abbia sorriso fino all´ultimo.”[73] Il corteo composto da tre auto si dirige rapidamente verso Palermo ed arriva in Via D’Amelio dove abita la madre del magistrato. Borsellino scende insieme a 5 agenti di scorta, suona il campanello.
Ore 16.58 e 20 secondi: una carica esplosiva di circa 100 Kg di tritolo brilla all’interno di una FIAT 126 parcheggiata in prossimità dell’ingresso della casa dove abita la famiglia del magistrato. Vengono uccisi Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Walter Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano ed Eddy Walter Cosina. Resta ferito l’ultimo agente della scorta, Antonio Vullo, che si salva poiché era l’unico rimasto all’interno di una delle auto blindate.
Ore 17.16 (Ansa): un attentato dinamitardo é avvenuto a Palermo, in via Autonomia Siciliana nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Sono rimaste coinvolte numerose automobili. Sono molti i feriti. Sul luogo dell´esplosione, avvertita fino ad alcuni chilometri di distanza, sono confluite velocemente tutte le pattuglie volanti di polizia e carabinieri. Vengono richieste ambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, sembra che sia rimasto coinvolto nell´attentato un magistrato. Sul luogo dell´attentato le autoambulanze hanno raccolto decine di feriti per trasportarli negli ospedali della Villa Sofia, del Cervello e del Civico. Tra i feriti vi é anche un agente della polizia di stato che si pensa sia un agente di scorta. Uno dei primi soccorritori ha segnalato di aver trovato per terra una mano. Gli elicotteri di polizia e carabinieri stanno sorvolando l´intera zona. Sul luogo dell´esplosione giacciono a terra i corpi di quattro persone morte.[74] Nell´immediatezza dell´esplosione corre la voce che un possibile bersaglio dell´attentato sarebbe l´ex-giudice Giuseppe Ayala, che abita a pochi metri da Via Autonomia siciliana. [75]
Ore 17.30: il TG4 condotto da Emilio Fede é il primo Tg nazionale a dare la notizia dell´attentato. Seguono il Tg3 alle ore 17.35, il Tg2 alle ore 17.36, il Tg1 alle ore 17.38.[76]
La moglie e due figli (Manfredi e Lucia) di Paolo Borsellino apprendono la notizia di un attentato a Palermo mentre sono alla casa al mare di Villagrazia di Carini in compagnia dell´amico Giuseppe Tricoli, il quale ricorda di aver udito la notizia mezz´ora dopo l´attentato dalla tv: “Quando ho sentito che c´era stata un´esplosione a Palermo – dice Tricoli – mi si é gelato il sangue. Fino all´ultimo ho sperato. Agnese ed i due figli erano in giardino con mia moglie, io non sapevo che fare. Poi é entrata un´amica: “C´é stato un attentato”. Agnese é trasalita, s´é alzata di scatto. Ha chiesto a mia moglie di accompagnarla dalla suocera. Aveva capito tutto.” [77]
Ore 17.33: l´agenzia Reuters, citando l´ANSA, informa dell´attentato ricordando l´uccisione del giudice Falcone.[78]
Ore 17.47 (Ansa): nell’attentato di Palermo è rimasto ferito, secondo le prime notizie fornite dalla polizia, il giudice Paolo Borsellino. Nella violenta esplosione di un’automobile imbottita di tritolo, sono rimaste coinvolte l’autovettura del magistrato e le due blindate della scorta.[79]
Ore 17.48: L´agenzia Afp rilancia la notizia dell´attentato affermando che “un magistrato sarebbe rimasto ferito”. L´agenzia Reuters indica in Paolo Borsellino l´obiettivo dell´esplosione.[80]
Ore 17.53: il Tg5 condotto da Enrico Mentana é il primo telegiornale nazionale a dare come certa la morte di Paolo Borsellino a causa dell´attentato.[81]
Ore 17.57: l´agenzia Afp conferma, citando “fonti di polizia, il ferimento di Borsellino.” [82]
Ore 17.58 (Ansa): l´attentato al giudice Paolo Borsellino ed alla sua scorta é avvenuto in via Mariano D´Amelio. L´esplosione é stata violenta ed oltre all´auto del giudice Borsellino, sono rimaste coinvolte le due auto della scorta ed un´altra decina autovetture posteggiate lungo la strada. Il manto stradale é stato sconvolto per una lunghezza di duecento metri. L´edificio vicino la quale é avvenuta la deflagrazione dell´autobomba é rimasto danneggiato: muri lesionati, alcune parti crollate, infissi di balconi e finestre divelti fino al quinto piano. L´autobomba, una Fiat 600 imbottita presumibilmente di tritolo, era stata parcheggiata davanti al civico 21 di via D´Amelio, dove abitano la madre e la sorella del giudice Borsellino. Nella deflagrazione l´autobomba si é disintegrata ed alcuni rottami, dopo un volo di oltre cinquanta metri, sono andati a finire in un giardino dietro ad un muretto.[83]
Ore 18.00: l´agenzia Reuter rilancia la notizia del ferimento di Paolo Borsellino.[84]
Ore 18.14 (Ansa): Il giudice Paolo Borsellino é rimasto ucciso nell´attentato. Il suo corpo, completamente carbonizzato con il braccio destro troncato di netto, si trova nel cortile del palazzo dove abitano la madre e la sorella. Non é stato ancora riconosciuto ufficialmente, ma alcuni suoi colleghi, fra i primi ad accorrere sul luogo dell´attentato, hanno asserito che é “certamente” lui. Fra le vittime c´é anche una donna, un´agente di polizia che faceva parte della scorta del magistrato. Il suo corpo é stato trovato nel giardino di un appartamento al pianterreno dell´edificio. L´esplosione dell´autobomba ha provocato danni visibili all´edificio fino all´undicesimo piano. Due coniugi, Mauro e Donata Bartolotta, che abitano al pianterreno dell´edificio davanti al quale é avvenuta la strage, hanno reso questa testimonianza: “C´e´ stato un boato terrificante che ci ha sbattuti a terra; sembrava un fortissimo terremoto; non ci siamo resi conto di quello che era accaduto se non subito dopo quando siamo fuggiti da casa. Ci siamo salvati perché in quel momento eravamo in cucina, nella parte retrostante all´appartamento. Abbiamo visto persone che in preda al panico si lanciavano dalle finestre del primo e del secondo piano. Sulla strada c´erano molte automobili in fiamme, c´era un fumo denso, molta confusione, grida, feriti e morti.” Oltre al giudice Borsellino, nella strage sarebbero rimaste uccise altre cinque persone. La notizia é stata data sul luogo dell´attentato da un capitano dei vigili urbani in servizio nella zona per regolare il traffico. Secondo le prime indiscrezioni, i feriti sarebbero quattordici civili, alcuni dei quli in gravi condizioni, e un agente.[85]
Ore 18.16: il Tg1 annuncia la notizia della morte di Paolo Borsellino.[86]
Ore 18.19 (Ansa): fra le vittime c’è anche una donna, un’agente di polizia che faceva parte della scorta del magistrato. Il suo corpo è stato trovato nel giardino di un appartamento al piano terreno dell’edificio.[87]
Ore 18.20: l´agenzia Afp dá la notizia dell´uccisione di Paolo Borsellino citando l´agenzia ANSA come fonte.[88]
Ore 18.22: l´agenzia Reuters dá la notizia dell´uccisione di Paolo Borsellino citando l´agenzia Ansa come fonte.[89]Ore 19.00: il canale televisivo Cnn colloca la notizia dell´attentato senza immagini nei titoli di apertura.
Il radiogiornale Deutschlandfunk ed il secondo canale televisivo Zdf tedeschi danno la notizia dell´attentato.[90]
Ore 19.08 (Ansa): Il ministro degli interni Nicola Mancino, ed il ministro di grazia e giustizia, Caludio Martelli, sono attesi in serata a Palermo. Il figlio del giudice Borsellino, Manfredi, vent´anni, e´stato notato aggirarsi sul luogo della strage, tenendosi a distanza, nel timore di dover apprendere la terribile notizia. Lo ha visto Carmelo Conti, ex presidente della corte di appello, che lo ha stretto al petto senza peró profferire parola. Nessuno ancora gli ha detto la veritá. In via Mariano D´Amelio é anche giunto il suocero di Borsellino, Angelo Piraino Leto, magistrato in pensione che a Palermo é stato presidente della corte d´appello. Lo accompagna, sorreggendolo affettuosamente, il giudice Salvatore Scaduto. L´anziano magistrato cammina lentamente fra le carcasse carbonizzate delle automobili coinvolte nell´esplosione sussurrando: “Voglio andare da Paolo, voglio vedere Paolo, portatemi da Paolo.” La moglie di Borsellino é nella sua casa di via Cilea, in preda a malore. Continua a chiedere a coloro che le stanno vicino notizie di Paolo, ma nessuno finora ha avuto la forza di dirle la veritá.[91]
- Ore 19.21 (Ansa): nella strage, oltre al giudice Paolo Borsellino, sono rimasti uccisi cinque agenti della scorta. Sono: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. I feriti sono quindici, uno dei quali é l´agente di polizia Antonio Vullo.[92]
- Ore 19.30: il telegiornale inglese del primo canale della Bbc dá la notizia dell´attentato come seconda fra i titoli della giornata, subito dopo quella della tregua in Bosnia. Viene proiettato un filmato da Palermo e lo speaker attribuisce l´attentato alla mafia.[93]
- Ore 19.58: Con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che ha detto di parlare a nome della Falange armata, ha rivendicato la strage di Palermo. L´uomo ha parlato senza la minima inflessione ed ha lasciato un codice di riconoscimento numerico. Ha dichiarato che la Falange armata “rivendica la responsabilitá politica e la paternitá morale di quanto accaduto in via Autonomia siciliana a Palermo, dove é stato ucciso il giudice Paolo Borsellino.”[94]
- Ore 20.05 (Ansa): i feriti ricoverati all´ospedale di Villa Sofia sono finora diciotto. Gran parte di loro sono inquilini dello stabile dal quale Borsellino stava entrando, compreso un agente della scorta del magistrato.
- Questo l´elenco: Maria Teresa Lo Balbo, 43 anni; Antonia Greco, 79; Francesca Nacci, 85; Giuseppe camarda, 34; Elvira Fenech, 27; Gianluca Puleo, 15; Claudio Bellanca, 44; Antonina Mercanti, 51; Filippo Mercanti, 79; Rosalia Mercanti, 83; Gioacchina Garbo, 59; Maria Moscuzza, 62; salvatore Augello, 38; Ivan Trevis, 18; Maria Rosa Cataldo, 65; e l´agente di polizia Antonio Vullo, 32 anni. In molti casi i referti individuali ipotizzano prognosi varianti fra i cinque giorni e gli otto giorni, mentre in altri non c´é alcun parere clinico sul decorso.[95]
- Ore 22.53 (Ansa – riepilogo): La potenza strategica e militare della mafia ha dato oggi a Palermo l’ennesimo saggio di sangue massacrando, con tecnica ormai collaudata, l’esplosione di un’autobomba, il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, fra cui una donna. L’attentato è stato compiuto alle 17.00 in punto in via Mariano D’Amelio, vicino alla Fiera del Mediterraneo, alle falde del Monte Pellegrino, davanti al civico 19. Quando l’artificiere di Cosa Nostra ha attivato il radiocomando che ha fatto scoppiare l’automobile imbottita di esplosivo, parcheggiata proprio davanti al portone d’ingresso, il magistrato stava andando a visitare l’anziana madre e la sorella. La deflagrazione, di una violenza inaudita, è stata avvertita in gran parte della città. Quando, sull’eco del boato, hanno cominciato a convergere mezzi delle forze dell’ordine, dei vigili del fuoco e autoambulanze, quanti sono arrivati per primi sl posto non hanno creduto ai propri occhi. L’edificio in cui era diretto il magistrato è sventrato alla base e i segni di lesioni consistenti e infissi divelti fino al quinto piano. Una ventina di automobili che bruciavano, cadaveri e resti umani sull’asfalto.
Paolo Borsellino, ritenuto il successore “naturale” di Giovanni Falcone sulla trincea antimafia (il suo nome era stato recentemente proposto al vertice della Superprocura), aveva trascorso le ore precedenti all’attentato con la moglie e i figli, ospiti a Villagrazia di Carini del leader siciliano del Msi avvocato Giuseppe Tricoli, amico del magistrato dagli anni universitari. Alle 16.40 Borsellino aveva avvisato gli agenti della scorta di prepararsi per rientrare a Palermo. Ufficialmente nessuno era a conoscenza degli spostamenti di Borsellino, che solo all’ultimo minuto, come oggi, comunicava ai poliziotti addetti alla vigilanza itinerario e destinazione. La mafia comunque sapeva che Paolo Borsellino, e lo aveva dimostrato in molte occasioni circolando solo per le vie di Palermo, non rinunciava ad un minimo di vita “normale”. La mafia sicuramente sapeva che tra le tappe “obbligate” c’era la vista all’anziana madre. [96] Secondo la testimonianza del collaboratore Giovanni Drago pochi secondi dopo l´esplosione di via D´Amelio il boss Mariano Agate, capomandamento e massone della zona di Trapani, detenuto nel carcere dell´Ucciardone di Palermo, avrebbe commentato il boato avvertito a distanza con queste parole: “Sató macari Paluzzu (saltó pure Paolino)”. [97]
Sera: vengono apposti i sigilli alla stanza del procuratore aggiunto Paolo Borsellino, al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo. Viene sigillata anche la cassaforte dove, secondo i familiari, il magistrato teneva tutte le sue carte di lavoro, soprattutto quelle riservate, coerentmente con la sua volontá di proteggere il piú possibile la moglie ed i figli. Nei giorni successivi, su disposizione della magistratura, la cassaforte verrá aperta per valutarne il contenuto. “Non si trovó nulla di importante” ricorda Agnese Piraino Leto. “L´eliminazione di Paolo é stata congegnata proprio come un delitto perfetto.” [98] In tarda serata si svolge un tesissimo vertice delle forze dell’ordine alla Prefettura di Palermo: sono presenti il Ministro della Difesa Andò, il Ministro della Giustizia Martelli, il Ministro degli Interni Mancino, il Prefetto Jovine, il Questore Plantone, il Procuratore Giammanco ed i vertici della polizia e dei carabinieri. Il ministro della giustizia Claudio Martelli indica espressamente l´alto commissario antimafia, il comandante dei carabinieri, il questore ed il prefetto di Palermo come responsabili dei mancati controlli su un obiettivo prevedibile come l’abitazione della sorella del giudice Paolo Borsellino.[99] Due cortei spontanei che hanno preso le mosse dal centro della città confluiscono a Villa Whitaker: un corteo è formato dagli agenti delle scorte, un altro da cittadini. Giunti di fronte al cancello presidiato da militari della guardia di finanza la situazione si fa tesa, poi alcuni agenti delle scorte riescono a passare lo sbarramento. Vogliono chiedere le dimissioni di tutti i vertici delle forze dell’ordine, compreso il Capo della Polizia Vincenzo Parisi. Al termine della riunione i ministri raggiungono l’uscita molto a fatica, tra le grida e la rabbia di chi si è raccolto di fronte alla Prefettura: “Prefetto assassino, incapace”, “Fuori Giammanco dalla procura”, “Basta con le scorte votate alla morte”. [100]
Sia Giammanco che Parisi vengono fortemente contestati. La riunione dei vertici dell´ordine pubblico in realtá prosegue presso la sede dell´Alto Commissariato per la lotta alla mafia. Sul perché dell´improvviso trasferimento viene fatta circolare la voce che nella sede della prefettura potesse essere presente una “talpa”. I giornalisti che chiedono chiarimenti sul trasferimento alla sede dell´alto Commissariato al capo di gabinetto del prefetto Jovine ricevono questa spiegazione: “C’era stato un problema di energia elettrica. Era mancata la luce nella stanza. Solo questo e’ successo”. [101]
Il Governo approva in tarda serata alcuni provvedimenti urgenti e nella notte 80 pericolosi boss mafiosi vengono trasferiti dal carcere palermitano dell’Ucciardone a quello toscano di Pianosa e l’esercito viene inviato a controllare l’operazione. Contemporaneamente un centinaio di militari di leva del battaglione Genio pionieri “Simeto” e del Terzo gruppo squadroni lancieri “Aosta” viene posti a presidiare le mura esterne dell’Ucciardone perché si teme una reazione di Cosa Nostra all´improvviso trasferimento dei boss. Tuta mimetica, elmetto, maschera antigas, e un vecchio fucile “Fall” a tracolla, l’ immagine che offrono questi giovani militari e’ un tutt’uno con una struttura carceraria fatiscente”. Ci hanno detto che dobbiamo provvedere alla vigilanza esterna – borbottano spaesati – durante la notte siamo stati svegliati. Ci sembrava uno dei soliti allarmi ed invece eccoci qui”. [102]
Numerosi boss di Cosa Nostra vengono dunque trasferiti al carcere di Pianosa dove erano giá stati avviati alcuni lavori di ristrutturazione dopo la strage di Capaci in vista di un possibile utilizzo della struttura carceraria, utilizzo che si era bloccato per una fuga di notizie e per le successive proteste di alcuni amministratori locali preoccupati per l´arrivo nel carcere di detenuti per reati di stampo mafioso. L´arrivo dei boss é testimoniato da alcuni agenti di polizia penitenziaria: “Quando sono arrivati sembravano dei cani bastonati – racconta Francesco, un agente – erano in vestaglia, la testa china, il volto scuro. Qualcuno bestemmiava”. Subito, la prima protesta. Nelle celle ci sono vecchi televisori in bianco e nero. “Noi li vogliamo a colori”, hanno tuonato i boss. Richiesta negata. Michele Greco ha mormorato: “Ma dove siamo, non abita nessuno qui”, poi e’ stato chiuso nell’unica cella singola del carcere. Ha chiesto di poter fare un telegramma. Gli hanno risposto che le cose erano cambiate: “Mi sembrava molto turbato – racconta un altro agente – un boss in ginocchio”. [103]
Lunedì 20 luglio 1992: La situazione alla procura di Palermo é molto tesa: alcuni magistrati si riuniscono per decidere se presentare le dimissioni o chiedere quelle del procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco il quale a sua volta annuncia l’intenzione di dimettersi a patto di ricevere una lettera di solidarietà da parte dei colleghi. Non arriveranno né la missiva di solidarietà né le dimissioni. Questi i commenti di alcuni magistrati palermitani:
- Guido Lo Forte: “Le dimissioni sarebbero solo un grosso regalo a Riina. Non possiamo scrivere quest’ epitaffio sulla tomba di Paolo Borsellino”.
- Vittorio Teresi: “La lotta alla mafia non e’ piu’ compito dei magistrati. Chi la fa muore e muore per nulla. Io non voglio morire per nulla”.
- Alfredo Morvillo, fratello della moglie di Giovanni Falcone, Francesca: “Lo so, e’ triste ammetterlo ma, sino ad oggi, credo proprio che la consapevolezza che la mafia abbia vinto e’ incontestabile. Non vedo assolutamente alcuna speranza perche’, mancando Borsellino, allo stato non c’e’ piu’ alcuna persona in grado di coagulare in se’ il consenso oltre che riunirci per continuare le indagini”.
- Ernesto Stajano: “Ci vuole un intervento delle forze di polizia e con strumenti diversi da quelli utilizzati fin qui”. Giammanco si dimettera’ ? – chiede il cronista del Corriere della Sera. “Non ne voglio parlare – risponde Stajano – Ma e’ certo che esistono delle difficolta’ anche sul piano personale per il procuratore capo che si trova a gestire una situazione d’ eccezionale gravita’ con una carenza obiettiva di strutture e di strumenti normativi. Non si puo’ rischiare la vita in queste condizioni. Vorrei correggere quello che ho detto: questa non e’ una guerra, questo e’ un massacro”. Sono le quattro del pomeriggio. La camera ardente e’ pronta.
- Pio Marconi, consigliere “laico” (Psi) del CSM, taglia corto sulle accuse contro Giammanco: “Un magistrato coraggioso, che regge l’ ufficio con grande capacita’ ed e’ ingiustamente attaccato. Se siamo in guerra con la mafia, non possiamo delegittimare chi la combatte”.
Gia’, la guerra. Il sostituto Ignazio De Francisci fa il bilancio sul campo. Ed e’ un bilancio triste assai: “Con la morte di Borsellino se ne e’ andato il 60 per cento del potenziale della Procura palermitana”. “E il quaranta per cento che rimane?”, chiede il cronista. “Arranca” risponde De Francisci. “Tanto vale andarsene, allora?”. “Qualcuno sostiene che noi dobbiamo continuare. Ma noi chi siamo?” [104]
Vincenzo Parisi, capo della Polizia, esprime “fiducia ed ammirazione per l’intenso e costruttivo lavoro che l’Alto magistrato (Pietro Giammanco, ndr) ha sempre svolto, guidando mirabilmente la polizia giudiziaria distrettuale”.
Giovanni Galloni, vicepredidente del CSM, dichiara: “Sono vicino a Giammanco così come a tutta la procura di Palermo. In questo momento si darebbe ragione alla mafia se di fronte ad un simile attacco proditorio si assistesse allo sfascio delle strutture dello Stato e della magistratura”.
Maria Falcone rilascia un’intervista durissima nei confronti del procuratore di Palermo: “Per quanto è dato sapere nulla è avvenuto sul piano delle indagini dopo l’uccisione di mio fratello. Chi non ha saputo tutelare la vita di Giovanni, di Francesca, degli agenti della scorta morti a Capaci, non è stato in grado di assicurare adeguata protezione neppure a Paolo Borsellino che non poteva non esser considerato il nuovo naturale bersaglio della mafia. In questo paese è ora che qualcuno cominci a pagare per non aver saputo assolvere ai propri compiti. Ho appreso dalla TV che il procuratore Giammanco avrebbe manifestato l’intenzione di rassegnare le dimissioni…ritengo che il proposito debba esser coltivato sino in fondo, altri magistrati debbono prendere il suo posto. Alla Procura di Palermo occorrono giudici sui quali tutti si debba esser certi e tranquilli, giudici non chiamati in causa da quei chiari appunti già pubblicati dai giornali e che Borsellino aveva detto, quasi a futura memoria, di ben conoscere.
Giuseppe di Lello è altrettanto chiaro: “Lo Stato, pezzi dello Stato, hanno stretto da decenni un patto scellerato con la mafia. Non appena si è tentato di cambiare registro, non appena è arrivata la sentenza della Cassazione che ha confermato l’impalcatura del maxi-processo, non appena i boss, già scarcerati, sono tornati in cella, Cosa Nostra ha avuto una reazione selvaggia. Non poteva accettare che questo patto decennale di non belligeranza venisse disdetto da uno dei due contraenti. Ed ecco i morti, ecco Falcone, ecco Borsellino.”
Il vecchio del gruppo di agenti che scortava il giudice Borsellino, per il quale le misure di sicurezza erano state rafforzate dopo le dichiarazioni del pentito Vincenzo Calcara, era Agostino Catalano, 43 anni, sposato e padre di tre figli. Raccolto agonizzante in via D’Amelio, per Catalano non c’ e’ stato nulla da fare. L’ agente lascia due figli orfani. Aveva infatti perso la moglie nei mesi scorsi. Gli altri agenti uccisi dalla bomba sono Claudio Traina, 27 anni, palermitano come Vincenzo Li Muli, 22 anni. Ferito, infine, e ricoverato sempre nell’ ospedale di Villa Sofia, Antonio Vullo, 32 anni. L’esplosione ha provocato anche il ferimento di 23 persone, tutte residenti nei palazzi che si affacciano su via D’ Amelio. A eccezione di Giacoma Garbo, 52 anni, ricoverata all’ ospedale “Cervello”, tutti gli altri si trovano a Villa Sofia, con prognosi dai 5 agli 8 giorni. Tra i ricoverati, Ivan Trevis, 18 anni, testimone oculare dell’attentato: “Avevo posteggiato la mia auto – racconta – quando ho visto la fiammata della bomba. Mi sono gettato a terra e cosi’ mi sono salvato”. [106]
Secondo il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli c’e’ un collegamento, sia pure indiretto, fra la strage di Palermo e l’inchiesta milanese Mani Pulite sulle tangenti. “Se potessimo concederci il lusso di uno spunto di ottimismo si potrebbe dire che queste stragi sono gli estremi guizzi che la Piovra esibisce, forse proprio perche’ si sente tallonata. L’ azione intrapresa dalla magistratura a Milano, e seguita anche in molte altre sedi giudiziarie, e’ un´azione che attraverso la purificazione e la pulizia nella pubblica amministrazione puo’ minacciare molto da vicino il mondo dell’ affarismo mafioso”. Borrelli respinge con decisione l’ipotesi contraria, e cioe’ che la mafia sarebbe avvantaggiata dalla delegittimazione delle istituzioni seguita dalle manette ai politici. [108]
Nel pomeriggio si svolge una tesa riunione fra gli agenti delle scorte e Parisi. Vengono posti sul tavolo infiniti problemi, a partire dal perché dopo Capaci erano arrivate solo 4 auto blindate a fronte della richiesta di 20, alla ragione per cui la sollecitazione dell’auto bonifica per Borsellino era andata disattesa, al motivo per cui non c’era la zona rimozione in Via D’Amelio nonostante le scorte ne avessero segnalato la necessità. Al termine della riunione Roberto Leone, inviato del quotidiano La Repubblica, intervista brevemente in questura il capo della Polizia Vincenzo Parisi:
- Vincenzo Parisi (P): “C’è molta tristezza, ma anche molta determinazione. Non ho trovato negli uomini cadute di coraggio, di impegno e nemmeno di irresponsabilità”.
- Roberto Leone (L): “Ma la protesta di domenica notte?”
- P: “L’ mozione di domenica va capita. Si è stati spinti dall’onda emotiva. Purtroppo restano in piedi i problemi, molto sangue è stato versato. In meno di due mesi otto agenti, tre magistrati, tutti valorosi…”.
- L: “Ma davanti a questo drammatico bilancio non ha pensato nemmeno per un attimo di dimettersi?”
- P: “Sarebbe troppo facile forse, o troppo comodo. Certo si può sempre essere avvicendati, ma non tocca a me valutare il mio operato”.
- L: “I mezzi, gli strumenti…”
- P: “Abbiamo avviato in queste settimane una ricerca verso altri corpi di polizia e di Intelligence per sapere se esistono apparecchiature in grado di individuare o di rendere inoffensivi questi congegni. La risposta è stata negativa. Attentati come quelli di domenica e di Capaci sono imprevedibili”.
- L: “Una dichiarazione di impotenza?”
- P: “No. Il problema deve essere quello di una lotta ferma. La mafia è silente quando non vengono colpiti i suoi interessi”.
- L: “Nell’immediato?”
- P: “Ora c’è il decreto Scotti-Martelli che speriamo sia subito convertito. Certo il momento non è facile. Come ha detto il presidente Scalfaro o si esce dalla strettoia o si rischiano guai ancora peggiori”. [109]
In un editoriale sul Corriere della Sera Vincenzo Consolo si domanda chi ha deciso la condanna a morte di Paolo Borsellino e prima ancora di Giovanni Falcone con queste parole: “Ieri Falcone, ora Borsellino, quest’uomo quasi rude, schietto. E l’ infinita schiera, prima di loro, di martiri della mafia. Una strage dopo l’altra, un assassinio dopo l’ altro. Con una ripetitivita’ senza fine, con una prevedibilita’ lampante, con condanne pubblicamente annunciate. Da quale tribunale? Questo vorremmo sapere. E vedere le facce oscene dei giudici, il loro sguardo agghiacciante, il loro ghigno belluino. Sapere chi sono questi che hanno decretato la fine, in Sicilia, in questo nostro Paese, della democrazia, della civilta’ , e per quali tremendi fini. [110]
Il Corriere della Sera riporta che negli ultimi giorni precedenti la strage di via D´Amelio Paolo Borsellino fosse ad un passo dall´essere candidato al vertice della Procura nazionale antimafia perche’ proprio in questi giorni si stavano superando le ultime difficolta’. Borsellino viene indicato come il candiato del ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli alla guida della superprocura: scartata (dopo la risposta negativa del CSM alla riapertura dei termini per il concorso alla guida della superprocura, ndr) la possibilita’ di un ritiro spontaneo degli altri candidati (cioe’ Cordova e il procuratore capo della Repubblica di Civitavecchia Antonino Lojacono) per favorire appunto la scelta di Borsellino, Martelli comincio’ a pensare a un decreto legislativo da inserire nel pacchetto delle misure antimafia, il cosiddetto maxidecreto varato alla fine di giugno. Ma il governo, all’ultimo momento, congelo’ tutto ritenendo piu’ opportuno attendere la decisione della Corte costituzionale che si sarebbe dovuta pronunciare sul conflitto scoppiato sul tema delle nomine agli incarichi direttivi della magistratura tra il guardasigilli e Palazzo dei Marescialli. In poche parole si trattava di stabilire se il “concerto” col ministro per decidere a chi assegnare le poltrone piu’ importanti della magistratura significava per il Csm ricevere dal guardasigilli un parere vincolante o soltanto un generico gradimento. Pochi giorni fa i giudici della Consulta hanno risolto la controversia con un invito alle due parti in conflitto a “realizzare un’adeguata attivita’ di concertazione ispirata al principio della leale cooperazione”. E che solo in un prolungato disaccordo “il ministro non puo’ rifiutare di dar corso alle delibere dell’organo di autogoverno dei magistrati”. Questa decisione era all’esame degli esperti del ministero di Grazia e Giustizia e a quanto sembra una strada per riproporre con successo la candidatura di Paolo Borsellino era stata trovata. Inutilmente, purtroppo. [111]
I partiti politici Pds e Pri annunciano di essere pronti ad approvare il decreto antimafia presentato dal governo dopo aver introdotto alcune modifiche che non intacchino lo spirito del provvedimento: “Le norme del codice di procedura penale – dice il responsabile del Pds in commissione Giustizia del Senato, Massimo Brutti – devono essere modificate tenendo conto della esperienza dei processi di mafia, ma senza allargare a dismisura la discrezionalita’ della polizia giudiziaria e dei magistrati, perche’ cio’ e’ fonte di arbitrii e non giova alla lotta contro la mafia. Il potere della polizia giudiziaria di arrestare chi e’ accusato di false informazioni puo’ dar luogo a pressioni ingiuste e a clamorosi errori. Il fermo di polizia e’ inutile”. Il Pds propone inoltre di estendere l’applicabilita’ del reato di associazione mafiosa alle attivita’ intimidatorie volte a estorcere e controllare il voto.[112]
In serata circolano voci di dimissioni del capo della polizia, Vincenzo Parisi, subito smentite dal Viminale.[113] Il prefetto di Palermo Mario Jovine, pesantemente chiamato in causa tra altri responsabili dell´ordine pubblico dal ministro di giustizia Claudio Martelli per la mancata sorveglianza in via D´Amelio, afferma: “Non ho nulla da dichiarare. Se si ritiene che abbiamo mancato decidano loro…”. Poi, pregando il cronista del Corriere della Sera di mettere via biro e taccuino, ricorda come Borsellino avesse “la buona abitudine” di non comunicare mai in anticipo i suoi spostamenti nemmeno ai ragazzi della scorta avvertiti solo in macchina, a motore acceso. L’ idea di collocare in via D´Amelio un divieto di “zona rimozione” come tante ce ne sono a Palermo non ha sfiorato i vertici preposti, a cominciare dal comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto proprio da Jovine: “Dovremmo militarizzare questa citta’, istituire divieti dappertutto e non e’ possibile. La verita’ e’ che siamo in guerra, che questa e’ un’azione di guerra come ce ne sono a Beirut o in Jugoslavia… Non ci fermeremo. Di Borsellino e di Falcone ce ne saranno altri ma questo non accadra’ se ci spareremo addosso”. [114]
A Montecitorio a Roma si svolge una seduta straordinaria del Parlamento dove il ministro dell´interno Nicola Mancino riferisce sulla strage di via D´Amelio. In tribuna é presente anche il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Ma l´aula é semivuota: non piu’ di 150 i deputati presenti, meno di un quarto del totale. Ci sono tutti i leader di partito, escluso Bettino Craxi.
Il ministro Mancino ricostruisce le fasi dell´attentato. Ha parlato di “strategia di attacco terroristico e vere e proprie azioni di guerra, alle quali lo Stato deve rispondere in modo energico e fermissimo”. Poi dice che la visita di Paolo Borsellino alla madre non era prevista, e quindi “non era stato possibile adottare, nella circostanza, alcuna misura preventiva di bonifica dei luoghi”. “Borsellino non era un frequentatore abituale della casa della madre” – dice Mancino,[116] il quale precisa che il magistrato era superprotetto, e che la scorta era stata recentemente potenziata. Assicura che i 205 uomini della Dia (Direzione investigativa antimafia) nel giro di pochi mesi saranno decuplicati. Infine accenna a “una revisione dei margini di permissivita’ , che non e’ un attentato ai principi costituzionali”. Il discorso appare piuttosto burocratico. Mancino non raccoglie nemmeno un applauso. Segue un acceso dibattito parlamentare:
Martedì 21 luglio 1992 Alla cattedrale di Palermo si svolgono i funerali degli agenti di scorta. La famiglia Borsellino ha deciso di attendere l’arrivo di Fiammetta e di celebrare i funerali in forma privata. La chiesa viene presidiata da 4000 agenti fatti venire da fuori Palermo. Lo scopo è quello di evitare il ripetersi dei disordini che si sono verificati la sera di due giorni addietro di fronte alla prefettura. La tensione é alle stelle. I vertici dello Stato sono letteralmente travolti dalle persone presenti all’interno della cattedrale
Dalla cronaca del Corriere della Sera: Non e’ bastato l’assedio di quattromila uomini, armati e disposti a cerchi concentrici in un raggio di un chilometro intorno alla cattedrale. Non e’ bastato filtrare con ossessione da lager gli ingressi in quella chiesa, lasciandola precauzionalmente semivuota. Non e’ bastato neppure un “ritardo strategico di quasi venti minuti”, come commenta un maresciallo, delle autorita’ arrivate da Roma. Alla fine della Messa in memoria dei cinque agenti annichiliti dalla bomba di via D’ Amelio, un minuto dopo l’affranta benedizione delle bare da parte del cardinale Pappalardo, esplode la rabbia degli uomini delle scorte. E, quasi che recitasse la sentenza di un processo appena concluso, uno di loro fissa lo sguardo sul capo dello Stato, sul presidente del Consiglio e sul prefetto Parisi, che gli stanno davanti, leva le braccia in alto e urla: “Li avete uccisi voi”. Partono i calci, gli schiaffi, gli sputi. Contro Parisi, Amato e lo stesso Scalfaro, almeno all’inizio bersaglio forse involontario, lui. Tra l’abside e l’alta navata echeggiano cori da brivido. “Assassini”. “Fuori la mafia da qui”. “Venduti”. Dall’altare maggiore qualcuno fa volare uno sgabello. Dai banchi vengono scagliate un paio di bottiglie d’acqua minerale. Poi tutto si chiude con la fuga precipitosa dei tre “condannati”, attraverso un’uscita laterale. E il giorno della rivolta, a Palermo. Dell’insurrezione contro un governo “che e’ stato sempre complice delle cosche”, contro un capo della polizia “che deve lasciare il proprio posto” (ma che in serata ha dichiarato: “Non mi dimetto, sarebbe un atto di vilta’ “) contro uno Stato “che lascia ammazzare i suoi uomini migliori” e che insomma e’ “colpevole”. Parole scritte sull’unico manifesto che un ragazzo e’ riuscito a portare dentro al Duomo e che un funzionario della questura gli strappa subito di mano. Le immagini del presidente della Repubblica che incespica sulla porta mentre si pulisce i pantaloni sporcati dai calci, del segretario generale del Quirinale, Gaetano Gifuni, che si porta il fazzoletto alla bocca dove e’ stato colpito da un pugno, dell’inquilino di Palazzo Chigi che si copre le orecchie per non sentire, del prefetto Parisi con la guancia arrossata per le sberle, queste immagini (sfumate con una prudente dissolvenza dagli obiettivi della tv) sono la rappresentazione della svolta aperta dalla guerra della mafia. La Sicilia e’ stremata, esasperata, rabbiosa. Lo Stato, da qui, rischia ormai di apparire, assieme a Cosa Nostra, come un nuovo nemico: ottocento poliziotti delle scorte e ottomila cittadini che camminano dietro a loro si mettono a sfidare altri poliziotti e carabinieri, oltre ai politici e alle cosiddette “alte cariche”. Funerali a base di incenso e di insulti, di pianti e di ultimatum, mentre si dimettono tutti. Certi giudici della procura e il sindaco l’hanno gia’ fatto; il prefetto della citta’ e il suo collega col rango di capo al Viminale potrebbero farlo nelle prossime ore, magari assieme al procuratore Pietro Giammanco. Per Palermo queste notizie segnano continui soprassalti, nell’attesa del primo funerale di questa settimana. Che comincia alle 15.30, quando sull’altare della cattedrale arabo-normanna si presenta, pallidissimo, il cardinale Salvatore Pappalardo. Lo accoglie un incredibile silenzio, dopo che per piu’ di un ora, prima, qui dentro il gruppo degli agenti delle scorte si era fronteggiato duramente coi colleghi fatti accorrere in massa da diverse citta’ d’Italia. Tanto che sono appunto in quattromila, fra carabinieri, poliziotti e finanzieri, a presidiare chiesa e centro storico, “col compito di tenerci fuori, di cacciarci via”, come gridano gli amici delle vittime abbandonando l’angolo in cui sono relegati. La protesta, con spintoni e minacce, dura meno di mezz’ora, sul sagrato. Poi, all’arrivo dei carri funebri scatta il dietrofront, tornano dentro in massa e a gomitate, e si sistemano ai lati dell’altare. La Messa ha inizio e il vuoto nella fila delle autorita’ viene visto come un oltraggio, dai poliziotti palermitani pronti alla rivolta. “Scalfaro, Amato e Parisi hanno paura, usano la tattica del ritardo per evitare contestazioni”, e’ il messaggio che corre di bocca in bocca. In realta’ la missione dei rappresentanti dello Stato ha subito un paio di pesanti intoppi, che impediscono l’arrivo in orario. Il primo capita nelle strade attorno all’ aeroporto: un sit-in di manifestanti, che blocca il corteo per lunghi minuti. Il secondo e’ colpa del prefetto di Palermo il quale, pensando di migliorare le cose, dirotta le macchine a villa Whitaker: vuole studiare li’, con Scalfaro e Amato, un percorso alternativo per superare alcuni blocchi segnalati dalla questura e la delegazione perde cosi’ altro tempo finche’ proprio Amato decide di ripartire comunque, lungo la strada piu’ semplice e diretta, proseguendo a piedi se sara’ necessario. Cosi’, quando il gruppo prende finalmente posto sui banchi, l’omelia dell’arcivescovo e’ alle ultime battute. Battute amare, una requisitoria religiosa, con un invito che rievoca la parabola evangelica di Lazzaro: “Dico a te, Palermo: alzati! Non adagiarti nel fatalismo! Non rassegnarti alla sconfitta!”. Un lungo applauso. Scalfaro, invitato dall’ ex giudice Ayala, si avvicina ai parenti delle vittime e mormora loro poche parole di solidarieta’. Agli agenti delle scorte che gli chiedono un colloquio attraverso Ayala, manda a dire: “Non oggi, non qui. Li invitero’ al Quirinale”. Sull’affollatissimo altare adesso compare Rosaria Costa, vedova dell’agente Schifani ammazzato con Giovanni Falcone, quella che aveva detto ai mafiosi di inginocchiarsi se volevano essere perdonati. Si aggrappa alla manica del cardinale. Gli mormora: “E dillo, che quelli devono andare all’inferno! Dillo!”. “Ma tu li hai gia’ perdonati, li hai invitati a pentirsi”. “No, non si pentono, quelli… non si pentono”. Il dialogo e’ amplificato dai microfoni, e scattano altri applausi. Poi tutto si chiude con la benedizione, la musica d’organo, i pianti, le grida, la rissa.[120]
Il sostituto Vittorio Teresi ha qualcosa da dire riguardo alle inefficienze dell’apparato di sicurezza: “Chi dice che l’attentato a Borsellino era imprevedibile dice il falso. Non ci voleva molto a capire che Via D’Amelio era ad alto rischio, al n° 68 era stato scoperto un covo dei Madonia. Bastava questo per proteggere la zona dove viveva la madre del giudice. Non l’hanno fatto, l’hanno lasciato morire così: ecco perché chiediamo le dimissioni del ministro degli interni, del capo della polizia, del prefetto, del questore di Palermo. Erano loro a dover garantire la sorveglianza e la sicurezza di Borsellino. Hanno fallito ed adesso vanno cacciati via.” [121]
Fiammetta Borsellino apprende la notizia della morte del padre in serata al ritorno da un´escursione a Bali in Indonesia dove si e´ recata in viaggio insieme ad amici di famiglia: il ginecologo Alfio Lo Presti, la moglie Donatella Falzone, i figli Giorgia e Salvatore, compagni inseparabili di Fiammetta. Dall’albergo Kuta Beach Fiammetta chiama l’Italia: “Questo e’ un posto meraviglioso, io mi sto divertendo moltissimo. Mamma e papa’ come stanno?”. Dall’altro capo del telefono una voce rotta dal pianto ha risposto: “Fiammetta, devi tornare subito. E’ accaduto un fatto terribile…”. Non c’e’ stato bisogno di dire altro. La figlia di Borsellino ha capito. Fiammetta si e’ messa in contatto con l’ambasciatore italiano a Giakarta. Il tempo di fare in fretta le valigie, poi via di corsa verso l’aeroporto di Denpasar per prendere il primo aereo. [122]
Il quotidiano Corriere della Sera riporta che nelle settimane precedenti il giorno della strage un residente in via D´Amelio aveva notato movimenti “strani” nel palazzo di fronte a quello della famiglia Borsellino ed aveva deciso di telefonare alla polizia:
Il cronista del Corriere della Sera ricorda poi come proprio in quel palazzo al n°68 di via D´Amelio fosse stato scoperto nel dicembre 1989 un covo della famiglia mafiosa dei Madonia dove era stato rinvenuto fra l´altro un registro del pizzo. Ma dopo la perquisizione nessuno si era piú preoccupato di controllare l´appartamento e via D´Amelio. Infine il giornalista cita come tra i possibili moventi dell´attentato gli ultimi colloqui tra il Paolo Borsellino e quattro collaboratori di giustizia:
Un’esecuzione micidiale forse collegata ai quattro pentiti sui quali il giudice lavorava. Uno a Caltanissetta dove era stato annunciato l’attentato contro due investigatori. Uno a Palermo con buone informazioni sulle cosche locali. Uno a Milano con un quadro sulle trame finanziarie. E uno in Germania dove Paolo Borsellino sarebbe tornato oggi, come aveva detto sabato a un suo collega senza commentare la sentenza del giudice Barreca che aveva appena assolto tre mafiosi: “Ne parleremo al ritorno. Ma adesso so tutto sulla mafia di Palma di Montechiaro. Ho capito cosa c´e’ dietro l’omicidio Saetta, l’agguato al maresciallo Guazzelli e l’omicidio Livatino.” [123]
Ignazio De Francisci, PM di Palermo, sottolinea come la sovraesposizione di Paolo Borsellino abbia potuto accelerare la fase esecutiva della strage di via D´Amelio: “Dentro di me ero preoccupato perche’ era stato creato un simbolo (Borsellino, ndr). Era stato indicato, il bersaglio. Dopo la morte di Falcone, tutti a dire: adesso soltanto Borsellino ci potra’ salvare. Questo accentuarsi dell’attenzione su di lui forse ha fatto precipitare i tempi… Si parla di Borsellino come l’ erede di Falcone, come candidato alla Superprocura… e magari un processo in corso da anni ha la sua accelerazione finale e conclusiva”. De Francisci e´ uno dei sostituti palermitani che ha deciso di presentare le dimissioni dalla procura di Palermo e rilascia un´intervista al cronista del Corriere della Sera interrogandosi sul destino della procura palermitana:
“S’e’ gridato troppo presto alla vittoria dopo la morte di Falcone: la fiaccolata, la marcia su Palermo… Pure io m’ero illuso che fosse cambiato qualche pelo di questa citta’. E invece era soltanto un giudizio superficiale”. Ignazio De Francisci e’ uno dei giudici con la valigia. Uno dei sostituti della Procura che vogliono andarsene, perche’ ha deciso che non ne vale piu’ la pena. Ha fatto parte del pool antimafia, e’ stato amico di Borsellino e di Falcone. Ad alta voce, De Francisci riflette su questo momento terribile. Le manifestazioni, le fiaccolate, le marce ci sono sempre state. “Si’, solo che Falcone aveva colpito proprio perche’ era Falcone. Adesso cosa vuole che dica… siamo a fine luglio, la gente va in vacanza”. Non e’ solo questione di vacanze. “Pero’ e’ un fatto che la durezza del colpo e l’obiettiva vittoria di Cosa nostra ci ha messi tutti al tappeto. E’ inutile far proclami di riscossa quando abbiamo il nemico che spadroneggia”. Questa di Borsellino e della scorta era una morte annunciata. “Dentro di me ero preoccupato perche’ era stato creato un simbolo. Era stato indicato, il bersaglio. Dopo la morte di Falcone, tutti a dire: adesso soltanto Borsellino ci potra’ salvare. Questo accentuarsi dell’attenzione su di lui forse ha fatto precipitare i tempi”. E’ difficile credere che l’abbiano ucciso perche’ era finito sui giornali. “Io faccio solo ipotesi sulla base dell’esperienza. Magari loro, tra tanti obiettivi che hanno, si dedicano a uno perche’ l’attenzione dei mass media crea…”. Aspettativa? “Esatto. Si parla di Borsellino come l’erede di Falcone, come candidato alla Superprocura… e magari un processo in corso da anni ha la sua accelerazione finale e conclusiva”. Condivide l’ analisi che fa risalire quest’accelerazione al delitto Lima? “Come scenario complessivo, la morte di Salvo Lima e le stragi di Falcone e Borsellino possono essere viste in un quadro generale. Pero’ siamo soltanto al primo fotogramma”. Il fotogramma mostra che son saltati degli equilibri. O no? “E’ un’ipotesi plausibile”. Parliamo di questo Palazzo, di quale fine fara’ questa Procura. “Me lo chiedo pure io. Ma non mi so dare nessuna risposta. E’ come lo stato maggiore di un esercito in rotta. Chissa’, forse faremo la stessa fine che ha fatto lo stato maggiore del nostro esercito a Caporetto: chi di qua e chi di la’, chi scappa e torna a casa”. Esplodono contraddizioni, malumori, contrasti. C’e’ un senso d’impotenza… “Fino a ieri veniva tutto superato dal senso del dovere e dello Stato che ognuno di noi ha”. O dal senso di solidarieta’ personale verso qualcuno che ora non c’e’ piu’? “Negli ultimi mesi, con la presenza di Borsellino c’era un sicuro punto di riferimento: l’ancora di salvezza da un lato e dall’altro un motore propulsivo. Adesso tutto questo non c’e’ piu’. C’e’ la stanchezza di ognuno di noi, di ognuno che fa questo mestiere e invece dei risultati vede le delusioni: sia in casa propria, nelle sentenze; sia fuori, nel mondo politico e nella societa’ in genere. Ecco, questa stanchezza alla fine poi vince, perche’ siamo tutt’altro che eroi: siamo degli impiegati statali come gli altri. C’e’ un’unica differenza: e’ che in un certo periodo ci siamo ritrovati…”. A navigare su un’onda che portava da qualche parte. “Si’, e’ stata la presenza di alcune persone. Ci hanno fatto salire su una barca e pensavamo che la barca potesse arrivare sull’altra sponda. Avevamo una rotta e un comandante”. E invece ora? “Da un lato, la barca e’ sfasciata e dall’altro, tra i tanti rematori, ce ne e’ qualcuno che rema al contrario”. Questa faccenda delle dimissioni di voi sostituti e’ il segno d’una sfiducia verso una persona, cioe’ il Procuratore capo Giammanco? “In tutta la mia carriera ho sempre cercato di escludere i rapporti personali da quelli d’ufficio. Anche all’epoca del pool antimafia, quando mi ostinavo a salutare Meli nonostante lui facesse il contrario. No, da parte di coloro i quali hanno pensato di dimettersi dalla Direzione distrettuale antimafia c’e’ la constatazione che non si e’ piu’ in grado di andare avanti. Che dove hanno fallito Falcone e Borsellino sarebbe un’utopia pensare che potremmo far qualcosa noi”. Con Giammanco ci sono stati momenti di tensione molto acuta? “Io non lo vedo da trentasei ore”. Non lo vede lei, non lo vede nessuno? “Qualcuno lo vede, qualcuno no. Chi si sente di andarlo a trovare, ci va. A questo punto, per chi ha dei rapporti umani una vera visione, per chi crede nell’amicizia e senza secondi fini proprio non e’ facile superare queste due morti con una doccia la mattina”. Che vuol dire? “Che c’ e’ pure chi tra noi, in questo ufficio, in questo corridoio, a poche ore dalla strage di Falcone, dopo una annoiata e distratta apparizione al suo funerale, ha ripreso la vita di tutti i giorni. Noi, parlo per me e per tanti altri colleghi, abbiamo avuto un primo segno dentro. E questo di Borsellino e’ stato un secondo segno, per certi versi ancora piu’ devastante del primo. Percio’ andare a parlare…”. Lei ha detto che con Borsellino se n’e’ andato il sessanta per cento del potenziale di questa Procura e che il quaranta che rimane arranca. Allora, dove bisogna mettere le mani? “Guardi, la nostra linea offensiva, diciamo la nostra flotta, ha perso la portaerei. Ora ci sono rimaste tante cacciatorpediniere che sguazzano in un mare di mine e che salteranno a una a una”. Di questo e’ convinto? “O salteranno o finira’ il carburante e andremo a remi”. Cosa cambiera’ in questa Procura? “Che andremo in ferie, che la citta’ dimentichera’ fra quindici giorni e noi fra venti. Che riprenderemo la routine, i soldati ritorneranno in caserma. Che ci sara’ qualche lapide in piu’, qualche vedova che per tre mesi non vede la pensione e qualche torneo di calcetto intitolato a questo o a quello. Che si continuera’ a pagare il pizzo e i commercianti continueranno a pagarlo poi verranno a dire a me, che finiro’ l’inchiesta, che non pagavano”. Lei rimarra’ alla procura di Palermo? “Il tempo strettamente necessario ad andarmene e chiedero’ di lasciar prima”. Quanti altri se ne andranno? “Non lo so. Questa e’ diventata una Procura giovane e i giovani non hanno le nostre cicatrici”. Per bloccare le dimissioni c’e’ prima da risolvere un problema politico, piu’ che giudiziario in senso stretto. “E’ un problema anche di decreti, di leggi. Di timide sentenze di condanna e di scandalose sentenze di assoluzione. Di apparati dello Stato che non sai da che parte stanno”. E’ un problema di Cassazione… “Si’, che ti rifiuti di capire perche’ senno’ potresti pure commettere peccati di pensiero. E’ un problema generale di sensibilita’ della classe di governo rispetto alla questione della mafia”. Martelli ha attaccato questore e prefetto, ha detto che loro dovranno rispondere della strage. “Potrei anche risponderle che non me ne frega niente che dopo si scopra che si poteva evitare. Ciascuno si passi la mano sulla coscienza se ancora ce l’ha. Magistrati, agenti dei servizi, funzionari della prefettura e poliziotti: si guardino allo specchio la mattina se si fanno la barba, si chiedano se hanno fatto tutto quanto era nei loro poteri. Non m’interessa sapere chi deve saltare, perche’ la mia vita non cambia d’un pelo se cambia il prefetto, il questore o il capo della polizia”.[124]
Il PM di Palermo Gioacchino Natoli si reca in una localitá segreta per incontrare Gaspare Mutolo. “Posso immaginare cosa stia provando – dice Natoli rivolgendosi a Mutolo – ma non puó tirarsi indietro in questo momento, lo faccia per Borsellino, un uomo cosí buono non meritava di fare una fine del genere”. Natoli cerca di convincere Mutolo a proseguire nella sua collaborazione con la giustizia e dice che personalmente proseguirá nel suo lavoro di magistrato a qualunque costo: ”Continueró , anche se dovessi essere il prossimo ad essere ammazzato”. [125]
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, commemorando Paolo Borsellino in seno al Csm, lancia un messaggio solenne: «Nuova resistenza!». In che senso? «Questa Patria – dice − deve saper risorgere, e dipende da noi, uomini e cittadini. Resistere, resistere, resistere, perché siamo dalla parte della libertà”. Durante la prima Resistenza, ai tempi del nazifascismo – spiega − «sembrava che l’aurora non sarebbe mai spuntata, e un giorno è spuntata»; «contro il terrorismo le forze si unirono, coraggio e avanti»; oggi, nonostante le stragi e la corruzione, «la democrazia è più forte della violenza e delle azioni criminose, di chi vuole sconfiggere tutto. Siamo di fronte alla crisi più pesante, quella dei valori dell’uomo, ma non vincerà né la violenza né la ricchezza senza morale – guardate ai processi sulle tangenti – vincerà l’uomo se sarà credibile. La gente ha bisogno di credibilità. Non di infallibilità, ché quella non ce l’ha nessuno. Come si può chiedere se chi chiede non ha credibilità?». Per questo «occorre ricominciare dalla ricostruzione dei valori morali» per non deludere «le attese della gente pulita e onesta». Lo Stato, la Patria – aggiunge Scalfaro – non possono essere rappresentati «da chi non è degno, da chi non è giudice perbene, da chi non è pulito, da chi non è cittadino operoso». D’altra parte perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino? «Per che cosa? Per una Patria che abbia il trionfo della giustizia? O perché vinca la disgregazione, l’abbandono, il gettare la spugna? Queste parole non si riferiscono ai magistrati, ma a tutta la realtà dello Stato. Di chi è questa Patria? Solo di chi muore o anche di chi vive e deve vivere e operare? Bisogna quindi resistere. Resistere e lottare tutti insieme!».[126]
Il capo della Procura palermitana, Pietro Giammanco, risponde indirettamente alle critiche con un comunicato stampa: “Profondamente turbato dall’ultima efferata strage mafiosa, ho ripercorso con amarezza nella mia coscienza il doloroso cammino delle critiche che, talvolta in buona fede ma piu’ spesso in malafede, mi sono state rivolte e che peraltro posso facilmente dimostrare essere infondate; mi sono chiesto comunque se fosse opportuno, nell’interesse delle istituzioni, lasciare il mio incarico. Ho riflettuto pero’ sul fatto che in serena coscienza ho sempre fatto fronte senza incertezza alcuna e senza paura all’attacco della mafia. Ho altresi’ riflettuto che la mia decisione non doveva essere influenzata dalle convenienze di fazioni politiche, delle quali non posso e non devo tenere conto, ma esclusivamente dagli interessi delle istituzioni nel momento piu’ terribile dello scontro con la mafia. Pertanto ritengo mio inderogabile dovere non abbandonare l’azione intrapresa, ma continuarla per il raggiungimento del massimo risultato possibile”. [127] A Milano si svolge in mattinata una manifestazione contro la mafia per rircordare Paolo Borsellino e gli agenti della scorta uccisi con lui. La manifestazione é organizzata dai sindacati Cisl, Cgil e Uil e vede la partecipazione di ventimila persone. In piazza San Marco prende la parola Orlando Minerva, segretario del Sindacato unitario di polizia: “Gli agenti di scorta. non sono carne da macello. Basta con le scorte fasulle a politici che le vogliono come status symbol: a Milano non esiste neppure una macchina blindata ed invito il capo della polizia Parisi ad assumersi le sue responsabilita’ e qualora sia necessario ad andarsene. Abbiamo piu’ volte fatto proposte e cercato un dialogo senza mai ottenere risultati o risposte. Non vogliamo essere martiri ma fare il nostro dovere. Domani, in segno di lutto tutti gli agenti addetti alle scorte porteranno il lutto”. [128]
Con un’ iniziativa senza precedenti il Senato accademico dell’Universita’ degli Studi di Palermo minaccia le dimissioni in massa se governo e Parlamento, cosi’ come le altre istituzioni dello Stato, non cambiano registro sul fronte antimafia. I presidi delle 11 facolta’ di Palermo, con il rettore Ignazio Melisenda Giambertoni in testa, hanno deciso di non tacere piu’ dopo quanto accaduto il 23 maggio a Capaci e domenica 19 luglio in via Mariano D’Amelio. Per due giorni si riuniscono e hanno discusso a Palazzo Steri, sede del rettorato. Alla fine approvano in mattinata un documento in cui, sostanzialmente, chiedono le dimissioni di chi, occupando posti di responsabilita’ , non ha fatto nulla per evitare che due magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nonche’ gli uomini delle loro scorte fossero uccisi da Cosa nostra. E a proposito della strage di via D’ Amelio il Senato accademico “ritiene questo ennesimo eccidio un segnale tragico della volonta’ del sistema di potere politico-mafioso di riappropriarsi del protagonismo affaristico e clientelare della “nuova mafia”, attraverso una sfida, che pretende di essere definitiva, allo Stato repubblicano, ai suoi principi e ai suoi servitori… Di fronte a tanta affermazione di volonta’ omicida il Senato accademico dell’Universita’ di Palermo giudica ancora troppo debole e deludente l’ azione dello Stato, attendista nell’ atteggiamento del Parlamento fermo all’esame del decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri sull’onda dell’assassinio di Falcone, di sua moglie e della loro scorta, nonche’ omissiva nell’azione di governo, ondeggiante tra i rigorismi retorici dei ministri di turno e i lassismi incomprensibili, quando talora non conniventi, degli apparati periferici dello Stato”. Il senato accademico ritiene “indifferibile una immediata assunzione di responsabilita’ a tutti i livelli e per ciascuna delle competenze in qualche modo coinvolte, anche fino alle dimissioni o destituzioni dei vertici preposti all’ordine pubblico e all’ amministrazione della giustizia, compresi i ministri interessati. É questo un segnale forte e chiaro di inversione di tendenza nel confronto, ormai di tipo bellico, con la mafia, che solo puo’ restituire prestigio e dignita’ allo Stato e infondere alle giovani generazioni la rinnovata speranza nella capacita’ delle istituzioni di assicurare loro un vivere civile conforme ai valori di liberta’ e democrazia… Il senato accademico ritiene l’assunzione di responsabilita’ un elemento discriminante per il futuro sviluppo delle relazioni politico-culturali all’interno del sistema rappresentativo della societa’ civile palermitana. In mancanza il senato accademico ritiene di non potersi consentire ulteriormente la continuazione di una convivenza, ormai insopportabile, con gli attuali vertici politico-istituzionali preposti all’ordine pubblico e all’amministrazione della giustizia, fino a giungere alla rinuncia del proprio mandato… Governo e Parlamento devono definire urgentemente un quadro coerente di misure che incidano effettivamente sugli stati patrimoniali e finanziari delle organizzazioni mafiose e dei loro partner politico-affaristici, nonche’ sull’intreccio, ormai chiaro e strettissimo, tra sistema economico e sistema di potere mafioso, tra sistema politico-amministrativo di gestione del denaro e della cosa pubblica e creazione del consenso mafioso-clientelare”. [129]
In un´intervista allo speciale del TG1 Linea Notte il ministro dell’ Interno, Nicola Mancino, afferma che una talpa avrebbe potuto controllare gli spostamenti di Paolo Borsellino nei giorni precedenti la strage: “Quando si e’ a corto di notizie sulle modalita’ di preparazione dell’ attentato, ogni ipotesi puo’ accreditarsi, prendere corpo… Io so questo: la vedova del giudice Borsellino ha detto a Martelli, ad Ando’ e a me la notte che siamo andati a renderle visita che il marito il giorno precedente doveva andare a casa della mamma per assisterla in una visita medica. Questa visita non c’e’ stata; c´e´ stata invece una telefonata del medico che ha chiesto di posticipare al giorno successivo la visita. Non so quale strumento telefonico sia stato utilizzato, faccio l’ipotesi di un cellulare. Questo cellulare puo’ avere trasmesso la comunicazione, perche’ e’ facile l’intercettazione di un cellulare”. Nel corso dell’ intervista, Mancino affronta i temi della lotta alla mafia, della Superprocura, della Dia e delle scorte. In merito alla Superprocura dice di augurarsi “che non si facciano piu’ nomi, soprattutto quando essi vengono fatti dalla parte politica”.[131] Vengono riaperti i termini per il concorso a capo della Direzione nazionale antimafia per mezzo di un emendamento specifico che compare nelle modifiche predisposte dal governo al maxidecreto varato dopo la strage di Capaci. L´emendamento indica che alla direzione e’ preposto “un magistrato… scelto tra coloro che hanno svolto anche non continuativamente, per un periodo non inferiore a sei anni, funzioni di Pubblico ministero o Giudice istruttore; sulla base di specifiche attitudini, capacita’ organizzative ed esperienze nella trattazione di procedimenti relativi alla criminalita’ organizzata”. In attesa che si compia tutto l’iter del concorso (bando, selezione dei nomi, controllo dei requisiti), il Procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroj dovra’ scegliere un magistrato da “applicare” alla Dna. Le modifiche alla struttura di vertice della Dna vengono discusse durante un incontro in mattinata sui problemi dell’ordine pubblico tenutosi al Quirinale tra il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del consiglio Giuliano Amato, il ministro degli interni Nicola Mancino, il ministro della giustizia Claudio Martelli, il ministro della difesa Salvo Ando’ ed il vicepresidente del Csm Galloni. Il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, manifesta ancora una volta le sue riserve e prima di pronunciarsi si reca a Palazzo dei Marescialli, riunisce il Comitato di presidenza, poi telefona al ministro di giustizia Martelli per comunicare la risposta positiva.[132]
Mercoledì 22 luglio 1992 In un servizio del GR3 RAI a cura di Arcangelo Ferri vengono riportate le testimonianze di un agente del nucleo scorte di Palermo e di Vincenzo Parisi in merito all´incontro avuto dal magistrato con il capo della polizia venerdí 17 luglio a Roma. Tema dell´incontro fu il rafforzamento della scorta di Borsellino:
Un agente del nucleo scorte di Palermo (A): “Venerdí (17 luglio, ndr) Borsellino e´andato a Roma ed ha parlato con il capo della pollizia, con Parisi, e gli ha detto che degli agenti di Palermo, comprendendo che lui era in pericolo immediato di vita, avevano dato la loro professionalitá e disponibilitá 24 ore su 24 con compiti di super-scorta e desideravano soltanto essere armati ed avere il via per l´operazione. Parisi non ha detto nulla di questo e sta ignorando questa richiesta di Borsellino che aveva chiesto “Fatemi lavorare con questi ragazzi”… Capivano (i ragazzi, ndr) che era (Borsellino, ndr) in grosso pericolo ed i ragazzi che lavoravano soltanto alla scorta ordinaria non erano capaci a proteggerlo, perché si protegge una persona con tanti altri mezzi, non soltanto accompagnandolo. Bisogna avere una copertura totale sull´obiettivo militare, non soltanto lavorando con la scorta con la macchina.
- Arcangelo Ferri (F): “E quanti erano che hanno chiesto questo?”
- A: “Dieci agenti”.
- F: “Ci sono anche i morti fra questi?”
- A: “No, non ci sono i morti. Sono tutti ragazzi vivi che possono testimoniare perché adesso qualcuno deve pagare ed é giunto il momento di pagare. Perché non si puó uccidere altra gente, perché noi a Palermo abbiamo un questore ed un prefetto che non sanno fare il loro lavoro”.
- F: “Che risposta é stata data a questi ragazzi?”
- A: “Vedremo”.
Intervista di Arcangelo Ferri al capo della polizia Vincenzo Parisi Arcangelo Ferri
- (F): “Prefetto Parisi, é vero quanto afferma questo agente?”
- Vincenzo Parisi (P): “Ma. Guardi, io devo dire che la circostanza secondo me é inesatta. Deve esserci stato un malinteso. Io ho visto venerdí il giudice Borsellino ma non mi ha assolutamente accennato a questo particolare, proprio niente. Anzi non ha nemmeno parlato particolarmente della sua sicurezza, non ha affrontato questo tema. Era consapevole del pericolo che affrontava molto serenamente, rendendosi anche conto della relativa affidabilitá di qualunque dispositivo di sicurezza. Nessun dispositivo di sicurezza assicura in totale, garantisce in totale la certezza di poter sfuggire ad attentati. L´unica cosa di cui era preoccupato era di rincorrere le ore ed i minuti per le sue indagini importantissime”.
- F: “Scriveva il giudice Falcone che si muore perché si cade nella routine, si violano le norme che dovrebbero essere invece sempre strettamente osservate”.
- P: “Il giudice Borsellino ha fatto il meglio che si potesse fare. Certamente é uno degli uomini che restano dentro quando uno ha avuto il piacere di conoscerli, di sui ci si innamora. E quindi parlare di questo é assolutamente… la scorta lavorava con molto impegno. Naturalmente fatti di quel genere non sono facilmente prevedibili a meno che non giunga la cosiddetta soffiata dall´ambiente che ti faccia prevenire l´attentato con i mezzi giusti al momento giusto”.[133]
Otto sostituti della direzione distrettuale antimafia di Palermo rassegnano le loro dimissioni con una lettera consegnata la sera prima al procuratore Giammanco e resa nota in mattinata. Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Ignazio De Francisci, Teresa Principato, Nino Napoli, Nino Ingroia, Giovanni Ilarda ed Alfredo Morvillo scrivono: “Siamo disposti a rischiare, a morire, ma solo a condizione di sentirci partecipi di uno sforzo collettivo destinato, sia pure gradualmente, a raggiungere risultati concreti. E’ necessario che la procura di Palermo recuperi quell’unità di intenti, quello spirito di collaborazione che oggi appaiono gravemente compromessi. E lo dimostrano l’esistenza di divergenze, se non di spaccature, divenute ormai financo di dominio pubblico dopo la strage di Capaci, acuite dopo l’attentato di Via D’Amelio. Divergenze e spaccature che solo una guida autorevole ed indiscussa potrebbe sanare”. La lettera chiama poi in causa “i vertici politico-istituzionali sempre pronti a coprire responsabilità ed inefficienze, ad illudere la pubblica opinione con leggi-manifesto e solenni dichiarazioni d’intenti sistematicamente disattese.” [134]
Al termine dell´incontro tra il ministro degli interni Mancino ed il prefetto Parisi viene emesso un comunicato in cui si spiega che il responsabile del Viminale, d’intesa col presidente del Consiglio, “ha espresso al capo della Polizia, prefetto Parisi, la piena fiducia del governo e lo ha invitato a continuare nell’esercizio delle sue alte funzioni”. E si da’ anche una notizia: “Negli ultimi giorni e martedi’ sera al rientro da Palermo, il prefetto Parisi aveva messo a disposizione del ministro dell’Interno e del governo il suo incarico”. Si specifica dunque che il capo della polizia Parisi non aveva mai dato le sue dimissioni ma solo “messo a disposizione” il suo incarico.[137]
Giovedí 23 luglio 1992 Fiammetta Borsellino atterra nella notte all´aereoporto di Francoforte di ritorno da Giakarta in Indonesia. Poi si imbarca su un aereo messo a disposizione dalla presidenza del consiglio e rientra a Palermo alle cinque di mattina.
l Secolo XIX dá notizia dell´informativa del Ros dei carabinieri di Milano del 16 luglio 1992 in cui si affermava che Paolo Borsellino ed Antonio di Pietro potevano essere gli obiettivi di un attentato. Curiosamente la notizia su queste minacce filtra sulla stampa in un modo alquanto strano: viene infatti pubblicata sul Secolo XIX insieme ad altre due notizie false: un presunto incontro di Falcone e Di Pietro prima della strage di Capaci (incontro subito smentito dallo stesso Di Pietro e dal Procuratore Borrelli) ed alcune indiscrezioni sulla possibile collaborazione del boss Tanino Fidanzati. Anche questa notizia si rileverà un falso, mentre il rapporto dei ROS verrà confermato.
L´Osservatore Romano pubblica un´intervista di Massimo Carrara a Manfredi, figlio di Paolo Borsellino, che verrá rilanciata dal Corriere della Sera il giorno successivo. Nell´articolo de L´Osservatore l´autore dell´intervista afferma che il magistrato era vicino all´individuazione degli assassini di Giovanni Falcone: “Ad alcuni amici aveva confidato (Paolo Borsellino, ndr), pochi giorni prima di cadere nell’agguato di via d’Amelio: “Se Dio mi aiuta, forse non sono lontano dagli assassini di Giovanni”. Manfredi Borsellino parla di “morte annunciata”. Dice infatti al giornalista de L´Osservatore: “Del resto, la morte di mio padre e’ stata forse quella piu’ annunciata. Era nel mirino, molto esposto. Troppe interviste, troppe chiacchiere sulla sua ipotetica successione a Falcone come candidato alla Superprocura… Negli ultimi tempi sembra che mio padre fosse costretto a esporsi ancor piu’ di quanto non facesse prima. Troppa pubblicita’ per lui che, piuttosto schivo, avrebbe voluto far parlare solo i fatti”. Manfredi si sofferma poi sulla profonda fede cristiana che il padre ha trasmesso alla famiglia: “Forse lei si stupira’ nel vederci cosi’ apparentemente calmi ma noi siamo cristiani e sappiamo bene che la morte e’ soltanto un passaggio della nostra esistenza. E questa convinzione che ci ha dato e ci da’ la forza di affrontare il vuoto della disperazione. Mio padre e’ caduto per i valori in cui credeva fermamente, e che ci ha trasmesso. Se sei coerente con la tua fede, la morte per gli ideali che professi non puo’ che essere un ritorno alla vita… L’ unica cosa sicura e’ che mio padre e’ in Paradiso. Io non spero, sono certo della giustizia divina… Quanto alla giustizia terrena, non ci saranno persone uguali a Paolo Borsellino. Pero’ mi auguro che ve ne siano di simili”. E a proposito di funerali, dice Manfredi: “Il giorno di Falcone papa’ rimase profondamente scosso dal chiasso, dalle urla, dall’atmosfera nella quale si celebrava un rito per dei defunti. Mio padre dovra’ essere sepolto con la dignita’ e la serenita’ che lui ha sempre avuto e che ci ha insegnato”. Chi era Paolo Borsellino per il suo Manfredi? “Oltre a una grande umanita’ , aveva la capacita’ di immedesimarsi nell’ interlocutore, anche di un mafioso, riusciva a capire, a interpretare, a comunicare. Aveva il polso della Sicilia, conosceva per esperienza diretta le situazioni locali… Mio padre e’ stato per noi una persona meravigliosa, un uomo sano, splendido e squisito, in famiglia e ovunque”. [145]
Il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco si mette in malattia e non si presenta in ufficio. Il magistrato sarebbe affetto da coliche ed attacchi di ulcera.[146]
Il Csm avvia un’ indagine conoscitiva affidata al “gruppo di lavoro per i provvedimenti di competenza del Csm sulle regioni ad alto tasso di criminalita’ organizzata”, cioe’ il vecchio comitato antimafia, per cercare di fare chiarezza sulla situazione degli uffici giudiziari palermitani. Entro il 4 agosto, l’organismo dovra’ riferire le sue conclusioni alla prima commissione che valutera’ se aprire o meno un’inchiesta vera e propria. Ad uno ad uno, dal Procuratore generale della Corte d’appello Bruno Siclari, al Procuratore capo Pietro Giammanco fino ai sostituti, tutti saranno ascoltati a Palazzo dei Merescialli tra martedì e giovedì della prossima settimana. C’e’ un esposto che formalmente motiva l’apertura dell’indagine, una paginetta di resoconto, inviato al comitato di presidenza del Csm, il 3 luglio scorso, dal consigliere “verde” Antonio Condorelli. In allegato, le fotocopie di due articoli di giornale con stralci dei diari del magistrato assassinato a Capaci. Falcone spiegava perche’ aveva abbandonato Palermo: per i contrasti con il Procuratore Giammanco di cui era il vice.[147]
Al senato inizia in mattinata la discussione sul decreto antimafia sul quale il governo ha deciso di chiedere la fiducia. In aula interviene il ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli: “Cattureremo i latitanti, processeremo mandanti ed esecutori, smaschereremo i complici, puniremo i collusi e i corrotti, proteggeremo i testimoni, premieremo i pentiti e manterremo gli irriducibili in carceri dure e afflittive senza sconti, senza attenuazioni di pena. Sequestreremo le ricchezze dei mafiosi, scopriremo i loro conti cifrati e i santuari del riciclaggio, spegneremo le aspettative di potere, di ricchezza, di impunita violenza”… lo Stato “non lascera’ altra speranza che la diserzione, la fuga, la resa dell’esercito mafioso per tutto il tempo necessario finche’ non si inginocchiera´, non confessera’ i suoi delitti e non chiedera’ perdono alle sue vittime… chiediamo a Palermo e alla Sicilia di stringersi intorno ai suoi eroi e ai suoi martiri, ai poveri agenti massacrati, ai giudici Falcone e Borsellino, al loro esempio, alla prova del loro coraggio. Chiediamo di scuotere inerzia e incuria dei pubblici poteri, di scuotere lo Stato, ma soprattutto di ribellarsi al cancro che e’ dentro la loro societa’, di non farsi intimidire e prostituire dalla paura e anche nella paura di chiamare lo Stato, di farsi aiutare e proteggere, di dire, di gridare il nome e il cognome di chi ricatta, di chi minaccia, di chi uccide, di chi corrompe, di chi traffica… La vita pubblica non e’ fatta di scatti di carriera, di sinecure, di privilegi, di immobili garanzie, la vita e la responsabilita’ pubblica esigono qualcosa di piu’ della responsabilita’ individuale cui e’ tenuto il cittadino. Il funzionario pubblico, il servitore dello Stato e’ responsabile verso la gente e della gente, responsabile delle liberta’ e della sicurezza di tutti”. Successivamente interviene in aula iil ministro degli interni Nicola Mancino che sembra voler rispondere a Martelli: “Non generalizziamo pero’ le accuse coinvolgendo tutti, ministri da poco in carica e gia’ patentati di incapacita’, governo nella sua collegialita’, capo della polizia e via via tutti i vertici dell’ordine pubblico: cosi’ comportandoci, faremo solo il gioco della mafia, oggi piu’ che mai attenta a dividere, ad approfondire il solco fra i poteri statali”. Sempre in giornata il governo boccia, per le violente reazioni critiche da esso suscitate, un emendamento al decreto antimafia che era stato proposto dal senatore Psi Franco Castiglione e approvato in mattinata dalla commissione Giustizia del Senato: esso mirava a punire severamente (con pene fino a tre anni di reclusione) la violazione del segreto istruttorio mediante la pubblicazione di notizie relative a procedimenti e inchieste.[148]
Venerdì 24 luglio 1992 Si svolgono in forma privata i funerali di Paolo Borsellino presso la chiesa di Santa Maria di Marillac a Palermo. Gli unici rappresentanti delle Istituzioni ai quali la famiglia estende l´invito a partecipare alla funzione sono il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il ministro della giustizia Claudio Martelli, il capo della polizia Vincenzo Parisi ed il segretario del Msi Gianfranco Fini. Il funerale si chiude con la preghiera laica di Antonino Caponnetto:
Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente. Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: “Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo”. C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito. Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca. In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero. Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo”. Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre. Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento.[149]
Il senato approva definitivamente il testo del decreto antimafia presentato dal governo. Il testo del provvedimento, modificato, e’ approvato con 163 voti favorevoli e 106 contrari. Sul piano politico va registrato il “si” del Pri, che rimarca, pero’, come il consenso sia al provvedimento e non al governo. I parlamentari del Pds, invece, non se la sono sentita di votare “si” con la sola eccezione del senatore Greco. Ecco i punti salienti:
1) TEMPI DELLE INDAGINI. Quando si procede per i piu’ gravi delitti di criminalita’ organizzata (ma anche per alcuni gravi delitti comuni) il termine normale delle indagini e’ aumentato ad un anno, e la durata complessiva delle stesse puo’ estendersi sino a due anni in forza di successive proroghe, che nel caso dei delitti di mafia vengono autorizzate dal giudice senza contraddittorio. In tali procedimenti, inoltre, non opera la sospensione feriale dei termini relativi alle indagini preliminari.
2) INTERCETTAZIONI AMBIENTALI. Sempre nei procedimenti di criminalita’ organizzata le intercettazioni domiciliari di dialoghi tra persone presenti sono ammesse anche al di fuori della flagranza della attivita’ delittuosa, e le medesime intercettazioni possono essere altresi’ disposte al solo scopo di agevolare le ricerche dei latitanti, quando si tratti di delitti di mafia.
3) ARRESTI E PERQUISIZIONI. E’ stabilito l’obbligo dell’arresto in flagranza in tutte le ipotesi di associazione di tipo mafioso (con notevoli riflessi anche sulle regole di utilizzabilita’ delle intercettazioni telefoniche), ed e’ stato inoltre ripristinato il potere degli organi di polizia di procedere a perquisizioni di interi edifici o blocchi di edifici, quando si tratti di sequestrarvi armi od esplosivi, ovvero di ricercarvi latitanti od evasi in relazione a delitti di mafia.
4) INFILTRAZIONI DI POLIZIA. Al fine di favorire la possibilita’ di infiltrazioni nelle organizzazioni criminali, e’ esclusa la punibilita’ degli ufficiali di polizia che, per esigenze investigative, si intromettano in attivita’ di ricettazione di armi, di riciclaggio ovvero di reimpiego di denaro o di altri beni di provenienza illecita, ed in ipotesi del genere e’ previsto il differimento dei provvedimenti di sequestro fino alla conclusione delle indagini.
5) PROVE DI ALTRI PROCEDIMENTI. E’ di regola consentita l’acquisizione delle prove (oltreche’ delle sentenze irrevocabili) provenienti da altri procedimenti, salvo il diritto delle parti di ottenere una nuova assunzione della stessa prova, se utili e rilevanti; ma nei procedimenti per delitti di mafia il nuovo esame dei testimoni o dei coimputati “pentiti” e’ ammesso solo quando sia ritenuto dal giudice “assolutamente necessario”. Lo scopo e’ quello di evitare il pericolo della intimidazione o, comunque, della usura di tali fonti di prova, come era stato ripetutamente sottolineato anche da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino.
6) DICHIARAZIONI RESE AL PM. Le dichiarazioni rese dai testimoni alla polizia o al Pubblico ministero, ma non confermate in dibattimento, nemmeno a seguito di contestazioni, possono valere come prova soltanto se corroborate da altri elementi probatori di riscontro. Esse, invece, acquistano di per se’ valore di prova piena quando il giudice (come accade spesso nei processi di criminalita’ organizzata) si convinca che il testimone e’ stato successivamente intimidito con violenze o minacce, o che altre analoghe situazioni ne hanno compromesso la genuinita’.
7) ESAMI A DISTANZA. Quando occorra esaminare dei collaboratori della giustizia sottoposti a misure di protezione, in apporto ai processi per i piu’ gravi delitti, e’ previsto che la loro audizione dibattimentale possa svolgersi a distanza, nei luoghi dove si trovano, a mezzo di collegamento audiovisivo. E lo stesso vale anche per le persone gia’ esaminate in altri procedimenti, allorche’ ne sia stato disposto un nuovo esame.[150]
Il governo dá il via all’operazione Vespri Siciliani con la quale 7000 militari dell’esercito sbarcano in Sicilia per proteggere obiettivi a rischio ed alleggerire le forze dell’ordine dai controlli di routine. I soldati saranno scelti tra corpi specializzati come la “Folgore”, la “Friuli” e la “Aosta”, ma soprattutto saranno dotati delle prerogative di agenti di pubblica sicurezza. I militari, in sostanza, non potranno compiere indagini. Sara‘, invece, confermato e rafforzato, cosi’ come da tempo proposto dal ministro della difesa, Salvo’ Ando, il compito di affiancare le forze dell’ordine nel controllo del territorio.[151]
Il Corriere della Sera rilancia la notizia data dal Secolo XIX il giorno precedente su un´informativa del 16 luglio 1992 del Ros dei carabinieri di Milano su un possibile attentato ai danni di Paolo Borsellino e Antonio di Pietro ed aggiunge alcuni particolari:
Borsellino e Di Pietro: due giudici diversi, due strategie diverse. Due strade che, alla fine, potevano confluire su un solo obiettivo: Cosa Nostra. Dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino era l’ultima memoria storica dell’antimafia: e, che andasse o no alla Superprocura, restava uno degli avversari principali dell’onorata societa’. Antonio Di Pietro, invece, e’ partito dalla corruzione, dagli affari fra politici e imprenditori. Poi, pero’, potrebbe aver toccato una parte del sistema molto vicina agli interessi mafiosi. Forse era arrivato agli investimenti al Nord del denaro sporco di droga e di sangue. Due nemici, insomma. E Cosa Nostra ha deciso di eliminarli entrambi. Cosi’ dice un’informativa dei carabinieri del Ros (Raggruppamento operativo speciale) di Milano. Un’informativa datata 16 luglio e fondata su indiscrezioni raccolte nel mondo della malavita comune. Quanto siano attendibili queste indiscrezioni, nessuno puo’ dirlo. Ma sta di fatto che tre giorni dopo, il 19 luglio, Borsellino e’ stato massacrato insieme con la sua scorta. E il documento che il Ros aveva prontamente inviato alle Procure di Palermo e di Milano e’ diventato terribilmente credibile. Anche Di Pietro, dunque, e’ nel mirino della mafia? L’ informativa dei carabinieri e’ stata tirata fuori ieri da un cronista del quotidiano genovese Il Secolo XIX, Manlio Di Salvo, e il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli non ha smentito lo scoop, di fatto confermandolo. L’informativa dunque c’e’, anche se Borrelli ha voluto contestare alcune interpretazioni del Secolo XIX. L’informativa c’e’ e racconta, in quattro paginette, che Borsellino e Di Pietro stanno arrivando entrambi, sia pure per strade diverse, all’alta mafia. Il giudice milanese sarebbe sul punto di svelare i rapporti fra alcuni politici e Cosa Nostra al Nord. Si parla di un’azienda gestita a Milano da giovani siciliani imparentati con Toto’ Riina. E di un politico, sia pure di basso profilo, legato pero’ a un big. Si accenna anche alla famiglia Fidanzati. Nomi grossi. Toto’ Riina, latitante da un paio di decenni, e’ uno dei due luogotenenti storici di Luciano Liggio. L’altro e’ Bernardo Provenzano, anche lui latitante, anche lui – come Riina – di Corleone. Secondo tutti i grandi pentiti – Antonino Calderone, Salvatore Contorno, Francesco Marino Mannoia, Tommaso Buscetta – Riina e Provenzano sono i veri reggenti di Cosa Nostra dall’inizio degli anni Ottanta. Dopo lo sterminio dei clan Inzerillo e Bontade, i due luogotenenti di Liggio hanno trasformato in dittatura il governo della Cupola, che fino ad allora era stato contrassegnato – se si puo’ usare un termine del genere – da una certa democrazia: nel senso che ogni “famiglia” aveva un suo rappresentante in grado di partecipare alle grandi decisioni. All’inizio degli anni Ottanta si verifica un fatto unico nella storia di Cosa Nostra: una famiglia e’ presente nella Cupola con ben due rappresentanti, che sono appunto Riina e Provenzano. Anche Fidanzati e’ un marchio doc. Il capofamiglia, Gaetano Fidanzati, e’ stato il boss dell’ Arenella di Palermo, la zona sotto la cui “giurisdizione” cade anche l’Addaura, dove Cosa Nostra organizzo’ nell’ 89 il primo attentato contro Falcone. Don Tanino, condannato a tre anni di reclusione in Argentina e a dodici al maxi-processo di Palermo, era detenuto a Buenos Aires fino a poco tempo fa. Quattro giorni dopo la morte di Falcone ha firmato una rinuncia al ricorso contro l’estradizione: in pratica, ha accettato la galera pur di tornare in Italia. Perche’? Qualcuno ha ipotizzato un suo pentimento. Ma sembra fuori strada. Nei giorni scorsi Fidanzati e’ venuto in Italia per testimoniare al processo “Fior di loto”, una storia di narcotraffico e riciclaggio: ma ai giudici ha offerto solo una serie di “non so” e “non ricordo”. E alla fine dell’udienza si e’ lamentato per lo strettissimo isolamento in cui e’ stato tenuto: sperava di poter comunicare con amici e parenti. Cosa c’entri il clan Fidanzati nella storia del possibile attentato a Di Pietro non e’ ben chiaro. Ma nell’informativa si fa riferimento alla scoperta, nel giugno scorso, in provincia di Bergamo, di una raffineria di cocaina gestita proprio dai Fidanzati. Un’inchiesta in cui Di Pietro non e’ intervenuto. Ma puo’ darsi che il giudice anti-tangenti si sia imbattuto in qualche collegamento. Dall’informativa non si capisce chi, all’interno di Cosa Nostra, avrebbe deciso la morte di Di Pietro. Sembra difficile attribuire la paternita’ della condanna al clan Fidanzati, che in questo momento si trova, praticamente al completo, in galera. Il procuratore Borrelli ha fatto girare nel pomeriggio un comunicato con cui non smentisce l’esistenza dell’informativa e i timori per Di Pietro, ma nega due particolari di scarso rilievo (“Di Pietro non ha incontrato Falcone e non ha mai indagato su Fidanzati”) e assicura che non c’e’ “alcun legame tra l’ inchiesta in corso e fatti di mafia”. Ma lunedi’ proprio Borrelli, parlando della strage di Palermo, aveva detto che “l’azione intrapresa dalla magistratura a Milano, attraverso la purificazione e la pulizia nella pubblica amministrazione, puo’ minacciare molto da vicino il mondo dell’affarismo mafioso”. La tensione, a palazzo, e’ palpabile. Lo stesso comunicato di Borrelli ha avuto un parto travagliato: Di Pietro ne aveva preparato un altro, che il procuratore capo ha bocciato. Cosa voleva far sapere il giudice anti-tangenti? Il clima e’ pesante. I magistrati cercano una talpa perche’ temono che da palazzo escano notizie che scottano: informazioni sugli arresti da eseguire o sui movimenti dei giudici? Si e’ partiti da una mazzetta da sette milioni, ora siamo al tritolo.[152] Dopo che la stampa ha dato notizia del rapporto riservato, interviene da Roma il colonnello Subranni, comandante dei Ros, per spiegare che per quel che riguarda il PM Antonio Di Pietro l’informativa “non e’ considerata allarmante”. In un comunicato diffuso attraverso l’agenzia Ansa, i vertici del reparto speciale dell’Arma fanno sapere: “Le notizie raccolte non da un pentito, come alcuni giornali hanno riportato, ma da un informatore, a Milano, erano estremamente generiche. Non si indicava ne’ come, ne’ dove, ne’ quando gli attentati avrebbero potuto essere fatti. Per quel che riguarda la minaccia al giudice milanese, l’informatore riferiva, piu’ che fatti, un’analisi in base alla quale l’inchiesta sulle tangenti rappresentava un danno per gli interessi di Cosa Nostra, poiche’ ha indotto un rallentamento in determinate attivita’ economiche. Sulla base di informazioni di quel tipo non sono possibili altre precauzioni che non verificare l’adeguatezza della protezione fornita a persone che, nel caso dei due giudici, erano considerate anche prima in pericolo”.[153]Anche Carla Dal Ponte, procuratrice del Canton Ticino, e’ nel mirino. Ma non per la vicenda delle tangenti, nella quale collabora con Di Pietro. La giudice sarebbe stata minacciata da Cosa Nostra. Lo rivela il quotidiano svizzero “Le Matin”, secondo il quale le minacce proverrebbero dal clan Madonia, che controlla il traffico di droga colombiana in Europa. Le minacce sarebbero collegate all’indagine che la Dal Ponte sta svolgendo su Giuseppe Lottusi, il cassiere della mafia e del cartello di Medellin. Secondo il giornale, Lottusi, attualmente detenuto a Milano, controllava a Chiasso, nel Canton Ticino, la societa’ Fimo per riciclare il denaro sporco proveniente da Palermo. Il punto debole della mafia sarebbe infatti proprio il riciclaggio e, secondo il quotidiano svizzero, la voce che Lottusi avrebbe confessato ha seminato il panico nelle file di Cosa Nostra. E questo, aggiunge “Le Matin”, giustifica il timore di Carla Dal Ponte di recarsi in Italia. Le minacce sono state confermate dal procuratore generale Piergiorgio Mordasini che ha dichiarato: “Le intimidazioni non ci fermeranno”.[154]
Ancora il Corriere della Sera rilancia alcune dichiarazioni rilasciate da Manfredi Borsellino al quotidiano La Stampa in merito a fughe di notizie riguardanti l´attivita´ investigativa del padre, Paolo Borsellino: troppa gente sapeva, e scriveva quello che non doveva sapere o scrivere, “chi le ha date queste notizie ai giornali, come sono uscite? Chi e’ stato?” [155]
Vito Ciacimino si mostra in serata a passeggio per le vie del centro di Roma: in un impeccabile vestito blu, accompagnato da una signora di circa quarant’ anni, dopo una breve passeggiata nell’affollata piazza Navona, Vito Ciancimino qualche minuto dopo la mezzanotte ha deciso di concedersi un gelato. Pensava di passare inosservato. Ma quando ha raggiunto uno dei bar che si affacciano sulla Piazza e’ stato riconosciuto. Qualche minuto di sorpresa e di imbarazzo. Poi, da un tavolo all’altro, e’ corso l’interrogativo: “Ma come, e’ libero?”. Prima un borbottio generale, poi frasi di insofferenza e battute ad alta voce. Infine, da un tavolo affollato di giovani, si e’ levata una scandalizzata protesta, seguita dall´immediato abbandono del tavolo. Don Vito, imperturbabile, ha ordinato la consumazione, senza dar peso a quello che succedeva attorno a lui. Cosi’ vuole la legge. L’ ex sindaco di Palermo e’ in attesa del giudizio della Cassazione. [156]
Ignazio Sanna, 37 anni, metronotte dell’istituto privato di vigilanza “Citta’ di Palermo”, viene arrestato per favoreggiamento. Sarebbe caduto in numerose contraddizioni, mostrandosi reticente sulle “sequenze” dell’eccidio di via D´Amelio. Attraverso le telecamere a circuito chiuso Sanna avrebbe potuto osservare gli artificieri della mafia al lavoro. Uno degli occhi elettronici che controllano l’esterno e’ infatti puntato su via d’Amelio. Ma non basta: un testimone ha raccontato di aver visto, subito dopo l’esplosione, un uomo con una pistola in mano che fuggiva proprio davanti allo scivolo posteriore dell’esattoria comunale. Invece il metronotte ha continuato a ripetere di non aver visto nulla. La sua posizione e’ ora al vaglio del Gip, che dovra’ decidere entro dopodomani se convalidare l’arresto.[157]
Sabato 25 luglio 1992 Il Corriere della Sera pubblica un´intervista al capo dell´ufficio Istruzione negli anni ottanta, Antonino Caponnetto che dá la notizia della scomparsa dalla borsa di Paolo Borsellino dell´agenda rossa dalla quale il magistrato non si separava mai:
- Andrea Purgatori (P): “Cosa ne pensa Antonino Caponnetto della decisione degli otto sostituti procuratori che si sono dimessi dalla Direzione antimafia?”
- Andrea Purgatori (P): “Cosa ne pensa Antonino Caponnetto della decisione degli otto sostituti procuratori che si sono dimessi dalla Direzione antimafia?” Antonino Caponnetto
- (C): “Un passo avanti rispetto a quello che pensavo. La sera prima ero andato a cena con una collega: le avevo esposto la situazione in termini ancora piu’ preoccupanti. Lo stesso De Francisci, uno di loro, si era confidato parecchie volte piangendo con me. Era distrutto, combattuto, preoccupato. Non sapeva che decisione prendere. E invece stamattina gli ho visto negli occhi che s’era come liberato d’un peso. Proprio non speravo che si coagulasse questo primo gruppo, questo primo nucleo con la voglia di cambiare qualcosa”.
- P: “La prossima settimana andranno tutti e otto a Roma, per essere ascoltati dal Comitato antimafia del Csm.”
- C: Io so che alcuni hanno cose molto delicate da riferire. Lo dicevo stamane anche al presidente Scalfaro. Perche’ non ci dimentichiamo che e’ anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura e questo mi da’ un senso di fiducia. Certo, le esperienze passate non inducono all’ottimismo, ma credo che anche all’interno del Consiglio voglia cambiare qualcosa. Spero proprio che il Csm non perda quest’altra occasione storica. Ne ha gia’ perse tante…”.
- P: “Quali per esempio?”
- C: “Basta risalire al 20 gennaio 1988. Quella notte in cui per succedermi alla guida dell’Ufficio istruzione fu scelto Meli anziche’ Falcone. Quella e’ una vera colpa storica”.
- P: “E poi?”
- C: “Quando esaminarono il contrasto tra Meli e Falcone e diedero, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte. Eludendo le aspettative di Falcone, che era un candido e pensava di vedere il Csm schierato al suo fianco”.
- P: “Cosa accadde?”
- C: “Che dopo quella serie di delusioni, Falcone fini’ di lottare. Li’ si apri’ una pagina all’interno della Procura, che Falcone non ha mai voluto amplificare. Mi disse: “Nino, ci sono stati troppi scandali e questo Palazzo di Giustizia non ne potrebbe sopportare un altro”. E fu sempre questo senso di fedelta’ alle istituzioni che lo indusse a firmare quella requisitoria diciamo riduttiva nel processo sui delitti eccellenti”.
- P: “In che senso riduttiva?”
- C: “In particolare, lui era contrario a chiudere l’inchiesta sul delitto di Pio La Torre: avrebbe voluto dar piu’ spazio alle parti civili ma gli fu negato. Ne prese atto con amarezza. Quando arrivo’ la requisitoria sul suo tavolo, senti’ che se avesse rifiutato di firmarla il Palazzo di Giustizia non avrebbe mai resistito allo scandalo: dopo la talpa, dopo il corvo… Allora, contro i suoi convincimenti, firmo’ una requisitoria che non condivideva. Un atto che a un profano potrebbe sembrare almeno strano e che invece rappresento’ il punto piu’ alto e sublime della sua fedelta’ allo Stato. Ma immediatamente dopo lascio’ la Procura”.
- P: “Come era cominciata l’avventura del pool, il suo arrivo a Palermo nel 1983?”
- C: “Con una telefonata che Giovanni mi fece a Firenze, all’ inizio di novembre. Ero stato nominato a capo dell’Ufficio istruzione ma non m’ero trasferito. Mi disse: “Nino, vieni subito. C’e’ bisogno di te”. C’ era il processo contro i 162 che languiva, i fascicoli marcivano. Dunque, arrivai: non conoscevo nessuno. Giovanni mi disse: “Senti, non voglio influenzarti nelle scelte. Ti chiedo solo di ripescare Paolo Borsellino”. Di Paolo non sapevo assolutamente nulla. Solo che dopo l’indagine sull’omicidio di Boris Giuliano era stato messo da parte. Lo presi. Presi anche Di Lello, di cui avevo letto molti interventi, e Guarnotta”.
- P: “In che modo decise di lavorare?”
- C: “Senza concentrare i rischi su una sola persona e cercando di avere una visione globale del fenomeno mafioso. Questa fu la decisione vincente. E per qualche anno riuscimmo a lavorare tutti in uno stato di grazia difficilmente ripetibile nella Procura attuale. E comunque non in queste condizioni”.
- P: “Dov’ e’ piu’ fragile la mafia, dove sta la sua debolezza, dove va colpita?”
- C: “Nella sua consistenza finanziaria. Finche’ non saranno capaci di farlo, la mafia continuera’ ad esistere”.
- P: “C’ e’ anche questa connivenza con la politica. Ci sono politici della mafia che siedono in Parlamento?”
- C: “Non credo abbia dei suoi uomini in Parlamento. Con la politica ha sempre preferito un rapporto collaterale”.
- P: “Che cos’ ha toccato che non doveva toccare Borsellino in questi cinquanta giorni tra la morte di Falcone e la sua?”
- C: “Non lo so, non ne accennava mai. Mi ripeteva sempre: “Nino, di queste cose al telefono non parlo”. Solo una decina di giorni fa, tornando dalla Germania, mi disse: “Sono proprio soddisfatto. Su ho fatto un grosso lavoro, che poi ho completato a Roma”. Ecco, me lo disse con la stessa gioia d’ un ragazzino”.
- P: “Eppure qualcosa ha fatto precipitare tutto, ha accelerato la sua esecuzione”.
- C: “Per forza. Ma non so cosa”.
- P: “Tuttavia c’ e’ chi sa “cosa””.
- C: “Certo che c’ e’ chi sa”.
- P: “Allora c’ e’ da sperare che il lavoro fatto da Borsellino sia al sicuro.”
- C: “Lo spero. Per ora l’Agnese lamenta la sparizione dalla borsa della agenda di Paolo, che a lei e’ particolarmente cara. Un’agenda sopra cui c’era tutto l’indirizzario telefonico, anche quello di famiglia. Paolo non se ne distaccava mai, se la teneva con se’ in modo quasi ossessivo, al punto che il maresciallo Canale scherzando diceva che ci andava perfino al gabinetto”.
- P: “L’agenda era in una borsa che non e’ andata distrutta nell’ esplosione?”
- C: “La borsa c’ e’ e manca solo l’ agenda. E fino a ieri sera ancora non l’avevano ritrovata”.[158]
Sempre il Corriere della Sera scrive che gli investigatori avrebbero individuato tre possibili “postazioni” da dove sarebbe partito, via radio, l’impulso alla carica di esplosivo utilizzata per la strage di via D´Amelio. La prima potrebbe essere il giardino che chiude via D’Amelio, in prossimita’ del numero civico 19 dove abitano la sorella e la madre del magistrato; la seconda e’ stata localizzata sul tetto di un edificio in costruzione, ad alcune centinaia di metri di distanza; infine si ipotizza come base d’osservazione il monte Pellegrino, nei pressi del castello Utveggio. La visione dall’alto consente di controllare il teatro della strage. La distanza tra l’innesco e il radiocomando, circa un chilometro, sarebbe stata superata grazie a un amplificatore di frequenza, trovato subito dopo la strage.
Il Corriere riporta poi di una misteriosa “segnalazione” giunta a Borsellino qualche giorno prima della strage. Una donna gli comunico’ un “messaggio” da parte di un amico “sensitivo”: “Agguato, procuratore e sue sentinelle, Agrigento, spari”. La signora, madre di uno degli studenti travolti da un’auto di scorta a Borsellino nel 1985, invito’ il giudice a stare attento. Il magistrato informo’ Giammanco e la procura di Agrigento.[159]
Vito Plantone, ex-questore di Palermo rimosso dalla carica a causa dei moti in chiesa il giorno dei funerali della scorta di Paolo Borsellino e “promosso” a vicecapo della Criminalpol nazionale, rilascia un´intervista al Corriere della Sera in cui afferma di aver fatto tutto il possibile per la protezione di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta:
Domenica 26 luglio 1992 Si uccide a Roma la testimone di giustizia Rita Atria. La ragazza aveva deciso di collaborare con la Giustizia rivolgendosi proprio a Paolo Borsellino, dal quale aveva ricevuto un grande aiuto anche dal punto di vista umano. Rita non riesce a trovare la forza per fare fronte alla notizia della morte del magistrato. Gli uomini dell’ Alto commissariato per la lotta alla mafia che avevano il compito di proteggerla consegnano alla magistratura romana il biglietto che la ragazza ha lasciato: “Sono rimasta sconvolta dall’uccisione del procuratore Borsellino, adesso non c’ e’ piu’ chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio piu’ “. [165] Il Corriere della Sera rilancia un articolo uscito sul settimanale tedesco Bild am Sonntag in cui il capo dell’ufficio criminale del Bka, Hans Ludwig Zachert, assicura che Borsellino aveva interrogato a Mannheim i presunti assassini accusati della strage di San Silvestro, quando nel “Bar Duemila” di Palma di Montechiaro fu sterminata la famiglia Allegro (5 morti): La “pista tedesca” porta alla spietata mafia di Palma di Montechiaro, al viaggio che Paolo Borsellino fece ai primi di luglio a Mannheim per interrogare 4 presunti assassini dei quali la polizia tedesca ieri ha rivelato i nomi anche se questo forse non sara’ molto gradito a chi in Sicilia avrebbe bisogno di indagare senza scoprire le carte, perche’ qui si e’ ad un passo dalla verita’ sui grandi delitti di una provincia malata come quella di Agrigento. E’ in questa terra di potenti lobbies e sanguinari clan che si era concentrata l’attenzione di Borsellino convinto di potere trovare in Germania la spiegazione dei massacri di due colleghi, Saetta e Livatino, del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli e delle altre stragi che hanno puntellato la guerra combattuta fra i paesi di Sciascia e Pirandello. Punto debole delle cosche, il tedesco Heico Shinna, un trafficante di cocaina che dopo il suo arresto si e’ pentito consentendo di aggiornare la mappa delle famiglie e, secondo una voce non confermata, di avere anche una traccia per individuare una “talpa” nell’apparato investigativo. Sul settimanale tedesco Bild am Sonntag il capo dell’ufficio criminale del Bka, Hans Ludwig Zachert, assicura che Borsellino aveva interrogato a Mannheim i presunti assassini accusati della strage di San Silvestro, quando nel “Bar Duemila” di Palma di Montechiaro fu sterminata la famiglia Allegro (5 morti). Quattro nomi, solo uno dei quali noto per diverse storie di mafia, quello di Gioacchino Schembri. Inediti gli altri: Gaspare e Ignazio Incardona e Gioacchino Calafato. Tutti legati alle rivelazioni di Shinna, il tedesco con il quale i siciliani si erano confidati troppo, lo “straniero” che alcune settimane fa aveva portato all’arresto di Gaetano Puzzangaro, 23 anni, un assassino che a Palma chiamano “la mosca”, indicato in un primo momento come uno dei killer di Livatino, ma poi uscito di scena anche perche’ il supertestimone Pietro Ivano Nava aveva riconosciuto solo Paolo Amico e Domenico Pace. Sono questi gli uomini che Borsellino avrebbe dovuto interrogare partendo per la Germania lunedi’.[168]
Alcune centinaia di cittadini partecipano a Palermo ad una “marcia della speranza” dalla parrocchia di Don Orione, quartiere Montepellegrino, sino al luogo dell’attentato a Paolo Borsellino e agli uomini della scorta. Il corteo si muove in silenzio alle ore 16.57, la stessa ora della strage, e dopo aver percorso un chilometro, depone un fiore in via D’Amelio. Il parroco Salvatore Caione recita lo stesso augurio che Borsellino pronuncio’ in occasione del trigesimo dell’attentato a Falcone alla fiaccolata degli scout.[169]
Lunedí 27 luglio 1992 Viene ucciso a Catania in un agguato di stampo mafioso Giovanni Lizzio, capo della speciale sezione anti estorsioni della squadra mobile. É il primo delitto eccellente che avviene a Catania dopo l’uccisione del giornalista Pippo Fava, avvenuto nel gennaio del 1984.
Il Corriere della Sera intervista Giusi Agnello, dirigente del commissariato di Palma di Montechiaro (Agrigento), che sabato ha ricevuto l’ordine di trasferirsi entro 48 ore a Roma, alla Dia, senza che nessuno pensasse alla sostituzione. Il commissario aveva lavorato a Palma per due anni e mezzo ed aveva collaborato con Paolo Borsellino all´Operazione “Gattopardo”: “In tre mesi con lui, non appena ha funzionato la Dda, la Direzione distrettuale antimafia, siamo riusciti a fare quel che non era stato possibile in due anni. Lavorando senza concorrenza, noi e i carabinieri finalmente avevamo trovato un interlocutore che, in poco tempo, ci ha consentito di mettere tanti tasselli del mosaico a posto. E’ quel che stavamo facendo e che bisogna continuare a fare”. [172]
Martedì 28 luglio 1992 Al termine di un’audizione a Roma di fronte al Csm sullo stato della giustizia palermitana il procuratore Pietro Giammanco legge una lettera con cui chiede ufficialmente di essere trasferito ad altro incarico. Durante l´audizione Giammanco sottolinea il pieno accordo che e’ sempre esistito sia con Giovanni Falcone (con lui qualche piccolo screzio dovuto alla differenza di temperamento, e giudicando semplici sfoghi le accuse contenute nel suo diario), da lui difeso proprio davanti al Csm, sia con Paolo Borsellino, al quale concedeva una delega ben piu’ ampia del dovuto e sul conto del quale proprio il giorno prima della strage si era espresso in termini lusinghieri, proponendolo per incarichi direttivi superiori. Giammanco rivendica la sua assoluta indipendenza dai partiti politici, esibendo le sue “medaglie antimafia” (“ho fatto perquisire immediatamente studi e abitazioni dell’europarlamentare Salvo Lima dopo la sua uccisione”) e giudica “un prodotto dell’ emotivita’ ” il documento degli otto sostituti palermitani dimissionari che definisce opportunisti e strumentalizzati politicamente.
Nello stesso giorno viene ascoltato dal CSM anche il PM palermitano Roberto Scarpinato, uno degli otto dimissionari, il quale dichiara: “Noi rinunceremo alle dimissioni solo a una condizione, che vengano assicurati i livelli di sicurezza adeguati per i magistrati e per le scorte. Occorre subito fare qualcosa, abbiamo chiesto un incontro col ministro Mancino, ma aspettiamo ancora una risposta. Comunque non si deve far credere alla gente che quello di Palermo sia un problema di faide tra magistrati. Non sono atteggiamenti personalistici. Si tratta di problemi di livello istituzionale. Qui parliamo di mafia, di vita o di morte negli uffici giudiziari”. [173]
Sempre il Corriere della Sera rivela che il telefono di Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo e residente in via D´Amelio, sarebbe stato tenuto sotto controllo dalla mafia nei giorni precedenti alla strage. La fase finale della della preparazione dell´attentato sarebbe scattata a mezzogiorno di domenica 19 luglio, dopo una telefonata via cavo in cui Paolo Borsellino preannunciava la sua visita nel pomeriggio. Gli artificieri di Cosa nostra avrebbero piazzato in via D’Amelio la Fiat 126, imbottita con 80 chili di “Sintex”, tre ore prima dell’esplosione. Numerose testimonianze dei condomini concordano infatti nel fissare attorno alle ore 14 la comparsa dell’autobomba.[176]
Mercoledì 29 luglio 1992 Enzo Scotti si dimette da Ministro degli Esteri. Ufficialmente la ragione è da ricercarsi nella decisione della DC sull’incompatibilità tra mandato parlamentare ed incarico ministeriale, in realtà si tratta di una lotta di potere tutta interna al clan democristiano. Scalfaro critica apertamente la decisione. La decisione sull´incompatibilitá tra mandati era stata presa su proposta del segretario Dc Arnaldo Forlani e la prima conseguenza era sta quella di sbarrare la strada per la nomima a ministro degli esteri di Giulio Andreotti, senatore a vita.
Proseguono le audizioni presso il “gruppo di lavoro antimafia” del Csm dove vengono ascoltati i magistrati degli uffici giudiziari palermitani. Molto nette le dichiarazioni dei sostituti Antonio Ingroia e Vittorio Teresi: “Borsellino ci disse di non riferire a Giammanco troppi particolari sulle indagini che stavamo svolgendo perché non si fidava di lui.” [179]
Inoltre gli stessi ed altri colleghi della procura confermano una frase pronunciata da Giammanco in una riunione relativa alle misure di sicurezza per i magistrati palermitani. Riguardo al sostituto Di Lello che al pomeriggio si muoveva da solo con la macchina della moglie per mancanza di personale e mezzi, Giammanco aveva affermato: “Di Lello? Sta assittato supra ‘na cartedda ‘e munnizza“ (sta seduto su un mucchio di spazzatura), espressione palermitana rivolta a chi si vuole dare delle arie ed una certa importanza senza ragione.
Giovedí 30 luglio 1992 Maria Falcone viene ascoltata dal Csm riguardo al contenuto dei diari di suo fratello ed al clima di isolamento che egli aveva vissuto prima di chiedere il trasferimento a Roma. Maria Falcone conferma che Giammanco ostacolava pesantemente il lavoro di Giovanni Falcone tanto da sottrargli anche atti d’indagine dei quali era titolare in quanto componente del coordinamento antimafia della procura.
Il Corriere della Sera riporta parte di una lettera del rettore dell´Universitá Cattolica di Milano Adriano Bausola che ha manifestato a Salvatore Borsellino tutta la sua indignazione per le frasi pronunciate recentemente in Parlamento dal sen. della Lega Gianfranco Miglio. Nello stesso tempo, pero’, il rettore dell’ateneo precisa che il senatore della Lega “ha lasciato da quattro anni l’attivita’ di insegnamento istituzionale nell’Universita’ Cattolica per raggiunti limiti di eta’ e che attualmente si e’ posto in pensione. La sua militanza leghista ha preso corpo precisamente in quest’ultimo scorcio temporale. Cioe’ dopo essere passato fuori ruolo… Le opinioni di Miglio impegnano solo la sua persona. L’orientamento del nostro ateneo e’ molto diverso. L’istituzione si riconosce nei principi e valori dell’unita’ nazionale e della solidarieta’ civile cui ha dato voce il piu’ autorevole dei nostri laureati: il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro”. [184]
Il Corriere della Sera pubblica un´intervista al funzionario al vertice del servizio di protezione della Polizia di Stato per i collaboratori di giustizia. Il funzionario spiega il momento di difficoltá che alcuni collaboratori stanno vivendo dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino:
- Funzionario (P): “I pentiti hanno bisogno di un nuovo magistrato che sia un amico comprensivo e un confessore disponibile, non soltanto un notaio che registra le dichiarazioni. E’ questo il miracolo che Falcone e Borsellino erano riusciti a fare. Grazie a loro viviamo una stagione d’ oro. C’ e’ tanta gente che e’ nata dentro la mafia e che non ne puo’ piu’ della mafia. Bisogna tendere una mano e facilitare il passaggio verso la civilta’ . Ma i pentiti vogliono d’ altra parte un uomo, uomini integerrimi, autorevoli, con carisma, in grado di promettere e mantenere, di interrogare e non partire per le ferie, di verbalizzare e non passare le carte agli avvocati dei mafiosi”.
- Felice Cavallaro (FC): “Dopo Falcone, dopo Borsellino ha registrato uno sconforto generalizzato?”
- P: “I miei pentiti hanno reagito male. Tanto male. Erano stati loro a “scegliere” Falcone e Borsellino. C´e’ sicuramente un grande sconforto ma comprensibile”.
- FC: “Che cosa dice loro per superare questa fase?”
- P: “Che bisogna andare avanti. E si va avanti. Nessuno infatti ha deciso di ritrattare, di ritirarsi. Ma bisogna stare vicino a queste persone perche’ non mollino”.
- FC: “Sara‘ piu’ difficile avere nuovi pentiti?”
- P: “E’ quel che temevo. E invece abbiamo segnali opposti. Ma c’e’ bisogno di un magistrato disponibile non solo per raccogliere le dichiarazioni del pentito ma anche per vivere con lui i suoi momenti di tristezza. Gestire un collaboratore non significa riempire i verbali come un notaio. Significa soprattutto sapere rinunciare ad un pomeriggio di interrogatorio se il pentito si mette a piangere preso da dubbi e tormenti”.
- FC: “Qual era il metodo di Falcone e Borsellino per conquistare la fiducia dei pentiti?”
- P: “Grazie alla loro esperienza coglievano la dignita’, lo spessore umano di queste persone che non vogliono ne’ l’elemosina, ne’ essere trattate come strumento di un disegno. Vivono un dramma interiore immenso. Vogliono liberarsi di informazioni che hanno, dissociandosi indipendentemente dal pentimento che e’ un’altra cosa. Chi per vendetta, chi perche’ teme di essere ucciso, chi per crisi mistica o altro, al di la’ della motivazione, queste persone nel momento in cui decidono di dissociarsi finiscono per strapparsi la pelle, per sradicarsi dalla loro cultura, dal loro mondo. E non e’ facile. Da soli non possono farcela”.
- FC: “Chi puo’ aiutarli?”
- P: “Occorre l’aiuto di un esperto, soprattutto di chi conosce le possibili parabole con momenti di caduta di tensione, con ricorrenti stati di apprensione. Deve saper vivere con loro senza derogare a nessuna delle sue funzioni, cercando di rispettare il silenzio, di cogliere il momento di sconforto, di restare vicino senza insistere utilizzando l’attimo in cui la persona e’ pronta ad aprirsi, a dichiarare”.
- FC: “Chi puo’ sostituire Falcone e Borsellino?”
- P: “Dei giudici con il garbo giusto, che sappiano fare la battuta al momento opportuno o che sappiano allontanarsi magari con la scusa di prendere un caffe’ quando il pentito ha bisogno di solitudine… Ci sono anche i giudici che vanno di fretta, che pensano all’aereo da riprendere… Non tutti lo sanno fare. Ci vuole un po’ di carattere e tanta esperienza”.
- FC: “Come fa un pentito a “scegliere” il “suo” magistrato?”
- P: “Molto dipende dal carisma che il giudice s’ e’ guadagnato con una presenza su giornali e Tv. E’ facile fraintendere ma io mi riferisco al concreto impegno antimafia che puo’ venire fuori attraverso articoli ed interviste su operazioni, blitz, arresti. E’ un elemento che conta moltissimo. Non dimentichero’ mai i primi interrogatori di Calderone. Quando gli dicevo che stavano arrivando da Palermo con un aereo speciale Falcone, il giudice Natoli e il procuratore capo per sentirlo, sorpreso, chiedeva: “Possibile che si muovano queste personalita’? Pure Falcone e il procuratore per me? Allora quello che dico vi pare davvero importante? Non pensavo di valere tanto”. Funzione, grado, notorieta’ sono elementi importanti. O, almeno, possono trasformarsi nella chiave che apre una porta”.
- FC: “Lei ha chiesto a qualche pentito perche’ ha scelto Falcone o Borsellino?”
- P: “Lo chiedo spesso. Mi rispondono che sicuramente non sono magistrati “avvicinati”. Hanno paura di essere trattati con superficialita’ o di mettere la loro vita nelle mani di persone “avvicinabili”, influenzabili, di giudici che dopo l’interrogatorio spiattellano quel che hanno sentito”. [185]
Venerdì 31 luglio 1992 Il governo cambia i vertici dei servizi segreti. Al SISDE Angelo Finocchiaro, giá Alto commissario “per il coordinamento della lotta alla delinquenza mafiosa”, succede ad Alessandro Voci, al SISMI Cesare Pucci sostituisce Luigi Ramponi. Il prefetto di Palermo Mario Iovine viene trasferito con le stesse funzioni a Firenze. Prima di lasciare il suo posto Iovine rilascia una breve dichiarazione alla stampa: “Nessuno segnalò la pericolosità di Via D’Amelio. Io ho la coscienza a posto, ho fatto tutto il possibile per proteggere i magistrati, ma Palermo è diventata come Beirut. Dico che nulla è stato tralasciato, siamo stati sopraffatti da eventi di tipo bellico.” [186]
L’affermazione riguardo alla mancata segnalazione della pericolosità di Via D’Amelio è palesemente falsa.[187] In un’altra nota Iovine afferma: ”Spero solo che questo movimento di prefetti non venga interpretato da nessuno come un mio allontanamento per colpa. Spero di lasciare un buon ricordo nei cittadini palermitani per i cinque anni in cui ho svolto qui la mia attività, prima da questore e poi da prefetto. Credo di aver agito sempre secondo coscienza al meglio delle mie possibilità, con professionalià e zelo.” [188]
Si svolgono a Partanna in provincia di Trapani i funerali di Rita Atria, confidente di Paolo Borsellino suicidatasi pochi giorni dopo la strage di via D´Amelio. I funerali si svolgono al cimitero di Partanna dove altre donne sono giunte da ogni parte d´Italia per testimoniare la propria solidarietá a Rita, ripudiata dalla madre dopo la scelta di collaborare con la magistratura. Al rito é presente Anna Maria, la sorella di Rita, insieme al marito, un sottufficiale dell’Esercito con cui vive in Lombardia. Quando dalle sacre scritture il vecchio parroco di Partanna, don Russo, sceglie per il rito funebre solo i salmi che parlano del peccato anziche’ dell’innocenza, una ragazza romana lo interrompe e lo corregge: “Rita non ha peccato. Rita ha parlato. Mai piu’ lasceremo una donna sola”. Michela Buscemi, la donna che a Palermo ha accusato gli assassini del fratello rompendo con il resto della famiglia, compresa la madre, urla in dialetto: “Rita eri picciridda ma facisti cosi granni (Rita eri una bambina ma hai fatto cose grandi)”. La grande fotografa Letizia Battaglia, le donne di Bologna e Roma, una ragazza inglese che le accompagna restano incredule quando un altro prete, don Ajello, lancia uno sprezzante vaderetro: “Siete avvoltoi!”. E loro: “Semmai, siamo colombe, padre”. Le Istituzioni sono rappresentate dal sindaco di Partanna Antonio Passalacqua che definisce benefattore l´ex-sindaco dc Enzo Culicchia, eletto in Parlamento ma indicato anche da Rita Atria come possibile mandante dell’omicidio di un vice sindaco. Passalacqua ricorda Rita come “una giovane che ha il coraggio di togliersi la vita dopo avere avuto il coraggio di parlare, di cercare la verita’. “ [189]
Sul Corriere della Sera compare una lettera di risposta di Scianna Ferdinando, Redaelli Giulio, Sciardelli Franco all´editoriale di Corrado Stajano del 20 luglio: Sul “Corriere” di lunedi’ 20, Corrado Stajano conclude un suo articolo sulla strage di Palermo con questa frase: “Paolo Borsellino era uno dei “professionisti dell’antimafia”, come lo aveva definito Sciascia, uno di quelli che facevano carriera con le inchieste di mafia. Che carriera, che splendida carriera”. Giuseppe D’Avanzo, giornalista, se non ricordiamo male, tra i piu’ pertinacemente attivi dalla parte dell’ingiustizia ai tempi dell’affare Tortora, scrive sulla “Repubblica” del 21 che “Paolo Borsellino fu definito professionista dell’antimafia da un Leonardo Sciascia male informato, peggio istigato da quelli che Borsellino riteneva ancora amici fraterni”. Affermazioni assolutamente non vere come puo’ verificare chiunque voglia rileggere quel famoso articolo apparso sul “Corriere” e ora ripubblicato in un libro postumo che non a caso si intitola “A futura memoria”. Ha anche un sottotitolo di lucido pessimismo quel libro: “Se la memoria avra’ un futuro”. Ed evidentemente non ce l’ha se gente come D’Avanzo e Stajano puo’ mentire con tanta premeditata spudoratezza. Premeditata e non solitaria, ne’ sorprendente. Ci sono persone e giornali, infatti, che non riescono ancora a digerire le ferite che le molte verita’ di Sciascia hanno inferto a quanti la verita’ non hanno mai amato. E oggi, fidando appunto nella orchestrata perdita di memoria, tentano, con stillicidio di menzogne e travisamenti, di operare meschine vendette. Fra le tante altre cose illuminanti e’ anche possibile leggere in quel libro quanto Sciascia scriveva gia’ il 20 febbraio 1983 a proposito di una certa evoluzione della mafia che nemmeno il generale Dalla Chiesa aveva capito: “Non aveva capito, insomma, la mafia nella sua trasformazione in “multinazionale del crimine”, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza piu’ regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere siciliani”. Ma dov’ e’ oggi uno Sciascia per analizzare fatti e misfatti di questo paese che i D’Avanzo, Stajano e compagni non riusciranno a capire nemmeno con i soliti dieci anni di ritardo? Ferdinando Scianna, Giulio Redaelli, Franco Sciardelli
Alla lettera risponde Corrado Stajano: Che malinconia! Il non aver dubbi, il non voler riconoscere neppure davanti a quei cadaveri straziati che la polemica di Sciascia sui professionisti dell’antimafia fu sbagliata e sommamente ingiusta. Falcone e Borsellino si portarono dentro fino alla fine il peso di quelle rovinose accuse (“Nulla vale piu’, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”). Dopo l’assassinio di Falcone, Paolo Borsellino ne parlo’ in pubblico a Palermo durante la presentazione della rivista “MicroMega”: disse che il suo amico Giovanni Falcone aveva cominciato a morire proprio dopo quell’ articolo di Leonardo Sciascia uscito il 10 gennaio 1987.
Fonte: www.19luglio1992.com