AGESE BORSELLINO dall’archivio

26.6.1992 «IN QUEI GIORNI ACCADE UNA COSA MAI VERIFICATASI A CASA NOSTRA – RACCONTA AGNESE BORSELLINO

 
 Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e i miei figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. È diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. In gioco ci sono cose troppo importanti. Si è reso conto, pur nella sua umiltà, che in quel momento è l’unico ad avere la capacità e la volontà di lavorare con questi ritmi massacranti.» Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. «Pur di continuare il suo lavoro è disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre più spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici è tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza però ricevere in cambio, ne è convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall’ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi.»  Da “L’agenda rossa di Paolo Borsellino – gli ultimi 56 giorni nel racconto di familiari, colleghi, magistrati, investigatori e pentiti.

 

12.12.1992 La vedova Borsellino «Paolo fu abbandonato» Lettera-denuncia a giuria del premio Marrazzo

 
La vedova Borsellino «Paolo fu abbandonato» Paolo Borsellino era «un uomo che andava protetto così come lui proteggeva, che andava aiutato così come lui aiutava, ed invece, mi preme dirlo, è stato abbandonato al suo destino di morte…». 
 E’ quanto scrive la signora Agnese Borsellino, vedova del magistrato, in una lettera inviata ai promotori del premio «Giuseppe Marrazzo» dedicato, nella sua quinta edizione, alla memoria dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e la cui manifestazione si è svolta ieri sera a Napoli con la partecipazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni.  
Agnese Borsellino, che non era presente perchè malata, afferma che «questa iniziativa riveste un significato importante dal momento che è la prima volta che un premio del genere è dedicato a due magistrati».
«Desidero ricordare – aggiunge – la semplicità e la bontà d’animo di Paolo, che prima di essere un magistrato è stato un marito esemplare. La carica umana che trasmetteva in famiglia era la stessa che trasmetteva ai collaboratori della giustizia, i cosiddetti pentiti, e la stessa sicurezza che dava ai figli la infondeva ai suoi collaboratori, i quali proprio in quanto si sentivano protetti e aiutati si affidavano a lui ciecamente». [Ansa]
 

Agnese Borsellino, la moglie del magistrato ucciso in via D’Amelio lo scorso anno, ha diffuso un messaggio attraverso i telegiornali in occasione dell’anniversario della strage di Capaci. «Tra le innumerevoli sensazioni che provo in questi giorni  quella che più mi conforta è constatare che quegli uomini che sono stati uccisi perché soli, oggi non sono più soli: la gente fa il tifo per loro.  
Mi conforta altresì vedere come tutti coloro che dal sacrificio di queste vittime hanno trovato la forza di andare avanti, continuando la loro opera, oggi trovano ampi consensi e adeguati mezzi a disposizione».  
Ricordando gli uccisi nelle due stragi dello scorso anno a Palermo, la vedova di Paolo Borsellino li ha ringraziati «per il coraggio che non li ha fatti mai fermare dinanzi agli ostacoli e al pericolo della morte: erano uomini consapevoli che la forza dello Stato di diritto sta nella difesa estrema dei propri servitori». [Ansa]

 

19 luglio 1994 «lo chiedere scusa? Non mi pare»

 

«lo chiedere scusa? Non mi pare» Maroni: se il decreto passa, addio lotta alla mafia «PERCHE’ HO VOTATO» LM PALERMO anniversario triste è una costante delle ingrate abitudini di questa città. Da un po’ di anni in qua, a Palermo le ricorrenze si contraddistinguono per l’alto tasso di polemiche che riescono ad innescare. Questa volta, invero, la rissa politicoistituzionale era preesistente alla data fatidica, quel 19 luglio di due anni fa, giorno della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della scorta. Questa volta, la polemica è importata direttamente dai Palazzi del potere e giocata dalla ribalta di un palcoscenico certamente privilegiato, qual è appunto la città dei martiri antimafia. La «pietra dello scandalo» è ancora il decreto Biondi, quei 15 articoli ormai definitivamente bollati come «salvaladri» e, adesso, anche come «ammazzaindagini sulla mafia». Chi, meglio del ministro Roberto Maroni – autocritico fino a farsi male, fino a graffiarsi usando le parole come cilicio – chi meglio di lui poteva scendere a Palermo per dare il colpo definitivo (almeno dal punto di vista dell’immagine) al decreto della maggioranza, inviso ai magistrati, ad una parte di poliziotti e carabinieri, ai familiari delle vittime della mafia? E lui, il ministro dell’Interno «preso in giro» da Berlusconi e da gran parte del Consiglio dei ministri, non ha tradito le aspettative. Ha ripetuto a chiare lettere che gli «hanno fatto il gioco delle tre carte;», pardon, dei tre decreti visto che dal suo racconto si capisce che i lesti del provvedimento dovevano essere certamente più di due. Maroni è arrivato a Palermo sotto un sole che scioglieva l’asfalto. L’occasione: un dibattito a più voci, sul tema dei collaboratori della giustizia, promosso dal Siulp, il sindacato di polizia. Ci sono: Violante, Caselli, il segretario del Siulp Sgalla, il prefetto Parisi, il giudice Giordano e Gianni De Gennaro, direttore della Dia. Un modo concreto e non sterilmente liturgico – ha detto il moderatore, Sandro Curzi direttore di Tmc – per onorare la memoria dei caduti antimafia. La Caserma «Pietro Lungaro», invasa da auto blu, scorte e persino da due enormi elicotteri, chiamati per favorire la lotta contro il tempo del ministro e di quanti altri avrebbero dovuto spostarsi da una punta all’altra della provincia per presenziare alle cerimonie commemorative. La sala del dibattito, di solito adibita a cinema-teatro per reclute ed agenti della Polstrada, tradisce la «particolarità» dell’incontro: giudici, carabinieri, poliziotti, poliziottisindacalisti, il prefetto e i familiari degli agenti caduti per il dovere, quelli morti con Falcone e Borsellino. Neppure loro sembra¬ no molto tranquilli: «Sono grata dice Tina Montinaro, vedova di Antonio, il caposcorta di Giovanni Falcone – alle autorità, a tutti quelli che hanno voluto ricordarsi di me e dei miei figli. Se mi faranno parlare ringrazierò anche il ministro, ma mi toglierò anche un peso dallo stomaco. Dirò che non mi sembra giusto che ai figli di un altro morto, l’agente che faceva la scorta al giudice Carlo Palermo, sia stata negata la pensione completa solo perché il padre è morto due anni dopo l’attentato, per una malattia conseguenza di quel tragico giorno». Tina Montinaro non avrà l’occasione di intervenire in pubblico perché il dibattito e i giornalisti si pren¬ deranno via troppo tempo. L’atmosfera, elettrica, si surriscalda quando gira la notizia che Agnese Borsellino, la vedova del giudice, non sarebbe andata alla cerimonia di oggi per non incontrare Biondi. E proprio ai giudici di Palermo è dedicata l’appassionata autocritica di Roberto Maroni. Inevitabilmente il tema del dibattito devia sul decreto Biondi e sulle conseguenze anche sul fronte della lotta alla mafia. E’ pronto Maroni, quando si tratta di cogliere gli uomori della platea ed è premiato con applausi a scena aperta. Il ministro riserva due notizie alla platea di giornalisti: «Ho sbagliato, è vero. Ho firmato una co¬ sa che non avevo capito fino in fondo. Di questo, chi vuole, può chiedermi conto. Sono disposto a farmi da parte». Quindi lo scoop: «Ho cambiato idea quando ho letto meglio. Non ho avuto dubbi sul fatto che il decreto debba essere ritirato e in fretta, prima che possa procurare guai maggiori, quando ho parlato col giudice Caselli che stimo tantissimo e verso il quale ho una fiducia illimitata. Lui mi ha aperto gli occhi, specialmente per la parte che riguarda le difficoltà che l’art.9 (che stabilisce in tre mesi il termine massimo entro il quale chiunque deve essere informato che esistono indagini a suo carico ndr) avrebbe comportato per chi con- trasta il potere di Cosa nostra». La seconda notizia: «Prima del decreto Biondi, avevano cercato di farmi firmare anche il condono edilizio. Se non è passato in quel modo osceno ò per merito dei ministri della Lega». E infine, l’affondo a distanza a Berlusconi: «Io chiedere scusa? Non mi pare. Semmai sento di dover dire che se il decreto passerà, ciò vuol dire che la maggioranza non vuol lottare contro la mafia. E in una maggioranza così io non ci sto. Non potrei guardare più in faccia i poliziotti, i carabinieri, i giudici che ogni giorno rischiano la vita». Applausi. Francesco La Licata

20.7.1994 AGNESE BORSELLINO: «Paolo, un uomo scomodo»
«Lotto con un nemico invisibile» 

 
Tutt’Italia ha ricordato con emozione le sei vittime della strage del 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo. Agnese Borsellino, la vedova del magistrato assassinato con cinque dei sei agenti della scorta, ha fatto leggere da una ragazza un messaggio durante una liturgia della parola celebrata all’aperto in serata nella piazza davanti al Palazzo di giustizia presenti oltre duemila persone.
«La violenza non è espressione di forza, ma di debolezza, non crea nulla, produce solo distruzione, orrore e smarrimento» è detto fra l’altro nel messaggio in cui la vedova definisce «scomodo» Borsellino e afferma che dopo la strage con la morte anche degli angeli custodi «ho avuto la sensazione di subire impotente una guerra combattuta da un nemico senza una precisa identità».
E ancora ha rivolto un «pensiero particolare» a quei magistrati che cercano la verità con rigore morale, non per esercitare un potere». «A questi uomini giusti – ha aggiunto – va la mia riconoscenza.
C’è un mal di vivere che si manifesta o sfogando in chiacchiere sterili o peggio sfuggendo alle proprie responsabilità, ma è bene ricordare che chi tradisce lo Stato tradisce se stesso e perde la sua identità». Scalfaro ha parlato del sacrificio delle vittime ricordando «il debito morale che l’intera collettività nazionale ha contratto con questi servitori integerrimi, vittime di una strategia criminale» come ha precisato in un messaggio inviato alla signora Borsellino.
A Montecitorio i deputati hanno ascoltato in piedi un discorso di Irene Pivetti secondo la quale «lo Stato non è morto, non ha abbandonato la Sicilia, non ha mandato al massacro delle perso- ne inconsapevoli ma ha versato il suo stesso sangue».
E il presidente del Senato Scognamiglio ha definito Falcone e Borsellino «eroi che hanno sacrificato la vita per salvare l’Italia dalla mafia».
A Roma nella chiesa di San Lorenzo i ministri Alfredo Biondi e Roberto Maroni non si sono guardati in faccia alla Messa in suffragio delle vittime e gelo c’è stato a Palermo nel palazzo della Provincia dove Biondi ha disertato la commemorazione a causa delle polemiche sul decreto per la custodia cautelare. Aveva saputo che Agnese Borsellino stessa non sarebbe stata presente e ha dichiarato allora che non sarebbe venuto a Palermo «per non consentire di trasformare una solenne circostanza di unione e solidarietà in occasione di polemica politica».
Il presidente della Provincia Francesco Musotto, di Forza Italia, ha sottolineato che «è fuori luogo ogni polemica e divisione».
In Comune Leoluca Orlando ha organizzato un’altra commemorazione e il Consiglio in seduta straordinaria ha approvato ordini del giorno contro la mafia.
Il padre dell’agente Agostino Catalano, uno degli uccisi, si è lamentato: «Sono stati due anni di chiacchiere, abbiamo pagato milioni per acquistare un lotto di terreno al cimitero, ma il Comune non ci dà la licenza per costruire le tombe e i nostri cari sono ancora nei loculi a muro». Un’altra commemorazione è stata fatta a Palazzo di giustizia dai magistrati, presenti i membri del Csm Libertino Alberto Russo e Sergio Lari e il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli ha dichiarato alla Radio Vaticana che la mafia «è un’organizzazione criminale capace di cicatrizzare le sue ferite e rigenerare i tessuti colpiti». Caselli ha ammonito: «Bisogna al più presto recuperare unità di intenti».
20.7.1994 LA STAMPA

24.3.1995 « Su Borsellino i veleni di Giammanco »

 

«Non aveva voluto affidargli le inchieste di mafia e sottovalutò le minacce di morte » La vedova sfida il procuratore. Il verbale di una drammatica deposizione resa ieri mattina nel processo sulla strage di via D’Amelio dalla vedova di Paolo Borsellino in corte d’assise a Caltanissetta è stato inviato dal pm Carmelo Petralia alla procura della Repubblica.
Potrebbe essere aperta un’inchiesta sull’ex procuratore di Palermo Piero Giammanco ora consigliere della Cassazione.
«Certamente saranno svolti accertamenti sui nuovi profili emersi oggi», ha detto il pm. Agnese Borsellino, oltre ad avanzare pesanti riserve sul comportamento di Giammanco nei confronti del marito, ha fatto una rivelazione che ha lasciato tutti di stucco. Eccola: alle 7’del mattino del giorno della strage, domenica 19 luglio 1992, Giammanco telefonò a Borsellino, comunicandogli di aver deciso di affidargli anche le inchieste sulla mafia di Palermo che fino ad allora gli aveva negato malgrado egli fosse il suo procuratore aggiunto.
«Fu una telefonata sorprendente – ha detto la signora – anche perché tra Giammanco e mio marito non c’erano rapporti di confidenza tali da giustificare una telefonata a quell’ora e di domenica».
Agnese Borsellino ha pure affermato che Giammanco precisò di «avere riflettuto a lungo» prima di prendere la decisione. La signora ha poi raccontato altre cose che la procura di Caltanissetta forse approfondirà con lo stesso Giammanco.
Come la vicenda di un rapporto del Ros dei carabinieri che tempo prima della strage aveva segnalato alla procura palermitana la possibilità di attentati contro Borsellino.
Secondo la teste, il rapporto fu consegnato alla procura ma Giammanco gli avrebbe attribuito scarsa o nessuna importanza. Agnese Borsellino ha dunque riproposto il clima surriscaldato e i veleni del Palazzo di giustizia di Palermo tre anni fa.
«Se fossero stati presi provvedimenti seri per proteggere mio marito, oggi non mi troverei in quest’aula», è sbottata ad un certo punto la signora che ha sostenuto che Paolo Borsellino «si sentiva solo». «Mi dicono – ha pure dichiarato – che prima ancora che mio marito venisse a Palermo non c’era entusiasmo da parte del capo, non era contento che mio marito tornasse a Palermo».
Eppoi: «Mio marito si occupava soltanto delle inchieste di mafia nelle province di Trapani e Agrigento». Una puntualizzazione, la sua, quasi come a lan¬ ciare il sospetto che Giammanco avesse impedito a Borsellino di occuparsi della situazione di Palermo. La deposizione della vedova di Borsellino è stata commentata, con una nota, da Pietro Giammanco. Il magistrato esprime «dolore e stupore» ma aggiunge che è «necessario ristabilire la verità dei fatti». Giammanco ricorda di avere voluto Borsellino come procuratore aggiunto. «D’intesa con il cons. Stajano che doveva provvedere al trasferimento ho indotto il collega Puglisi, più anziano, a ritirare la domanda». LA STAMPA
 

19.7.1995 «Non speculate su Borsellino»

Agnese Borsellino è una signora piccola, che come tutte le signore siciliane non stringe la mano, ma la porge appena. Come quelle poche parole che dice, in una serata diversa, per lei che non ha mai voluto comparire e adesso quasi si nasconde accanto alla mole di Leoluca Orlando, nel giardino che sa arabo, di villa Niscemi, nel parco della Favorita, con attorno la Palermo «retina» delle fiaccolate, delle lenzuola bianche, dell’antimafia militante. E’ la sera del film «Un uomo gentile, un bravo magistrato», 40 minuti di immagini e suoni di Palermo intorno al tema Borsellino, una specie di documentario emotivo con cui la Rete punta a riscaldare la Sicilia indifferente.
L’ha girato Pasquale Scimeca che alla fine del film si avvicina timidamente alla signora Agnese. Le è piaciuto? «Molto toccante», e sembra che ringrazi mentre lo dice. Sono passati tre anni da quella domenica pomeriggio in via D’Amelio quando l’inferno di Cosa Nostra ha divorato in un boato la vita di Paolo Borsellino e quella dei suoi cinque agenti di scorta. Tre anni di esistenza appartata e silenziosa di Agnese che non ha mai fatto proclami, né proteste, né rivelazioni. Qualche settimana fa è andata a testimoniare al processo di Caltanissetta sulle stragi e ha raccontato con angosciata lucidità il riflesso intimo e famigliare delle ostilità a palazzo di giustizia che avevano spinto suo marito all’isolamento. Poi è ritornata nel chiuso della sua casa: «Io – ci spiega – non voglio mettermi in mostra».
La serata è di quelle speciali. In prima fila c’è Agnese, accanto al sindaco Orlando e alla signora Laura, moglie del procuratore Giancarlo Caselli che quando arriva a villa Niscemi è accolto da un applauso interminabile. E ancora accanto padre Pintacuda, il gesuita ispiratore e teorico della Rete. Sparsi tra il pubblico ci sono le due figlie di Borsellino, Lu- eia e Fiammetta, arrivata in motorino, c’è il fratello di Paolo, Salvatore che fa l’ingegnere e vive ad Arese. C’è la sorella Rita che vive a Palermo e fa la farmacista. Non c’è Manfredi, il figlio, che sta dando gli esami da magistrato ed è, ci dice un amico, «molto stanco». «Questi sono giorni difficili, per noi», dicono i parenti di Paolo Borsellino, «uomo gentile, bravo magistrato», come sembra recitare una bambina del centro sociale dell’Albergheria intervistata nel film.
E’ il centro dove lavorava come volontaria Lucia Borsellino, ed è lì che i ragazzi raccontano la loro semplice verità. «Sì – ci dice Agnese Borsellino credo anch’io che nelle scuole di Palermo siano cambiate molte cose in questi ultimi anni». La morte di Falcone e di Borsellino ha innescato un fenomeno che non si era mai visto. «A distanza di tre anni – ci dice ancora Agnese – continuiamo a ricevere centinaia di lettere, specie di bambini. Ora le vogliamo pubblicare». Sono migliaia, arrivano da Palermo, dalla Sicilia, ma anche da posti insospettabili come late Mills, Ohio, Stati Uniti, da dove un certo Sam Borsellino scrive del suo illustre omonimo: «E’ stato un grand’uomo». 0 come Bao Phaphò, Laos al confine cambogiano, da dove una certa Katerine manda una specie di poesia che finisce così: «…sono in Cambogia, ma mi sento in Sicilia e la mia mente è imbrigliata al pensiero del vostro dolore». Il film si apre con quella specie di testamento pronunciato da Borsellino pochi giorni prima di morire, in un dibattito alla biblioteca di Palermo sulla tragedia di Capaci dove raccontò l’isolamento di Giovanni Falcone che era anche il suo. «Nessuna strage – commenta un deputato della Rete – fu più annunciata di quella di Borsellino…». E la signora Agnese fa segno di sì con la testa, chiudendo i piccoli occhi scuri. Ecco le immagini di Paolo ai funerali di Falcone e della scor¬ ta. Riceve la comunione dall’arcivescovo Pappalardo e lo vediamo in raccoglimento, con la toga un po’ a sghimbescio. Chiediamo alla signora Agnese come spiega il fenomeno delle lettere: «Credo che oggi molta gente senta il bisogno di simboli positivi. Paolo è diventato un simbolo». E adesso tutti lo tirano un po’ di qua e un po’ di là. Destra e sinistra, anche se lui (è noto) in gioventù aveva militato a destra e aveva un cuore che non batteva a sinistra. La Rete l’ha celebrato con il film, l’Arci con raccolte di poesie, Alleanza nazionale con un incontro al circolo della libertà dove l’onorevole Lo Porto ha ricordato gli anni della «Giovine Italia». Abbiamo chiesto a Rita Borsellino, cosa ne pensa: «Ognuno – ci ha detto – è libero di commemorarlo. L’importante è che non ci speculino sopra. La memoria di Paolo appartiene a tutti e accanto a me ho sentito in questi anni il calore di tanta gente che prima non conoscevo neppure. E’ la sua eredità», [c. m.) «Ognuno è libero di commemorarlo la sua memoria appartiene a tutti» «Voglio pubblicare le lettere che ci hanno scritto i bambini» V A fianco, Agnese Borsellino, vedova del giudice Paolo (foto a sinistra) In alto un’immagine della strage di via D’Amelio

3.11.2004 Giudice Borsellino un particolare che mette i brividi

 

Ci sono incontri che non si possono dimenticare. Agnese Borsellino aveva perso da due anni il marito Paolo – massacrato con la sua scorta, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, a Palermo – quando venne a trovarmi a Milano. Alla donna minuta, moglie e figlia di magistrati (il padre, Angelo Piraino Leto, fu presidente^ Corte d’Appello) dovevo mostrare alcuni passi della lunga intervista che il marito aveva fatto a dei giornalisti francesi ima settimana prima dell’assassinio di Giovanni Falcone a Capaci; 60 giorni prima del suo stesso martirio. Su quell’intervista, negli anni a venire, in special modo in periodi pre-elettora¬ li, si è sollevato un gran polverone. Frasi del giudice citate a caso; polemiche e, visto che era stata pubblicata ma non fu mai più trasmessa in tv, persino dubbi sulla sua esistenza (al procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, consegnai, a quel punto, le cassette audio integrali con la voce di Borsellino). Ma tutto questo è ormai materia di verbali, di infiniti processi. Alla vigilia della programmazione in tv della fiction sulla vita di Paolo Borsellino (8, 9 novembre, Canale 5, regista Gianluca Tavarelli, produttore Pietro Valsecchi) quel che ricordo è l’inteirogativo che tonnentava Agnese Borsellino. Un interrogativo rimasto ancora oggi, se non ci si ferma agli esecutori delle stragi, senza risposta. «Voglio capire chi e perché ha ucciso mio marito», ripeteva la signora vedendo le immagini, fino a quel momento a lei inedite, del marito ripreso nello studio della loro casa di via D’Amelio. Ancor più che le parole una lucida analisi sul salto di qualità di Cosa Nostra nei primi anni Sessanta – era commovente anche per chi stava accanto a lei in risentire nel filmato i rumori ordinari di quella casa; rivedere i piccoli gesti quotidiani del giudice. Il suono cu un orologio a pendolo, il fumo della sua sigaretta m bocca, il telefono che suona. E ancora di più. Sentire una nota di preoccupazione nella voce del giudice ma solo perché l’operatore aveva inquadrato alle sue spalle la bandiera tricolore appartenuta al padre con lo stemma sabaudo e, chissà mai quali polemiche gli avvoltoi si sarebbero inventate contro di lui. La signora Borsellino raccontava di quegli ultimi, tormentati 57 giorni di vita del marito; quel tempo troppo breve e fatale tra la morte dell’amico Falcone e il suo martirio. A un tratto, nel filmato, il giudice s’interrompe: lo avvisano che i suoi ospiti devono spostare la loro automobile che avevano, in tutta tran¬ quillità, parcheggiato dopo aver scaricato il materiale per le riprese, sotto casa, in via D’Amelio. Particolare dabrivido: la prova delllnefficienza, nel maggio ’92, della protezione attorno a un giudice da anni nel mirino della mafia, sicuramente dal maxiprocesso a Cosa Nostra. Stop. Passiamo dalla realtà alla fiction che è ottima cosa se fatta bene perché serve a non dimenticare. Dopo l’anteprima per le autorità a Roma, il film sulla vita del giudice Borsellino, un siciliano che per amore della sua terra non si arrese mai alla mafia, verrà proiettato a Palermo, al cinema King, la sera di venerdì 5 novembre. In sala la sua famiglia: la moglie Agnese, i figli Lucia, Manfredi, Fiammetta che, in questi 12 anni, hanno saputo affrontare il loro immenso dolore con infinito coraggio e dignità.

20.7.2005 La famiglia Borsellino diserta le cerimonie ufficiali

 

 A 13 anni dalla morte di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta il figlio del magistrato ucciso in via D’Amelio sostiene che «nulla è cambiato» dal giorno della strage. E adesso punta il dito su molti aspetti della società civile che lasciano «chiaramente intendere che questo sacrifìcio di uomini è stato inutile». Manfredi Borselhno è un giovane funzionario di Polizia che all’epoca della morte del padre era uno studente in Giurisprudenza. Adesso nell’anniversario che ricorda anche l’uccisione degli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Manfredi Borsellino è duro con le parole nei confronti della società civile. La famiglia Borsellino ha preferito non partecipare a nessuna delle cerimonie istituzionah. E cosi il giovane poliziotto ha affi¬ dato ad una lettera le proprie considerazioni. Un atto d’amore per il padre, con il quale scherzava spesso anche su come sarebbe stata la vita dei propri familiari quando lui non ci sarebbe stato più. Paolo Borsellino questi anni, secondo Manfredi, li vedeva in maniera diversa, con un alto senso delle istituzioni e del rispetto dei valori della legalità.
Il Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, in un messaggio alla famiglia dice: «Possiamo dire oggi che la sfida vile lanciata dalla criminalità mafiosa contro lo stato di diritto è culminata nella morte di suo marito e prima in quella di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo, è miseramente fallita». «Paolo Borsellino – scrive Manfredi – che amava non prendersi sul serio, probabilmente avrebbe preso sul serio a modo suo la vile offesa perpetrata sulla lapide di via D’Amelio, tanto più che vedeva la sua persona come protago- nista; era noto in famiglia quanto amasse scherzare con il proprio destino immaginando mia madre rivestire il ruolo di vedova antimafia e noi figli assistiti e riveriti dallo Stato». Ricordando che nei giorni scorsi la lapide situata in via D’Amelio è stata imbrattata di vernice, dice: «Tuttavia un episodio come quello o altri fatti di cronaca recenti non l’avrebbero affatto lasciato indif¬ ferente, lo avrebbero portato ad intensificare ancora di più il suo impegno quotidiano per rendere migliore e più vivibile la sua città e si sarebbe interrogato: in che cosa si è sbagliato? Perché certi messaggi non sono pervenuti?. Coloro che ricoprono ruoli di vertice nell’ambito delle istituzioni, hanno sempre offerto quell’esempio di trasparenza e rettitudine, soprattutto morale, che era ed è lecito aspettarsi da chi gestisce un potere conferitogli da noi elettori». Il procuratore Piero Grasso lancia un appello a tutti i siciliani ai quali chiede di «alzare la testa» contro la mafia e si rivolge soprattutto ai professionisti e agli uomini di cultura. Oltre a lui, tantissimi coloro che hanno ricordato l’anniversario della strage. Il Presidente del Senato, Marcello Pera, ha inviato a Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso, un messaggio in cui rende omaggio «alla coerenza estrema di un grande servitore dello Stato». Il presidente della Camera, Casini, ricorda «la figura esemplare» di Borsellino e il «sentimento dì gratitudine per la coraggiosa battaglia da lui combattuta per il riscatto della sua terra e di tutto il Paese dall’onta della mafia».

21.7.2009 Borsellino, la vedova rompe il silenzio “Li perdono solo se dicono la verità”

 

Agnese Borsellino ha deciso di infrangere la regola del silenzio che si era data per ricordare gli uomini della scorta del marito

La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, rompe un silenzio durato 17 e parla agli assassini del marito. “Se mi dicono perchè l’hanno fatto se confessano, se collaborano con la giustizia, perchè si arrivi a una verità vera, io li perdono, devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perchè l’hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire. Di fronte al coraggio io mi inchino – ha spiegato in un’i ntervista alla trasmissione di Raidue La storia siamo noi, in onda domani – da buona cristiana dire perdono, ma a chi?, io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perchè sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito”.
Un appello che ricorda quello lanciato da Rosaria Schifani, moglie di uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone, durante i funerali delle vittime della strage di Capaci. “Io vi perdono – aveva detto tra le lacrime – però vi dovete mettere in ginocchio”.
Agnese Borsellino ha deciso di infrangere la regola del silenzio che si era data per ricordare chi ha dato la vita per suo marito: gli uomini della scorta, cui è dedicata la puntata del programma condotto da Giovanni Minoli. “Per me erano persone, come per mio marito che facevano parte della nostra famiglia e vivevano quasi in simbiosi con noi, condividevamo le loro ansie, i loro progetti. Un rapporto oltre che di umanità, di amicizia e di reciproca comprensione e rispetto”.
Borsellino sapeva, spiega la moglie, che “quando avrebbero deciso di ucciderlo lo avrebbero fatto, come del resto è stato, con tecniche ultramoderne. Infatti mi diceva ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’. Per evitare che ciò accadesse, spesso e alle stesse ore usciva da solo per comprare il giornale, le sigarette, quasi a mandare un messaggio per i suoi carnefici perchè lo uccidessero quando lui era solo per la strada e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Mio marito non si poteva rifiutare di farsi proteggere o di farsi accompagnare, le sue capacità finivano qui, non poteva fare altro per salvarli”.
La vedova Borsellino ha raccontato anche le ultime ore passate col marito quel 19 luglio. “Era una giornata normale, mio marito si sentiva molto stanco, voleva accontentare me e i miei figli e fare una passeggiata a Villa Grazia, al mare. Alle 16.30 – racconta – quando sono venuti gli altri sei uomini della scorta, è andato dalla sua mamma perchè doveva accompagnarla dal medico. Ha baciato tutti, ha salutato tutti, come se stesse partendo. Lui aveva la borsa professionale, e da un pò di giorni non se ne distaccava mai. Allora mi è venuto un momento di rabbia, quando gli ho detto: ‘Vengo con te’. E lui ‘No, io ho fretta’; io: ‘Non devo chiudere nemmeno la casa, chiudo il cancello e vengo con te’. Lui continuava a darmi le spalle e a camminare verso l’uscita del viale, allora ho detto: ‘Con questa borsa che porti sempre con te sembri Giovanni Falcone’. Sono arrivata a dire queste ultime parole”. LA REPUBBLICA


4.10.2009 Agnese Borsellino si confessa ai pm “Vi racconto gli ultimi sospetti di Paolo”

 

“Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”.

È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D’Amelio.
Il verbale di interrogatorio è di poco più di un mese fa, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall’altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare “quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio”. Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell’autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.  Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. “Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini”, ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino “aveva voglia di sfogarsi”. Racconta ancora la signora Agnese: “Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: ‘Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia…’”. Un paio d’ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, “per interrogare ancora Mutolo”.
Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina – il 19 luglio, il giorno della strage – il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: “Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo “autorizzava” a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all’ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò”.
Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l’ha ribadito un’altra volta: “Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo”.
Un’informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali “in un carcere dov’erano rinchiusi dei mafiosi”. Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi.Ricorda sempre la vedova: “Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola”. Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui – Borsellino – rimane a Palermo.
Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della “trattativa” che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi.
Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori – “l’anima” dei reparti speciali – e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l’ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella “trattativa”. 
Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L’ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino:
“L’ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: ‘Il generale Subranni è punciutu” (cioè uomo di Cosa nostra ndr)…’”.Un’affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta.
La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato. Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: “Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti ndr) a offrire garanzie concrete?…”. E conclude Ciancimino: “In un primo momento gli viene detto che c’è il loro referente capo, il generale Subranni…”. È un’altra indagine nell’indagine sui misteri delle stragi siciliane.  (14 ottobre 2009 LA REPUBBLICA


11.10.2009Senza la verità non sarà mai un Paese libero”. La vedova del magistrato dopo l’appello di Annozero “Sono una vedova di guerra” 

 

Agnese Borsellino, vedova di Paolo, oggi assomiglia ad un’isola privata del suo mare che non ha perduto la speranza che le onde tornino a bagnarla. Parla di “Verità nascoste”, la puntata di Annozero. Delinea con la sua consueta signorilità il ritratto di chi ha perduto definitivamente la memoria e di chi la memoria la sta riconquistando pian piano. “Santoro e Ruotolo hanno fatto quello che i magistrati non sono riusciti a fare per 17 anni – dice – sulla bilancia sono stati messi i fatti e la bilancia ha smesso di pendere. Fatti che raccontano una storia molto pericolosa ancora da scrivere che sono stati affrontati con grande rigore etico. Credo che ora ognuno di noi abbia maggiori strumenti per accrescere la propria coscienza civica. Giovedì, a dimostrazione di quanto bisogno vi sia di un’informazione libera capace di spezzare la catena che protegge il muro di silenzio, sono saltati alcuni anelli”. 

Per questo Liofredi, direttore di Raidue, voleva che quelle “Verità” restassero “nascoste”? Ne sono rimasta colpita ma non meravigliata. Tuttavia preferisco non fare commenti e lasciare a chi legge e ascolta di trarre le considerazioni che vanno tratte.

Alcune memorie continuano ad essere fuori uso. Altre, lentamente, iniziano a funzionare. Perché?   Perché i tempi sono cambiati. Forse ci si sente meno soli, nel senso di isolati, anche grazie al ruolo dell’informazione, almeno di una certa informazione onesta. Le parole smuovono le coscienze, agitano gli animi. Oggi la magistratura indaga in quella direzione. C’è una coscienza collettiva che sta prendendo consapevolezza e ricordare diventa più facile. Talvolta in questo Paese gli uomini tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi. Le loro coscienze sono troppo, troppo pesanti. E per volare nel cielo limpido della legalità bisogna essere leggeri dentro. Provo una certa tenerezza, sa, per loro. Mi appaiono bambini che balbettano parole appena imparate e muovono incerti i primi passi. Solo che, a differenza dei bambini, hanno perduto il piacere della scoperta, la freschezza della curiosità, il gusto di vivere in un Paese pulito.

Si è mai trovata faccia a faccia con qualche “smemorato”? Sì. E’ accaduto. Hanno farfugliato qualche parola di giustificazione non richiesta che ho lasciato cadere. A cosa serve dire loro ciò che già sanno? Il coraggio della verità, se lo si vuole, lo si può conquistare nel tempo, ma non lo si può inventare lì per lì. C’è da dire che all’ombra degli eroi antimafia sono fiorite brillanti carriere. Non voglio sentir parlare di mafia e antimafia. Chiacchiere da tempo perso. Tutte vittime, tutti eroi, come se fossimo accomunati dalla stessa storia. Non è così. Io non mi sento una vittima della mafia, non sono una vedova di mafia ma piuttosto una vedova di guerra. Sono una donna che ha perduto suo marito in guerra. Dunque, se mio marito è un eroe, è un eroe di guerra, perché quella che si è consumata è una guerra  tra Antistato e Stato in cui ha vinto la ragion di Stato e…

E ? E ragioni, interessi diversi. Mio marito ha continuato a lavorare di fronte ad una morte annunciata che lo rincorreva come una persona colpita dal cancro che sa di avere ancora poco tempo a disposizione. La morte non l’ha sorpreso eppure non è fuggito. Ricordo bene quando disse in tv che il tritolo per lui era già arrivato.

Diversamente da Di Pietro, avvisato e mandato all’estero, a suo marito nessuno disse nulla.   Lui lo aveva appreso dalle indagini che stava conducendo. Ripeto: lo disse in tv. Ma non accadde nulla. Ha combattuto con il valore della sola arma che possedeva: il senso dello Stato, di cui si sentiva un umile servitore. Un soldato che in quel momento si stava sacrificando sopra ogni forza per restituire giustizia alla morte del suo compagno di battaglia, Giovanni Falcone. Ne è seguito un attacco preventivo. Ucciderlo voleva dire eliminare un ostacolo che impediva il raggiungimento del fine. 

Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio? No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità. Come può esserci pace in un Paese popolato ancora da ricattatori e ricattati? La mia fiducia è tutta dentro quel viso pulito, fiero di Cecilia, la ragazza di 14 anni intervenuta ad Annozero. Sapere che la morte di Paolo ha un senso anche per chi non era ancora nato è una gioia immensa che spero possa provare presto anche chi ancora tace.

“Vi chiedo in ginocchio di parlare” ha scritto nella lettera inviata ad Annozero. Un appello disperato. Vi prego di non dimenticare che non si è mai lontani abbastanza dalla verità per poterla trovare. Vuol dire che non c’è più tempo per fuggire e forza per resistere: è giunto il tempo della verità.

Come riesce a gestire quel conflitto tra emotività e ragione? Con l’aiuto della fede, la sola capace di quietare il dolore, facendo prevalere la logica per non smarrire la lucidità dell’analisi. Paolo non mi ha mai detto nulla e non ha lasciato documenti in casa volutamente per evitare di metterci in pericolo. Ma Paolo era mio marito, lo conoscevo bene, ci conoscevamo bene. Sapevo interpretare i suoi silenzi, i suoi umori, cogliere quella sua irrefrenabile voglia di vivere con una sola preoccupazione: fare la differenza. Lo ripeteva spesso, i miei figli sono intrisi delle sue parole: non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Ho rimesso assieme frammenti di ricordi: parole ascoltate da una telefonata, sguardi rubati tra porte socchiuse, silenzi improvvisi e immotivati, gioie spezzate dall’angoscia”. L’eredità di Paolo Borsellino è una scuola di pazienza, come lo è il mare che insegna a mostrare mani che si sporcano su cui puoi contare, gesti che dicono da che parte sta il tuo cuore, respiri che regalano la sapienza del riconoscere l’anima di chi si incontra al di là delle vesti che indossa e le maschere che calza per essere altro da sé o per paura di non sapere volare.  di Sandra Amurri(in Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2009)


10.3.2012 «Le insinuazioni del generale Antonio Subranni non meritano alcun chiarimento. Si commentano da sole».

 

Agnese Piraino Leto, vedova di Paolo Borsellino, replica in modo secco alle dichiarazioni dell’ex comandante del Ros riportate oggi dal Corriere della Sera. Subranni si richiama a un passaggio di un verbale del 2010 nel quale la signora Borsellino riferisce una confidenza del marito.
Da lui avrebbe appreso che Subranni era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato «punciutu», punto, in un rito di affiliazione a Cosa nostra. Il generale nell’intervista sostiene che si tratta di «falsità» e aggiunge: «Purtroppo, la signora Borsellino non sta bene in salute. Forse un Alzheimer, non so quando cominciato».
La patologia, interviene il figlio Manfredi Borsellino, è ben altra e in ogni caso «mia madre è la più lucida di tutti noi». «Subranni – prosegue Agnese Piraino Leto – ha scelto il modo peggiore di difendersi. Non replicherò in alcuna sede». Lo farà, annuncia, con una lettera al marito che leggerà alla vigilia della strage del 19 luglio 1992. (Cosa che ha puntualmente fatto, n.d.r.) “ANSA” del 10 marzo 2012, Palermo

 

17.6.2012 I VERTICI DELLO STATO SAPEVANO. “PAOLO AVEVA CAPITO TUTTO” –   

 

Agnese Piraino Borsellino  non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio?”, rispose: “No. Non è finita. Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”. A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi? Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere. Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone? Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto. Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati? Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse. Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi. Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava. Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”? Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro. Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra? Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione. Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo:”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi, fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale? Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono. Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire? Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale. Il Fatto Quotidiano del 17 giugno 2012 di Sandra Amurri


5 MAGGIO 2013 – Morta Agnese Borsellino. Malata da tempo, aveva 71 anni. 


Non smise mai di cercare la verità sull’assassinio di suo marito, Paolo Borsellino. Riservata e lontana dai riflettori pubblici, Agnese Piraino Leto, preferiva parlare ai giovani dando messaggi di speranza e di riscatto da quel cancro della mafia che le tolse il marito, l’amico, il padre dei suoi tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta. Nella sua ultima apparizione, in occasione dell’inaugurazione a Palermo della nuova sede della Dia, già provata dalla malattia, Agnese pronunciò parole che ancora adesso sembrano pietre: «Questa città deve resuscitare, deve ancora resuscitare». Agnese Piraino Leto è morta oggi, nella sua abitazione, a 71 anni. A darne la notizia è stato Salvatore Borsellino, fratello del magistrato. «È andata a raggiungere Paolo – ha scritto su Facebook – Adesso saprà la verità sulla sua morte». In una nota i figli chiedono che «oggi sia un momento di preghiera strettamente privato nel rispetto di una perdita che ha una dimensione prima di tutto familiare».
Sempre a testa alta, in quella sua figura minuta ma fiera e orgogliosa, Agnese Borsellino, che sposò Paolo il 23 dicembre 1968, non ha mai perso la fiducia nella giustizia e nella verità, anche quando i depistaggi e i falsi pentiti raccontarono una storia che ora i magistrati di Caltanissetta stanno cercando di riscrivere, pezzo dopo pezzo. Proprio per la malattia che l’affliggeva, non aveva potuto partecipare alle manifestazioni per il ventennale delle stragi. Aveva però mandato un messaggio ai giovani: «Dopo alcuni momenti di sconforto – aveva scritto – ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato. Non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui».
In occasione delle udienze del processo per la strage di via D’Amelio aveva riferito le preoccupazioni del marito che si erano accentuate dopo la strage Falcone. «Mi disse che c’era un colloquio tra mafia e pezzi infedeli dello Stato», raccontò. E parlò di un Borsellino «sconvolto» mentre le rivelava di avere saputo che l’ex capo del Ros, Antonio Subranni, era «punciuto» (uomo d’onore, ndr). «Paolo mi disse: “Mi ucciderà la mafia ma solo quando altri glielo consentiranno”». I verbali dei suoi interrogatori sono stati acquisiti anche al processo al generale dei carabinieri Mario Mori. La malattia le impedì di essere presente in aula a ripetere quelle parole.
L’anno scorso in un’intervista all’Ansa disse: «Io e i miei figli siamo rimasti quelli che eravamo. E io sono orgogliosa che tutti e tre abbiano percorso le loro strade senza trarre alcun beneficio dal nome pesante del padre. Di questo siamo grati a Paolo. Ci ha lasciato una grande lezione civile. Diceva che chiedere un favore vuol dire diventare debitore di chi te lo concede. Era così rigoroso e attento al senso del dovere che alla fine della giornata si chiedeva: ho meritato oggi lo stipendio dello Stato?». Unanime il cordoglio delle istituzioni. Il Capo dello Stato; Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio alla famiglia Borsellino. Solidarietà anche dal presidente della Camera Laura Boldrini, dal premier Enrico Letta, dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, dal Guardasigilli Annamaria Cancellieri, dal governatore della Sicilia, Rosario Crocetta, dall’Anm. «Con dolore vero sincero e immenso apprendo la notizia della morte di Agnese Borsellino, donna di singolare esempio di attaccamento e fedeltà alle istituzioni, di grande coraggio e grande forza», ha dichiarato il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta. I funerali si terranno domani alle 9.30 nella chiesa di S. Luisa di Marillac a Palermo, la stessa dove si svolsero le esequie di Paolo Borsellino. LA STAMPA


5.5.2013  Agnese Borsellino, una vita aspettando Verità e Giustizia 

 
Agnese Piraino Leto  Borsellino se ne è andata, nella discrezione e nel silenzio che le era congeniale;  lei vedova di uno dei più grandi magistrati che ha avuto questo paese, ucciso per non farlo indagare e non solo su cosa nostra; lei donna nobile d’animo e donna “gentile” di educazione palermitana che incarnava  la forza d’animo ed anche  la ferma volontà dei palermitani e siciliani  onesti di arrivare alla Verità sulla morte del marito e della sua scorta in quel torrido 19 luglio 1992. Agnese Borsellino non amava né le interviste, nè le apparizioni pubbliche. Subito dopo la strage di Via D’Amelio si era chiusa nel suo dolore  con i figli ed i familiari più vicini, aspettando con la sua grande forza d’animo, che si facesse luce su quell’auto bomba devastante che ,per altro, il marito Paolo, pochi giorni prima gli aveva anche anticipato, confessandole d’aver saputo che era arrivato in Sicilia il tritolo che avrebbero usato per lui. Non aveva paura Paolo: ma temeva per  i suoi familiari, per la scorta che pure doveva avere,: e per lei, Agnese ed i loro figli. Ma Agnese lo aveva rincuorato: capiva i timori del marito, ma lei e la sua famiglia, sarebbero stati sempre con lui, vicino a lui ed ai suoi ideali. Così fu, una promessa mai mancata. Non era possibile; perché Agense, Paolo ed i loro figli erano una cosa sola.È morta all’età di 71 anni Agnese Piraino Leto Borsellino. A dare la notizia il fratello del magistrato, Salvatore, con un post su Facebook: “E’ morta Agnese. E’ andata a raggiungere Paolo. Adesso saprà la verità sulla sua morte”. Agnese, figlia del presidente del tribunale di Palermo Angelo, si era sposata con Paolo Borsellino, allora giovane magistrato, il 23 dicembre 1968. Dal loro matrimonio sono nati tre figli: Lucia, 44 anni, che oggi ricopre l’incarico di assessore regionale alla Sanità, Manfredi, 41 anni, attuale dirigente del commissariato di polizia di Cefalù, e Fiammetta, di 40. Una vita felice la loro, segnata anche dall’impegno di Paolo Borsellino come magistrato, dalla sua battaglia giudiziaria contro la mafia, dal suo impegno come magistrato che ha sempre fatto, innanzi tutto, il proprio dovere; sino a quel maxi processo che istruì con Giovanni Falcone, aprendo finalmente gli scenari nascosti di cosa nostra, ma segnando la rottura  di quel patto tra mafia e politica che aveva governato per anni in Italia. Lì l’Italia della società civile si schierò con i magistrati palermitani, la politica dei poteri forti, si incagliò in quella rottura del patto. Borsellino e Falcone da eroi della lotta contro la mafia, diventarono quasi imputati, rei d’aver rotto gli equilibri: il corvo, i trasferimenti, la chiusura dell’esperienza del pool antimafia di Palermo, segnarono quegli anni a cavallo della caduta del muro di Berlino. E che non dovevano concludersi con la sentenza definitiva della Cassazione che sancì l’ottimo lavoro di Borsellino e Falcone con la condanna definitiva alla cupola di cosa nostra. Con quella sentenza e con l’assassinio di Salvo Lima, la mafia sancì anche la morte di Falcone a Capaci, il 23 maggio del 1992. Borsellino sopravvisse a quel dolore perché voleva scoprire chi era stato, doveva capire se dietro quella strage c’erano apparati dello Stato, se c’era un altro patto scellerato: lo capì presto e chi di noi, la sera del giugno 1992 era alla Casa Professa di Palermo a sentire la sua ricostruzione dei fatti davanti a centinaia di studenti, capì che quell’uomo sapeva, aveva capito ed aveva fretta di arrivare alle sue conclusioni giudiziarie. E che impersonava la speranza di una mondo che voleva finalmente chiudere con la mafia. Ma proprio ad Agnese, la sua Agnese che l’aveva seguito sempre, anche all’Asinara con la famiglia quando Giovanni e Paolo dovevano redigere il rinvio a giudizio che avrebbe poi portato  al maxi processo; alla sua Agnese, Paolo aveva confidato i propri timori, i suoi sospetti,  il perché di quelle  notti insonni e di quegli appunti sull’agenda rossa dalla quale non si separava mai ( e che infatti sparì con lui a Via D’Amelio). Agnese era rimasta con i suoi segreti e dubbi, evitando al massimo le sue apparizioni ed interviste, limitandosi a presenziare a poche cerimonie pubbliche in ricordo del marito. Ma nonostante questo, aveva sempre detto con chiarezza il suo pensiero nell’impegno antimafia, nella vicinanza ai giovani  che si schieravano, in nome di Paolo e Giovanni, contro  le mafie e per la rinascita della sua Sicilia. La sua riservatezza non le aveva mai impedito di chiedere la verità sulle stragi e la giustizia vera, volendo arrivare sino in fondo per capire chi fossero i mandanti veri di quella stagione di bombe italiane,  quel 1992-1993 che aveva segnato la vita sua e della sua famiglia.  Non avrebbe mai potuto stare sempre in silenzio, perché di Paolo, suo marito, fu veramente compagna e partecipe in ogni decisione ed in ogni momento, soprattutto in quelli più difficili: e con gli anni che avanzavano e mentre sui motivi di quelle stragi si aprivano scenari di trattative tra stato e mafia, volle finalmente parlare.  Solo nelle sedi opportune, però.  Solo in occasione delle udienze del processo per la strage di via D’Amelio aveva riferito le confidenze e le preoccupazioni del marito alla vigilia dell’attentato del 19 luglio 1992. Proprio in questi giorni è iniziato a Caltanissetta il quarto filone processuale sull’attentato. Agnese era stata sentita durante la fase istruttoria, era indicata fra i testimoni principali del dibattimento. Aveva tra l’altro riferito sulle inquietudini del coniuge che si erano moltiplicate dopo la strage di Capaci nella quale vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Aveva parlato di quell’agenda scomparsa, dei tanti perché che si erano accavallati dopo Via D’Amelio, domande sinora senza risposta. Ma aveva sempre riportato nelle sedi giudiziarie la fiducia che si potesse arrivare, alla fine, a far luce su quei misteri. Non ce l’ha fatta: ma altri, a partire dai figli, porteranno avanti la sua ricerca di Verità e Giustizia.

9.5.2013 “Agnese Borsellino rimase in silenzio per proteggere i suoi figli”

 

Salvatore Borsellino, cognato di Agnese, vedova del giudice Paolo, apre il suo cuore al settimanale Oggi. In un’intervista esclusiva in cui svela dettagli inediti sulla vita della donna dopo la morte del marito. Soprattutto in rapporto con i figli – VIDEO.
“COL SILENZIO HA PROTETTO I FIGLI” – «Mia cognata ha parlato solo dopo 17 anni. È rimasta in silenzio per proteggere i suoi figli. Non me lo ha mai detto esplicitamente ma spesso ripeteva strane frasi: “Se si sapesse tutto… ma non si può parlare perché questi si vendicano anche sui bambini”. Negli anni, le sue paure mi hanno fatto pensare a delle minacce». Lo dichiara Salvatore Borsellino al settimanale Oggi. Il fratello del magistrato ucciso in via D’Amelio parla della vedova del giudice, scomparsa nei giorni scorsi, ma anche delle clamorose affermazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, secondo il quale il magistrato Giuseppe Ayala fu agganciato e condizionato dalla mafia.
“VOGLIO UN FACCIA A FACCIA CON AYALA” – «Anche a me Mutolo disse quelle cose», continua Salvatore Borsellino nell’intervista a Oggi. «Ci siamo visti due volte, su sua richiesta… Mi ha detto di essere stanco di sentire Ayala definirsi “amico di Giovanni e Paolo” “Mi devo togliere la soddisfazione di dire in faccia ad Ayala quello che ha fatto. Sono pronto a un confronto pubblico con lui”. Le parole di Mutolo mi hanno sconvolto».


5.5.2014 AGNESE BORSELLINO, DONNA CORAGGIO DEL NOSTRO TEMPO

 

“Nel corso dell’ultimo incontro con Agnese, nel quale si preparava alla morte, mi ha comunicato il suo desiderio che emergesse la verità sulla morte di Paolo. Agnese ha dato tutta se stessa nella sua vita. E’ stata una roccia salda. Sperava di riuscire a veder nascere il bambino di Fiammetta ma non ce l’ha fatta. Lo vedrà dall’alto”. Le parole che padre Scordato pronunciò durante l’omelia, ai funerali di Agnese Piraino Leto in Borsellino, riecheggiano ancora ad un anno di distanza nella chiesa di Santa Luisa di Marillac, a Palermo.E cos’altro vedrà ancora, la signora Agnese, guardando dall’alto questa Italia che tanta sofferenza le ha causato in vita? Con profonda amarezza possiamo dire che il suo più profondo desiderio non è stato ancora avverato. “Voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro”. Agnese non chiedeva la verità solo per se stessa e per Paolo, ma anche per gli altri martiri di mafia e soprattutto per le giovani generazioni che non hanno avuto la possibilità di conoscerlo. Su iniziativa del procuratore aggiunto Domenico Gozzo, era stato creato un gruppo a lei dedicato, “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”, a seguito dell’intervista rilasciata dal generale Antonio Subranni nella quale sosteneva che la moglie di Borsellino soffrirebbe di Alzheimer, in quanto era stato da lei definito come “l’amico traditore” di cui parlava il marito. Molti ragazzi che le si sono avvicinati, delle stragi del ’92 e ’93 a volte non conservano nemmeno il ricordo. La moglie del giudice Borsellino aveva imparato ad amarli, quei giovani che le inviavano così tanti messaggi affettuosi, e anche quando la malattia l’ha poi costretta a restare a casa su una sedia a rotelle, Agnese non smetteva mai di leggere e rispondere alle lettere che arrivavano dalla parte più pulita dell’Italia. Per loro, per i suoi figli e nipoti, continuava a dare voce e fiato alla sua richiesta di giustizia.

Parole inascoltate Chi, però, ha davvero ascoltato le parole di Agnese? Non certo gli uomini delle istituzioni, nei confronti dei quali la moglie di Paolo aveva le idee chiare: “A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso” diceva. Nell’ultimo anno il livello di tensione attorno ai magistrati che in Sicilia si occupano di indagini di mafia, e in particolare ai pm di Caltanissetta e Palermo, è salito ulteriormente. Di questo già se ne angosciava, Agnese Borsellino, quando nell’ultimo periodo della sua vita apprese di una lettera minatoria indirizzata ai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Domenico Gozzo e Sergio Lari: “Mi sembra di rivivere un incubo… Non c’è solo la mafia dietro queste parole minacciose, ne sono sicura. Perchè quei magistrati hanno toccato con le loro indagini alcuni nervi scoperti dello Stato”. Oggi Di Matteo, pm di punta del processo trattativa Stato-mafia e condannato a morte da Totò Riina, è nella lista dei magistrati in questo momento più a rischio. Nonostante ciò, per lui non è stato ancora predisposto il bomb jammer (come era stato invece annunciato, ndr) il dispositivo che intercetta i segnali radio impedendo così l’esplosione di una bomba collegata a un telecomando. Lo stesso dispositivo che, se fosse stato predisposto per Falcone e Borsellino, avrebbe bloccato lo scoppio del tritolo a Capaci e in via D’Amelio. Sul processo che si occupa dei dialoghi tra Stato e mafia – quella trattativa per la quale Borsellino si era messo di traverso, consapevole del grave rischio che correva e poi pagato con la vita – è stato detto di tutto. Proprio recentemente i legali degli imputati Mori, De Donno e Subranni hanno avanzato la richiesta di spostare il dibattimento ad altra sede (facendolo così ripartire da zero) richiesta che la Cassazione ha rispedito al mittente. La trattativa è stata considerata (nel libro scritto a quattro mani da Fiandaca e Lupo) non solo “presunta”, ma condotta addirittura “a fin di bene” per far cessare le stragi piuttosto che cedere alle richieste dei boss mafiosi, nonostante la tragica sequenza di eventi di quei primi anni ’90 ci dica palesemente il contrario. Un muro di ovattato silenzio è ancora presente attorno alla morte di Paolo e ai misteri del ’92, che da una certa parte si è rinsaldato ulteriormente. Proprio alcuni giorni fa l’ex ministro Nicola Mancino (imputato al processo trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza) è comparso davanti ai pm di Caltanissetta del Borsellino quater avvalendosi della facoltà di non rispondere (legittima, per carità, ma certamente discutibile). D’altronde, è coinciso che a seguito del conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano in merito alle conversazioni con Mancino, non un esponente degli ambienti politici (di oggi e di allora) si è fatto avanti per contribuire alle indagini con nuove verità. Un vero e proprio silenzio di tomba è calato sui palazzi del potere.

Il coraggio di cambiare “Dobbiamo chiedere perdono al Signore per le cose che non siamo riusciti a portare alla luce, per le cose che ancora non sappiamo. Dobbiamo lavorare per costruire una società degna di essere vissuta” continuava l’omelia di padre Scordato il giorno 6 maggio 2013. Da allora molto è stato fatto, e da diverse città d’Italia una parte della società civile ha dato vita a iniziative, cortei, sit in e movimenti per sostenere le battaglie in cui Agnese Borsellino credeva. Agnese, che da “signorina dei pizzi e merletti” – il nome con cui era conosciuta da giovane, come racconta nel libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò” (editore Feltrinelli Fuochi) scritto prima di lasciare questo mondo insieme al giornalista Salvo Palazzolo – era diventata la donna forte che ha accompagnato Paolo per tutta una vita. La sua voce ha fatto rivivere una storia d’amore che, rileggendo quelle pagine, sembra non abbia mai avuto fine. Agnese è l’esempio di vita di una donna che, guardando in faccia un Paese colpevole e vigliacco, con profondo amore e bruciante indignazione – anche se “Io, di certo, non vivrò abbastanza per conoscere la verità” – ha saputo infondere la speranza e la fiducia che un giorno le cose cambieranno. Una parte di questo Paese ha risposto al suo richiamo d’amore e, lo ripetiamo, da allora molto è stato fatto. Non è poco, ma non è neanche tutto. Perchè le cose cambieranno davvero solo se la morte di Paolo e delle altre vittime di mafia saranno considerate delitti perpetrati ai danni di ogni singolo cittadino, al quale ognuno è chiamato a rispondere con coraggio “per costruire una società degna di essere vissuta”. E per non cancellare il ricordo di Agnese, che oggi ci piace ricordare ancora una volta al fianco del suo Paolo, più viva che mai.


1.12.2020 – Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto/ Il figlio Manfredi: “Papà grande giudice grazie alla mamma”

 

Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto, una coppia che ha vissuto insieme la lotta alla mafia. Il ricordo del figlio Manfredi: “Senza di lei…”.  Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto hanno formato per anni una coppia bellissima che, insieme, ha condiviso anche la lotta alla mafia. Dopo la morte del marito, ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio assieme ai cinque agenti della sua scorta il 19 luglio 1992, Agnese Piraino Leto ha portato avanti, seppur in modo diverso, la lotta alla mafia cominciata dal marito. Una donna forte, dolce e sempre presente nella vita del magistrato che, per tutta la sua vita sia privata che professionale. Dalla loro unione sono nati tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta che, in modo diverso, portano avanti quelli che sono stati gli insegnamenti dei genitori. Molto riservata, la signora Borsellino ha dedicato la sua vita alla famiglia accompagnando, però, il marito nelle cerimonie ufficiali e incoraggiandolo nelle sue scelte, anche quando sapeva che avrebbero potuto metterlo in pericolo. Il giorno della morte di Paolo Borsellino avrebbe voluto accompagnare il marito che, tuttavia, decide di lasciarla a casa come era solita raccontare lei stessa: “Quando gli ho detto: ‘Vengo con te’. E lui ‘No, io ho fretta’. Io: ‘Non devo chiudere nemmeno la casa, chiudo il cancello e vengo con te’. Lui continuava a darmi le spalle e a camminare verso l’uscita del viale, allora ho detto: ‘Con questa borsa che porti sempre con te sembri Giovanni Falcone’”. 
Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto, il ricordo del figlio Manfredi  Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto sono stati un grande insegnamento per i figli Lucia, Manfredi e Fiammetta che, ancora oggi, ricordano l’amore che ha unito i genitori che si sono sempre supportati a vicenda. Una coppia solida che, insieme, ha affrontato anche le enormi difficoltà che il lavoro del magistrato presentava ogni giorno. Nella mente del figlio Manfredi c’è ancora il ricordo di mamma Agnese, morta il 5 maggio del 2013 e che, per tutti gli anni vissuti senza la presenza del marito, ha portato avanti il ricordo del padre dei suoi figli e la lotta alla mafia che aveva portato avanti con coraggio. “Una bella coppia ma è importante che tutti sappiano che papà non sarebbe stato quello che è stato, il giudice che tutti ricordiamo, se accanto non avesse avuto quella donna straordinaria che è stata la mamma“, raccontava il figlio Manfredi ai microfoni de La Repubblica subito dopo la morte di mamma Agnese.01.12.2020 – Stella Dibenedetto Sussidiario

 

i ricordi di AGNESE BORSELLINO