Il pm che ha arrestato il boss parla davanti alla commissione antimafia: «Non ha mai governato l’organizzazione. È l’ultimo stragista». E ridimensiona il ruolo avuto dalla massoneria
Matteo Messina Denaro non è mai stato il capo di Cosa nostra. E la Massoneria, nella sua interezza, non è coinvolta nel favoreggiamento della sua latitanza. Sono parole che hanno un peso specifico non indifferente quelle pronunciate dal procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia, dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia.
De Lucia è il magistrato che Messina Denaro l’ha arrestato dopo 30 anni di latitanza. Dunque, certamente, trattasi di una delle persone più titolare ad affrontare il capitolo relativo al ruolo rivestito dal boss di Cosa Nostra e da coloro che ne hanno favorito la latitanza.
Mai stato a capo di Cosa Nostra
Il procuratore palermitano trancia una narrazione che, per molto tempo, ha tenuto banco non solo in Sicilia, ma un po’ in tutta Italia. In molti ritenevano che Messina Denaro fosse l’erede naturale di Riina e Provenzano. Colui che, visti i segreti di cui è custode, fosse anche posto al vertice assoluto di Cosa Nostra. Evidentemente, dalle emergenze riscontrate dagli uffici giudiziari palermitani una tesi simile non è provata. Lo dice a chiare lettere De Lucia: «Messina Denaro non è mai stato il capo di Cosa Nostra, non lo abbiamo mai detto. Perché non lo è di fatto, non ha mai governato l’organizzazione». Secondo il magistrato, «le regole di Cosa Nostra vogliono che sia la commissione di Palermo a nominarlo. Messina Denaro è stato il capo della Provincia di Trapani Su Palermo ha svolto una funzione carismatica, essendo l’ultimo stragista libero». De Lucia usa un termine che serve a comprendere ciò che la Procura pensa di Messina Denaro. Questi sarebbe stato «mitizzato». Ma quel che astrattamente potrebbe essere ritenuto quasi un ridimensionamento del boss di Castelvetrano, in realtà è un ragionamento che tende ad ancorarsi esclusivamente a quelle che sono le emergenze investigative, dopo decenni di indagini. Per la Procura di Palermo, Messina Denaro era niente altro che l’ultimo stragista ancora in circolazione.
Un uomo di potere. Ma non quello che aveva le chiavi di Cosa Nostra. Anzi, che non le ha mai avute davvero.
Il ruolo della massoneria
Ma il procuratore palermitano si spinge anche oltre, davanti alla commissione antimafia, dichiarando a chiare lettere come la massoneria, nella sua interessa, non possa essere ritenuta partecipe del favoreggiamento della latitanza del boss siciliano. «Dopo la cattura di Messina Denaro – spiega – è stato arrestato il suo medico di base accusato di avere gestito l’aspetto sanitario del boss. Il medico è risultato iscritto alla massoneria. È un dato che ha dei profili inquietanti, ma altro è il coinvolgimento di tutto il contesto massonico». Sbagliato, dunque, criminalizzare un’intera categoria a fronte di singole persone coinvolte. Forse anche il tentativo di mutare una narrazione che vuole spesso l’utilizzo indiscriminato del termine “massoneria” per indicare qualcosa di diverso da ciò che effettivamente è. Almeno in parte ed in determinate circostanze. La puntualizzazione successiva serve proprio a chiarire il pensiero di De Lucia: «La provincia trapanese da sempre ha legami con la massoneria non certo per una questione di condivisione dei valori, ma determinato dal fatto che quando queste associazioni si sono tradotte in centri di affari questo ha finito per essere luogo in cui Cosa nostra ha messo mani e piedi».
Cosa nostra indebolita ma non sconfitta
Sull’organizzazione mafiosa siciliana, il procuratore spiega come essa sia «indebolita ma tutt’altro che sconfitta. Anzi, in questo momento di debolezza cerca di ristrutturarsi anche con la ricerca di nuovi capitali. Cosa nostra attraversa una fase di crisi che nasce dal ’92: da allora in poi l’azione di contrasto da parte dello Stato ha avuto un carattere di continuità che la mette in crisi». Viceversa, spiega il procuratore di Palermo, nell’area dell’Agrigentino «assistiamo al ritorno del fenomeno stiddaro: registriamo la presenza della vecchia organizzazione criminale e di nuovi soggetti che dialogano con Cosa nostra».
Intercettazioni indispensabili, ma no a quelle a strascico
Il procuratore capo di Palermo va anche oltre il tema Messina Denaro per toccarne un altro molto caro al Governo, quello delle intercettazioni. «Le intercettazioni a strascico devono essere censurate. Non si intercetta per vedere cosa succede. È una questione deleteria. Va richiamata la funzione del controllo del giudice per le indagini preliminari che deve autorizzare l’uso delle intercettazioni. Nel mio ufficio non esiste parvenza di questo istituto», afferma De Lucia, che aggiunge: «Sono uno strumento decisivo e indispensabile nel contrasto alle mafie, talmente importanti che non posso immaginare una riforma in senso limitativo.
Organizzazione vuol dire comunicazione. I mafiosi parlano tra loro e non possono non farlo se non rinunciando a fare affari ed è perciò indispensabile cercare di entrare in Cosa nostra ascoltandone i componenti». Anche sul trojan, il magistrato ha un’opinione chiara: «Che sia uno strumento davvero invasivo è innegabile ed è per questo che va fatto un attento bilanciamento di interessi ma ciò, a mio avviso, vuol dire che serve ad esempio un maggior controllo del gip sull’autorizzazione all’uso, o sulle proroghe che devono essere ben motivate». Un messaggio molto chiaro che giunge da una delle procure più importanti d’Italia, di certo una delle più impegnate sul fronte della lotta alla mafia. Una posizione che mette d’accordo tutti o quasi, pur rimanendo la questione in tutta la sua complessità e delicatezza.
Quanto al concorso esterno in associazione mafiosa, De Lucia non ha dubbi: «È assai difficile immaginare di non ricorrere più a uno strumento che esiste dal 1930 e che si è rivelato uno strumento utile e corretto per colpire disvalori. È possibile rivisitare l’area applicativa ma solo per individuare forme più tipizzate. Quanto ad altre forme di riesame e all’abolizione tout court dell’istituto mi pare difficile».