“I nemici di Falcone furono i suoi colleghi magistrati”. Palamara, il caso Scarantino e le richieste di aiuto (vane) della figlia di Borsellino: “è la resa delle Istituzioni”


 

Quando si parla di magistrati, di intrecci Stato-Mafia, di fatti gravi e segnanti della storia d’Italia, la memoria non può non andare a Falcone e Borsellino e alla strage di Via D’Amelio. E anche nel secondo libro-intervista di Palamaracon Sallusti, quello in cui l’ex magistrato racconta come si muove il mondo di lobby e logge in Italia, vengono citati i due giudici siciliani. “I nemici più subdoli e feroci di Falcone – dice Palamara in un passaggio del testo dal titolo “Lobby e Logge” – furono i suoi colleghi magistrati e il Csm. Lo umiliarono, lo delegittimarono, lo infangarono come in parte noto – per quanto taciuto nelle cerimonie ufficiali – e come risulta in modo documentale dai verbali dei suoi interrogatori, e di quelli di Borsellino, del 1991 davanti al Consiglio superiore della magistratura. Sono in grado di fare queste affermazioni perché in occasione dei venticinque anni dagli attentati in cui i due giudici persero la vita l’adunanza plenaria diede incarico all’ufficio studi del Csm, di cui in quel momento ero direttore, di farli desecretare e pubblicare. Ricordo l’imbarazzo, perché dalle carte, e in particolare dal verbale del 30 luglio 1992, emergeva chiaramente che Pignatone, ora procuratore di Roma, all’epoca stava dalla parte dell’acerrimo nemico di Falcone, il procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Questo avrebbe potuto riaccendere vecchie e mai sopite polemiche, e io in quella fase ero fermamente convinto che si dovesse evitare. Quel verbale non verrà mai inserito nella pubblicazione fatta in memoria di Paolo Borsellino”.

E’ uno dei primi segnali di ciò che accadrà. Cosa succede in quegli anni a Palermo? Due cosespiega ancora PalamaraLa prima è che Falcone, osteggiato in patria, tenta il colpo di mano. Aveva capito che le singole procure erano troppo divise e inquinate per combattere efficacemente la mafia, così gli viene l’idea di proporre al governo l’istituzione di una superprocura nazionale, la Direzione nazionale antimafia, che ovviamente lui aspirava a guidare. Lo hanno ucciso un attimo prima, ma non abbastanza prima che Falcone si potesse trovare contro un clamoroso sciopero indetto dalla Associazione nazionale magistrati. E una infuocata assemblea politica del Pds, fresco erede del Pci, che vedeva in prima fila Stefano Rodotà, Luciano Violante e Cesare Salvi, quest’ultimo fratello di Giovanni Salvi – oggi a capo della magistratura italiana nonché mio accusatore –, che declinò l’invito di Falcone a unirsi alla sua nuova avventura”.

La seconda cosa porta “alla mamma di tutte le inchieste e di tutti i misteri mai risolti – un altro passaggio dell’ex magistrato nel libro – Siamo nel febbraio del 1991. Due ufficiali dei Ros, il gruppo speciale dei Carabinieri, Mario Mori, comandante del gruppo che poi arresterà Totò Riina e successivamente diventerà capo dei servizi segreti, e il suo collaboratore Giuseppe De Donno portano all’attenzione della procura di Palermo una relazione in cui sostengono l’esistenza di un intreccio tra mafia e politica nella gestione degli appalti pubblici, cosa oggi nota ma allora rivoluzionaria come ipotesi investigativa. Falcone e Borsellino ci credono e vorrebbero approfondire, i loro colleghi no. Il 20 luglio 1992, il giorno successivo all’attentato di via D’Amelio che uccise Borsellino, la procura di Palermo chiede e ottiene l’archiviazione dell’inchiesta, iniziativa che aveva – secondo alcune testimonianze – tenuta nascosta a Borsellino stesso. Archiviazione per tutti, salvo che per cinque persone di secondo livello per le quali vengono chiesti gli arresti. A firmare la richiesta sono due pm, Scarpinato e Lo Forte. Pignatone documenterà che al momento dell’archiviazione non era più il titolare di quel fascicolo.
La procura, per via di quei cinque arresti, allega al fascicolo, rendendola così pubblica, tutta l’informativa dei Ros. Addio segretezza delle indagini, compromessa forse per sempre la lotta alla mafia degli appalti. Ma questo è il lato giudiziario della vicenda, quello devastante che ci portiamo dietro ancora oggi è un altro. Che la magistratura si spacca in una guerra per bande e la mafia ci sguazza dentro, una palude nella quale ci si buttano anche i servizi segreti, faccendieri, e come abbiamo già visto logge e lobby. C’è un pentito, tale Angelo Siino, definito l’economo del clan dei Corleonesi, che nel 1995 accusa i tre magistrati che archiviarono l’inchiesta sugli appalti di «essere inaffidabili» e lascia intendere che la mafia era stata informata per tempo delle indagini. La posizione dei tre pm sarà archiviata nel 1998 a Caltanissetta, nonostante nell’ordinanza si legga che in effetti «il dottor Pignatone aveva un personale interesse in quelle indagini in quanto il padre era all’epoca presidente dell’Espi, che aveva il controllo della Sirap, società coinvolta nelle indagini, mentre il fratello era avvocato dello Stato e consulente dell’assessorato ai lavori pubblici”.

Questo racconto si lega indissolubilmente alla nuova era della Magistratura, lanciata proprio da Falcone e Borsellino: quella dei pentiti, collaboratori di giustizia. Il primo è Tommaso Buscetta. Ma ben presto la vicenda prende una brutta piega, qualcosa non va. Eloquente, in tal senso, è il caso di Vincenzo Scarantino, “classe 1965, mafioso di basso livello, viene arrestato per spaccio di droga il 29 settembre 1992 – descrive Sallusti – Due mesi dopo si dichiara pentito e inizia a collaborare sostenendo che il suo clan riforniva di droga Silvio Berlusconi, un’accusa incredibile subito scartata. Nel giugno del 1994 il colpo di scena: si autoaccusa della strage in cui morì il giudice Borsellino e fa i nomi dei complici. Al processo, iniziato nel 1999, il tribunale di Caltanissetta emetterà nove sentenze di ergastolo e una a diciotto anni per Scarantino. Ma c’è un problema: non era vero nulla, ma proprio nulla. Lo si scopre nel 2008 quando un altro pentito, Gaspare Spatuzza, sbugiarda Scarantino e racconta tutt’altra storia. Di fronte all’evidenza lo stesso Scarantino ammetterà di essersi inventato tutto. Anni dopo, nel 2017, la procura generale di Catania, annunciando la revisione delle ingiuste condanne dirà: «Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo di dover chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne inflitte nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio”.

Scarantino sostiene di essere stato indotto a dire quello che ha detto dai poliziotti che lo tenevano in custodia. A proposito, c’è una sua frase terribile: “Ero un ragazzo. E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dai magistrati in aula e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare. A noi – confessa Palamara– la questione arriva nel 2017 dopo la sentenza del processo Borsellino quater, il processo che di fatto certifica l’imbroglio del caso Scarantino. È anche l’anno del venticinquesimo anniversario dell’uccisione di Borsellino e la figlia del giudice, Fiammetta, scrive una lettera nella quale ci chiede di fare chiarezza anche all’interno della magistratura. In altre parole ci chiede di prendere l’iniziativa. Il messaggio era chiaro: a noi non ce ne frega niente che voi commemoriate mio padre, noi abbiamo bisogno di fatti e risposte”. E così “Acquisiamo gli atti del Borsellino quater e apriamo una discussione in prima commissione, quella che si occupa dei procedimenti disciplinari. Fu una discussione molto accesa, ma detto in onestà non ci fu mai l’intenzione di andare fino in fondo. Primo perché era passato troppo tempo per poter accertare una verità oggettiva, secondo perché sulla vicenda aleggiava il nome di Nino Di Matteo, in quel momento tra i più potenti e protetti magistrati italiani”. Alla fine, rivela Palamara, Abbiamo fatto ammuina, come si dice a Napoli. Non abbiamo neppure convocato, almeno per dare un segnale alla famiglia Borsellino e al Paese, i magistrati che gestirono quel depistaggio. Tantomeno Di Matteo che, ascoltato come testimone al processo di Caltanissetta contro i tre poliziotti coinvolti, confermò che in un primo tempo aveva creduto alle dichiarazioni di Scarantino e che solo dopo gli vennero dei dubbi. Versione che non spiega come mai il processo non venne fermato”.

“Ma c’è una cosa che nessuno ha mai saputo – la clamorosa confessione dell’ex magistrato a Sallusti nel libro “Lobby e Logge” – Nel 2018 sia Fiammetta sia la sorella Lucia Borsellino si recano nell’ufficio del procuratore generale Riccardo Fuzio, in quel momento la massima autorità giudiziaria italiana, fornendo elementi che a loro dire avrebbero potuto dare avvio a un’istruttoria, a un’azione di accertamento delle responsabilità sul piano disciplinare dei magistrati coinvolti. Vengono sentite, raccontano fatti, vicende e situazioni circostanziate”.
Ma “la magistratura in quel momento è concentrata su altri problemi che sono nell’aria: di lì a poco verrà travolta – anche lo stesso Fuzio – dal caso Palamara. Così l’anno dopo, siamo nel luglio 2019, l’ultimo atto che Fuzio compie prima di andare a dimettersi è scrivere una lettera alle sorelle Borsellino, lettera che qui leggiamo per la prima volta: “Gentilissima signora Fiammetta Borsellino e Lucia, le scrivo per rappresentarle che ho continuato ad acquisire e a leggere atti, compresa la sua memoria dell’aprile scorso, perché volevo perseguire quella ricerca della verità che giustamente rivendica come diritto alla verità da parte dello Stato italiano. Al di là della valutazione su quanto sin qui emerso in corso in varie sedi, compresa quella penale, era mia intenzione affrontare il vostro grido di verità in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario o in altra manifestazione pubblica con una forte richiesta nella mia qualità di compiere un ulteriore sforzo di questo faticoso percorso. Nella stessa occasione avrei voluto rivolgere le scuse del Paese, mai sinora rivolte alla vostra famiglia. Purtroppo, gli ultimi eventi – quelli dell’Hotel Champagne – me lo impediscono. Su questi eventi non voglio nemmeno dirle una parola. Li richiamo solo per dirle che sono rammaricato, perché avrei voluto continuare ad assecondare la ricerca di verità della vostra famiglia sempre nel mio stile. Anche quest’anno non sarei venuto a pavoneggiarmi a Palermo. Esprimo a lei e a tutta la famiglia la mia sincera vicinanza per questo ennesimo 19 luglio ancora senza chiarezza. La seguirò da semplice cittadino”.

“È un atto di resa delle istituzioni”, conferma quasi sconsolato Sallusti. “Le promesse di giustizia, o almeno di chiarezza, non sono state mantenute – le parole di Palamara – E le assicuro, perché io come le ho detto ero lì, non per dimenticanza ma per mancanza di volontà. Un’inchiesta nata nella palude dell’intreccio tra mafia, pentiti e servizi segreti muore nella palude del Csm e della Corte di Cassazione. La risposta, anche questa inedita, che le sorelle Borsellino fanno avere a Fuzio è una coltellata al cuore. Da quest’anno in poi andrebbe letta pubblicamente a ogni ricorrenza delle stragi di quel 1992”. Eccola di seguito. “Gentile dottor Fuzio, non riesco a comprendere la sua lettera per una totale assenza di concretezza. Un anno fa io e mia sorella siamo venute presso gli uffici della procura generale della Corte di Cassazione con elementi importanti sul piano disciplinare. Non mi risulta che a oggi codesta procura abbia prodotto atti concreti conseguenziali a quell’incontro. Per me e per la nostra famiglia parole come “ricerca della verità” e “avrei voluto ma non ho potuto” a distanza di un anno da quella verbalizzazione non hanno alcun significato se non quello di avanzare false scuse di fronte a quello che per noi costituisce una inadempienza. Mi sorprende che dopo un anno e l’evidenza di comportamenti gravissimi Lei parli ancora di leggere memorie e acquisire atti. L’unica cosa evidente è che nessun atto è stato prodotto né si è addivenuti a una evoluzione dell’istruttoria. Non abbiamo bisogno di proclami in occasione di inaugurazioni di anni giudiziari o celebrazione di anniversari. Cordiali saluti”.