Le storie professionali e umane di Falcone e Borsellino come preghiera laica. Intervista a Stefano Musolino

 

 
 
 

 

Atlante Treccani prosegue il viaggio con gli esperti che hanno dedicato e continuano a dedicare gran parte della loro vita ai temi della giustizia, della legalità, della memoria, della democrazia. Oggi percorriamo un altro miglio insieme a Stefano Musolino, sostituto procuratore della Repubblica a Reggio Calabria. Entrato in magistratura nel 1997, ha condotto o collaborato a inchieste come Gambling (operazione contro le “azzardomafie” che ha scoperto il sodalizio, con base a Malta e centri scommesse in tutta Italia, tra famiglie della ’ndrangheta reggina e imprenditori del gioco d’azzardo, nonché un patto con la camorra. Più di due secoli di carcere per reati di associazione mafiosa, associazione a delinquere, truffa, evasione fiscale, riciclaggio); Galassia (indagine sulle cosche che si erano impadronite del mercato delle scommesse on-line, soprattutto sportive, che avrebbero operato sinergicamente in Italia e all’estero per riciclare il denaro poi reinvestito in patrimoni immobiliari e posizioni finanziarie); Gotha (processo che ha portato per la prima volta all’individuazione della direzione strategica e invisibile della ’ndrangheta, che ne determina “la linea” per il riciclaggio delle straordinarie ricchezze di cui dispone, nonché la costruzione in laboratorio di politici e amministratori “pedine” per far funzionare, a proprio uso e consumo, amministrazioni e governi locali e nazionali. Centro strategico e centro del mondo è Reggio Calabria con i suoi tre mandamenti, jonico, tirrenico e centro). 

Stefano Musolino è stato giudice presso il Tribunale di Reggio Calabria e poi sostituto procuratore a Palmi. Dal 2021 è segretario generale di Magistratura democratica (MD; associazione aperta alla adesione di tutti i magistrati, componente dell’Associazione nazionale magistrati, ANM) ed è solito coniugare l’impegno associativo in magistratura con i dialoghi con i giovani sui temi della giustizia, della memoria e del rispetto delle regole. Anche con lui vogliamo partire da 31 anni fa, dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Il 23 maggio, gli omicidi di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e, qualche mese più tardi, il 19 luglio, quelli di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Lei era ancora giovanissimo, ricorda come ha appreso le notizie degli attentati? Cosa faceva e cosa ha fatto nell’immediato?

Appresi la notizia in famiglia e subito guardai in televisione le prime immagini di quelle tragedie. Soprattutto, la strage di via D’Amelio mi diede la percezione ‒ seppure non subito chiara – di un salto di qualità criminale. Avvertii un’immediata preoccupazione che mi lasciava inquieto. A Reggio Calabria, durante la guerra di mafia che aveva insanguinato la città, mi era capitato di vedere morti ammazzati per strada (due proprio sotto casa mia) e di svegliarmi nella notte per la deflagrazione degli esplosivi (piazzati per distruggere saracinesche di negozi). L’intimidazione mafiosa, quale criterio di relazione sociale, l’avevo vissuta sulla mia pelle. Tuttavia, quelle stragi palermitane erano il segno di un salto di qualità; il tentativo di fare diventare l’intimidazione mafiosa uno strumento di coercizione politica che coinvolgeva l’intero Paese. Tutto questo mi spaventò molto e l’ansia cresceva nella chiara comprensione che non tutto lo Stato fosse dalla parte giusta!

Due attentati feroci e vigliacchi che hanno scosso e sconvolto le istituzioni, l’opinione pubblica, il mondo intero. Tutto questo ha inciso sulla sua attività di magistrato e sul suo impegno sociale? Di cosa si occupava in quel periodo?  Ha mai pensato che fosse tutto inutile? Oppure le sue motivazioni ne sono uscite rafforzate? 

Ero in cerca della mia strada professionale e non pensavo affatto a fare il magistrato; sinceramente, non furono quelle vicende ad orientarmi verso la magistratura. Tuttavia, dopo avere vinto il concorso, le storie professionali ed umane di Falcone e Borsellino sono diventate una sorta di preghiera laica. In particolare, il libro di Marcelle Padovani su Falcone divenne uno stabile punto di riferimento della mia libreria. Ricordo, poi, la visita, al Museo di Falcone e Borsellino costituito nel vecchio Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo: un’esperienza davvero coinvolgente ed emozionante!

Si ricordano nel modo giusto Falcone e Borsellino? Teme che possano essere dimenticati? La risposta giudiziaria non può costituire la soluzione del problema della criminalità organizzata. Ma è sufficiente andare nelle scuole con gli studenti per conservarne bene la memoria? 

Benché la retorica sia congenita agli esercizi di memoria, io credo che dovremmo farne il meno possibile e chiederci, invece, quanto quelle vite donate siano in grado di insegnarci oggi, in che modo continuano ad interrogare la nostra dimensione di cittadini. Ogni tanto capita che frasi di Falcone e Borsellino vengano evocate per risolvere problemi attuali: è una strumentalizzazione di corto respiro! Ogni epoca ha le sue esigenze e necessita di moderne chiavi di lettura. Tuttavia, nelle vite di quegli uomini e di quei magistrati ci sono state scelte profonde che li hanno convinti a porre il bene comune, l’interesse collettivo al primo posto. Credo che questa sia la dimensione sempre attuale della loro memoria che andrebbe coltivata, specie in un tempo caratterizzato da un egoismo individuale e sociale, secondo il quale è morale ed è buono solo quello che ci conviene!

Ha dichiarato a Quello che (non) ho che «troppe volte la retorica dell’antimafia sembra prevalere sulla comprensione autentica dei fenomeni, nell’illusione che l’amplificazione degli strumenti di repressione sia la soluzione per problemi che nascono e si sviluppano in un contesto povero di investimenti economici e culturali. Senza interrogarsi sulla genesi dei fenomeni criminali, sulle ragioni della loro incallita resistenza, senza progettare nuove distribuzioni delle risorse e degli investimenti, immaginando nuovi modi di interpretare la politica». Alla luce di ciò, le domandiamo: al di là della reale fattibilità, delle problematiche tecniche e tecnologiche, del rischio idrogeologico e di quello sismico, delle priorità strutturali e infrastrutturali, materiali e immateriali, al netto delle strade e delle autostrade inadeguate, dei collegamenti che mancano, della linea ferroviaria obsoleta e della carenza di voli, il ponte sullo Stretto può essere un investimento positivo da intraprendere per il futuro della Calabria e della Sicilia?

Distinguerei i piani. La presenza mafiosa in Calabria ed in Sicilia non deve diventare l’alibi per inibire investimenti infrastrutturali sul territorio. Abbiamo, anzi, un gran bisogno di recuperare il gap infrastrutturale che ci separa dal resto del Paese. Nel giro di pochi anni la città di Reggio Calabria ha perso il 10% dei suoi residenti; mentre molte reti autostradali del Nord, più volte al giorno, raggiungono punte di completa saturazione. La desertificazione di alcuni territori e l’eccessiva densità di popolazione in altri è strettamente correlata alla circolazione di ricchezza ed alla qualità dei servizi. Tuttavia, entrambi i fattori generano un’usura ambientale ed un deterioramento delle relazioni sociali che impongono una migliore distribuzione sul territorio della popolazione. Insomma, non conviene a nessuno che il Meridione d’Italia si spopoli, ma per frenare questa diaspora sono necessari investimenti, capaci di creare circuiti economici virtuosi che valorizzino i territori.

Pochi giorni fa rientravo dalla costa tirrenica messinese: quasi due ore di fila dal casello autostradale allo svincolo che conduce agli imbarcaderi, per via di lavori di ammodernamento che durano da dieci anni. Trovo singolare non attivare subito ed efficacemente indispensabili interventi infrastrutturali, per tornare, invece, a progettare opere faraoniche di dubbia realizzazione. Mi piacerebbe si provasse a rendere efficiente l’attraversamento dello Stretto, potenziando le infrastrutture destinate a questo scopo e vincendo l’attuale monopolio della compagnia navale che lo governa (realizzando clamorosi profitti a danno degli utenti, specialmente di quelli reggini e messinesi). Dopo, avremo modo di verificare se sia davvero necessario costruire un ponte.

Da una parte, Falcone lamentava: «Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami…  sotto il fuoco incrociato di amici e nemici, anche all’interno della magistratura». Dall’altra parte, i giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage che uccise il giudice Borsellino e i cinque agenti della scorta, nelle «motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti», scrivono, come riportato dall’Adnkronos, che: «Non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa» del giudice. «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa Nostra che si aggirano in mezzo alle forze dell’ordine». I giudici così desumono «l’appartenenza istituzionale di chi sottrasse materialmente l’agenda. Solo chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel contesto e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre». L’Adnkronos sottolinea che: «I giudici di Caltanissetta, nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni», hanno parlato anche della «presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage». Quanto alla sparizione dell’agenda rossa, affermano che: «Non sono emersi nuovi elementi. E bacchettano alcuni testimoni che consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni rese dai protagonisti della vicenda». Infine, secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale». Allora, che cos’è la Giustizia?

Quelle vicende sono di difficile interpretazione, ma la Giustizia non si può accontentare di approssimazioni o congetture; queste ultime sono coerenti con una narrazione ed un’indagine di tipo storico-politico. L’indagine giudiziaria deve, invece, confrontarsi con un rigore probatorio capace di superare – in modo convincente – il dubbio, insito in relazioni contrassegnate da equivoci ed ambiguità. Per questo credo che affidare solo all’indagine giudiziaria la comprensione di quella stagione non sia un contributo alla verità che pure è necessario ricercare, individuando responsabilità storiche e politiche. Affidarsi solo all’accertamento giudiziario, invece, ha impedito una più attenta analisi storica e politica di quella stagione; e questo ci impedisce – ancora ora – di trarne tutti gli insegnamenti che ci servono per il futuro.

Con lei, ai nuovi vertici di MD anche Cinzia Barillà (giudice di Corte d’appello di Reggio Calabria) la nuova presidente, la prima donna a ricoprire questo ruolo. Entrambi della sponda calabrese dello Stretto. Da segretario nazionale, Stefano Musolino ha parlato di «un’investitura della periferia, coraggiosa e carica di significati», pensiamo alla carenza di organico e di risorse. Quale contributo può dare da questo ruolo al sistema giustizia, della democrazia, dei diritti ed al sistema Calabria?

Mi piacerebbe riuscire a fare entrare nel dibattito associativo interno alla magistratura ed al più generale dibattito sulla giustizia, il tema dei senza potere e dei conflitti che vengono animati dalla necessità di affermare i diritti fondamentali di tutte le persone, soprattutto quelle escluse, poste ai margini dei sistemi sociali ed economici. Da questo punto di vista la Calabria con le sue povertà così incidenti persino su un diritto fondamentale come quello alla salute è una palestra di esperienze. Così come da anni i nostri Tribunali si affannano nella gestione del servizio giustizia, confrontandosi con una penuria di risorse che sta diventando problema nazionale. 

L’esempio di Falcone e Borsellino in che modo può essere utile per i magistrati?

Negli ultimi periodi in cui la magistratura ha conosciuto una gravissima etica, Falcone e Borsellino hanno rappresentato un altro stile di magistrato, rispetto a quello angosciato dalla carriera che era emerso dalle indagini perugine. È stato e sarà importante rammentare la loro dedizione, il loro acume, il loro stile umano, perché ogni magistrato possa ritagliare il proprio abito professionale, avendoli presenti come punto di riferimento, soverchiante i molti limiti individuali e collettivi in cui si affanna la categoria.    

Sconfiggeremo mai le mafie?

Le mafie sono uno tra i peggiori mali sociali che conosciamo. Temo che la sete di potere economico e sociale non ci libererà mai dai mali sociali, ma credo anche che lo Stato abbia dimostrato di avere le risorse per potere contrastare efficacemente le mafie, anche quando la loro pervasività le ha rese prossime alle istituzioni che lo rappresentano. Non era scontato ed è uno dei frutti dell’esperienza e del sacrificio di Falcone e Borsellino. Sarebbe un peccato non riconoscerlo, perché ci impedirebbe di guardare alle nuove sfide a cui siamo chiamati, per rinchiuderci in consolanti, ma infeconde frustrazioni del passato. TRECCANI di Francesco Alì  3 agosto 2023

 

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