6 agosto 1980, Cosa nostra uccide il procuratore di Palermo GAETANO COSTA

 

 

 

 

Mafia, parla il figlio del procuratore Gaetano Costa: “Mio padre fu tradito”

 

Magistrati soli nella lotta alla mafia

 

“La solitudine è la condizione normale di un magistrato. Ma mio padre fu tradito”. Davanti alla lapide che ricorda del procuratore Gaetano Costa, il figlio Michele richiama il clima in cui maturò l’agguato al magistrato il 6 agosto 1980.
Costa venne ucciso poco dopo avere firmato personalmente gli ordini di cattura contro la cosca Spatola-Inzerillo coinvolta in una retata della squadra mobile. I suoi sostituti, tranne uno, non avevano ritenuto di avallare l’operazione per un approfondimento investigativo. Dopo 39 anni non c’è sul delitto una verità giudiziaria. Secondo il figlio, l’inchiesta della Procura di Caltanissetta sarebbe stata a suo tempo condotta in modo “tiepido”. Le indagini non avrebbero ricostruito compiutamente scenari e responsabilità di un grande delitto di mafia. E in questo modo, aggiunge Michele Costa, avrebbe trovato conferma “quello che mio padre aveva scritto nel giorno in cui venne ucciso, e cioè che nei delitti di mafia la causale non deve mai essere chiara”. “Per questo – conclude – per gli omicidi compiuti negli anni Ottanta sono in galera alcuni tagliagole, tanti esecutori, ma poco o nulla si sa dei mandanti”.
Alla cerimonia in via Cavour c’erano, oltre ai familiari del magistrato, anche il sindaco Leoluca Orlando, l’assessore Toto Cordaro in rappresentanza della Regione, il prefetto Antonella De Miro, il questore Renato Cortese e diversi magistrati. “Costa e gli altri servitori uccisi – dice il prefetto De Miro – rappresentavano un grande presidio per la democrazia”. BLOG SICILIA 2019


Gaetano Costa nasce a Caltanissetta il 1 marzo 1916, città dove studia, laureandosi nella facoltà di Giurisprudenza di Palermo Dopo aver vinto il concorso in magistratura arruolato come ufficiale nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. L’8 settembre si unisce ai partigiani che stavano operando nella Val di Susa. Terminata la guerra, inizia a lavorare presso il tribunale di Roma e in seguito chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Qui svolge la maggior parte della sua attività di magistrato prima come sostituto procuratore e poi come procuratore capo dimostrando alta preparazione professionale, indipendenza ed equilibrio. Nonostante apparisse freddo e distaccato e con poca inclinazione ai rapporti sociali, dimostrò sempre una grande umanità ed attenzione soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Riuscì ad intuire sin dagli anni sessanta che la mafia aveva subito una radicale mutazione e che si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere. Riteneva, infatti, che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli. Nel gennaio del 1978 è nominato Procuratore capo di Palermo e nel momento dell’insediamento, consapevole di dover affrontare resistenze, dichiara: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Durante la sua gestione avvia una serie di delicatissime indagini nell’ambito delle quali tenta di penetrare i santuari patrimoniali della mafia. In particolare, firma di proprio pugno la convalida degli arresti di 55 mafiosi, in testa Rosario Spatola, fermati quattro giorni prima, subito dopo l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Proprio questo gesto coraggioso, insieme al fatto che Costa aveva messo gli occhi anche sugli appalti al Comune di Palermo, a partire da quello su sei scuole in mano a ditte facenti capo a Rosario Spatola a portare “Cosa nostra” a decidere di uccidere il magistrato. Fu assassinato il 6 agosto 1980, mentre si trovava da solo e senza scorta davanti a una bancarella di libri nella centralissima via Cavour, vicino alla sua abitazione. Fu raggiunto alle spalle da tre colpi di pistola sparatigli da due killer in moto. Il delitto venne ordinato dal clan mafioso capeggiato da Salvatore Inzerillo. Pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”. L’omicidio, di chiaro stampo mafioso, tutt’ora non ha un colpevole, sebbene la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione, e a cui, per questo, toccò la stessa sorte. Nel libro “È così lieve il tuo bacio sulla fronte”, edito da Mondadori, Caterina Chinnici ricorda l’abnegazione di Gaetano Costa con queste parole: “Nel febbraio 1982 – noi l’abbiamo scoperto dopo – papà andò in missione a Roma, sotto falso nome, a riferire al Consiglio Superiore della Magistratura cosa stava accadendo a Palermo. Raccontò di Costa, di come fosse stato lasciato solo a firmare un plico di ordini di cattura di cui nessuno voleva farsi carico, contro le famiglie Spatola, Inzerillo e Gambino. Disse che era stato ucciso per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato, ed era esattamente così. Nessuno di quegli uomini – Costa, Scaglione, Terranova, Mattarella, Basile e gli altri che si aggiunsero alla lista nel 1981 – stava facendo altro che il proprio dovere”. Lo Stato ha onorato il suo sacrificio con il conferimento della Medaglia d’oro al merito civile per aver esercitato la propria missione ispirandosi al principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria, con profondo impegno ed appassionata dedizione, distinguendosi per la particolare fermezza ed il rigore morale, pur consapevole dei rischi personali connessi alla sua funzione di Pubblico Ministero   MINISTERO DELL’INTERNO


 

FONDAZIONE GAETANO COSTA


 

Gaetano Costa (Caltanissetta, 1° marzo 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano, ucciso da Cosa Nostra mentre ricopriva la carica di Procuratore Capo a Palermo.Nato a Caltanissetta, dove studiò fino alla maturità, si laureò in Giurisprudenza all’Università di Palermo. Sin dal liceo aveva aderito al Partito Comunista d’Italia, ai tempi del fascismo clandestino. Nel 1940, a 26 anni, vinse il concorso in Magistratura, ma fu subito arruolato come Ufficiale dell’Aviazione durante la Seconda Guerra Mondiale, ottenendo due croci di guerra, per poi raggiungere la Val di Susa unendosi alla Resistenza Partigiana. Immesso in ruolo come giudice istruttore a Roma, chiese e ottenne il trasferimento a Caltanissetta nel 1944, dove rimase fino al 1978.In quegli anni si occupò sistematicamente del fenomeno mafioso, con indagini sulla Banca Rurale di Mussomeli, la Banca Artigiana di San Cataldo, la filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Durante la visita a Caltanissetta della Commissione Parlamentare Antimafia, nel 1969, diede una lucida analisi della mafia che stava cambiando pelle e sugli appalti “solo formalmente regolari” nella pubblica amministrazione: “Ormai non esiste più un certo tipo di attività mafiosa, quella tradizionale, quella che si concretizzava nei sequestri, nei danneggiamenti, negli incendi, nell’omicidio… Ora, quando dopo la riforma agraria è venuto meno il latifondo, c’è stata la suddivisione dei feudi, la campagna si è impoverita e non rende più; in queste condizioni è evidente che non c’è convenienza, non è più un affare andare a controllare una campagna per stabilire che un determinato ladruncolo si orienta verso un pascolo piuttosto che un altro. La mafia, quindi, ha abbandonato virtualmente la campagna, date queste mutate condizioni. Penso che il complesso dei problemi sia rappresentato dall’amministrazione e che esso vada esaminato più a fondo.”
La nomina a Procuratore Capo di Palermo Nel gennaio 1978 fu nominato Procuratore capo di Palermo ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da far sì che si ritardasse la sua immissione in possesso sino al luglio di quell’anno perché il suo predecessore, Giovanni Pizzillo, si rifiutò di chiedere l’anticipato possesso. Insediatosi ad agosto, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, dichiarò: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite.”
Come raccontato dal figlio, fino alla fine di Natale venne tenuto sotto controllo dal sostituto procuratore aggiunto Martorana, che filtrava tutto quello che arrivava sulla sua scrivania. Inizialmente cercò di evitare il filtro, poi si scontrò duramente con l’aggiunto e cominciarono gli attacchi contro di lui[. Per sapere quello su cui stavano lavorando i suoi sostituti, faceva quelle che lui chiamava “perquisizioni domiciliari”: si alzava dalla sedia e si faceva un giro nelle loro stanze, sbirciando tra le carte.  
L’indagine sul traffico di droga degli Spatola-InzerilloNei primi mesi del suo lavoro, Costa strinse un forte sodalizio con il capo dell’Ufficio Istruzione Rocco Chinnici: i due si incontravano spesso nell’ascensore di servizio per discutere delle indagini lontani da occhi e orecchie indiscrete[. In quel periodo le indagini si stavano orientando sul filone della mafia italo-americana, il traffico di droga USA-Sicilia e le famiglie palermitane degli Spatola, dei Gambino e degli Inzerillo. Le indagini di Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio 1979, poi proseguite dal capitano Emanuele Basile di Monreale, lambirono anche gli affari del Clan dei Corleonesi. Nel marzo 1980 erano stati ritrovati a Milano 40 kg di eroina purissima nelle custodie dei dischi di Esmeralda Ferrara, una cantante pop di Bagheria, che andava avanti e indietro dagli USA proprio per conto della famiglia dei Gambino. Costa voleva individuare gli assetti societari e bancari per risalire ai soci occulti delle famiglie mafiose e scoprire i meccanismi di riciclaggio dei narcodollari. Il 16 aprile Basile consegnò a Paolo Borsellino un rapporto, soprannominato “rapporto dei 55”, che sarebbe stato alla base degli arresti del 5 maggio 1980, all’indomani dell’uccisione proprio del capitano Basile. Il 9 maggio Costa convocò nel suo ufficio tutti i sostituti per convalidare gli arresti, ma alla fine fu costretto a rompere la consolidata prassi dell’unanimità e firmò da solo gli ordini di cattura. Gli avvocati dei mafiosi restarono di sasso e un paio di sostituti, per difendersi, scaricarono tutta la colpa su Costa, come disse poi la moglie Rita Bartoli in un’intervista al Corriere della Sera il 14 settembre 1983.  
L’omicidio  Il 6 agosto Gaetano Costa fu sfigurato verso le 19:30 dai proiettili di un killer solitario che lo aveva seguito da casa fin davanti a un’edicola libreria nella centralissima via Cavour. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per le vacanze per le Isole Eolie con la famiglia. Proprio il giorno dopo avrebbe avuto la scorta, fino a quel momento mai concessa. Ai suoi funerali parteciparono pochissimi magistrati, a riprova dell’isolamento in cui aveva vissuto fino al giorno della sua morte.  
Indagini e Processi La morte di Gaetano Costa resta senza colpevoli, benché la Corte d’Assise di Catania individuò l’origine nella zona grigia mafia-economia-appalti. Ufficialmente quindi l’omicidio Costa non ha ad oggi né mandanti né esecutori condannati. Il 4 agosto, due giorni prima dell’omicidio, i poliziotti avevano fermato sotto l’abitazione di Costa Totuccio Inzerillo, giovane trentaduenne appartenente a una delle famiglie colpite dagli ordini di cattura firmati dal Procuratore Capo. Il giovane, che pure aveva insospettito gli agenti, venne subito rilasciato. Una settimana dopo l’omicidio Costa si presentò spontaneamente in Procura accompagnato dal suo avvocato, si sottopose all’esame del guanto di paraffina ma venne rilasciato prima dell’esito dell’esame. Tre anni dopo la magistratura catanese spiccò contro di lui un mandato di cattura per omicidio, senza però che potesse essere eseguito. Ciononostante, negli anni diversi collaboratori di giustizia (da Tommaso Buscetta a Francesco Marino Mannoia, da Giovanni Brusca a Francesco DI Carlo) indicarono la matrice mafiosa del delitto, sostenendo che l’omicidio fosse stato ordinato da Salvatore Inzerillo per dimostrare all’interno di Cosa Nostra la supremazia delle famiglie palermitane rispetto ai Corleonesi, che agli albori della Seconda Guerra di Mafia uccidevano senza l’autorizzazione della Commissione. WIKI MAFIA


Per non dimenticare: Gaetano Costa

Il 6 agosto 1980 Gaetano Costa, Procuratore della Procura della Repubblica di Palermo, dopo aver trascorso la mattina in Ufficio, sta passeggiando nella centralissima via Cavour del Capoluogo siciliano. Il giorno seguente ha in programma di partire per le ferie, da trascorrere sull’isola di Vulcano, insieme alla moglie Rita Bartoli.
Intorno alle ore 19.30, mentre osserva alcuni libri davanti ad una bancarella, viene raggiunto da tre proiettili calibro 38 esplosi alle sue spalle da ravvicinatissima distanza (non più di 45 cm di distanza, accerteranno in seguito esperti balistici). L’assassino ha il volto seminascosto da un berretto con visiera e ha in mano un giornale che serve a coprire la pistola utilizzata per l’omicidio.
Quello stesso giorno, a Bologna, si sono appena svolti i funerali di Stato per le vittime della strage del 2 agosto.
Gaetano Costa ha dedicato la propria vita professionale alla lotta alla criminalità organizzata siciliana, prima come Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, poi come Procuratore della Repubblica di Palermo. Quando venne assassinato stava conducendo delicate indagini sul traffico di stupefacenti (che coinvolgevano diverse famiglie della mafia siculo-americana) e su alcuni appalti concessi nel capoluogo siciliano (sui quali era già stata avviata un’ispezione amministrativa dal Presidente della Regione Siciliana). Il magistrato si stava occupando, inoltre, delle indagini sull’omicidio dello stesso Piersanti Mattarella.
Ad oggi, esecutore e mandanti dell’omicidio del Procuratore Costa sono rimasti ignoti.
I processi celebrati per l’omicidio del Procuratore Costa si concluderanno senza alcuna condanna, pur essendo stato ricostruito il contesto generale in cui il delitto venne consumato. In un passo della sentenza con la quale la Corte di assise di Catania assolverà l’unico imputato (Salvatore Inzerillo, classe 1957, lontano partente del più noto Salvatore Inzerillo, classe 1944, detto “Totuccio”) può leggersi: “E’ aleggiata su alcuni episodi (e ciò dicasi per i continui avvicendamenti ai vertici della Guardia di Finanza di Palermo) l’ombra nefasta della P2 di Licio Gelli…”.
Nell’anniversario della tragica scomparsa, il Consiglio Superiore della Magistratura intende rendere omaggio alla figura di Gaetano Costa ricordandone l’impegno, la professionalità, la dedizione e il sacrificio per la funzione ricoperta attraverso i numerosi documenti di archivio che consentono di ripercorrere la vita professionale del magistrato ed il contesto storico in cui lo stesso ha svolto il proprio lavoro. Nella sezione dedicata al ricordo di Gaetano Costa – raggiungibile attraverso il seguente link – sono inoltre disponibili le sentenze intervenute nei processi celebrati per l’omicidio del Procuratore della Repubblica di Palermo.
E’ il doveroso omaggio che l’organo di governo autonomo della magistratura intende tributare a chi ha sacrificato la propria esistenza per la difesa delle Istituzioni democratiche del Paese. CSM


 

In ricordo di Gaetano Costa Procuratore Capo della Repubblica di Palermo, assassinato dalla mafia.

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Gaetano Costa 
(Caltanissetta, 1 marzo 1946 – Palermo, 6 agosto 1980)
Procuratore Capo della Repubblica di Palermo, assassinato dalla mafia.

Il 6 agosto del 1980 viene ucciso il Procuratore della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa. Nel ventennale della morte, Rita Bartoli, sua moglie, ha ricordato così quel giorno tremendo: “In un caldo pomeriggio di agosto, nella parte alta di via Cavour, mentre era fermo a guardare i libri esposti in una bancarella, un killer di mafia, indisturbato, in tutta tranquillità, aggrediva alle spalle, uccidendolo, mio marito, Gaetano Costa, Procuratore Capo della Repubblica di questa città, colpevole di aver sempre fatto rispettare le leggi dello Stato da ogni forma di prevaricazione criminale, in difesa della società di questa Repubblica”.
Di lì a poco, il magistrato e la sua famiglia sarebbero dovuti partire per le vacanze. Appena appresa la notizia dalla televisione, aggiunge la Signora Costa: “Istintivamente mi portai le mani alla testa, quasi un gesto di difesa, dicendo, chiedendomi come avrei fatto, cosa avrei fatto”; poi scandisce con forza: “Gaetano Costa e’ stato magistrato di grande valore e di indiscussa preparazione e ciò malgrado non ebbe la dovuta solidarietà, diciamo, dal suo ufficio e da chi aveva il sacrosanto dovere di difendere il suo modo di amministrare la giustizia”.

Nessuno è stato condannato per la morte del dottor Costa. A continuare la sua opera, fu l’amico e collega Rocco Chinnici, tra i pochi che allora ne compresero e appoggiarono gli intenti; a lui tre anni dopo toccherà la stessa triste sorte. Tra coloro che presero in mano l’eredità di Costa c’è sicuramente anche la moglie Rita, che subito dopo l’omicidio volle rivelare i retroscena delle vicende che avevano determinato l’assassinio del consorte. Rita Bartoli non si è mai arresa nella ricerca della verità e dei colpevoli che ordinarono l’uccisione del marito. È morta il 19 gennaio del 2003 e qualcuno ha ricordato che quel giorno, allo stadio di Palermo, fu esposto lo striscione “Tutti uniti contro la mafia” in risposta a quello che un mese prima chiedeva l’abolizione del “carcere duro”.

Gaetano Costa nasce a Caltanissetta nel 1916, dove consegue la licenza liceale. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Dopo aver vinto il concorso in magistratura, inizia la sua carriera a Roma. Si arruola poi, da ufficiale, nell’aviazione ottenendo due croci di guerra. Ma, dopo l’8 settembre del 1943, decide di raggiungere la Val di Susa per unirsi ai partigiani nella liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Dal Tribunale di Roma viene trasferito, a richiesta, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Qui realizza la maggior parte della sua attività di magistrato, da Sostituto Procuratore prima e da Procuratore poi, offrendo sempre chiara manifestazione di alta preparazione professionale, indipendenza, ed equilibrio. Quando si insedia a Palermo, come Procuratore Capo, Gaetano Costa è consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare e decide di esprimere immediatamente il suo modus operandi: “Vengo, in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”.

Nel periodo della sua gestione, la Procura di Palermo avvia una serie di indagini nell’ambito delle quali si cercano “di penetrare i santuari patrimoniali della mafia”. Quando, a conclusione di un’indagine contro i trafficanti di stupefacenti, si decide di emettere provvedimenti cautelari a carico di alcuni boss mafiosi, i Sostituti Procuratori delegati si dissociano dal Procuratore. Rita Bartoli, nel libro dedicato al marito ha così raccontato la vicenda: “L’allora Questore di Palermo, in seguito al delitto Basile, aveva fatto arrestare 55 personaggi, tutti dediti a traffici illegali, e aveva chiesto alla Procura della Repubblica la convalida di tali arresti, secondo la normale procedura. Per l’occasione, dopo averne parlato con l’aggiunto che si era mostrato d’accordo, Gaetano riunì nel suo ufficio i due sostituti ai quali era stata affidata l’inchiesta per discutere la convalida di quei fermi. L’aggiunto ritenne opportuno non andare alla riunione e i due sostituti, che avevano interrogato gli imputati, dichiararono sic et simpliciter il loro disaccordo per la convalida dei fermi… Si discuteva, e animatamente, sull’opportunità della convalida, quando uno dei due sostituti dichiarò che non avrebbe firmato. Allora Gaetano firmò personalmente quelle convalide, e con esse firmò anche la sua condanna a morte”. Quella firma “in solitudine” fu, secondo Rita Bartoli, il passaggio chiave che determinò l’assassinio del marito.

Nel 1980 Costa era l’unico magistrato cui, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata e una scorta; le rifiutò, perché non riteneva giusto che la sua protezione potesse mettere in pericolo altre vite umane: “Io”, era solito dire, “sono uno di quelli che ha il dovere di avere coraggio”. “Era riuscito a capire la mafia più di altri che non volevano capire”. Così scrive di lui il giornalista Dino Paternostro sul quotidiano La Sicilia nell’agosto 2010, a trent’anni dalla morte. Le sue riflessioni Costa, le espose negli anni sessanta alla prima Commissione antimafia dove sostenne, come riporta Giuseppe Casarrubea, che “la mafia aveva subito una radicale mutazione e che ormai si era annidata nei gangli vitali della pubblica amministrazione, controllandone gli appalti, le assunzioni e la gestione in genere”. “Inutilmente”, aggiunge Casarrubea, “Costa richiamò l’attenzione delle massime autorità sul fatto che un’efficace lotta alla mafia imponeva la predisposizione di strumenti legislativi che consentissero di indagare sui patrimoni dei presunti mafiosi e di colpirli”.

Mario Farinella, all’indomani dell’assassinio, su L’Ora di Palermo così descrive Costa: “Era l’antisimbolo per cultura, per educazione, per naturale disposizione. Si considerava ed era soltanto un caparbio amministratore della giustizia, un uomo apparentemente comune, disadorno, dalla vita semplice, essenziale nelle parole, nei gesti, nel lavoro e perciò era un magistrato di audace modernità, razionale e puntiglioso, di raro rigore morale e intellettuale”.
Nella seduta plenaria del 17 settembre del 1980 il Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura ricordò l’attaccamento del dottor Costa alle concezioni democratiche del paese e il suo battersi contro il fenomeno mafioso. Aggiunse che dietro l’omicidio potevano intuirsi motivazioni attinenti alla conservazione di posizioni finanziarie acquisite e che il delitto non era stato un semplice delitto di mafia “perché il fenomeno mafioso non è più un fenomeno locale ma ormai un fatto nazionale con collegamenti internazionali” (tratto dal volume “Nel loro segno” edito dal Csm). ANM