Capaci di resistere alle mafie se partiamo dalle nostre responsabilità. Intervista a Gherardo Colombo

 

In un viaggio sulle strade della democrazia, dei diritti, della giustizia e della memoria, con Treccani, incontriamo Gherardo Colombo, ex giudice, sostituto procuratore della Repubblica di Milano dal 1989 al 2005. Entrato in magistratura nel 1974, ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri: la scoperta della Loggia P2, l’omicidio di GiorgioAmbrosoli, i fondi neri dell’IRI, i processi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Sme, Mani pulite. È stato consulente di commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha fatto parte del gruppo multidisciplinare sulla corruzione presso il Consiglio d’Europa, contribuendo alla redazione del testo della Convenzione internazionale sottoscritta a Strasburgo nel 1999. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di cassazione. È stato membro del Cda della RAI. Da magistrato ha partecipato come relatore a numerosi convegni italiani ed internazionali sui temi della corruzione, del finanziamento illecito dei partiti, del falso in bilancio, del riciclaggio. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole. Nel 2010 ha fondato l’Associazione Sulleregole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione. Per tale attività ha ricevuto il Premio “Cultura della Pace 2008”. Attualmente è presidente della Garzanti Libri e membro del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi. È anche presidente onorario di ResQ: «Quando si è ventilata l’ipotesi di mettere in mare una nave per salvare le persone che affogano mi sono chiesto: se stessi annegando vorrei che qualcuno venisse a salvarmi? Ho risposto sì, sia alla domanda che alla nave», ha spiegato nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’associazione. Ha scritto numerosi saggi tra cui il recente: Anticostituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società. Anche con lui partiamo dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Eravamo nel pieno delle indagini di Mani pulite, anni drammatici, ma carichi di speranza. Gherardo Colombo era tra i protagonisti di quella stagione. Il 23 maggio 1992, gli omicidi di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Poco più tardi, il 19 luglio, quelli di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Vi conoscevate, vi frequentavate nella vita privata? Le vostre rispettive inchieste si sono mai intrecciate?

Giovanni Falcone lo conoscevo molto, molto, molto bene. Ci è successo di frequentarci anche nella vita privata. Ovviamente lui stava a Palermo e io a Milano. Ricordo un pranzo che abbiamo fatto insieme a casa mia. Giuliano Turone e io stavamo investigando su Sindona, la sua scomparsa, il finto rapimento, sull’omicidio dell’avvocato Ambrosoli. Lui stava investigando sugli stessi personaggi per i reati tipici della mafia. Ci scambiavamo informazioni su questi temi e su questi personaggi. Sì, lo conoscevo bene e ci frequentavamo. Anche nel Vizio della memoria, di Giovanni parlo ampiamente.

Paolo Borsellino lo conoscevo meno. L’ultima volta l’ho visto ai funerali di Falcone. Ci siamo incrociati all’interno del palazzo di giustizia. Me lo ricordo proprio anche visivamente (la voce è rotta dalla commozione, ndr). Venendomi incontro ha aperto le braccia. Ha detto, Gherardo! Io ho risposto, Paolo! Era impossibile parlare, dire altro.

Un attentato feroce e vigliacco che ha scosso le istituzioni, l’opinione pubblica, il mondo intero. Eravamo già a pezzi il 23 maggio quando, il 19 luglio, arrivò l’altra tragedia. Tutto questo ha inciso su di lei, sulla sua attività di magistrato e sul suo impegno sociale? Ha mai pensato che fosse tutto inutile? Voi stavate facendo indagini importanti, le vostre scoperte rivelavano l’inaffidabilità e il tradimento di tante persone che ricoprivano ruoli di responsabilità, come ha scritto nel suo libro su Mani pulite.

Appena prima della strage di Via D’Amelio ho rilasciato un’intervista all’Espresso in cui sostenevo che sarebbe stato impossibile arrivare a scoprire attraverso la macchina della giustizia tutto quello che si era consumato, che era stato commesso in termini di corruzione, finanziamento illecito ai partiti, falso in bilancio. Perché era un vero e proprio sistema e quindi il modello giudiziario non ne sarebbe stato capace. Come poi è successo effettivamente. Allora proponevo, buttavo lì l’idea di prevedere un provvedimento legislativo attraverso il quale chi avesse raccontato come fossero andate le cose, restituito ciò di cui si era appropriato illecitamente e si fosse allontanato per un tempo ragionevole dalla vita pubblica, non sarebbe andato in prigione, sarebbe uscito dal processo. Perché evidentemente non pensavo che continuando le indagini, i processi, si sarebbe venuti, alla fine, a capo di tutto. Se mi chiedi se questo possa essere interpretato come un segno di demoralizzazione rispondo che non credo che dipenda dalle cose terribili che sono successe contemporaneamente (o quasi) in Sicilia. Era una constatazione separata.

Si ricordano nel modo giusto Falcone e Borsellino? Teme che possano essere dimenticati? Cosa bisognerebbe fare per conservarne la memoria in maniera corretta?

Questi omicidi, queste stragi, sia Capaci che via D’Amelio, sono stati dei veri e propri atti di guerra. Sia Falcone che Borsellino, la mafia avrebbe potuto ucciderli in modo molto meno scenografico, molto meno impressionante. E invece ha fatto ricorso ad atti così eclatanti. Rimango dell’opinione che l’autostrada di Capaci si sarebbe dovuta lasciare così come si presentava. Io l’ho vista dopo l’attentato. Andava lasciata così com’era, farne un vero e proprio monumento. Era necessario per il ricordo. Lì adesso c’è una stele, invece era necessario mantenere la memoria di quel che era stata capace di fare la mafia.

Falcone si sentiva un po’ isolato. Cose di Cosa nostra, il libro intervista di Marcelle Padovani, si chiude con quest’ultima frase del magistrato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere». Anche Borsellino, che dopo 57 giorni fu ucciso, nei giorni precedenti lanciò segnali, sapeva che il prossimo sarebbe stato lui. Allora, che cos’è la Giustizia se poi i suoi stessi servitori si sentono soli?

Anche la Giustizia rispecchia il pensiero collettivo. Tu prova a guardare a Reggio Calabria. Io guardo a Milano. A chi sono intestate le vie di Milano? Tante volte sono intestate a persone che hanno fatto delle guerre, ammazzato gente. La Giustizia è qualcosa di estremamente opinabile. Prova a pensare a Falcone. Credo che si possano trovare facilmente testimonianze, notizie sull’insofferenza delle persone che vivevano nella stessa via in cui viveva lui. Ma c’è anche il disagio per via della scorta. Noi siamo abituati a guardare alle parole senza tener conto di quel che succede, della realtà concreta, viva. Del contesto. Quindi questo termine, giustizia, è un termine che si modifica e si cambia a seconda del punto di vista dal quale lo guardi. Peraltro, se si guarda alla storia, era giusto bruciare gli eretici? Che le donne fossero sottomesse? Era giusta la schiavitù? Si può rispondere che c’è stata un’evoluzione. Allora guadiamo all’attualità. Negli Stati Uniti d’America, in tanti Stati, c’è la pena di morte che qui, invece, è esclusa assolutamente. Perché si ha una diversa concezione dell’essere umano. Nella legge, però. Se oggi facessimo un referendum sulla pena di morte non so come finirebbe.  

Da una parte, Falcone lamentava: «Debbo sempre dare delle prove, fare degli esami…  sotto il fuoco incrociato di amici e nemici, anche all’interno della magistratura». Dall’altra parte, i giudici del processo per il depistaggio sulle indagini della strage che uccise Borsellino e i cinque agenti della scorta, nelle «motivazioni della sentenza del processo a carico di tre poliziotti», scrivono, come riportato dall’Adnkronos, che: «Non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa» del giudice. «A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa Nostra che si aggirano in mezzo alle forze dell’ordine». I giudici così desumono «l’appartenenza istituzionale di chi sottrasse materialmente l’agenda. Solo chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel contesto e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre». L’Adnkronos sottolinea che: «I giudici di Caltanissetta, nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni», hanno parlato anche della «presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage». Infine, secondo i giudici nisseni, Paolo Borsellino, «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale». Lei nel 2017 ha ricevuto un premio importante presso le Nazioni Unite per una vita spesa contro la corruzione. Il direttore generale, Michael Møller, disse che l’obiettivo è di trasformare il mondo e che, entro l’arco di una singola generazione, la corruzione non dovrà esistere. Con queste premesse il premio, simbolicamente, è andato alla carriera di Gerardo Colombo “per la sua dedizione e contributi alla lotta alla corruzione. Per aver sostenuto l’anti-corruzione prima dal suo ruolo di magistrato, poi come educatore per i giovani, insegnando a rispettare la legge e le regole, a proteggere i diritti e la dignità delle persone e ad aiutare a instillare la responsabilità personale”. Alla luce di ciò, in conclusione, le domandiamo: sconfiggeremo mai le mafie?

Secondo me sì. Dipende però se facciamo i conti con la nostra parte un pochino “mafiosetta”, se riusciamo a sconfiggere quel pezzettino, quel tanto o poco di mafia che c’è in noi. Come sempre è necessario partire da sé stessi. Fatta questa premessa, le mafie si possono marginalizzare, possono scomparire o diventare insignificanti. La mafia esiste soltanto se, almeno un po’, gode del consenso della cittadinanza. E la cittadinanza dà consenso alla mafia se pensa che la mafia complessivamente faccia anche i suoi interessi. Con i ragazzi faccio un esempio che è inserito in un percorso attraverso il quale si può arrivare a verificare se loro, se noi, siamo in sintonia interiore, in intima sintonia, con la Costituzione oppure no. Per far questo rivolgo loro questo quesito: “Vi piacerebbe che tutti fossimo uguali di fronte alla legge? Cioè che ciascuno di noi effettivamente avesse garantita la propria dignità come tutti gli altri?” E aggiungo, allora rispondete a quest’altra domanda: “Quando tornate a casa da scuola e vostro fratello più piccolo sta guardando in TV un programma che non vi piace e voi, invece, vorreste guardarne un altro, cosa fate? Patteggiate, mediate, trovate una soluzione condivisa oppure gli dite dammi il telecomando altrimenti ti spacco la faccia?”. Qui i ragazzi si mettono a ridere perché fanno proprio così. A quel punto faccio una domanda ulteriore: “Secondo voi, qualitativamente, perché come quantità lo so bene anch’io che c’è una differenza incredibile, che differenza esiste tra dire al proprio fratello più piccolo dammi il telecomando altrimenti ti spacco la faccia e dire al negoziante pagami il pizzo altrimenti ti incendio il negozio?”. I ragazzi restano senza parole, perché siamo lì.

di Francesco Alì – TRECANI