Il 4 maggio del 1989, il giudice Paolo Borsellino ha tenuto, presso il liceo Visconti di Roma, una conferenza incentrata sul tema dell’importanza dei giovani nella lotta alla “mentalità mafiosa”.
L’assemblea, partecipe e attenta, ha più volte applaudito l’intervento del magistrato e in particolare quando il giudice ha espresso un suo pensiero sul significato della paura.
La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente.
Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni.
Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila luglio-agosto 2002