Uccisa per difendere l’onore dei mafiosi che onore non hanno.La seconda sezione della Corte di assise d’appello, presieduta da Fabio Marino, ha confermato la condanna a 30 anni dei boss Vincenzo Galatolo e Nino Madonia per l’omicidio di Lia Pipitone. Accolta la richiesta del sostituto procuratore generale Rita Fulantelli. Lia aveva 25 anni ed era una donna libera. Non volle rinunciare al rapporto speciale, di confidenza e innocente complicità, che aveva instaurato con un uomo. Nel quartiere dove viveva, l’Arenella di Palermo, il chiacchiericcio divenne ammorbante. La uccisero un giorno di settembre del lontano 1983. Il padre, il boss Antonino Pipitone, nulla fece per salvarla. Avrebbe accettato la condanna a morte della figlia che aveva tradito le folli regole d’onore. Il padre è stato assolto in tutti e tre gradi di giudizio, perché non sono stati trovati riscontri alle dichiarazione dei collaboratori di giustizia. Diversa la sorte toccata a Galatolo e Madonia .
Il caso. Lia, uccisa dal padre boss: “Non è vittima della mafia
«Carenza dei requisiti soggettivi, sia in capo alla vittima, sia in capo ai potenziali beneficiari». Così un dirigente del ministero dell’Interno ha liquidato, nel più burocratico degli stili, la storia di Lia Pipitone, la figlia ribelle del boss dell’Acquasanta uccisa nel 1983. Appena cinque pagine per dire che quella ragazza di 25 anni che sfidò il padre padrino non può essere considerata vittima della mafia in base alla legge. E che suo figlio e suo marito non possono avere alcun risarcimento. Povera Lia. Per trent’anni, lo Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male. I boss avevano architettato una grande messinscena all’interno di una sanitaria di via Papa Sergio.
«La ragazza doveva essere punita per una sua relazione extraconiugale — ha spiegato il pentito Francesco Di Carlo — il vertice della famiglia convocò il padre per comunicargli che il problema sarebbe stato risolto eliminando la figlia. E il padre acconsentì» .
Una messinscena che non insospettì la polizia. E oggi viene da pensare male: le ultime indagini della procura generale sull’omicidio dell’agente Agostino raccontano che il clan dell’Acquasanta teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, il clan dell’Acquasanta custodiva la base operativa da dove partivano i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti di Palermo. In quel quartiere Lia voleva vivere la sua vita. Non era un’attivista politica, non faceva cortei e non urlava slogan.
Lia era una ragazza che a 18 anni era fuggita con il fidanzatino conosciuto al liceo artistico, il fidanzatino poi diventato marito dopo che i boss di mezza Sicilia si erano messi a cercarli. Lia amava indossare i jeans invece delle gonne sotto il ginocchio. Lia amava la musica, le feste in strada e le sigarette con gli amici.
Troppo rumore in quel quartiere che doveva essere una zona franca. E troppo scandalo per quell’amico del cuore che lei adorava, Simone Di Trapani si chiamava.
Un tam tam terribile trasformò quell’amico in un amante. Dopo aver ucciso Lia, i boss dell’Acquasanta corsero a casa di Simone, fingendosi operai del gas, e lo obbligarono a scrivere una lettera in cui diceva che si suicidava per amore di Lia. Poi, lo scaraventarono giù dal quarto piano.
Un’altra colossale messinscena, perché la vita normale, la voglia di libertà, di quei due ragazzi stava rischiando di mettere in crisi la famiglia più riservata e più ortodossa di Cosa nostra. «La figlia voleva peraltro separarsi dal marito, era diventata una questione d’onore — ha detto ancora Di Carlo — Nino Pipitone doveva recuperare il prestigio perso».
Poco prima dell’omicidio, il padre parlò un’ultima volta con la ragazza. Gli disse chiaramente: «Meglio una figlia morta che separata» . E Lia, che negli ultimi tempi aveva ripetuto «Voglio andare via con il piccolo Alessio», sussurrò al marito: «Promettimi che ti occuperai sempre di nostro figlio ». Lia aveva capito il destino a cui andava incontro. Ma non si piegò mai alle imposizioni del padre.
Sarebbe bastato leggere l’ultima sentenza emessa dai giudici di Palermo, quella che ha condannato i boss Nino Madonia e Vincenzo Galatolo, per rendere finalmente onore a Lia.
Ma nelle cinque pagine che liquidano la storia di questa giovane oggi diventata un simbolo per tanti ragazzi dei quartieri non si fa neanche cenno alla sentenza.
Si arriva a dire che il figlio Alessio (che ha fatto riaprire il caso) e il marito di Lia, Gero Cordaro, hanno fatto domanda «fuori termine» .
Si dice pure che il marito di Lia non avrebbe rotto con il suocero, perché nel primo processo contro Pipitone (poi assolto) non raccontò tutto quello che sapeva. Ma quella volta — racconta la sentenza — il boss aveva convocato il genero prima dell’udienza, minacciandolo.
«Ora questa decisione condanna Lia due volte» , dicono gli avvocati della famiglia, Paolo Giangravè, Marcello Assante e Giuliana Vitello, che si sono opposti al provvedimento del Viminale. E all’Acquasanta, il nome di questa ragazza che sognava la libertà è ancora scomodo: non c’è neanche una lapide a ricordare il suo sacrificio.
La Repubblica Palermo, 5 luglio 2020 di SALVO PALAZZOLO
Lia Pipitone, figlia ribelle del boss e la battaglia del figlio, “Per lo Stato è vittima di serie B”
Vittima di mafia secondo la Magistratura, non lo è, invece per il Ministero dell’Interno. Una storia che coinvolge una figli di un boss di cosa nostra e la battaglia del figlio raccontata in un libro.
La battaglia del figlio
È la storia di Lia Pipitone, la figlia ribelle di un boss di Palermo uccisa a 25 anni nel 1983, che secondo i Giudici è vittima della mafia. Non la penano così però al ministero dell’Interno. E Alessio Cordaro, il figlio di Lia, continua la sua battaglia con il libro “Se muoio sopravvivimi”. L’editore Zolfo ha ripubblicato in una versione aggiornata l’opera. Risale a 10 anni fa, il racconto-inchiesta, scritto insieme al giornalista Salvo Palazzolo che fece riaprire l’inchiesta giudiziaria, che era stata archiviata subito dopo il delitto avvenuto al culmine di una falsa rapina. Domani saranno passati 39 anni.
I mandanti dell’omicidio
Di recente, la Cassazione ha confermato le condanne a 30 anni per due boss di Cosa nostra, Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo, loro ordinarono la morte della giovane con il consenso del padre. “Lia era nata per la libertà. Ed è morta per la sua libertà”, diceva il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo. “Fu omicidio per onore – ha spiegato un altro ex autorevole mafioso, Rosario Naimo – si sapeva che la figlia del signor Pipitone tradiva il marito”. In realtà, era una voce che girava nel quartiere, all’epoca era inconcepibile che un uomo e una donna potessero essere solo amici. Il giorno dopo il delitto di Lia, il suo amico venne “suicidato” dal balcone di casa e costretto a scrivere una lettera: “Mi uccido per amore”.
Una donna che non si arrese
Nella nuova edizione del libro “Se muoio sopravvivimi – Lia Pipitone, uccisa dalla mafia perché si ribellò al padre boss” Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo tornano a ripercorrere la storia della giovane, che riuscì a fuggire da Palermo con il fidanzato per sfuggire al padre-padrone: mafiosi autorevoli si mobilitarono per ritrovare i due ragazzi, e il compagno di Lia fu anche portato davanti a un tribunale di mafia. Ma lei non si arrese, continuò a contestare il padre e a vivere la sua vita in libertà. Anche quando una voce insistente nel quartiere iniziò a dire che stava dando scandalo per la sua amicizia con un uomo.
Mia madre vittima di serie B
“Mia madre continua ad essere una vittima di serie B – dice Alessio Cordaro – Nonostante i giudici abbiamo scritto parole chiarissime”. Per il ministero dell’Interno, Lia Pipitone non ha i “requisiti soggettivi” per essere riconosciuta vittima di mafia. “Per trent’anni – dice invece Palazzolo -lo Stato ha archiviato il caso come una rapina finita male: una messinscena che non insospettì la polizia. E oggi viene da pensare male: le ultime indagini sull’omicidio dell’agente Agostino raccontano che il clan dell’Acquasanta teneva rapporti con ambienti deviati delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, in quel quartiere i Galatolo custodivano la base operativa da dove partivano i sicari di Riina per gli omicidi eccellenti”.
In quel quartiere Lia voleva vivere la sua vita
“Al figlio di Lia Pipitone è stato anche detto che la richiesta di risarcimento è arrivata fuori termine. Parole davvero paradossali – prosegue Palazzolo – lo Stato ci ha messo trent’anni per dire che era un omicidio di mafia, e solo perché un figlio ha iniziato a cercare la verità sulla morte di sua madre”. BLOG SICILIA 22.9.2022
“Lia Pipitone uccisa perché disonorò la sua famiglia”: 30 anni ai boss Galatolo e Madonia
I boss Vincenzo Galatolo e Antonio Madonia sono stati condannati, dal giudice per le indagini preliminari Maria Cristina Sala, a 30 anni di reclusione, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale per l’omicidio di Lia Pipitone.
Ai due mafiosi è stata imposta la libertà vigilata per 3 anni a pena espiata. Alle parti civili, marito e due figli della vittima assistiti dall’avvocato Nino Caleca, è stata riconosciuta una provvisionale di 20.000 euro ciascuno.
Lia Pipitone venne uccisa il 23 settembre 1983 dopo una sparatoria seguita ad una rapina, messa in scena per depistare le indagini. I collaboratori di giustizia, che dopo anni dal delitto hanno rivelato colpevoli e moventi, hanno raccontato che a chiedere la «punizione» per la vittima, che aveva una relazione extraconiugale che non voleva troncare e che gettava discredito sulla famiglia, fu proprio il padre della donna, il boss dellAcquasanta Antonino Pipitone.
«Mio fratello Andrea, all’epoca responsabile della famiglia mafiosa di Altofonte, mi ha riferito che il padre di Lia aveva deciso la punizione della donna perchè non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa» ha raccontato Francesco Di Carlo agli inquirenti. Per l’omicidio finì in carcere il padre di Lia, che venne poi assolto per mancanza di prove. 17 luglio 2018 GDS
La storia di Lia, donna ribelle, uccisa dal padre mafioso
Siamo negli anni ’80, nel pieno boom di morte. Sì, boom, perché il rumore che invadeva le strade di Palermo era quello delle bombe e degli spari, ma anche quello delle sirene della polizia e delle ambulanze, che si precipitavano lì, dove vite umane venivano trucidate senza pietà, lì dove corpi imbrattati di sangue rimanevano inermi sull’asfalto, attorno a chi inesorabilmente dichiarava di non aver né visto né sentito.
Tra queste vittime Rosalia Pipitone, da tutti conosciuta come Lia.
Ma chi era veramente Lia? Ce lo racconta il figlio, Alessio Cordaro, il quale torna nelle librerie con la nuova edizione di Se muoio, sopravvivimi (Zolfo Editore), scritto a quattro mani con Salvo Palazzolo, giornalista d’inchiesta e inviato speciale di Repubblica.
Lia era una giovane donna di soli 25 anni, bella e carismatica, talvolta dagli occhi tristi, che a detta di molti era fuori dagli schemi.
Amare la libertà, voler vivere la propria vita in pienezza, coltivare le proprie passioni, sognare un futuro diverso. Questo significava essere fuori dagli schemi? In fondo lei voleva essere semplicemente se stessa e fare le esperienze che ogni ragazza della sua età desidera.
Ma quali erano gli schemi entro i quali era costretta a stare? E soprattutto chi dettava e imponeva tali schemi? A Lia non era concessa la possibilità di scegliere: scegliere di fare una passeggiata, andare a una festa, recarsi autonomamente a scuola, vestirsi come a lei piaceva. Nulla di nulla. Scegliere era pura utopia, perché a decidere per lei era solo ed esclusivamente il padre. Non un padre qualsiasi, ma Antonino Pipitone, boss indiscusso del quartiere Acquasanta di Palermo. A lui e, quindi, alla mafia tutta Lia era costretta a dare conto e ragione. Non avrebbe potuto e dovuto sottrarsi alle sue decisioni, né battere ciglio di fronte alle imposizioni del suo “Dio”, meno che mai assumere un modus vivendi non conforme ai canoni del sistema mafioso.
Per lei, donna estremamente intelligente, con una forte personalità e un grande coraggio, tutto ciò era inaccettabile. La sua voglia di vivere e di vivere in libertà era più forte della voglia di suo padre di tenerla assoggettata a lui e di controllare ogni sua mossa, ogni suo movimento. Poche cose le erano concesse: frequentare il liceo artistico (una delle sue prime conquiste) ma accompagnata e prelevata dal fratello, e percorrere il tragitto casa-edicola (appena 30m) per acquistare libri, di cui era una grande divoratrice.
Quanto sarà stata dura per lei vivere in quelle costrizioni e restrizioni! Quante volte si sarà sentita soffocare tanto da progettare una fuga e le sue prospettive di futuro? Complice di questo piano Gero, il fidanzato conosciuto al liceo, con il quale condivise tante scelte importanti: l’allontanamento da Palermo, il matrimonio, il ritorno in città, la nascita di Alessio.
Antonino Pipitone non accettò di buon grado questa forma di ribellione da parte della figlia, meno che mai piacque ai suoi amici mafiosi, soprattutto quando, dopo alcuni anni di matrimonio, lei espresse la volontà di volersi separare e andare a vivere in una città del Nord Italia. Inoltre nel quartiere girava voce che avesse un legame particolare con un certo Simone. Tutti questi elementi consacrarono la sua condanna a morte perché stava tradendo l’onorabilità dell’organizzazione criminale.
Un pomeriggio di settembre, Lia scese da casa per recarsi alla sanitaria Farmababy nel quartiere Arenella per fare una chiamata con il telefono a gettoni, mentre al quarto piano di una palazzina poco distante suo figlio di appena quattro anni attendeva sereno e impaziente il ritorno della sua mamma. Alessio attese invano, perché dei colpi di pistola la colpirono ripetutamente, tra scatoloni di pannolini e scaffali di omogenizzati, mentre i sicari simulavano una rapina con il chiaro intento di depistare le indagini.
Ma chi fu il mandante? Chi decise di sbarazzarsi di Lia e del suo animo libero e ribelle? La mafia con il consenso del padre. Sì, proprio del padre.
A questa verità si arrivò dopo tanti lunghi anni e grazie all’impegno, alla perseveranza e alla determinazione di Alessio Cordaro e Salvo Palazzolo, i quali nel 2012 scrissero la prima edizione del libro, affinché venisse fatta luce su una vicenda con tante ombre e tanti punti interrogativi.
Grazie alla prima pubblicazione venne riaperto il caso e furono condannati a trent’anni i due capimafia, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, che ordinarono l’omicidio della giovane.
Nel settembre 2022, a distanza di dieci anni, con la nuova pubblicazione di Se muoio, sopravvivimi si vuole continuare a dare voce a questa donna coraggiosa e proseguire la battaglia per restituirle dignità e giustizia.
Sembra paradossale ma a tutt’oggi, malgrado le condanne definitive e la sua chiara volontà di voler prendere le distanze da quell’uomo, sangue del suo sangue, Lia non è stata ancora riconosciuta vittima di mafia in quanto non ha per lo Stato i requisiti soggettivi.
Il libro racchiude pagine emotivamente coinvolgenti, in cui si intrecciano i racconti di pancia e di cuore del figlio Alessio con le indagini minuziose di Salvo Palazzolo, che fanno emergere facce contrastanti di una stessa medaglia: la forza di una figlia e la spietatezza di un genitore, il coraggio di una donna e la prepotenza di un clan, il dolore di un bambino per la morte della madre e l’impassibilità di un padre per la morte della figlia.
Ogni capitolo è scritto, anche negli aspetti meramente tecnici, con un linguaggio semplice ma incisivo, che tiene alta l’attenzione del lettore. Il titolo non è scelto a caso, ma rievoca l’omonima poesia di Pablo Neruda, una delle preferite di Lia, e rispecchia un dato di fatto: a quasi quarant’anni da quel tragico 23 Settembre 1983 Lia sopravvive. Lo scrive in un passaggio anche Alessio: “Ti hanno uccisa, ma tu non sei morta. Ora, ne sono sicuro, perché tu e la tua voglia di riscatto vivono in me”.
Di grande impatto visivo ed emozionale la foto di copertina scattata da Gero Cordaro, il quale ha saputo cogliere tutta l’espressività e la forza comunicativa della sua giovane moglie, nonché la sua eleganza e la celata malinconia.
Se muoio, sopravvivimi va assolutamente letto, consigliato, portato nelle scuole, nelle associazioni, tra i giovani e le forze sane della società, ovunque ci sia fermento di idee e progetti, affinché si concretizzi l’auspicio di Salvo Palazzolo:
“Come sarebbe bello realizzare a Palermo una grande fabbrica delle idee espresse dagli uomini e dalle donne uccise dalla mafia: non dovrebbe essere un museo, ma un grande puzzle da comporre. E alla fine, potrebbe uscirne l’immagine di una città nuova, quella che i mafiosi e i loro complici non volevano”. CAOS CULTURA
Questa è la storia della figlia di un padrino e della sua ribellione soffocata. Lo hanno svelato i pentiti: Lia Pipitone venne uccisa per ordine della mafia, con il consenso del padre, uno dei boss più fedeli a Totò Riina e Bernardo Provenzano.
La accusavano di avere intrattenuto una relazione extraconiugale.
Ma dopo un processo il padre è stato scagionato e il giallo è rimasto irrisolto.
L’indagine di un figlio e di un giornalista ha riaperto il caso della giovane assassinata a Palermo il 23 settembre 1983 durante una finta rapina.
Il giorno dopo l’omicidio il più caro amico di Lia si suicidò: così recita la versione ufficiale dei fatti, che continua a essere carica di misteri e messinscene architettate dai boss.
Perché il gotha di Cosa nostra arrivò a tanto? Di che cosa aveva paura? Alessio Cordaro, il figlio di Lia, nel 1983 aveva quattro anni.
Questo libro è il suo diario, alla ricerca della verità sulla morte della madre.
È anche un’indagine giornalistica vecchio stile di Salvo Palazzolo: il clan dell’Acquasanta, a cui apparteneva Antonino Pipitone, il padre della ragazza uccisa, ha segnato l’ascesa, gli affari e i delitti eccellenti della Cosa nostra «corleonese».
Questo libro ha portato alla condanna di due capimafia che ordinarono l’omicidio della giovane. Ma la battaglia per Lia non è ancora finita.