Sedici anni fa la STRAGE di DUISBURG, quella grave debolezza della ‘ndrangheta che svelò strutture e cambiandone la storia

 

 

Il 15 agosto del 2007 fa il mondo scopriva ferocia e potenza delle cosche calabresi. Ma la mattanza in terra tedesca segnò l’involontaria fine della strategia della sommersione, aprendo una stagione di grandi inchieste che alzò definitivamente il livello delle indagini.Duisburg (Germania), ore 2.24 del 15 agosto 2007. Sono le coordinate di una strage che non solo lascia sull’asfalto sei morti ammazzati, ma rappresenta uno dei più grossolani – e consapevoli – errori strategici della ‘Ndrangheta. Che non sono molti, ma quando accadono fanno parecchio rumore. 

Perché, dopo quella mattanza, nulla sarà più come prima nel contrasto a quella che è, ancora oggi, l’organizzazione criminale più potente.
Sono trascorsi 16 anni da quella notte infernale in cui il mondo si accorge, in modo improvviso e cruento, di quanto sia pervasiva la presenza della ‘Ndrangheta anche nella laboriosa e “tranquilla” Germania. Un pugno nello stomaco difficile da mandare giù per la struttura delinquenziale calabrese avvezza, nel corso degli anni, ad una ben più remunerativa strategia della sommersione. In fondo, la regola è sempre la stessa: niente azioni eclatanti per non disturbare il “business”. E Duisburg, in tal senso, ne rappresenta un evidente momento di debolezza.

I numeri della mattanza

Nella notte dell’Assunta del 2007, di fronte al ristorante “Da Bruno”, in sei vengono trucidati: Tommaso Venturi, 18 anni; Francesco Giorgi, 16 anni; Francesco Pergola, 22 anni; Marco Pergola, 20 anni; Marco Marmo, 25 anni; Sebastiano Strangio, 39 anni. Tutti trascorrono la serata nel ristorante di proprietà di Strangio. C’è da festeggiare il 18esimo compleanno di Tommaso Venturi. Tra i suoi oggetti personali verrà ritrovato anche un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo, segno inequivocabile dell’avvenuta affiliazione alla ‘Ndrangheta.

I killer sono freddi. Spietati. Agiscono sparando oltre 50 colpi d’arma da fuoco, cogliendo le vittime nell’atto di entrare nelle rispettive autovetture. I sicari hanno persino il tempo di ricaricare le armi e non risparmiano neppure il colpo di grazia per ciascun obiettivo. C’è da mettere una firma inequivocabile, una che possa far capire da dove provenga una carneficina di quelle dimensioni inflitta a persone reputate più o meno vicine alla cosca Pelle-Vottari: è la firma della famiglia mafiosa dei Nirta-Strangio di San Luca.

Le indagini si indirizzano subito verso la strada della vendetta a seguito dell’ultimo evento eclatante della faida di San Luca, la strage di Natale del 2006, nel corso della quale viene uccisa Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta.

La faida tra Nirta-Strangio e Pelle-Vottari è roba assai risalente nel tempo, iniziata con un banale scherzo di carnevale e divenuta una mattanza senza fine che ha portato addirittura alla convocazione di una commissione provinciale, composta dalle principali famiglie ‘ndranghetistiche reggine, per ricomporre la frattura. Tutto inutile. Perché, a distanza di tempo, il rumore delle armi è tornato a fare capolino nella Locride. 

Il mondo scopre la ferocia della ‘Ndrangheta

Il risveglio dei tedeschi, nel giorno di Ferragosto di 16 anni fa, è tremendo. D’improvviso tornano d’attualità tutti quegli avvisi giunti da tempo dalle autorità italiane: la ‘Ndrangheta ricicla enormi quantità di denaro in Germania. Ma da Berlino rispondono picche. La legislazione tedesca non consente un’attività repressiva come quella italiana. Non si tratta certo di un business improvvisato, quello che parte dalla Calabria. Da diversi decenni numerosi esponenti della criminalità organizzata calabrese si spostano con regolarità nell’Europa nordica, per mettere al sicuro e far fruttare gli ingenti introiti realizzati con il narcotraffico e le altre attività delinquenziali. L’Italia è un paese ormai difficile ove porre in essere condotte di riciclaggio. La normativa è molto avanzata e la lotta ai patrimoni illeciti non conosce sosta. Meglio virare verso altri lidi. Di certo più tranquilli e che destano meno sospetti. Come la Germania, dove la nutrita colonia di calabresi presenti, che vivono e lavorano onestamente, rappresenta la copertura perfetta per non creare eccessivo allarme. Invece le autorità italiane scorgono questo segnale e si rivolgono più volte ai colleghi tedeschi. 

La strage di Duisburg rappresenta niente più di un errore strategico che, col fragore di un temporale estivo, si abbatte sull’Europa. Il mondo osserva l’emersione quasi causale di un fenomeno carsico in movimento da diversi lustri. Una sorta di fessura da cui sgorga il rivolo che consente di comprendere cosa scorra al di sotto delle tranquille terre tedesche. Basti pensare che, addirittura sei anni prima, un’indagine italiana pone l’accento sul ristorante “Da Bruno”, con tanto di indicazione alle autorità della Germania. Ma non accade nulla. 

Strangio e quell’errore consapevole in nome del potere

Le indagini italiane sui fatti di Duisburg permettono di giungere ben presto all’identificazione della mente della strage. Si tratta di Giovanni Strangio (condannato, con altri imputati, alla pena dell’ergastolo), ufficialmente imprenditore attivo nel settore della ristorazione in Germania e con un’ottima capacità di destreggiarsi tra il territorio italiano e quello tedesco. È il cugino di Maria Strangio, uccisa nell’agguato di Natale 2006. Il suo casellario giudiziario non dice molto. Eppure gli inquirenti italiani sono convinti: c’è lui dietro quell’azione così eclatante. Anche un identikit ne ritrae i lineamenti essenziali e fa il giro del mondo.  

Ma è davvero ipotizzabile che coloro che hanno progettato una mattanza del genere non abbiano messo in conto i risvolti di un simile atto? Difficile credere di no. Più probabile immaginare che la voglia di riaffermare la supremazia di una famiglia rispetto all’altra, così come la sete di vendetta per i fatti precedenti, abbiano finito per prevalere, facendo valutare ai Nirta-Strangio l’ipotesi che i riflettori venissero puntati nuovamente su San Luca e sulla ‘Ndrangheta tutta.

Emblematico il commento che il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, dà ad una radio tedesca della faida di San Luca: «La storia ci insegna che le faide sono come i vulcani, possono state anche 50 anni, 80 anni spenti e poi all’improvviso c’è un’eruzione perché l’odio dentro rimane». Frase non casuale, considerato che, dopo la strage di Duisburg, il Crimine di San Luca impone la pace alle due famiglie. Troppo grande il danno procurato per poter continuare con il sangue e le azioni eclatanti. 

Cosa cambia dopo Duisburg

Quanto avvenuto in terra tedesca, per dirla con le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, è un episodio «dove le mafie in realtà non hanno mostrato la propria forza, ma la loro debolezza». 

Il motivo è presto detto. Fino ad allora, la ‘Ndrangheta viene vista come una struttura criminale orizzontale. Un insieme di cosche con forte radicamento territoriale e una componente familistica spiccata. Ma quella è una visione ampiamente superata della ‘Ndrangheta, la cui struttura muta all’indomati del summit di Montalto del 1969 e dei successivi “moti di Reggio” del 1970. Si assiste in quell’epoca ad una evoluzione del crimine calabrese che trova il proprio momento cardine nella prima guerra di ‘Ndrangheta, tra il 1974 ed il 1977 e successivamente nella seconda (1985-1991), quella in cui avviene il passaggio dalla struttura orizzontale ad una verticale, di tipo verticistico.È in quel momento che alcune famiglie prendono il sopravvento rispetto ad altre, pur non rappresentando un semplice vertice della ‘Ndrangheta. «La struttura verticale di tipo verticistico – riferisce sempre Lombardo in occasione di un evento in terra tedesca di qualche tempo fa – potrebbe far pensare che oggi la ‘Ndrangheta ha una cellula di comando, un capo, che ne determina l’esistenza, l’operatività degli obiettivi. Non è banalmente così. La ‘Ndrangheta è dotata di una filiera di comando molto sofisticata». Le indagini della Dda di Reggio Calabria certificano innanzittutto quella struttura verticistica con l’inchiesta “Il Crimine”. Poi il livello si alza: arrivano diverse inchieste riunite sotto l’unico maxi processo “Gotha” che portano a ritenere esistente un terzo livello, ossia una componente riservata e segreta della ‘Ndrangheta, una direzione strategica con lo scopo di pianificare programmi con proiezioni anche internazionali. 

Ecco perché quanto accaduto a Duisburg non fa che mostrare una crepa nella capacità delle ‘ndrine di mimetizzarsi sul territorio e seguire i “programmi operativi” dettati dalla direzione strategica. Quella falla, nata con oltre 50 colpi di arma da fuoco in terra tedesca, impone giocoforza un cambio radicale nell’approccio al contrasto del fenomeno ‘ndranghetistico non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo. 

Non è un caso che, proprio a partire da quegli anni, venga condotta un’azione capillare che depotenzia enormemente le cosche più influenti della provincia reggina, decapitando il gotha delle consorterie ed azzerando, di fatto, l’elenco dei latitanti più pericolosi.

Duisburg, dunque, rappresenta uno spartiacque. In qualche modo, l’inizio della fine della strategia della sommersione che ha consentito alla ‘Ndrangheta di accumulare, nel corso dei decenni, ingenti patrimoni illeciti ancora oggi disseminati in varie parti del globo, allo scopo di inquinare l’economia legale con l’iniezione di capitali assai appetibili. Tanto più se si considera che ormai le grandi mafie non ragionano più come compartimenti stagni, ma come vere e proprie agenzie del crimine che lavorano sinergicamente, come fossero un unico corpo. 

La battaglia, per questo, non può dirsi certamente vinta. Anzi, tutt’altro. Si assiste forse oggi ad una lenta ma inesorabile diminuzione della soglia di attenzione pubblica attorno al fenomeno mafioso. Ed è un lusso che non ci si può permettere. Perché è esattamente ciò che le mafie desiderano: proseguire i loro affari nel silenzio, senza più sparare un colpo, se non strettamente necessario, così tornando in quel cono d’ombra garantito per decenni. Provando a mandare nel dimenticatoio finanche episodi come Duisburg, da consegnare alla storia quali meri incidenti di percorso da non commettere più. Benché ne abbiano condizionato per sempre storia a strategie. LACNEWS 15.8.2023

 


La strage di Duisburg, così si scopre la potenza della ‘Ndrangheta

Nel giro di pochi secondi vengono esplosi ben 54 colpi da esecutori spietati e lucidi. Lo testimoniano, fra l’altro le rosate strette sulle fiancate delle macchine, il fatto che, ad azione in corso, i due esecutori abbiano addirittura cambiato i caricatori delle pistole, e il colpo di grazia inflitto con calma e determinazione a tutte le vittime. Gli assassini scompaiono dopo aver completato il lavoro con i colpi di grazia.

Nelle due macchine rimangono i cadaveri di Sebastiano Strangio, Francesco Giorgi (minorenne), Tommaso Venturi (che proprio quella sera aveva festeggiato i diciotto anni), Francesco e Marco Pergola (20 e 22 anni, fratelli, figli di un ex poliziotto del commissariato di Siderno) e Marco Marmo, principale obiettivo dell’inaudita azione di fuoco perché sospettato di essere stato il custode delle armi utilizzate per uccidere, a San Luca il precedente Natale, Maria Strangio, moglie di Giovanni Nirta.

Le vittime fanno in vario modo riferimento al clan Pelle-Vottari, in lotta da oltre quindici anni con il clan Nirta-Strangio (non induca in errore il nome del cuoco che, pur chiamandosi Strangio, fa riferimento al clan Pelle Vottari).

Con la strage di Ferragosto a Duisburg la Germania e l’Europa scoprono attoniti la micidiale potenza di fuoco e l’enorme potenzialità criminale di una mafia proveniente dalle profondità remote e inaccessibili di un mondo rurale e arcaico. Molte cose colpiscono gli stupefatti investigatori tedeschi e l’immaginario collettivo: la determinazione e la professionalità degli assassini, il numero e l’età dei morti, il fatto che la strage sia stata compiuta nel cuore dell’Europa civilizzata a migliaia di chilometri di distanza da San Luca e un santino bruciato – indicatore inequivoco di una recente affiliazione rituale – trovato in tasca a uno dei giovani assassinati.

Parte sotterraneo da San Luca ed erompe a Duisburg un connubio esplosivo fra vendette ancestrali e affari milionari, un misto di faide tribali e di spietata modernità mafiosa, producendo uno shock improvviso e micidiale per l’opinione pubblica e per le autorità tedesche. In realtà, però, i segni premonitori c’erano già tutti da tempo e la strage di Ferragosto è un indicatore tragico e quasi metaforico della sottovalutazione da parte delle autorità tedesche della ‘ndrangheta e del suo grado di penetrazione e radicamento in quel paese, oltre che in Europa e nel resto del mondo.

La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni settanta e ottanta (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane. Già nel 2001 l’indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca’s aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante “Da Bruno” davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese.

La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l’atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro.

La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. Se nel sottosuolo della civilizzazione europea circolano certi fluidi ribollenti e miasmatici, prima o poi questi fluidi salteranno fuori, non appena si produca una crepa nella superficie.

La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.

Tutto nasce a San Luca

Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell’attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi familiari dell’aristocrazia mafiosa calabrese. I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, ‘Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del ‘91), dall’altro.

La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L’offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni novanta vengono segnati da un’impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l’una, ora l’altra parte in conflitto.

La faida culmina nell’omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (il comportamento, tipico di quella zona, di uomini che, pur non avendo pendenze giudiziarie, si danno a latitanze di fatto, si nascondono per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto.

Come si diceva, vari elementi di questo inaudito episodio colpiscono l’immaginario collettivo e l’intelligenza degli investigatori. Non sfugge, a questi ultimi: – Il ritrovamento, accanto alla sala del ristorante “Da Bruno”, di un locale chiaramente destinato alle pratiche di affiliazione, con tutte le necessarie dotazioni iconografiche. – Il ritrovamento, nel portafogli di una delle vittime, Tommaso Venturi, di un santino di San Michele parzialmente bruciato; chiaro indizio di un’affiliazione celebrata poco prima.

Non sarà inutile al proposito ricordare che qualche ora prima, il 14 agosto, il giovane Venturi aveva festeggiato il diciottesimo compleanno potendosi da ciò desumere che l’ingresso formale nella consorteria mafiosa era stato fatto coincidere (secondo una tradizionale attenzione ai dettagli simbolici) con il passaggio alla maggiore età. – La circostanza che la strage avveniva (come altri episodi topici della faida di San Luca), sempre in prospettiva simbolica e rituale, in un giorno di festa. – Il fatto che gli attentatori parlino il tedesco, come risulta pacificamente da una delle testimonianze raccolte nell’immediatezza del fatto e che dunque appartengano all’immigrazione criminale di seconda generazione o comunque evoluta, poliglotta e dunque più pericolosa.

Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l’ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta–Strangio, e personaggio chiave dell’eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio.

Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull’asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell’attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d’Italia e d’Europa per la partecipazione ad un’azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un’idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca.

Non vi è dubbio che gli appartenenti alla cosca Nirta Strangio fossero consapevoli che il trasferimento della faida dalla Calabria in Germania avrebbe avuto l’effetto di accendere i riflettori sulla ‘ndrangheta generando un’accelerazione investigativa da parte italiana e una presa di coscienza della gravità del fenomeno da parte tedesca. È quanto emerge anche dal contenuto degli incontri tenuti in Germania, da una delegazione della Commissione parlamentare, nella missione preparatoria di questa relazione.

Chi aveva progettato quella strage con modalità così paurosamente spettacolari ne era ben consapevole, sapeva di dover pagare un prezzo e ha deciso di pagarlo pur di affermare la propria supremazia e il proprio progetto di potere criminale. È così che una sanguinosa faida d’Aspromonte (peraltro inserita nella lista delle dieci priorità criminali, stilata nel 2007 dal capo della D.D.A. di Reggio Calabria, Salvatore Boemi) porta all’attenzione dell’Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.

L’origine della parola ‘Ndrangheta

Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.

L’andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari.

La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste.

In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.

Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.

Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona.

A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.

Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori – nell’immaginario collettivo – quasi una dimensione di extraterritorialità. L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso.

La CRIMINALITA’ ORGANIZZATA