“C’è un’economia “fuorilegge”, non criminale, – spiega Alessandra Dolci coordinatrice della Dda di Milano – ma fatta di imprenditori propensi a non rispettare le regole del libero mercato e della correttezza fiscale e ci sono professionisti borderline che aiutano questo modello economico. In questa devianza si inserisce la criminalità mafiosa”
Vista da questa scrivania bianca, al V piano del labirintico Palazzo di giustizia di Milano, la ’ndrangheta è una criminalità che cambia pelle adattandosi al modello economico, pronta a farsi trovare con il sacco aperto ovunque ci siano soldi in arrivo, mostrando una sempre più accentuata vocazione imprenditoriale.
Così la descrive Alessandra Dolci, che, da procuratore aggiunto, a capo della direzione distrettuale antimafia, ha il polso di tutte le indagini in materia nel distretto giudiziario che ha competenza sulla Lombardia occidentale.
Che cosa vuol dire cambiare pelle?
«I mafiosi, che in Lombardia per la mia percezione un po’ a spanne significano per l’80-90% ’ndrangheta con cosa nostra e camorra a spartirsi il restante 10-20%, sempre di più si presentano come imprenditori che fanno girare denaro e questo riduce la percezione del disvalore: finché sequestrano persone o trafficano droga tutti li avvertono come criminali, se fanno reati economici ricorrendo alla violenza solo in via residuale, molto meno».
Così è più difficile provare l’associazione mafiosa?
«Il fenomeno evolve verso una “aterritorialità”: c’è un passaggio dall’occupazione di un territorio all’occupazione di settori economici, questo fatto, unito alla mancanza del requisito della violenza, può complicare la contestazione del reato di associazione mafiosa (articolo 416 bis), ma ci si può orientare per l’associazione a delinquere comune con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa».
C’è chi nelle istituzioni vi accusa di vedere mafia dappertutto.
«Constatiamo casi in cui parte del denaro ricavato da evasione e reati economici e tributari in genere, va a sostenere il “welfare mafioso” che dà assistenza legale ai detenuti per reati di mafia e mantiene le loro famiglie».
Parlava di occupazione di settori economici, quali?
«Oltre alla tradizionale edilizia: pulizie, logistica, ristorazione, rifiuti, giochi e scommesse ma soprattutto noi vediamo il proliferare di imprese che cercano in ogni modo di accaparrarsi finanziamenti a fondo perduto o con garanzia pubblica, o imprese – spesso cartiere – che creano fittizi crediti di imposta che poi mettono sul mercato. C’è un’economia “fuorilegge”, non criminale, ma fatta di imprenditori propensi a non rispettare le regole del libero mercato e della correttezza fiscale e ci sono professionisti borderline che aiutano questo modello economico. In questa devianza si inserisce la criminalità mafiosa che si mette sul mercato offrendo strumenti finanziari/fiscali che diventano denaro contante».
L’usura in tempi di crisi è ancora un affare per le mafie?
«Sì, perché è il modo più semplice di riciclare i proventi del traffico di droga. Ma gli usurati non denunciano, scopriamo che lo sono dalle intercettazioni ambientali o magari indagando per bancarotta».
Ha detto che 8 volte su 10 in Lombardia sono gli imprenditori chiedere ai mafiosi, conferma?
«Sì, c’è una domanda di mafia: è percepita come un’agenzia di servizi, che risolve problemi senza l’impiccio delle regole, fa impresa e rende prestazioni a prezzi inferiori a quelli di mercato. Il modello imprenditoriale è cambiato rispetto a 20-30 anni fa, molti servizi vengono esternalizzati e lì si inseriscono le infiltrazioni. Non a caso vediamo nascere e morire nel giro di 1-2 anni, in modo da sfuggire al controllo fiscale, società cooperative, che evadono del tutto o fanno indebita compensazione di crediti previdenziali con fittizi crediti Iva. Il meccanismo funziona così: un’impresa anche medio-grande, il committente, fa un contratto con una “società filtro”, la quale subappalta a queste cooperative, meri contenitori di manodopera a bassissimo costo non qualificata. Di questo sistema si avvantaggiano il mafioso che fa impresa e l’impresa committente».
Chi ci rimette?
«L’erario (e quindi la cittadinanza, meno introiti meno soldi per i servizi pubblici ndr.), i concorrenti e i lavoratori: sono i nuovi schiavi, vittime di caporalato, presi per fame, pagati miseramente in nero, senza sicurezza».
Tante imprese sono state “mangiate” dai mafiosi, chi li chiama non li teme?
«Si illude di controllarli, ma non ce la fa. Alla lunga è un pessimo affare».
Hanno ascoltato i suoi timori per i cantieri di Milano-Cortina 2026?
«Speravo si replicasse il modello Expo: una deroga normativa che aveva assegnato al prefetto di Milano la competenza delle verifiche antimafia per tutte le imprese coinvolte, stavolta non lo si è fatto, forse per la complessità della presenza di più Regioni».
Un’impresa che non voglia affidarsi alla cooperativa sbagliata come fa?
«Stabilisce nel modello 231 che i costi dei servizi esternalizzati non siano inferiori a una certa soglia, in modo da escludere imprese illegali, così evita anche di giocarsi la reputazione finendo in amministrazione giudiziaria».
Le misure di prevenzione servono?
«Spesso i prefetti sono il primo argine antimafia. La repressione non basta: mi capita di richiedere custodie cautelari per persone che hanno già scontato condanne per associazione mafiosa a seguito di miei procedimenti di anni prima. Ci ritroviamo».
Che cosa la preoccupa oggi?
«La possibile saldatura tra le tre organizzazioni attorno alla convergenza di interessi economici».
Intervista uscita sul numero 12/23 di Famiglia Cristiana, in occasione del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno per le vittime di mafia
Elisa Chiari FAMIGLIA CRISTIANA 31/03/2023