‘Ndrangheta a Milano, l’intreccio tra le cosche e l’imprenditoria “fuorilegge”

Dolci

 

Le nuove dinamiche descritte dal procuratore Dolci all’Antimafia: «I clan hanno cambiato strategia e non fanno rumore». Rischi per Pnrr e Olimpiadi

 

LAMEZIA TERME L’intreccio e l’abbraccio tra la ‘ndrangheta con i suoi interessi economici e una imprenditoria “fuorilegge” e parassitaria e il basso profilo criminale. A tratteggiare le nuove dinamiche delle cosche calabresi a Milano e in Lombardia è il procuratore aggiunto della Dda meneghina Alessandra Dolci, che nella recente audizione dei magistrati milanesi in Commissione parlamentare antimafia tratteggia l’evoluzione ‘ndranghetista in terra lombarda. Uno “spaccato” offerto da un osservatorio privilegiato, quello di Dolci, una lunga esperienza investigativa sulla ‘ndrangheta di esportazione.

Le estorsioni “per farsi rispettare”

«Sono presenti da cinquant’anni soprattutto singoli nuclei di ‘ndranghetisti. Negli anni ’70-’80 si occupavano di gravissimi reati: sequestri di persona a scopo di estorsione, traffici di stupefacenti, vi erano numerosissimi omicidi», esordisce Dolci davanti la Commissione Antimafia secondo quanto riporta il resoconto di seduta. «Ricordo che a metà degli anni Ottanta colpiva il dato numerico: 150 omicidi nella sola area milanese, c’erano i morti per strada. Era quindi una mafia veramente a connotazione violenta. Passiamo al 2010, con l’indagine “Infinito-Crimine”. Una mafia ancora a connotazione violenta e quindi una serie numerosissima di episodi di estorsione, ma accanto alle estorsioni cominciamo a evidenziare numerose fattispecie di bancarotta fraudolenta, con imprese sostanzialmente infiltrate dalle famiglie calabresi e cannibalizzate… Nel 2010 – spiega il procuratore aggiunto – istituiamo il cosiddetto monitoraggio dei reati spia, ossia tutti quei reati come la busta con il proiettile recapitata all’amministratore pubblico o all’imprenditore, la ruspa che va a fuoco nel cantiere. Reati che segnalano la presenza delle organizzazioni mafiose. Anche qui dati numerici allarmanti: nell’arco di tre-quattro anni, nella sola provincia di Como, le segnalazioni ammontavano al numero di 462. Si trattava quindi di una mafia, soprattutto di stampo ‘ndranghetista, che si faceva sentire pesantemente sul territorio. Il monitoraggio peraltro ci serviva per dare una lettura aggregata di una serie di dati che altrimenti non avrebbero portato a soluzione investigative. Ve ne faccio un esempio: nella zona di Giussano e Seregno si sono verificati molteplici episodi di esplosione di colpi d’arma da fuoco in danno di locali pubblici, tipicamente di bar. L’idea che ci eravamo fatti era che vi fossero sottese richieste estorsive nei confronti dei negozianti, il cosiddetto “pizzo” nei confronti dei commercianti. Non era così, ce l’ho già spiegato perfettamente un collaboratore di giustizia, Antonino Belnome, il quale ci ha detto che al Nord la ‘ndrangheta non fa estorsioni a tappeto per la semplice ragione che delle vittime lombarde non si fida, perché sono capaci di andare a denunciare».

«La strategia è cambiata»

Ancora Dolci: «Quindi estorsioni sì, ma solo significative nell’ordine di centinaia di migliaia di euro in danno di imprenditori di origine calabrese. Le esplosioni dei colpi d’arma da fuoco in realtà avevano un movente diverso rispetto a quello estorsivo, cioè erano la mancanza di rispetto dei commercianti, e questo vi fa capire quanto sia pregnante la presenza della ‘ndrangheta in una parte del nostro territorio. In un caso il collaboratore ci ha spiegato che da anni andava con i suoi uomini in un bar senza pagare le consumazioni. Improvvisamente il titolare ha esibito loro lo scontrino e: “Questa, dottoressa, era una tagliata di faccia che non ci potevamo tenere, era una mancanza di rispetto nei miei confronti, quindi ho detto ai miei uomini di punire il titolare del bar facendo esplodere nottetempo una raffica di mitra contro le vetrine”. Questo non accadeva a San Luca, ad Africo, a Platì, accadeva a Giussano, provincia di Monza e Brianza. Stesse dinamiche per esempio – rileva Dolci – si sono presentate in un contesto un tempo particolarmente industrializzato, nel settore dei mobilifici, penso alla realtà di Cantù, una cittadina in provincia di Como di 50 mila abitanti. Anche in questo caso gruppi di giovani calabresi percuotevano senza motivo giovani locali negli esercizi pubblici del centro della città e anche in questo caso il movente era quello di aggiudicarsi i servizi di sicurezza di quei locali.  Vi ho fatto un brevissimo riassunto del quadro, dello stato dell’arte. È mutato. Pochissime segnalazioni dei reati spia provenienti dal nostro monitoraggio, si contano sulle dita di una mano. Dato degli omicidi: nel corso dell’indagine “Infinito-Crimine”, cinque dei miei indagati – credo che fossero qualche centinaio in tutto – oggetto di intercettazioni, sono stati vittima di omicidio, i cui autori peraltro sono stati disvelati grazie ai collaboratori di giustizia. Da allora nessuno omicidio di stampo mafioso, nessuno. Anche quello che abbiamo ipotizzato in epoca relativamente recente occorso a Corsico apparentemente non è riferibile a organizzazioni di stampo ‘ndranghetistico. Questo per dirvi che la strategia è cambiata».

I summit di ‘ndrangheta

Dolci prosegue nell’analisi davanti l’Antimafia: «Ancora sull’indagine “Infinito”, siamo stati bravi e fortunati, abbiamo monitorato 24 summit di ‘ndrangheta. Avete presente quei summit della iconografia classica in cui si ritrovano in circolo e pronunciano formule rituali? Generalmente si trovavano in locali pubblici che ovviamente la sera del summit erano chiusi, e facevano capo a soggetti calabresi. Li abbiamo videoregistrati. Ora summit di ‘ndrangheta zero. Che cosa ci dice un recente collaboratore? “Abbiamo imparato la lezione, quindi niente più riunioni, se proprio dobbiamo ancora trovarci secondo gli schemi classici, le facciamo nel corso di matrimoni e funerali perché lì la giustificazione ce l’abbiamo per trasmetterci le cosiddette ambasciate”. Non si parla più in macchina perché una parte delle conversazioni captate, che sono state alla base del processo, lo erano state a bordo di autoveicoli. I telefoni cellulari si lasciano a casa quando si deve parlare di cose importanti. Quindi una serie di strategie assolutamente elusive di attività investigative, ma soprattutto il diktat che, a parer mio, viene dalla Calabria è: ricorso alla violenza solo se e quando è estremamente necessario. Qui dovrei citare le parole di un indagato che in un’intercettazione appunto ha detto: “Siamo cattivi solo quando lo dobbiamo essere, quando è necessario, perché altrimenti noi siamo persone normali”. Tendono quindi a presentarsi come persone normali. Questo spiega perché non abbiamo più reati spia. Abbiamo invece bancarotte, bancarotte fiscali, bancarotte per distrazione, creazione di fittizi crediti d’imposta – con l’”eco bonus” potete immaginare, e anche con i vari decreti emessi a seguito dell’emergenza Covid – abbiamo intestazioni fittizie, abbiamo iscritto, credo ormai decine di fascicoli, per il 512-bis. Tutte queste imprese sono ovviamente intestate a prestanome, tant’è che, facendo una battuta, io spesso dico che esiste un albo nazionale dei prestanome tenuto in certi studi professionali».

Per Dolci dunque «si riscontra dunque una accentuazione della vocazione economica che si sposa con il bisogno di evasione fiscale di una certa parte della nostra imprenditoria lombarda, ahimè. Si incrociano da un lato interessi di organizzazione di stampo mafioso – il procuratore ha citato la ‘ndrangheta, ma anche Cosa nostra e la camorra – dall’altro abbiamo una imprenditoria “fuorilegge” che significa che è un’imprenditoria che non tende a rispettare le regole della libera concorrenza e a tenere comportamenti fiscalmente corretti. Questi interessi si incrociano e abbiamo quindi investigazioni che ci portano a disvelare una serie di fatti reato a connotazione prettamente economica. È un fenomeno che ci mette in difficoltà perché abbiamo imprenditori vittime che però diventano spesso conniventi e complici dei mafiosi, abbiamo imprese mafiose che sono imprese di servizi. Da un lato abbiamo questo imprenditore che sostanzialmente fiscalizza la prevaricazione e quindi riscontriamo tangenti coperte da fatture fittizie – pago ma abbatto il costo della mazzetta – e già questo porta l’imprenditore vittima a non avere un gran motivo di denunciare. Non solo, ma l’impresa mafiosa che mi ha imposto le sue prestazioni mi rende anche una serie di servizi, mi fornisce dei beni a basso costo, perché naturalmente l’impresa mafiosa non sostiene i costi della legalità: non paga le imposte, non paga i contributi previdenziali. L’impresa committente, tutto sommato, ragionando secondo logiche di convenienza, non è portata a denunciare la presenza dei mafiosi perché da un lato paga la tangente ma la fiscalizza e la scarica nei costi, dall’altro ha una serie di prestazioni a prezzi decisamente favorevoli e questo le consente magari di stare nella sua fetta di mercato in posizione di leader, creandosi quindi una posizione di vantaggio rispetto ad altri suoi Se voi riflettete su questo sistema, capite che il quadro generale porta ad affermare che sono violate le regole della libera concorrenza».

Il rischio infiltrazioni nel Pnrr e in Milano-Cortina

Dolci infine spiega che «altro tema su cui magari sarebbe opportuno un futuro confronto è quello dei controlli antimafia, tenuto conto delle emergenze rappresentate dal Pnrr e da Milano-Cortina, tema su cui in Procura abbiamo spesso riflettuto e che in buona parte non riguarda in realtà l’attività di contrasto. Faccio un’altra battuta, ovvero che, quale rappresentante di un organo della repressione, credo moltissimo nella prevenzione. Qui viene in gioco il ruolo delle prefetture, il ruolo della documentazione antimafia e tutta la disciplina che riguarda le white list, la prevenzione collaborativa, questo nuovo strumento nelle mani delle prefetture per sanare imprese che presentano un occasionale pericolo di infiltrazione. Faccio questa riflessione, che può essere anche considerata una provocazione. Siamo sicuri che questi controlli siano efficaci in concreto o siano soltanto controlli cartolari? Perché mai alcune delle imprese di cui ci siamo occupati nella indagine comasca erano beatamente nelle white list? È chiaro che il mafioso in questo momento difficilmente intesterà a sé medesimo piuttosto che ai propri prossimi congiunti le quote sociali. Come possiamo verificare che imprese mafiose non locupletino almeno una parte delle somme che saranno stanziate per il Pnrr o per Milano-Cortina? Rendendo efficaci i controlli. I controlli sulla carta lasciano il tempo che trovano, perché è tutto perfetto. Allora – conclude il procuratore aggiunto di Milano – occorrono controlli sul campo. Le prefetture hanno la possibilità, attraverso i gruppi di interforze, di accedere ai cantieri. Ma quanti accessi fa ciascuna prefettura? Non per cattiva volontà ma perché non hanno personale. Se vogliamo fare veramente un’azione di controllo efficace, rafforziamo gli organici delle prefetture, creiamo presso le prefetture delle professionalità». (c. a.)

CORRIERE DELLA CALABRIA 10.9.2023

 

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