25 settembre 1979, il giudice CESARE TERRANOVA, nel mirino dei corleonesi

 


Alle 8.30 del mattino, il 25 settembre 1979, Cesare Terranova, magistrato palermitano, viene ucciso alla guida della sua Fiat 131, a pochi passi dalla sua abitazione, in un agguato di mafia dove trova la morte anche il maresciallo Lenin Mancuso, addetto alla sicurezza e suo storico collaboratore.

 
 

Cesare Terranova nasce a Petralia Soprana, in provincia di Palermo, il 15 agosto 1921. Partecipa alle operazioni di guerracon la IV Compagnia del XII Battaglione Mitraglieri di Corpo d’Armata. Il 12 luglio 1943 viene catturato e tenuto prigioniero in Africa fino all’ottobre del 1945. Viene insignito della Croce al Merito di guerra.

Dopo la guerra completa gli studi in giurisprudenza. Si laurea il 12 marzo 1946 presso l’università di Messina, dove la famiglia si è trasferita essendo il padre Pretore in quella città. Nell’estratto di laurea compaiono ancora materie come diritto coloniale, diritto corporativo e storia e dottrina del fascismo.

Entra in magistratura nel 1946, ai sensi del Decreto legislativo luogotenenziale 30 aprile 1946 n. 352, previo positivo parere del Consiglio Giudiziario presso la Corte di appello di Messina.

Il 31 dicembre 1946 gli vengono conferite le funzioni giudiziarie. Viene inizialmente destinato alla Pretura di Messina “per il compimento di un congruo periodo di tirocinio” dove prende possesso il 3 marzo 1947 per poi essere trasferito alla Pretura di Rometta: assume le nuove funzioni di pretore il 12 agosto del 1947. A soli 26 anni, assume la reggenza dell’Ufficio; lo dirige per i successivi 5 anni, mettendo fin da subito in evidenza elevate doti umane e professionali.

Il Comune di Rometta il 13 aprile 1950, “per l’opera di risanamento e di giustizia, fecondata da un lavoro assiduo, tenace e diligente, che ha elevato il tono ed il Senso della Giustizia in tutto il Mandamento” gli conferisce la cittadinanza onorariasottolineando come, attraverso una “nobiltà di animo non comune” Cesare Terranova “in tre anni di permanenza nel comune si è accattivata la stima e l’affetto dell’intera cittadinanza”.

Nella delibera comunale può leggersi come Cesare Terranova: ”…venuto a Rometta a reggere le sorti di questo mandamento dopo una quasi decennale vacanza” […] “…ha fatto di tutto per far funzionare i servizi di Pretura, sollevando un pauroso lavoro arretrato che tornava a tutto danno della Pretura, compiendo il suo lavoro di Magistrato integro ed intelligente ” […] ”oggi può dirsi che la nostra pretura è una fra le migliori della circoscrizione giudiziaria della Corte di Appello di Messina, per attrezzatura tecnica, organico di dipendenti…” […] ”Merito esclusivo questo dell’avv. Cesare Terranova”.

Alla fine del mese di maggio del 1951 partecipa agli esami per la promozione ad aggiunto giudiziario. Nel rapporto redatto dai dirigenti del Tribunale di Messina e nel parere del Consiglio giudiziario, propedeutici all’ammissione all’esame, Cesare Terranova viene rappresentato come “magistrato intelligente operoso e volenteroso […] ha disimpegnato il suo compito con dignità e zelo […] Le sentenze che il dott. Terranova ha presentato dimostrano in lui ottima cultura giuridica, visione serena delle controversie e sicuro intuito dei principi da applicare…”. Viene nominato aggiunto giudiziario il 28 novembre 1951.

Il28 gennaio 1953 chiede di essere trasferito al Tribunale di Patti ed il 20 marzo 1953 viene immesso nelle funzioni di giudice presso il predetto Tribunale; vi presta servizio fino al dicembre del 1958. Per l’egregio lavoro svolto presso la Pretura di Rometta, il 28 marzo 1953 il Procuratore della Repubblica di Messina, testimoniando l’analogo compiacimento del Procuratore Generale, esprime un sentito elogio al dott. Terranova in considerazione anche del fatto che: “ la pendenza del lavoro penale di codesta Pretura, quale risulta dal prospetto del 15 corrente, ormai del tutto normale, offre la prova della diligenza, della capacità e dello spirito di sacrificio di V.S. che, pur in un paese montano (privo di ogni sociale conforto) – avendo assunto l’onere del servizio quando l’Ufficio era in condizioni molto precarie – ha tuttavia saputo portare al di sotto della stessa normalità il lavoro penale e ripristinare la sensazione della buona e rapida giustizia”.

Con deliberazione del 29 luglio 1954, il Consiglio giudiziario della Corte d’appello di Messina, riportando le lusinghiere espressioni contenute nel rapporto informativo redatto dal Procuratore della Repubblica e dal Presidente del Tribunale di Patti nei confronti di Cesare Terranova, ritenuto “magistrato dotato di eccellenti qualità, di ottima cultura generale, di buona preparazione tecnica…particolarmente versato nella materia penale per la quale ha particolari attitudini coltivate attraverso lo studio” esprime parere favorevole alla promozione del dott. Terranova a magistrato di Tribunale; promozione conseguita l’11 aprile 1955.

L’11 dicembre 1958 Cesare Terranova prende possesso delle nuove funzioni di Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo.  L’apprezzamento per il lavoro svolto nel periodo in cui prestava servizio presso la Corte d’appello di Messina è testimoniato in una nota del Presidente del Tribunale di Patti che, nel trasmettere il fascicolo personale del magistrato all’ufficio di ultima destinazione, precisa che: “…nel periodo in cui egli ha esplicato le sue funzioni in questo tribunale ha dato prova di possedere ottime qualità di magistrato, per capacità, preparazione, scrupolosità, operosità; e particolarmente distinguendosi per la grande dirittura morale e la dignitosa energia: doti queste che lo rendevano particolarmente stimato”.

Anche il Presidente della Corte d’assise di Messina, con nota di encomio del 15 ottobre 1959, esprime il proprio vivo compiacimento per il lavoro del dott. Terranova, “che ho avuto agio di molto apprezzare” in un procedimento per l’omicidio premeditato di un minore, che si presentava particolarmente difficile in quanto estremamente indiziario “per l’opera sagace e diligente del giudice istruttore dott. Cesare Terranova, alla quale si doveva in gran parte la possibilità che la giustizia avesse avuto ragione degli espedienti difensivi”.

A Palermo gli vengono affidati diversi e delicati processi per associazione a delinquere ed in particolare quelli di natura mafiosa. Il 19 giugno 1965 il Consiglio giudiziario presso la Corte di appello di Palermo, nell’esprimere il proprio favorevole parere in vista della partecipazione del dott. Terranova allo scrutinio indetto in quell’anno per la promozione a magistrato di Corte di appello, ricordando le rilevanti e complicate inchieste che lo stesso aveva condotto nei confronti di noti gruppi criminali mafiosi, sottolinea come “Assai difficili, come è noto, sono state le indagini, di varia natura, che il dr. Terranova ha dovuto svolgere in tali processi per acquisire le prove ed egli, con lodevole impegno, vi ha dedicato tutta la sua più fervorosa attività, facendo brillare le sue doti di capacissimo istruttore”. Anche i dati statistici citati nel ridetto parere testimoniano l’altissima professionalità del magistrato: nel quinquennio 1960-1964 il dott. Terranova aveva redatto complessivamente 931 sentenze penali istruttorie ed espletato in totale 207 rogatorie. Il medesimo Consiglio giudiziario, con successiva deliberazione favorevole alla nomina del dott. Terranova a magistrato di Corte di appello, il 13 febbraio 1967 sottolinea come il magistrato, “…si è occupato anche dell’istruzione dei processi relativi alle note associazioni per delinquere di natura mafiosa, contro La Barbera Angelo ed altri 41 (nel quale sono stati complessivamente escussi oltre 400 testi ed eseguiti 57 interrogatori di imputati) contro Torretta Pietro + 120 (nel quale sono stati in totale escussi circa 800 testi e parti offese ed eseguiti oltre 150 interrogatori di imputati) e contro Leggio Luciano ed altri 114 le cui istruttorie sono state particolarmente laboriose e complesse, oltre che per il numero degli imputati, in maggior parte detenuti, per quello rilevante dei testi e delle parti offese escussi nonché per i gravi delitti per i quali si procede”. Alla già rilevante produzione giurisprudenziale fatta registrare dal magistrato nel precedente quinquennio si aggiungono le 293 sentenze penali istruttorie e le 107 rogatorie espletate nel biennio 1965-1966. Nella lettura della composizione di quel Consiglio giudiziario, non sfugge il nome del dott. Pietro Scaglione, Procuratore della repubblica di Palermo brutalmente assassinato il 5 maggio 1971.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, con provvedimento del 9 gennaio 1968 delibera la promozione del dott. Cesare Terranova a magistrato di Corte di appello.

Nel 1968 Cesare Terranova chiede il passaggio alle funzioni requirenti e propone istanza per essere destinato ad un Ufficio del Pubblico Ministero indicando i posti Sostituto procuratore generale presso la Procura Generale di Palermo, Sostituto procuratore generale presso la Procura Generale di Caltanisetta e Procuratore della Repubblica di Marsala. 

Viene nominato il 5 febbraio 1971 Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala dove prende possesso il 14 giugno 1971.

Per l’attività esercitata come Giudice Istruttore a Palermo il 12 giugno 1971 riceve l’elogio del dirigente dell’Ufficio Istruzione “…per l’alta qualità del lavoro svolto e per la fermezza e dignità costantemente manifestate…” e la testimonianza di profonda stima del Presidente del Tribunale di Palermo che, con nota di elogio del 6 luglio 1971, ricorda come “ Numerosi, gravi e complessi processi sono stati istruiti dalla S.V. con notevole capacità, vivo senso di responsabilità e di sacrificio eccezionale coraggio e non comune zelo…”.

Ricopre le nuove funzioni requirenti per circa un anno: il 7 marzo 1972, a sua richiesta, viene collocato fuori ruolo in aspettativa per mandato parlamentare; è eletto deputato il 25 maggio 1972.

Nel febbraio 1974 Cesare Terranova chiede di essere valutato ai fini della promozione a magistrato di Corte di cassazione. Il Consiglio Giudiziario di Palermo esprime, il 2 luglio 1974, parere favorevole alla nomina, evidenziando tra l’altro che: “…nel breve periodo di tempo […] in cui ha esercitato le funzioni di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, il dottor Terranova […] ha confermato le sue ottime doti di laboriosità, diligenza, cultura e capacità dirigendo l’ufficio con notevole impegno e con apprezzabili risultati”. Anche le risultanze statistiche per il periodo in valutazione (dal 1967 al 1973) restituiscono l’immagine di un magistrato di operosità e produttività fuori dal comune.

Il Consiglio Superiore della Magistratura con delibera del 19 febbraio 1975 nomina il dott. Cesare Terranova magistrato di Corte di cassazione

Cesare Terranova esercita il mandato parlamentare fino alla metà del 1979; con provvedimento del 10 luglio 1979, il Consiglio Superiore della Magistratura delibera il rientro in servizio del dott. Terranova (a decorrere dal  20 giugno 1979) e la destinazione del medesimo alla Corte di appello di Palermo. Come evincibile dalla domanda presentata dal magistrato il 12 giugno 1979 e dalla proposta annotata sulla copertina del fascicolo relativo alla pratica di richiamo in ruolo  (“Si propone  la destinazione alla Corte di appello di Palermo come consigliere, riservandosi di valutare l’istanza per cons. dirig. Uff. istruz. presso il Trib. di Palermo a seguito della pubblicazione della relativa vacanza” ) il posto cui Cesare Terranova auspicava era quello di Consiliere dirigente dell’ Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, come dallo stesso nuovamente richiesto con domanda del 12 luglio 1979.

Il 26 settembre 1979 verrà ucciso a poca distanza dalla sua abitazione di Via Rutelli, a Palermo.

L’impegno antimafia nelle aule giudiziarie e nelle aule parlamentari La carriera giudiziaria di Cesare Terranova è stata scandita da grandi inchieste e processi alle “vecchie” cosche degli anni sessanta, che gli hanno consentito di acquisire un’ampia e approfondita conoscenza del fenomeno mafioso. Le indagini condotte durante la Prima guerra di mafia avevano portato al rinvio a giudizio di numerosi esponenti di diverse famiglie mafiose. Il magistrato aveva, in particolare, ricostruito l’ascesa delle famiglie dei Torretta, dei La Barbera e del clan dei Greco, opposto a quest’ultima.

Terranova seppe cogliere le metamorfosi che la mafia stava subendo nel suo divenire da agricola a imprenditrice, sia per i nuovi interessi verso cui volgeva la propria azione (conquistando privilegi, commesse e licenze edilizie), sia per l’evoluzione che la struttura della stessa andava assumendo.

La profonda conoscenza del fenomeno mafioso e del tessuto sociale in cui lo stesso operava, di cui il magistrato era divenuto depositario grazie al proprio lavoro, lo avrebbe portato, il 22 aprile del 1964, ad essere audito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della mafia in Sicilia. La lettura della trascrizione di tale audizione restituisce la figura di un magistrato attento, scrupoloso e consapevole della forza, della pericolosità e, soprattutto, dell’espansione dell’organizzazione mafiosa nel capoluogo siciliano.

Terranova comprese l’intreccio di interessi, anche politici, finalizzati alla speculazione sulle aree fabbricabili di Palermo, descrivendo le modalità operative con cui agiva l’organizzazione mafiosa e sottolineando che “quasi tutte le attività, in breve, sono controllate da mafiosi” e che “il costruttore mafioso non ha mai la licenza a nome suo […] perché agisce attraverso intimidazione o prestanome“. In particolare, con riferimento ai rapporti della mafia con ambienti istituzionali, Terranova, senza mai volersi allontanare dalle risultanze processuali, osservava che “non c’è dubbio che il mafioso è portato ad appoggiarsi al politico, anzi una delle forze del mafioso consiste in questo appoggiarsi al potere costituito”.

Nelle dichiarazioni rese durante la menzionata audizione dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della mafia in Sicilia, il magistrato sottolineava l’importanza del lavoro della Commissione. In primo luogo, Terranova aveva la lucida visione dell’importanza dell’organo parlamentare in funzione propulsiva per il legislatore (“L’opinione pubblica si aspetta – adesso lo dico come cittadino – non molto ma moltissimo dalla Commissione), ritenendo egli necessarie “leggi adeguate” e “Forze di polizia potenziate ed incoraggiate dall’appoggio dei Pubblici poteri” quali strumenti indispensabili nella lotta contro le mafie (“In sostanza il Magistrato si occupa dei processi e basta, anche se, come nel mio caso, gli capita di procedere contro 150 o forse 200 mafiosi; ma il mio compito è limitato a quei determinati processi, mentre l’opera della Commissione investe la situazione anche nel tempo, data anche la possibilità di proporre i rimedi più efficaci e idonei”). Inoltre, egli evidenziava la rilevanza dell’operato della Commissione anche in termini di esempio per la collettività e contrasto, quindi, a quei comportamenti omertosi che derivano dalla “scarsa fiducia che il cittadino ha nei Pubblici poteri” e che rappresentano ulteriore punto di forza della “politica” criminale dell’organizzazione mafiosa.

Cesare Terranova aveva inoltre compreso e intuito la potenza militare e la forza di espansione delle famiglie mafiose di Corleone.

Infatti, nella seconda metà degli anni Sessanta, indagando su diversi fatti di sangue avvenuti tra il 1958 e il 1963, come Giudice Istruttore ricostruisce, con dovizia di particolari, l’ascesa del gruppo di Corleone guidato da Luciano Leggio che vedeva, tra i propri gregari, criminali come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. 

Nella sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio nei confronti di Luciano Leggio, firmata il 14 agosto del 1965, Cesare Terranova mette chiaramente in luce tutte le componenti e le caratteristiche dell’organizzazione criminale e gli elementi psicologico-coercitivi utilizzati per rimarcare la posizione della mafia quale interlocutore centrale nel tessuto economico e sociale del territorio: “… si continua a parlare di vecchia e nuova mafia, per attribuire alla prima una funzione addirittura di equilibrio o comunque positiva nella società al posto o ad integrazione dei poteri carenti dello Stato, alla seconda invece i caratteri di una delinquenza priva di scrupoli, spietata e sanguinaria. E si arriva a parlare perfino di mafia “buona” in contrapposizione con la mafia “cattiva” come di un fenomeno di costume da guardare con indulgenza e comprensione, e da non confondere con la delinquenza, di un fenomeno del quale si debba essere fieri come di un privilegio non diviso con altri“.

Ma, per Terranova, “Bisogna guardare al fenomeno per quello che è nelle sue attuali manifestazioni: una aberrante forma di delinquenza organizzata, particolarmente pericolosa e dannosa per le sue capillari infiltrazioni nella vita pubblica ed economica, per le ricorrenti esplosioni di sanguinosa violenza, per la oppressione soffocante esercitata nei più disperati ambienti e settori, delinquenza organizzata che in un piccolo centro come Corleone ad economia prevalentemente agricola può arrivare a condizionare e a controllare tutte le attività della comunità”.

La mafia, secondo il Giudice Istruttore, “non è concetto astratto ma è criminalità organizzata efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o ‘famiglie’ o meglio ancora ‘cosche’ che sono automaticamente attive ed operanti, per il fatto stesso della loro esistenza, diretta alla realizzazione di un programma delittuoso […] L’associazione per delinquere quando si chiama mafia, costituisce, oltretutto, una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un vero potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica ed economica sono solo in minima parte documentate dalle risultanze processuali“.

Da profondo conoscitore del fenomeno criminale mafioso evidenzia come: “Al fenomeno mafia si accompagna sistematicamente quello dell’omertà, che è l’atteggiamento di ermetica reticenza assunto da tutti coloro i quali, come persone offese o testi, sono implicati in processi per reati mafiosi. […] Un muro di impenetrabile silenzio fatto di paura o di connivenza si oppone sistematicamente alle indagini giudiziarie, che nonostante l’impegno con cui possono essere condotte, finiscono fatalmente per concludersi con l’equivoca formula della assoluzione per insufficienza di prove, di cui la Sicilia detiene un non invidiabile primato. L’omertà è uno dei più solidi pilastri della mafia, perché la forza maggiore del mafioso consiste proprio nella consapevolezza che le sue vittime non oseranno denunziarlo…” […]  “consiste in altri termini in quella che può definirsi la “certezza dell’impunita”…“(Sentenza-ordinanza del G.I. dott. Cesare Terranova del 14 agosto 1965 pagg. 19-22)

Le assoluzioni che verranno pronunciate, dopo il trasferimento per legittima suspicione presso il Tribunale di Bari, testimoniano, come preannunciato anche dal Giudice Terranova, la difficoltà che all’epoca si riscontrava di riconoscere la mafia come organizzazione strutturata e organica la cui azione è diretta ad un unitario disegno criminoso. 

Forte del bagaglio acquisito attraverso il lavoro giudiziario nella lotta alla mafia e consapevole

dell’importanza e della maggiore incisività di un contrasto esercitato attraverso l’azione parlamentare, nel 1972 Cesare Terranova si candida alle elezioni politiche nazionali. Viene eletto deputato il 25 maggio 1972 come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano.

Esercita il mandato parlamentare nella VI e VII legislatura, sedendo tra le fila del gruppo misto e ricoprendo diversi incarichi, tra i quali quello di membro della Commissione Giustizia e della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia (per il dettaglio dell’attività parlamentare svolta dal dott. Cesare Terranova può essere consultato il Portale storico della Camera dei Deputati, raggiungibile attraverso il seguente link )

Nell’impegno profuso in seno alla Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia è possibile ritrovare i tratti più rappresentativi della figura di Cesare Terranova e del suo valore morale e professionale. Nei suoi interventi il magistrato appare sempre profondamente critico nei confronti dei lavori della Commissione e, in particolare, per il modo di interpretare il focus dell’azione della stessa che, secondo Terranova, avrebbe dovuto essere indirizzato non tanto all’approfondimento storico o all’analisi astratta del fenomeno mafioso o alla diffusione di alcuni risultati in chiave propagandistica, ma alla formulazione di concrete ed adeguate proposte finalizzate a creare strumenti di contrasto all’organizzazione.

Terranova evidenzia tale necessità nel documento presentato per la riforma del sistema allora vigente delle misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose“E’ noto a tutti, quali e quante critiche siano state mosse alla Commissione parlamentare per la lentezza dei suoi lavori, per il metodo seguito in questi lavori, per la riservatezza di cui si è circondata, per la scarsezza di adeguate informazioni e notizie sui risultati conseguiti e, soprattutto, per la mancanza di tali risultati, almeno nella misura e maniera in cui erano attesi dalla pubblica opinione. E’ innegabile che molte di queste critiche sono fondate, ed in notevole grado, e che molte aspettative sono andate deluse. Mi riferisco alle aspettative di coloro che dalla Commissione si attendevano un lavoro rapido, sollecito e approfondito e delle conclusioni incisive sul fenomeno mafioso, e non certamente alle aspettative di coloro che dalla Commissione si attendevano, invece, la scoperta e la denunzia degli autori dei più impressionanti crimini mafiosi commessi negli ultimi anni, come pure una accusa precisa e circostanziata nei confronti di quei personaggi della vita pubblica siciliana i cui nomi spesso sono stati fatti in relazione a vicende o intrighi mafiosi, a volte indicati come protettori o addirittura come complici di caporioni mafiosi”.

Nella suddetta proposta Terranova auspicava, inoltre, la creazione di una Commissione parlamentare di vigilanza contro il crimine organizzato, dotata di autonomia funzionale e regolamentare, costituita anche per infondere, nella pubblica opinione, la certezza della presenza dello Stato e delle Istituzioni nella lotta contro il crimine organizzato. Il merito che il magistrato riconosceva, infatti, alla Commissione parlamentare d’inchiesta era quello “di aver costituito un freno alle attività mafiose ed uno stimolo agli organi impegnati nella lotta diretta contro la mafia”.

Le critiche più dure del magistrato nei confronti della Commissione parlamentare d’inchiesta si possono cogliere nell’intervento del 16 luglio 1975 sullo schema di Relazione conclusiva dei lavori della Commissione stessa. Cesare Terranova sarà, infatti, tra i redattori, insieme all’onorevole Pio La Torre, della Relazione di minoranza, datata 4 febbraio 1976, sottoscritta anche dai deputati Benedetti e Malagugin e dai senatori Adamoli, Chiaromonte, Lugnano e Maffioletti.

Tale Relazione si porrà in netto contrasto con l’impianto della Relazione di maggioranza, ritenuta priva, secondo i firmatari, di un tema centrale per la comprensione del fenomeno mafioso: il rapporto di compenetrazione tra il sistema di potere mafioso e l’apparato statuale-politico, come aveva avuto modo di anticipare lo stesso Terranova nel citato intervento del 16 luglio 1975 (“l’esigenza di fare presto non deve fare passare in seconda linea la necessità di formare un documento approfondito sul problema della mafia, specialmente in ordine a quello che ne costituisce l’aspetto caratterizzante, che è il rapporto mafia-pubblici poteri”).

Nel medesimo intervento Terranova vuole inoltre rimarcare che, se può essere considerato “risultato certamente positivo[quello] di aver dato un ampio contributo all’arricchimento del materiale di studio sulla mafia e di aver sollecitato l’attenzione di tutta la opinione pubblica su questa piaga della Sicilia”, non può invece esserlo quello “di aver contribuito alla deformazione ed all’inquinamento del concetto di «mafia» per cui oggi molto spesso questa etichetta viene con facilità assegnata a fenomeni di corruzione, di malcostume, di violenza che […] non hanno nulla da vedere con la mafia vera e propria, cosicché vengono a crearsi confusioni ed annacquamenti che si risolvono unicamente a vantaggio dei mafiosi”, perché, come era solito ammonire l’amico e collega parlamentare, Leonardo Sciascia “… se tutto è mafia niente è mafia …” e per non ricadere, come sottolineato dal giudice Terranova nel suo intervento, “… nel vecchio errore di adombrare una concezione razzista della mafia, quasicché la mafia esiste in Sicilia perché esistono i siciliani”.

Dalla lettura del documento è possibile comprendere la profonda e non comune preparazione e conoscenza della mafia da parte di Cesare Terranova, che gli ha consentito una semplicità di analisi e codifica dei complessi fenomeni dell’organizzazione criminale: “la mafia continua ad esistere come esisteva in passato; ha subito semplicemente un processo di trasformazione ed adeguamento alle mutate condizioni economiche e sociali […] si sono rinnovati capi e gregari però sotto il profilo di organizzazione

criminale con scopi di illecito lucro, da realizzare mediante la intimidazione e la violenza, con la tendenza ad inserirsi con funzioni parassitarie nelle strutture della società e ad avvalersi di complicità, connivenze e protezioni nei diversi settori della vita pubblica, la mafia è sempre quella…”. (Il testo dell’intervento e di alcune interessanti interviste e documenti riferibili al magistrato sono state raccolte in un volume dedicato alla memoria di Cesare Terranova pubblicato nel 1982 sotto il patrocinio dei comuni di Castellana Sicula, Petralia Soprana, Petralia Sottana, Polizzi e Scillato, con la prefazione di Leonardo Sciascia)

Nell’intervento pronunciato in Aula il 15 gennaio del 1976 in sede di approvazione delle Relazioni finali della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Cesare Terranova non manca di evidenziare che “… per una Commissione d’inchiesta, non si può non riconoscere che essa ha avuto vita eccessivamente lunga e sicuramente sproporzionata rispetto ai risultati conseguiti. Ed il fatto che il prestigio e la credibilità della Commissione siano venuti meno presso l’opinione pubblica (fatto obiettivamente incontestabile anche se interpretabile in varie maniere) appare dovuto proprio, o quanto meno in larga misura, alla lunga durata della Commissione, non giustificata dagli effetti realizzati”,  e non si esime dal rimarcare che “… la conseguenza più singolare è che, oggi, la Commissione si accinge ad esprimere un giudizio su un fenomeno i cui aspetti e le cui manifestazioni oggi sono diversi da tredici anni fa …”.

Terranova sottolinea inoltre che “il freno, che per un certo periodo di tempo fu indubbiamente esercitato dalla Commissione, oggi non esiste più, perché il mafioso si è reso perfettamente conto dei limiti della Commissione e non ha alcuna preoccupazione per eventuali interventi che sino ad oggi sono rimasti allo stato di mere ipotesi. Inoltre, certi nodi, certi confusi e loschi grovigli, certi rapporti sono stati appena sfiorati dall’opera della Commissione, pur rappresentando essi l’essenza della mafia, l’elemento fondante che vale a differenziare la mafia da ogni altro tipo di delinquenza associata”.

E, come già anticipato nell’intervento svolto sullo schema di Relazione finale del luglio 1975, in merito alle carenze che, a parere del magistrato, erano da attribuire alla Relazione di maggioranza, Terranova dichiara che “vi è un punto sul quale devo esprimere il mio dissenso ed è il punto attinente al delicato rapporto mafia-politica o, meglio ancora, mafia-potere. Questo punto, a mio avviso, non è stato adeguatamente trattato e sviluppato, o, meglio ancora, lo è stato forse in maniera tale da fornire un quadro che, secondo me e per l’esperienza acquisita in passato, non corrisponde perfettamente alla realtà delle cose”.

Il magistrato, citando alcuni esempi relativi alla speculazione edilizia di cui era stata oggetto la città di Palermo, ammoniva la Commissione sul fatto che “…sarebbe stato meglio occuparsi dell’ambiente…” invece che dei costruttori protagonisti di quella speculazione, perché, senza volerne “assumere la veste di difensore”, secondo Terranova questi, su cui forse troppo si era concentrata l’attenzione, sono in realtà, “…il prodotto di un certo modo di gestire il potere, per cui occorrono personaggi come lui, mentre altri vanno accantonati o messi in disparte; la sua crescita e la sua posizione diventano comprensibili soltanto in relazione a coloro che lo hanno portato avanti come strumento delle loro sfrenate ambizioni, delle loro mire, mediante un modo di operare al quale ben si adatta la definizione di mafioso. E intendo riferirmi a uomini che oggi siedono ai banchi del Governo della Repubblica e che sono preposti ad alte cariche nella Pubblica amministrazione […] uomini che per anni e anni hanno condizionato la vita di una grande città come Palermo […] come una piovra si sono inseriti in tutte le attività, controllando tutto e tutti […] attraverso la speculazione edilizia che ha dato a Palermo l’aspetto grigio e soffocante di un moderno termitaio, vi era la possibilità di soddisfare le esigenze richieste e di una pletora di alleati e sostenitori, molti dei quali appartenenti, senza possibilità di equivoci o di dubbi, al mondo della mafia”.

Nella Relazione di minoranza è possibile cogliere alcune delle premesse della proposta di legge sul reato di associazione mafiosa che verrà approvata soltanto il 13 settembre 1982 (meglio nota col nome di Legge “Rognoni- La Torre”); una vera e propria pietra miliare nel panorama legislativo antimafia italiano (l’elenco completo degli atti  e dei documenti allegati, resi pubblici dalla Commissione parlamentare d’inchiesta – tra i quali merita menzione la relazione redatta nel 1963 dal Comandante della polizia giudiziaria di Corleone, Vincenzo Vignali, e depositata agli atti della Commissione dallo stesso On. Terranova, strumento di estremo interesse per la conoscenza dell’evoluzione della mafia in Sicilia – sono disponibili sul portale dell’Archivio storico del Senato della Repubblica raggiungibile attraverso il seguente link )

Il rientro in magistratura. Palermo 1979 Alla fine del secondo mandato parlamentare, Cesare Terranova non presenta la propria candidatura alle elezioni politiche del giugno del 1979: chiede, invece, di rientrare in magistratura e di ritornare ad esercitare la sua funzione di magistrato a Palermo. Il 10 luglio 1979 il Consiglio Superiore della Magistratura nomina Cesare Terranova Consigliere di Corte d’appello a Palermo. Il magistrato, nella sua richiesta di rientro in ruolo, aveva chiesto di essere destinato al posto di Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Incarico che avrebbe, probabilmente, presto ricoperto. Il 1979 si era aperto con gli omicidi del giornalista Mario Francese e del segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina e, a luglio dello stesso anno, era stato assassinato il Commissario Boris Giuliano. Il rientro in magistratura di Cesare Terranova faceva seguito alla intensa attività dello stesso, contraddistinta da iniziative adottate contro la mafia in qualità di componente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Terranova aveva riunito due profonde competenze: quella di magistrato e quella di Commissario parlamentare antimafia. Era forse l’unico che avesse seguito, dall’inizio, l’ascesa dei corleonesi: conosceva la loro storia e la loro “psicologia”. Purtroppo Cesare Terranova, a Palermo, resta in servizio poco più di tre settimane.

Il 25 settembre, intorno alle ore 8 del mattino, il magistrato esce dalla propria abitazione di Via Rutelli per recarsi in ufficio. Ad attenderlo il maresciallo Lenin Mancuso, da più di venti anni addetto alla sicurezza personale del magistrato.

Cesare Terranova si mette alla guida della sua Fiat 131, al suo fianco siede il maresciallo Mancuso. Percorsi alcuni metri in retromarcia l’auto viene avvicinata da alcuni uomini e raggiunta da una trentina di colpi esplosi da diverse armi: sul luogo verranno, infatti, rinvenuti bossoli calibro 38, 357 Magnum e quelli di una carabina 7,62 Winchester.

Cesare Terranova muore sul colpo, il maresciallo Lenin Mancuso nel percorso verso l’ospedale.

Terranova e Mancuso vengono uccisi nel centro di Palermo, in quello stesso chilometro quadrato in cui cadranno per mano mafiosa anche Piersanti Mattarella, Boris Giuliano, Rocco Chinnici e Ninni Cassarà.

Nell’Assemblea plenaria del Consiglio Superiore della Magistratura tenutasi il 26 settembre 1979 il Vicepresidente Vittorio Bachelet, esprimendo “dolore e sdegno” per l’omicidio del magistrato condivide un commosso messaggio del Presidente Sandro Pertini, scosso per la morte del “caro amico e collega” ed impossibilitato a partecipare ai lavori del plenum, messaggio nel quale il Capo dello Stato sottolinea come “Vi sarebbe motivo di scoramento di fronte a questa aggressione incessante e sanguinosa – che ha scelto come obiettivo primario i magistrati – se le stesse figure delle vittime, le cui vite di assoluta dedizione al dovere sono conosciute dal nostro popolo solo nel momento del sacrificio supremo, non costituissero di per sé garanzia e certezza della capacità del nostro ordinamento democratico di resistere agli assalti di qualsiasi tipo di criminalità.” esprimendo la propria solidarietà “…anche a tutti i magistrati che, giorno per giorno, tra immense difficoltà, pericoli ed incomprensioni, assolvono al loro compito di amministratori di giustizia con fermezza e coraggio”.

Nel 2018, alla memoria del magistrato verrà intitolata la strada di Corleone (via Scorsone) dove sorge la casa dei Riina.

 

 

Le tappe della vicenda processuale relativa all’omicidio del dott. Cesare Terranova  L’attenzione degli inquirenti viene immediatamente indirizzata nei confronti di Luciano Leggio: lo stesso era stato più volte inquisito e processato dal giudice Terranova (ed uno di quei procedimenti si era concluso con la condanna di Leggio) ed indicato responsabile in virtù di alcune “confidenze” fatte agli organi inquirenti alcuni anni prima da Giuseppe di Cristina capo della famiglia mafiosa di Riesi. Giuseppe Di Cristina sfuggito nel novembre del 1977 ad un agguato, ed in aperto contrasto all’interno della Commissione provinciale con il gruppo dei corleonesi, confidava ai carabinieri – con i quali era “costretto” ad incontrarsi almeno due volte la settimana per osservare gli obblighi imposti dalla misura di prevenzione della sorveglianza speciale della p.s. – dell’esistenza di un piano per far evadere Luciano Leggio dal carcere di Fossombrone e che la “cosca Liggio“ aveva deciso di uccidere il giudice Terranova.

La moglie del magistrato, Giovanna Giaconia, nell’immediatezza dell’omicidio, riferisce agli inquirenti due episodi narrati dal giudice a comprova dell’odio nutrito da Luciano Leggio nei suoi confronti. Il primo era relativo ad un interrogatorio avvenuto nel 1964 nel carcere dell’Ucciardone. In quell’occasione Leggio, asserendo di essere malato, aveva chiesto che l’interrogatorio si svolgesse in infermeria, ma il giudice, accertata la pretestuosità della malattia, lo aveva fatto portare in barella nella sala interrogatori del carcere. Leggio, ritenendo tale atto gravemente oltraggioso ed offensivo, si era rifiutato di fornire le proprie generalità al magistrato che, allora, aveva detto al cancelliere che poteva mettere a verbale che il Leggio non conosceva di chi fosse figlio. L’altro episodio riguardava l’audizione di Luciano Leggio che anni dopo fu svolta nel carcere di Parma dalla Commissione di inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia. In quell’occasione Terranova riferì che per tutto il tempo dell’audizione Leggio aveva rivolto uno sguardo carico d’odio nei confronti del magistrato.

Il primo processo per l’omicidio del giudice Terranova e del maresciallo Lenin Mancuso viene istruito a Reggio Calabria nel 1982, dove era stato rimesso per competenza dalla Corte di cassazione. Luciano Leggio é l’unico imputato quale mandante del duplice omicidio.

Il 2 febbraio 1983 la Corte d’Assise di Reggio Calabria assolve l’imputato per insufficienza di prove. Il provvedimento di primo grado viene confermato con sentenza della Corte di assise di appello di Reggio Calabria il 21 luglio 1986. La pronuncia, gravata di ricorso in Cassazione, diviene definitiva il 10 maggio 1988, in seguito al rigetto dei ricorsi da parte del Supremo Collegio.

Un secondo procedimento per l’omicidio di Cesare Terranova viene avviato nei confronti di Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò e altri membri della Commissione provinciale, in seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta raccolte da Giovanni Falcone. Questi, nel luglio del 1984 dichiarerà, tra l’altro, che Cesare Terranova era “stato ucciso su mandato di Luciano Liggio”.

Con sentenza del Giudice Istruttore di Reggio Calabria del 23 ottobre 1989, modificata relativamente alla formula, dalla Corte di appello di Reggio Calabria il 28 giugno 1990 tutti gli imputati venivano prosciolti dall’imputazione di aver “prestato il proprio necessario assenso preventivo così come richiesto dalla prassi mafiosa, a che Luciano Liggio facesse eseguire ai sui sicari, non ancora identificati, l’assassinio del magistrato Cesare Terranova”.

In seguito a nuove prove, acquisite attraverso le dichiarazioni di Gaspare Mutolo e di Francesco Di Carlo, il Pubblico Ministero il 18 febbraio 1997 chiedeva al Gip del Tribunale di Reggio Calabria di revocare il proscioglimento di Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Francesco Madonia, e Giuseppe Calò. Con ordinanza del 20 luglio 1997 il Gup di Reggio Calabria revocava il disposto proscioglimento e con sentenza del 17 marzo 2000 la Corte di assise di Reggio Calabria dichiarava gli imputati colpevoli del reato ascritto e li condannava alla pena dell’ergastolo. La sentenza di primo grado veniva confermata il 13 dicembre 2001 dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria e diveniva definitiva il 7 ottobre 2004 in seguito alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi da parte della Corte di cassazione.   CSM

 

Lenin Mancuso (Rota Greca, 6 novembre1922 – Palermo, 25 settembre1979) è stato un Poliziotto, vittima innocente di Cosa Nostra.Il giorno de Era maresciallo della Polizia, assegnato alla scorta del Giudice istruttore del Tribunale di Palermo, Cesare Terranova. Oltre ad occuparsi della scorta fu anche stretto collaboratore di Terranova, partecipando attivamente alle indagini.  Le indagini del giudice Terranova erano indirizzate in particolare verso la famiglia mafiosa dei Corleonesi, fu tra i primi a coglierne la pericolosità e le mire espansive. Furono queste indagini a decretare la sua morte.

Il 25 settembre 1979 verso le ore 8:30, una macchina di scorta arrivò sotto casa del giudice per portarlo al lavoro. Terranova si mise alla guida mentre Lenin Mancuso sedeva accanto a lui. L’auto imboccò una strada secondaria, trovandola chiusa per lavori in corso. In quel momento da un angolo sbucarono alcuni killer che aprirono ripetutamente il fuoco contro l’auto del giudice. Mancuso, in un estremo tentativo di reazione, impugnò l’arma di ordinanza, ma entrambi furono raggiunti dai proiettili in varie parti del corpo.

Lenin Mancuso morì dopo alcune ore di agonia in ospedale.


CESARE TERRANOVA  Già procuratore d’accusa al processo contro la cosca di Corleone (1969). Procuratore della Repubblica a Marsala. Ha seguito i processi più importanti degli anni 60 (Tommaso Natale, la famiglia Rimi, i fratelli La Barbera, la strage di viale Lazio, Michele Vinci etc.) ma è noto soprattutto per aver condannato all’ergastolo Luciano Ligio, la Primula rossa. Per due legislature è stato componente della commissione antimafia. Eletto nelle liste del Pci.

• All’età di 25 anni, vinto il concorso, entrò in magistratura. Le prime funzioni giudiziarie gli furono conferite il 30 aprile del 1946. Dopo 11 anni, nel 1964, fu nominato magistrato di corte d’appello. Durante la sua carriera fu anche pretore a Messina, Rometta, fu giudice nel tribunale di Patti (Messina) e quindi a Palermo. [Sta.Se 25/9/1979; Sta. 26/9/1979]

• Nel 1969 portò alla sbarra 111 corleonesi nel primo vero processo alla mafia tenutosi a Bari. Ma poi furono quasi tutti assolti ma molti di loro furono uccisi poco dopo la sentenza.

• «Fu il primo magistrato a mettere per iscritto nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio del 10 dicembre 1969, che gli amministratori comunali di allora rappresentavano in centro propulsore della nuova mafia» (Saverio Lodato). La strage aveva visto morire il capomafia Michele Cavataio trafitto da 200 colpi di pistola (nel 2009 Riina e Provenzano verranno condannati all’ergastolo per la strage di viale Lazio).

• Nel 1971 è procuratore della Repubblica a Marsala. Per i suoi meriti, ma anche perché a Palermo rischia troppo la vita. Dal 1963 il ministero gli ha assegnato un autista che poi è una guardia del corpo per proteggerlo, il brigadiere cosentino Lenin Mancuso. «Mancuso, avremo finalmente un po’ di pace» dice al devoto brigadiere appena insediato a Marsala. Quattro mesi così, di tranquillità. Poi, il delitto di Marsala, quello in cui erano state rapite tre bambine. Luciano Currino sulla Stampa: «In quelle tre settimane di indagini non gli riuscì di dormire più di tre, quattro ore per notte. Fumava molte sigarette accendendole con fiammiferi da cucina, e la cosa ci colpiva perché l’uomo era elegante, perfino raffinato. Ma colpiva soprattutto la sua calma e sicurezza. Per tre settimane, ogni mattina, andavamo da lui, al Palazzo di Giustizia, per avere notizie. Ci diceva: “Non mettiamo un limite al tempo, l’assassino lo prenderemo. Ma lo vogliamo prendere senza compiere la più piccola illegalità… Alla parete dietro la sua scrivania erano appesi ricordini mortuari di capimafia; un allucinante quadro dipinto da un ergastolano; una truculenta copertina di Der Spiegel; un fantasma nero che incombe sulla Sicilia, l’orlo del suo tabarro diventa tentacoli di piovra che stringono l’Isola. Continueremo finché la partita non sarà chiusa”. E la chiuse» [Sta 26/9/1079].

• È stato il principale accusatore di Luciano Liggio (che già era sfuggito alla prigione proprio nel processo di Bari e nel 1975, dopo il suo arresto a Milano, riuscì a condannarlo all’ergastolo per l’omicidio di Michele Navarra.

• Commissario antimafia per sette anni a Roma, tornò a Palermo nel settembre del 1979 e fece domanda per dirigere l’ufficio istruzione: «Lo so, mi possono ammazzare. Liggio ce l’ha con me: è una vecchia storia, risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene il responsabile della sua fine e non mela perdona» (così era solito ripetere il giudice Terranova).

• Alle 8.35 di martedì 25 settembre 1979 Cesare Terranova, giudice ed ex deputato indipendente Pci, e il suo autista e guardia del corpo, il maresciallo di Pubblica sicurezza Lenin Mancuso (lo segue dl 1963, ) vengono uccisi per mano della mafia. Cinque minuti prima il giudice, sceso da casa, si era messo al volante di una Fiat 131 ma alla prima curva gli si sono parati davanti tre giovani sui 25/30 anni, due armati di una calibro 38 e l’altro di un’arma lunga (probabilmente una mitraglietta). Il primo ad essere colpito è il Maresciallo Mancuso, Terranova tenta una disperata manovra per mettersi in salvo: con la marcia indietro ingranata pigia a fondo l’acceleratore e gira il volante come per imboccare via de Amicis ma i proiettili gli piovono addosso, cinque lo feriscono, poi i tre giovani lo finiscono con un colpo a bruciapelo alla nuca e scappano su una Peugeot 304 rossa e probabilmente con una seconda automobile non identificata. Alle 9.15 il duplice omicidio è stato rivendicato dall’organizzazione fascista Ordine nuovo, con una telefonata anonima a un quotidiano romano ma gli inquirenti restano tuttavia convinti che si tratti di un’azione di stampo mafioso [Sta.Se 25/9/1979; Sta. 26/9/1979]. Cesare Terranova è il nono magistrato ucciso in un agguato dal 1970 e il secondo a Palermo. Liggio verrà accusato di essere il del delitto ma poi sarà assolto per insufficienza di prove.

•«Sì, questa è una realtà siciliana, ma io sono siciliano e amo questa terra» (Cesare Terranova).

• Sandro Pertini: «Cesare Terranova fu uomo di alto sentire e di grande cultura: amava profondamente la sua Sicilia e viveva con angoscia la fase di trapasso che l’isola attraversava, dall’economia del feudo e rurale all’economia industriale e collegata con le grandi correnti di traffico europeo e mediterraneo. Ma egli era anche animato, oltre che da un virile coraggio, anche da infinita speranza, che scaturiva dalla sua profonda bontà d’animo: speranza nel futuro dell’Italia e della Sicilia migliori, per le quali il sacrificio della sua vita, fervida, integra ed operosa non è stato vano. Ancora una volta così la violenza omicida della delinquenza organizzata ha colpito uno degli uomini migliori, uno dei figli più degni della terra di Sicilia.

• Era un uomo colto, elegante, raffinato, ottimista, calmo e sicuro. Porta lenti scure e spesso indossa cravatte a righe. Fumava molte sigarette. Giocava a bridge e ogni tanto andava a pesca subacquea.

• Sposato con Giovanna Giaconia, direttrice di una galleria d’arte, non hanno mai avuto figli.  GIORGIO DELL’ARTI

 

Il sacrificio di Lenin Mancuso di Matteo Zilocchi con la collaborazione di Carmine Mancuso. Questa non è solo una storia di mafia. Non è solo il racconto di un duplice omicidio, è anche la narrazione di un’amicizia spezzata in una guerra non dichiarata.  Siamo a Palermo, nel 1979, l’anno che apre la stagione dei delitti eccellenti. Sono le 8.30 di mercoledì 25 settembre. La Fiat 131 guidata da Lenin Mancuso si ferma in via Rutelli, attende il magistrato Cesare Terranova da poco tornato a Palermo dopo l’esperienza parlamentare a Roma e in procinto di diventare il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione. Terranova e Mancuso si conoscono da tempo, li lega una profonda amicizia oltre ad una collaborazione professionale che dura da anni. Mancuso, infatti, è il maresciallo della squadra mobile assegnato alla scorta del magistrato. Non solo, già nel 1971, quando Terranova era procuratore di Marsala, i due hanno condotto assieme le indagini sul “Mostro di Marsala”, un caso di cronaca nera finito su tutti i giornali per il rapimento e l’omicidio di tre bambine. Il tempo e le esperienze condivise hanno cementato il loro rapporto. Tra i due c’è fiducia reciproca, stima e una sintonia che li porta a provare la stessa paura in una Palermo che giorno dopo giorno sta diventando un teatro di guerra. A raccontarci il legame speciale tra Terranova e Mancuso è il figlio di quest’ultimo, Carmine, poliziotto e politico: “Il rapporto tra i due è nato negli anni ’60 quando Terranova stava istruendo il processo di Catanzaro e col passare degli anni il legame è diventato sempre più forte. C’era una sintonia professionale e personale tra loro. Terranova lo considerava un amico prima ancora che un fidato collaboratore. Erano sempre insieme, avevano formato un binomio tanto forte che quando qualcuno incontrava solo uno dei due chiedeva dove fosse l’altro”.

Dopo aver varcato la soglia del portone, Terranova sale sulla Fiat 131 e siede al posto del conducente. Vuole guidare per i pochi chilometri che li separano dal Tribunale. In realtà percorre poche centinaia di metri. Appena imbocca via De Amicis un commando di killer formato da Leoluca Bagarella, Giuseppe Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino e Vincenzo Puccio blocca l’auto e scarica addosso alla Fiat una trentina di colpi d’arma da fuoco. Mancuso getta il suo corpo come uno scudo sopra quello del magistrato ma la raffica di colpi esplosi con un fucile Winchester e diverse pistole non lasciano scampo a Terranova. Mancuso è ancora vivo quando viene trasportato in ospedale dove morirà poco dopo. La fotografa Letizia Battaglia, tra i primi ad accorrere sul luogo dell’omicidio, immortala un’immagine che diventa un simbolo dell’efferatezza mafiosa: il corpo esanime del magistrato ancora in posizione di guida con il capo piegato in avanti leggermente sul fianco; gli abiti intrisi di sangue e il braccio destro allungato con la mano poggiata sul sedile del passeggero, all’interno dell’auto con tutti e quattro i finestrini frantumati dalla raffica di proiettili.

Il duplice omicidio di Terranova e Mancuso allunga l’elenco degli omicidi eccellenti palermitani del 1979, l’anno in cui i corleonesi alzano il livello di tensione. Una striscia di sangue che inizia la sera del 26 gennaio, quando il giornalista del Giornale di Sicilia Mario Francese cade sotto i colpi di una calibro 38 davanti alla sua abitazione. Poco più di un mese dopo i “viddani” mettono a segno il loro primo omicidio politico. La vittima è il segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, Michele Reina. E’ il definitivo salto di qualità di Riina e soci. In piena estate è Boris Giuliano, il capo della squadra Mobile, a pagare il suo conto, freddato sulle scale di casa da una raffica di colpi esplosi da Leoluca Bagarella. “E’ in quel momento che mio padre ha capito di essere in pericolo – racconta Carmine Mancuso – Dopo la morte di Boris Giuliano il suo atteggiamento è cambiato, ha iniziato ad avere paura, ha preso coscienza che lui e Terranova erano in pericolo”. Sono i giorni in cui a Palermo si comincia a parlare di “mattanza”, mentre il mondo inizia a conoscere i corleonesi.

Sul movente del duplice omicidio si incrociano interessi del vecchio e nuovo gotha di Corleone. Luciano Leggio, la Primula Rossa, non si è mai dimenticato delle indagini che, a partire dal 1958, Terranova ha condotto contro i corleonesi e in particolare contro di lui. Indagini che sono sfociate nel processo di Catanzaro con 114 mafiosi imputati. Le ottime entrature di Leggio negli uffici giudiziari gli consentono di conseguire l’assoluzione sua e di tutti gli imputati per insufficienza di prove. Ma Terranova fa ricorso e alla fine le accuse nei confronti del boss vengono riconosciute e nel 1974 è condannato all’ergastolo. Anche Riina, che di Leggio ormai ha preso il posto al vertice della fazione dei “viddani”, teme che un magistrato preparato, onesto e intransigente come Terranova – il primo che affronta le indagini di mafia con una visione unitaria del fenomeno, addentrandosi anche nel contesto politico ed economico – una volta a capo dell’ufficio istruzione possa creargli seri problemi e quindi decide di eliminarlo.

Il duplice movente viene accertato anche in sede giudiziaria. Prima grazie alle dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo, uno degli uomini di fiducia di Bernardo Brusca, che accusa Luciano Leggio di essere il mandante e Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Giuseppe Madonia e Leoluca Bagarella gli esecutori materiali. Tutti condannati. Successivamente, nel 1997, quando il procedimento viene riaperto contro altri sette mafiosi accusati di aver dato la loro approvazione all’eliminazione di Terranova: Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Michele Greco Francesco Madonia, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina. Anche per la cupola arriva la sentenza di condanna. “Per trovare il movente di questo duplice omicidio – spiega Carmine Mancuso con tono fermo – bisogna considerare anche altri due delitti avvenuti prima e dopo: quello di Boris Giuliano del luglio ’79 e quello di Gaetano Costa di un anno più tardi. Per diversi motivi Giuliano, Terranova e Costa rappresentavano un pericolo perché erano stati nominati in ruoli strategici nella lotta alla mafia e non erano sotto il controllo del potentato politico-mafioso siciliano di quel momento. Questo ha creato una forte preoccupazione non solo in Cosa nostra ma anche in tutti i centri di potere in affari con la mafia. Non è un caso, infatti, che siano stati eliminati uno dopo l’altro. Inoltre – continua Mancuso – non dimentichiamo il contesto politico di quel momento in Sicilia, con Piersanti Mattarella che, sulla scia del Compromesso Storico, per la prima volta apre le porte della politica regionale alla Sinistra, mettendo a repentaglio equilibri economici e politici consolidati. Anche lui pagherà con la vita”.

Quando Terranova e Mancuso vengono uccisi, a Palermo e in Sicilia ci sono ancora politici, cardinali e cittadini che sostengono che la mafia non esista. E’ un muro di omertà e di paura che si alza dopo ogni delitto, che trasuda di vigliaccheria e che nasconde dietro a una narrazione di comodo una città che sta lentamente scivolando negli inferi di una violenza mai vista prima. Una distorsione della realtà che porta a ignorare i morti, a non volersi legare in alcun modo a loro e nemmeno alla loro memoria. E’ ciò che accade anche qualche mese dopo il duplice omicidio di Terranova e Mancuso, quando i condomini del palazzo di fronte al quale è avvenuta la strage si rifiutano di consentire l’apposizione di una targa in loro memoria “Gli abitanti si erano opposti perché, a loro dire, non volevano imbrattare i muri dell’edificio – spiega Carmine Mancuso con un’espressione del volto ancora di incredulità – Quando ho appreso la notizia ho provato un profondo sgomento, anche in virtù del fatto che quel palazzo si trovava in un quartiere borghese e una reazione così al massimo me la sarei potuta aspettare in una borgata malfamata. Inoltre – ricorda Mancuso ripercorrendo con la memoria le tappe di quella assurda vicenda – ero venuto a conoscenza che in quel palazzo, tra le persone che si erano opposte all’apposizione della lapide, c’era anche un magistrato. Per fortuna anni dopo la lapide fu apposta sulle mura di una scuola media poco distante, ma quella coltellata morale inferta da alcuni cittadini palermitani non si è ancora del tutto rimarginata”.

A restituire definitivamente la memoria a Lenin Mancuso e Cesare Terranova è il Comune di Palermo, che qualche anno dopo dedica loro due vie nel quartiere Boccadifalco. Sono vie adiacenti, una scelta non casuale. Si tratta di un ultimo accorato gesto per rendere indissolubile il legame tra due uomini che hanno combattuto Cosa nostra fianco a fianco fino all’ultimo. COSE VOSTRE 25.10.2020

 

L’amicizia con Cesare Terranova, il magistrato che incastrò i “corleonesi”


Ci sono nomi che attraversano il tempo, che ritornano sempre nella sua vita. Uomini che ha lasciato nei feudi di Prizzi e di Corleone e che ritrova adesso a Palermo. Sono mafiosi.

Come quel Vito Ciancimino, pupillo del ministro Bernardo Mattarella e legato anche a «paesani» i cui nomi Pio La Torre ha sentito pronunciare dai suoi compagni di partito. Quando l’hanno mandato alla Camera del Lavoro di Corleone, dopo la scomparsa di Placido Rizzotto. Uno si chiama Bernardo Provenzano, l’altro Salvatore Riina, il terzo Luciano Liggio. Sono ragazzi, alla fine degli Anni Quaranta. Sono i «canazzi da catena» del vecchio capo Michele Navarra. Gli ritornano in mente i volti e i racconti di tanti anni prima. Come un incubo.

Vicende che conosce bene un suo amico, uno scansato dai colleghi come un animale appestato, rinchiuso tutto il giorno in una stanza del Tribunale di Palermo. È Cesare Terranova, fa il giudice istruttore, è uno dei pochi magistrati siciliani che in quegli anni non nega l’esistenza della mafia.

È curioso, raffinato, frequenta artisti e intellettuali. Ogni tanto s’incontra anche con un maestro elementare di Racalmuto, Leonardo Sciascia. E con due giovanissimi pittori, Bruno Caruso e Renato Guttuso.

Sono nello studio del giudice Terranova. Libri, rapporti giudiziari ingialliti dal tempo, atti parlamentari, profumo di cuoio. Una parete è coperta di quadri. Uno è appeso davanti alla scrivania. Mi avvicino per guardarlo meglio, la signora lo sfiora e mi indica la data: «È del 1964. Bruno ha annunciato la morte di mio marito quindici anni prima».

Giovanna Giaconia è la vedova di Cesare Terranova. Prende lo schizzo di Bruno Caruso e lo appoggia con cura su un tavolino. C’è il viso del giudice, il naso un po’ schiacciato e alle sue spalle la faccia feroce di Luciano Liggio. Sembra un diavolo.

Racconta ancora la donna: «Il pittore aveva intuito molto tempo prima che Cesare per quell’uomo era un pericolo, che era da eliminare». Sono i primi giorni di ottobre del 1979 e Giovanna Giaconia mi fa entrare nella sua bella casa di via Rutelli, una traversa che collega via Marchese di Villabianca con via Libertà. Cesare Terranova è stato ucciso una settimana prima. «Da Luciano Liggio», dicono tutti. Il boss di Corleone sarà assolto.

Il giudice Terranova sa tutto di Corleone e della sua mafia. Ha istruito il processo per la «guerra» che sconvolge il paese dal 1958. Prima l’uccisione del patriarca Michele Navarra con quel mitragliatore Thompson, poi una settantina di omicidi in successione: tutti i fedelissimi del vecchio capo.

Il processo inizia grazie ai rapporti che quel capitano piemontese, Carlo Alberto dalla Chiesa, gli ha trasmesso da Corleone. Sulla morte del sindacalista Rizzotto, sull’ascesa criminale di Luciano Liggio, sul feudo di Stasatto che adesso sembra diventato il centro di un potere mafioso forte quasi quanto quello dei «mammasantissima» che dominano Palermo dal dopoguerra. «Stanno scendendo in città», svela il giudice Terranova a Pio La Torre.

I Corleonesi stanno arrivando a Palermo per conquistarla. Quel capitano dei carabinieri di Corleone adesso è in attesa del grado di colonnello. Dopo un girovagare fra caserme di mezza Italia – Firenze e Como, Roma e Milano – è tornato in Sicilia. Carlo Alberto dalla Chiesa è il nuovo comandante della Legione di Palermo. Gli Anni Sessanta scivolano via fra colate di cemento e immense fortune venute dal nulla, raìs della politica e sicari tutti insieme a soffocare la capitale della Sicilia.

Governa la Democrazia Cristiana dei Lima e dei Ciancimino. E governa una mafia che è sempre più protetta. Da magistrati. Da poliziotti. Da avvocati, medici, commercialisti, ingegneri, giornalisti, preti, spioni. Tutto è «a posto». È una stagione difficile per chi è fuori dai giochi, per chi sta dall’altra parte. Pio La Torre è ancora consigliere comunale e anche deputato al Parlamento siciliano, a Palazzo dei Normanni.

Nel 1963 diventa segretario regionale del Pci. Sono passati solo quindici anni da quando ha lasciato la sua casa di Altarello di Baida. Per quella tessera del partito che ha in tasca. Nel 1967 ci sono le elezioni regionali in Sicilia. Vanno male per i comunisti. Sul banco degli imputati per la sconfitta, c’è Pio La Torre: da segretario regionale viene retrocesso a segretario provinciale. È ferito ma ubbidisce.

Lo sostituisce Emanuele Macaluso, che torna per la seconda volta in Sicilia a dirigere il partito. Resta solo un anno in Federazione, Pio La Torre. A Palermo arriva Achille Occhetto e lui è chiamato «ad un nuovo incarico» alla Direzione del Pci, a Roma. Alle politiche del 1972 viene eletto alla Camera con 42.325 voti, nella circoscrizione della Sicilia occidentale.

Dopo il latifondo e il carcere, dopo Palermo e le interminabili sedute in consiglio comunale con i mafiosi accanto, comincia per Pio La Torre una terza vita. A Roma. Con la sua famiglia. Con Giuseppina. Con Filippo. E con Franco, l’altro figlio nato nel 1956. Roma sembra lontana da Palermo. Lontanissima dai campi arsi della Sicilia del feudo.


di Enrico Bellavia

L’Espresso, 26 settembre 2021

 

Il 25 settembre di 42 anni fa Cosa nostra assassinò il magistrato che aveva iniziato a indagare su Liggio, Riina e Provenzano già negli anni Sessanta. La sua storia, le sue amarezze e il suo isolamento, permettono di rileggere cinquant’anni di vita repubblicana sotto ipoteca criminale. Tra patti e ricatti. Un film e un libro per ricordarlo.

Potevano fermarli prima. Agli albori della loro carriera criminale, quando la stella di Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Totò Riina, ucciso il medico boss Michele Navarra, “u’ patri nostru”, iniziò a brillare. Al fuoco dei mitra, al piombo delle lupare, nel rosso sangue dei morti. Quando l’impostura di una Corleone asservita, omertosa, silente e complice, come l’intera Sicilia, iniziò a consolidarsi. E quel grumo di case sotto Rocca Busambra diventò sinonimo di mafia. Incurante dei tanti, i ribelli li chiamavano, che avevano detto di no. Si perpetuò così una narrazione che consegnò all’altare degli eroi le spoglie di magistrati, carabinieri, poliziotti fermati al fronte di una guerra che, puntualmente, nelle retrovie, qualcuno, trescando con il nemico, si incaricava di rendere vana.

Ricordarli come eroi e non come vittime del dovere serviva per il resto a sorvolare su chi il proprio dovere lo aveva tradito. C’era un uomo che aveva capito tutto. Lo aveva messo per iscritto nelle sue istruttorie e aveva provato a fermare il triumvirato corleonese ben prima della grande razzia. Si chiamava Cesare Terranova. Fu lui a preconizzare, inascoltato, la trasformazione della mafia corleonese in ceto dominante, a intuirne e a documentarne i rapporti americani, il vincolo di interessi e minacce che avrebbe fatto di quei tre i signori incontrastati di Cosa nostra, capaci di tenere banco per quasi mezzo secolo costellato di bombe, patti e ricatti nella prateria delle loro scorribande che era tutta la Penisola, da Milano a Palermo. Con una “forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni”, scrisse.

Nel centenario della nascita del giudice, si è appena celebrato il 42esimo anniversario del suo assassinio, il 25 settembre del 1979. Sei colpi di calibro 9, 357 Magnum e Winchester 62 martoriarono il corpo al volante della sua 131 diventata un bersaglio fin troppo facile per il meglio su piazza dei sicari di Cosa nostra. Otto colpi li contarono sul maresciallo Lenin Mancuso che gli sedeva accanto e che si era gettato, pistola in pugno, sul giudice, nel tentativo impossibile di proteggerlo e rispondere al fuoco, tra via Rutelli e via De Amicis, in uno dei lati del quadrato in cui si svolge buona parte del mattatoio palermitano. Lenin Mancuso, poliziotto calabrese dal nome bolscevico, non era soltanto l’agente di scorta ma la sua ombra, roccioso e testardo proprio come quell’altro. Il partner delle investigazioni impossibili, cacciatore di Liggio e dei suoi gregari, al fianco del giudice.

Terranova era un montanaro di Sicilia, nato a Petralia Sottana, nelle Madonie. Cresciuto nelle stesse campagne dove la mafia, nel 1948, aveva ucciso il bracciante socialista e sindacalista Epifanio Li Puma. Si era fatto le ossa in guerra, soldato ma antifascista, poi prigioniero, quindi studente fuori corso per necessità e finalmente magistrato, figlio di magistrato. A inanellare encomi nel Messinese prima di arrivare sul versante occidentale dell’Isola a occuparsi della mafia che dal dopoguerra agli anni Sessanta aveva già compiuto il balzo diventando classe dirigente. Con le tasche piene dei soldi della droga, Cosa nostra si industriava per cambiare la faccia dell’Isola. Una devastante colata di cemento stravolgeva con il tessuto urbano anche quello sociale.

Da procuratore di Marsala, nel posto che sarà di Paolo Borsellino, con l’inseparabile Mancuso, Terranova risolve il giallo della scomparsa di tre bambine, uccise da Michele Vinci, lo zio di una di loro. Poi parlamentare per due legislature, maggio 1972-giugno 1979, indipendente di sinistra, in tandem con Pio La Torre, futuro segretario regionale del Pci che lo avrebbe seguito nell’identico destino tre anni più tardi. Insieme firmeranno la famosa “Relazione di minoranza” dove per la prima volta si facevano i nomi e i cognomi, dei politici e degli imprenditori collusi con la mafia. Terranova di nuovo magistrato, consigliere istruttore, da fermare a ogni costo, lui che era stato faccia a faccia con Liggio due volte, che era riuscito a farlo condannare per Navarra e che dagli insuccessi precedenti aveva tratto la determinazione per assestare il colpo decisivo ai corleonesi e ai loro complici in grisaglia ministeriale. Su Terranova e Mancuso, su quello che hanno fatto, sul perché siano stati uccisi, lavora da anni Pasquale Scimeca, regista e sceneggiatore siciliano, tanto rigoroso quanto non allineato, che si prepara a realizzare un film da una sceneggiatura scritta con Attilio Bolzoni, in contemporanea con un libro che accompagna il film.

È il romanzo nero d’Italia. La storia di un magistrato e delle sue amarezze.

Ma è soprattutto la storia del grande intrigo, del “peccato originale”, come lo chiama Scimeca, che non ha mai smesso di condizionare la vita repubblicana. Riallacciandosi a un filone di analisi che parte dalle ricostruzioni giornalistiche di Pietro Zullino, Marco Nese, Silvestro Prestifilippo, passa per la commissione antimafia, riprende tesi di Enrico Deaglio e le rivelazioni di Leonardo Messina del 1992, ma anche i ricordi dei nipoti di Terranova, Francesca e Vincenzo (anche lui magistrato presso il tribunale di Palermo), Scimeca giunge alla conclusione che Liggio deve la sua prolungata fortuna alla custodia di un segreto.

È il patto inconfessabile tra notabili e mafia per la strage di contadini, il primo maggio del 1947 a Portella della Ginestra e per l’uccisione, tre anni dopo, del bandito Salvatore Giuliano, l’assassino capopopolo che si era messo in testa di essere una specie di Robin Hood e al quale avevano fatto dire che la Sicilia sarebbe stata con lui il 49esimo Stato americano. Su Giuliano ricadde la responsabilità della strage ma, come emerge anche dagli studi di Giuseppe Casarrubea e Mario José Cereghino, sui monti intorno a Portella c’era artiglieria pesante, provenienza Usa e manovalanza di ex fascisti della Decima Mas della Repubblica di Salò.

L’eccidio doveva produrre una scossa per non far crollare nulla. Una strage stabilizzante, come lo sarebbero state tutte quelle che hanno accompagnato gli snodi della vita del Paese con il beneplacito di un pezzo di Viminale. Nella Sicilia dei sindacalisti ammazzati, dei sindaci eliminati, dei mille testimoni annichiliti, sequestrati, uccisi, infoibati, era proliferata per questo anche la categoria dei pazzi, di quanti avevano visto ed erano pronti a raccontarlo, a patto di essere protetti. Lasciati soli, guadagnavano la bolla di inattendibili perché insani di mente. Innocui, perché ridotti ad esserlo. La loro follia eterodiretta era un’arma. Toccò a quelli, Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva, che Ernesto Oliva ha raccolto nella galleria “I pazzi di Corleone” (Di Girolamo, novembre 2020, prefazione di Umberto Santino).

Proto-pentiti del primo dopoguerra, la legge sui collaboratori sarebbe arrivata solo nel 1991. Precisi, sicuri con le loro firme incerte sui verbali e poi, nelle aule, tremanti, bizzarri, grotteschi, gelati nella trappola della loro paura pur di auto-invalidarsi e lasciare che i loro racconti ammuffissero nei faldoni con in calce il nome dei futuri boss dei boss e sulla copertina il bollo dell’insufficienza di prove, decretata da eccellentissimi giudici a loro volta intimiditi o corrotti. Vivi però, perché, come si dice in Sicilia “sulu lu pazzu canta e sulu lu pazzu campa”, ma reprobi, costretti alla fuga, in una diaspora del terrore, lontano dalla stessa terra che quelli conquistavano zolla dopo zolla calpestando raccolti, miseria e contadini, servendo i padroni di città che, illusi, immaginavano di potersene servire per sbarazzarsene quanto prima. Andò diversamente, perché i rozzi villani, con i feudi, si prendevano il potere. Con i cugini americani, il metodo per esercitarlo e con Vito Ciancimino, il politico che riuniva l’arroganza criminale e le entrature nei palazzi, il patrimonio di relazioni che conferisce comando.

Quella di Terranova è una traiettoria che interseca la vita e la morte di tutti quelli che in un modo o nell’altro hanno lavorato sulla stessa materia, proseguendo il lavoro, sviluppandone filoni, coltivando intuizioni. Da Carlo Alberto Dalla Chiesa che, a Corleone, di Luciano Liggio e della scomparsa di Placido Rizzotto aveva iniziato a occuparsi nel 1948, a Boris Giuliano, il commissario che indagava in Sicilia ma guardava a New York, al banchiere della mafia Michele Sindona e a quello che i cugini d’oltreoceano consigliavano ai mammasantissima nostrani.

Proprio come Gaetano Costa, il procuratore che al ponte con gli Usa del clan Gambino-Inzerillo dedicò un atto d’accusa, firmato in una solitudine mortale. Il ponte mai interrotto con gli Usa è un filo rosso che ha a che fare tanto con la geopolitica quanto con il crimine. Gli interessi coincidenti si avviluppano nel grumo che ha reso incompiuta la nostra democrazia. E di contatti oltreoceano ne avevano anche quegli incolti corleonesi a partire dai padrini Vincent Collura e Angelo Di Carlo, tanto che una delle prime prodezze di Liggio fu quasi un atto da guerrigliero con il furto della cassaforte del corpo d’armata italo-tedesco. Se ne accorse e lo documentò in un “rapporto riservatissimo” un vicebrigadiere di provincia, il carabiniere Agostino Vignali. Quel dossier fu una miniera per Terranova che se lo ritrovò tra le mani agli albori delle sue istruttorie finite con la solita beffa dell’assoluzione per insufficienza di prove a Bari e Catanzaro. Marchio di infamia su una magistratura accomodante, paciosa, collusa. In una parola “sorda”, come l’ha definita il magistrato ed ex parlamentare Giuseppe Di Lello, nel suo “Giudici” (Sellerio, 1994).

Già nel 1963 il vicebrigadiere aveva tracciato la mappa del potere a Corleone. Catalogato gli schieramenti e ricostruito la genesi, “grazie a protezioni che da Montecitorio vanno a Sala d’Ercole (sede del Parlamento siciliano, ndr)”, di quella che la frettolosa storiografia ha liquidato come lo scontro tra Navarriani e Liggiani. Vignali aveva elencato interessi nuovi: “Predominio delle aree edificabili, l’accaparramento dei posti chiave delle pubbliche e delle private amministrazioni, le beghe politiche in favore di questo o quel candidato che prevalentemente fanno parte della Dc e del partito liberale”. Aveva spiegato che non c’era pregiudizio in quelle parole, perché “la stessa cosa accadrebbe se quegli stessi uomini si presentassero domani sotto qualunque altro partito che avesse le mani in pasta nel governo della cosa pubblica”. Così fu possibile il regime corleonese, inaugurato da un golpe, reso forte da latitanze leggendarie, 15 anni Liggio, 24 anni Totò Riina e 43 Bernardo Provenzano, nel dosaggio di segreti e, sono parole di Terranova, “nella certezza dell’impunità”