Combattè il terrorismo e la mafia, ma si dimise da consigliere giuridico di Napolitano dopo la pubblicazione, priva di rilevanza penale, di un’intercettazione con l’ex ministro Mancino
«Ha salvato l’integrità della magistratura eppure è stato oggetto nelle ultime settimane di attacchi ingiusti e violenti». Così disse l’ex pm Ilda Boccassini all’indomani della morte di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Giorgio Napolitano, colpito da un infarto nel 2019 dopo un lungo travaglio di gogna pubblica fomentata dalle pubblicazioni di un’intercettazione con l’ex ministro Nicola Mancino, nelle indagini del fallimentare “processo trattativa”.
Una trattativa così fallimentare che adesso si sta indirizzando verso altre ipotesi vecchie e fumose che, senza alcun pudore, vengono sbattute in faccia all’avvocato dei figli di Borsellino nelle recenti audizioni in commissione Antimafia.
Pubblicare un’intercettazione tra D’Ambrosio e Mancino, priva di rilevanza penale, dove emerge semplicemente la giusta e sacrosanta preoccupazione di quest’ultimo, un ex ministro sotto indagine con un’accusa infamante che poi si è rivelata completamente priva di fondamento, appare come una mossa discutibile. Ma come si sa, il popolo, spesso ingannato dalla propaganda mediatica, ha cominciato a riversare veleno: D’Ambrosio, uno degli uomini dello Stato incaricati di proteggere il segreto “indicibile” della trattativa. A pensarci, fu l’uomo voluto da Giovanni Falcone durante il suo mandato al ministero. Ancora una volta, il giudice ucciso a Capaci appare come un ingenuo che si circonda di amici “indicibili”. La ferocia del popolo viene puntualmente amplificata da numerosi politici, i quali hanno subito chiesto la testa dell’incolpevole D’Ambrosio.
Ma chi era realmente D’Ambrosio? Un uomo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro il terrorismo, senza clamori, senza titoli di prima pagina, ma con un coraggio silenzioso che ha sfidato il buio del male organizzato. La sua carriera nella magistratura ha inizio nel 1976, quando, dopo una breve esperienza come pretore a Volterra, D’Ambrosio assume il ruolo di sostituto procuratore a Roma. Fu in questa posizione che si trovò ad affrontare una delle sfide più grandi della sua carriera: la lotta al terrorismo. Collaborando con il magistrato Mario Amato, D’Ambrosio si immerse in un mondo oscuro fatto di violenza e minacce. La loro missione era smantellare i Nuclei armati rivoluzionari (Nar).
Il destino riservò una realtà crudele quando, in un tragico lunedì mattina di giugno 1980, Amato venne colpito a morte alla fermata dell’autobus. Loris D’Ambrosio, senza esitazione, raccolse il testimone delle indagini e si trovò ad affrontare minacce continue, che non si estendevano solo a lui, ma coinvolgevano anche la sua famiglia. Nonostante tutto, D’Ambrosio perseverò, continuando il suo lavoro instancabile per portare giustizia alle vittime e smantellare le organizzazioni terroristiche.
Nel 1991, il Guardasigilli Claudio Martelli nominò Giovanni Falcone a capo della Direzione affari penali che chiamò D’Ambrosio nella sua squadra. Insieme, lavorarono incessantemente per definire un sottosistema normativo che avrebbe spezzato l’organizzazione criminale. La procura nazionale antimafia, la direzione investigativa antimafia, il regime carcerario del 41bis e la legge sui pentiti: tutti questi risultati furono il frutto del lavoro incessante di D’Ambrosio, anche dopo la strage di Capaci.
La gogna pubblica fu scatenata con la pubblicazione da parte de Il Fatto di alcuni stralci delle intercettazioni. E come si sa, non si era più esaurita. Anzi, la lapidazione aumentò a dismisura e D’Ambrosio si dimise da consigliere del presidente Napolitano nel 2012. Lo fece con una amara lettera, intrisa di dignità e dispiacere, con la consapevolezza che la sua figura istituzionale era stata al centro di interpretazioni distorte e malevole. La situazione aveva portato alcuni politici e giornalisti a dipingere D’Ambrosio come un uomo disposto a fare accordi loschi per coprire verità scomode. Queste accuse, per lui, erano inaccettabilmente calunniose.
D’Ambrosio, come si può chiaramente evincere dall’intercettazione, aveva semplicemente ascoltato lo “sfogo” di una persona che conosceva da diversi anni, e che nel dialogo con un ex ministro che aveva anche ricoperto il ruolo di vicepresidente del Csm sotto la presidenza di Napolitano, non ravvisava nulla di scandaloso né di sospetto. D’Ambrosio, tra l’altro, non aveva esercitato alcuna ingerenza nel processo palermitano né aveva pressato alcun pm. Del resto, gli stessi magistrati siciliani negavano di aver mai subito interferenze.
E così, all’età di 65 anni, D’Ambrosio morì presumibilmente per il dolore e lo stress causati dalle false accuse. Si può morire di dispiacere? Le sofferenze si ripercuotono sul fisico. Questo è indubbio. «D’Ambrosio ha molto sofferto – spiegò l’allora ministro della Giustizia Paola Severino in occasione dei funerali – non riusciva a capacitarsi di come potesse essere accusato, con tanta veemenza, di aver voluto interferire su indagini in tema di mafia, proprio la materia che aveva costituito il centro di un impegno così intenso».
L’infame gogna mediatico-giudiziaria alla quale è stato sottoposto Loris D’Ambrosio è indegna perché rivolta a un uomo che, insieme a Giovanni Falcone, ha combattuto la mafia fino in fondo. E questo, ma sarà una coincidenza, è accaduto molto spesso proprio nei confronti di chi era affianco a Falcone ai tempi della sua delegittimazione. La morte di D’Ambrosio avrebbe dovuto imporre l’apertura di un dibattito serio, alieno dagli ardori delle opposte tifoserie, su che cosa sia diventata una certa parte della magistratura rispetto ai poteri e alle altre funzioni dello Stato. Una pagina però che si chiude vergognosamente, così come riportato su Il Dubbio da Giovanni Maria Jacobazzi, con la bocciatura, da parte del Csm, di considerarlo vittima del dovere. 10 ottobre, 2023 • IL DUBBIO Damiano ALIPRANDI