DI MADRE IN FIGLIO
A “Cose Nostre” l’incredibile storia di Emilio Di Giovine, boss del clan Serraino-Di Giovine e collaboratore di giustizia dal 2003.
La vita di Emilio è stata avventurosa come un film d’azione: aragoste e champagne, automobili potenti, evasioni rocambolesche dalle carceri di mezzo mondo e bellissime donne. Ma è stata anche una vita fatta di spaccio internazionale di eroina, cocaina e hashish.
Una storia di omicidi, armi e vendetta, che inizia con Maria Serraino, madre di Emilio, appartenente ad una famiglia di ‘ndrangheta molto importante.
Maria sposa Rosario Di Giovine, contrabbandiere di sigarette con cui si trasferisce a Milano negli anni ’60 e inizia così la parabola della famiglia Serraino-Di Giovine.
Maria diventa in poco tempo il vero capo del clan, al punto di essere da lì in poi soprannominata “nonna eroina”.
Fra gli anni ’80 e ’90 la famiglia è fra le più potenti, guadagna miliardi che verranno poi investiti nel traffico di armi.
Emilio riuscirà addirittura a fare arrivare in Italia una fornitura di 30 bazooka dalla ex Jugoslavia, alcuni dei quali sarebbero stati utilizzati per combattere una delle più sanguinose guerre di ‘ndrangheta che la storia criminale ricordi.
Oggi Emilio Di Giovine vive in una località protetta.
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Di Giovine: “Con l’eroina mi ero preso tutta Milano”
Era, anche dietro le sbarre di un’aula di giustizia, brillante, spiritoso, a suo modo simpatico. Adesso è un vecchio che si commuove pensando al figlio di quattro anni e mezzo, «non so se farò in tempo a dargli un futuro». In mezzo, tredici anni in cui Emilio Di Giovine ha fatto in tempo a pentirsi, a uscire di cella, a rifarsi una vita. E ora a raccontare alle telecamere di Cose Nostre la storia di come arrivò a regnare sulla città: «Io mi sono presa Milano con l’eroina».
Ieri sera la lunga intervista a Di Giovine è andata in onda su Rai 3. Per la prima volta, viene raccontata in diretta non la cronologia sempre uguale dei delitti degli anni Ottanta, ma la mentalità cruda che ci stava dietro. E fa impressione perché a raccontarle non è un killer semianalfabeta ma un viveur, uno che durante i processi raccontava a un cronista perché la mafia gli faceva schifo: «I mafiosi fanno una vita pazzesca, piena di regole: e non fare questo, e non fare quello. Io sono una testa matta, un avventuriero».
La sua base era piazza Prealpi. Sua mamma era Maria Serraino, l’unica vera donna-boss che Milano abbia conosciuta. «Mia madre non era tenera, era il capo di tutto. Era semianalfabeta ma faceva i conti meglio di me, era di una furbizia assoluta, nessuno poteva farla su. Decideva in fretta: nasceva un problema e tac! Lei lo risolveva. Era tremenda, aveva una specie di istinto animale. E parlo di anni in cui i sacchetti con i soldi dell’eroina arrivavano in casa in continuazione, avevamo i frigoriferi pieni, non sapevamo più dove metterli».
Alle caterve di morti che il mercato dell’eroina seminava in quegli anni a Milano, il vecchio boss non dedica neanche un simulacro di rispetto. Almeno è sincero. Ed è sincero quando dedica parole cariche di risentimento a sua sorella Rita, che fu la prima della famiglia a pentirsi: «L’avevano presa con mille pasticche di ecstasy che aveva rubato a mio fratello. Lei si è pentita e ha fatto dare l’ergastolo a mia madre e ha fatto arrestare tre generazioni, per una minchiata di mille pastiglie che in tre giorni era fuori. Lei umanamente non è giustificabile, ha fatto mettere fine pena mai a sua madre. Io mi farei la galera a costo di non uscire più».
Maria, la vecchia boss, è morta qualche anno fa: e sui muri vicino piazza Prealpi ci sono ancora i murales che la omaggiano; d’altronde al funerale, come racconta la milanesissima salumiera della piazza, «ci siamo andati tutti». «Perché mia mamma – racconta Emilio – teneva il quartiere a posto, non permetteva che si facessero le estorsioni».
Non solo. «Io dalla vita – dice Di Giovine – ho avuto tutto quello che volevo da bambino, quando in Calabria crescevo imparando a sparare, e facendo la gara con i miei coetanei a chi mangiava i peperoncini crudi senza piangere. Volevo soldi, macchine, donne. E li ho avuti».
Le donne, soprattutto. Belle da morire. E finite nei guai per colpa sua. «Tutte le donne che sono state insieme a me hanno avuto un destino amaro: il massimo del bene e il massimo del male». Il peggio di tutti lo ebbe «la Lele» che ad appena 17 anni era incinta di lui: «Eravamo al ristorante insieme a Vittorio Bosisio e alla sua donna: entrarono per uccidere Vittorio. Io non ero armato, non potevo rispondere. Mi buttai sotto il tavolo insieme alla Lele. Quando gli spari cessarono, avevo il suo piede tra le mani. Lei era morta».
Al suo attivo, Di Giovine ha una delle evasioni più spettacolari che si ricordino, quella dai sotterranei del Fatebenefratelli dove si era fatto portare per una visita e dove fecero irruzione i suoi ragazzi vestiti da medici e infermieri, con i candelotti e gli storditori. C’era arrivato corrompendo un secondino: «Corruzione… Direi scambio di favori. Ho sempre seguito questa linea perché i soldi me lo permettevano. Avevo un potere fuori dal normale. Ero al massimo, avevo fuori ad aspettarmi uomini, soldi, una donna bellissima, cosa ci facevo in carcere? Al mio avvocato dicevo: hai due miliardi di budget per tirarmi fuori di galera, come li spendi non lo voglio neanche sapere, l’importante è che esco».
Intanto in Calabria scoppiava la guerra tra i clan, un massacro interminabile tra le famiglie. E da Milano Emilio fa avere ai suoi parenti le armi che chiuderanno la partita, trenta bazooka arrivati direttamente dalla Svizzera, in grado di bucare come latta le auto blindate. Il favore gli viene restituito. «Mio zio mi disse cosa ti serve su a Milano, di quanti uomini hai bisogno?. Mi mandarono su i ragazzi, potenziali sicari. Con quelli conquistai Milano. Non ho mai ucciso nessuno, ma ho fatto uccidere. Quando ti dico devi fare così e non lo fai, alla terza volta divento cattivo e devi morire. Ero incontrollabile, non ascoltavo nessuno», racconta Di Giovine.
«Agiva prima ancora di avere pensato, ed era questo a renderlo pericoloso», ricorda Maurizio Romanelli, il pm che lo fece arrestare. «Adesso ho il diploma di cuoco e pago regolarmente le bollette», dice lui: e manca solo che aggiunga «e vado a letto presto». Per pentirsi, spiega, «ho dovuto uccidere il me stesso che ero prima, altrimenti sarei stato troppo orgoglioso per farlo». La puntata forse andrebbe fatta vedere nelle scuole, soprattutto nel finale. «Ho buttato via la mia vita».
Luca Fazzo 19 Luglio 2019 -IL GIORNALE
Emilio Di Giovine, boss fra le donne
Un eroe dei nostri tempi…
Nel parco di Pioltello, in provincia di Milano, tra banchetti e umidità, c’è una donna che parla seduta davanti a una piccola platea. Capelli corti e occhiali da vista. Lo sfondo è un festival sull’antimafia, il primo da queste parti, che ha per oggetto principale la ‘ndrangheta al nord.
È straordinario pensare a quante cose si possono apprendere stando per qualche ora sullo stesso posto.
Da una parte si parla di pizzo, ti sposti di qualche metro e si parla di gioco d’azzardo, vai lì e parlano di beni confiscati.
Poi però ti devi sedere da qualche parte.
La donna con i capelli corti e gli occhiali si chiama Ombretta Ingrascì e sta presentando il suo secondo libro, Confessioni di un padre. Il padre in questione è Emilio Di Giovine, boss del clan Serraino-Di Giovine collaboratore di giustizia dal 2003.
Per circa tre anni, due o tre volte all’anno, dal 2008 al 2011, Ombretta ha incontrato Di Giovine e da questi incontri è nata in seguito l’idea del libro. Si tratta di una vera e propria confessione di Emilio alla figlia.
L’azione del clan Serraino-Di Giovine si è concentrata prevalentemente in Lombardia, a partire dagli anni ’60.
Maria Serraino, madre di Emilio, proveniva da una famiglia molto importante nell’ambiente ‘ndranghetista. Si sposò con Rosario Di Giovine, trafficante di sigarette e a Milano, dove si erano trasferiti nei primi anni ’60, iniziò la parabola della famiglia Serraino-Di Giovine. Maria diventa in poco tempo la capa del clan, una vera e propria cosca che fa della ricettazione e del traffico di droga, specialmente eroina, i pilastri di un’economia virtuosa.
I capitali accumulati vengono poi reinvestiti nel traffico di armi, sempre a Milano.
È interessante notare come una donna possa aver avuto così tanto peso all’interno di un’organizzazione di questo tipo, diciamo, di “stampo maschile”. Basti osservare il ruolo della “femmina” nei tanti esempi di realtà mafiose in generale o nei film di mafia.
Una madre-comandante insomma, una figura che ha inciso particolarmente nella vita del proprio figlio Emilio, altra figura certo non priva di fascino, protagonista del libro di Ombretta. Emilio, infatti, attraverso il suo carisma, la sua competenza e, specialmente, i suoi contatti all’estero, svolgerà un ruolo decisivo per le sorti della seconda guerra di ‘ndrangheta (1985-1991), rifornendo di armi la famiglia giù in Calabria. Di Giovine, bisogna dirlo, è un boss che tecnicamente non si è mai affiliato all’organizzazione, perché lui non ha mai voluto dipendere da nessuno. Emilio, infatti, non è mai stato “iniziato”.
La sua vita è fatta di lusso, belle donne, viaggi, ville sfarzose in diverse città d’Europa, tanti vizi insomma che, a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, rappresentavano i guadagni di un’attività intensa.
Il traffico di droga misto a quello delle armi ha fatto sì che il clan Serraino-Di Giovine si affermasse con prepotenza nell’ambiente milanese ed Emilio poteva contare su una fitta rete di contatti in paesi come Marocco, Inghilterra, Olanda, Spagna e, ovviamente, Colombia.
Di Giovine ad ogni modo vuole essere uno indipendente. A lui le regole non piacciono, preferisce vivere la sua vita da uomo libero. Libero di amare tante donne, libero di spendere i suoi soldi in costosissime cene a base di aragoste e champagne, protagonista pure di un’evasione.
Un boss sui generis, lontano dalla figura del tipico boss che l’immaginario collettivo ha contribuito a costruire.
D’altronde Emilio lo aveva detto ad un cronista: «Ma chi me lo fa fare? I mafiosi fanno una vita pazzesca, piena di regole: e non fare questo, e non fare quello. Io sono una testa matta, un avventuriero».
A questo proposito Ombretta, ad un certo punto, si ferma a riflettere su una parte del testo, quella cioè in cui il protagonista parla della sua infanzia.
Il piccolo Di Giovine, un giorno, assistette ad una contesa e lo zio gli chiese chi fu a provocarla; così Emilio disse subito chi era stato il responsabile, ma lo zio lo punì immediatamente colpendolo con uno schiaffo e raccomandandogli che la prossima volta avrebbe fatto meglio a pensarci su due volte, prima di “parlare”. valore dell’omertà.
Il piccolo Emilio è poi cresciuto, ha messo in piedi un suo impero e ha anche avuto dei figli.
Dopo l’arresto e dopo sette anni di 41/bis, tutto “si è sciolto come neve al sole” ed è arrivata la scelta di collaborare con la giustizia.
Sicuramente c’è convenienza in questa decisione, manco a dirlo, ma vi è anche un elemento di svolta che è rappresentato da una donna. Sì, una donna.
D’altronde si era già parlato della particolare posizione di Maria Serraino nella vita di Emilio, ma in questo caso parliamo di una donna molto più piccola, e cioè della figlia dello stesso Emilio. La figlia che non è riuscito a conoscere, la stessa a cui è rivolta questa confessione. “I giovani si devono rendere conto”, dice Emilio.
La parabola della famiglia Serraino-Di Giovine terminerà a metà degli anni ’90, con le operazioni condotte dalla polizia Belgio 1, Belgio 2, Belgio 3 e la stessa Maria Serraino verrà condannata all’ergastolo.
Questo boss, che non faccio fatica ad immaginare seduto sul sedile di una fuoriserie a fianco di una donna bella e ingioiellata, è ora un pentito, uno che ha parlato, un traditore. In passato ha avuto tutto quello che voleva, soldi e potere, eppure “puoi avere tutto, ma alla fine resti solo”.
La storia di questa famiglia, di queste persone è anche la storia di una città e di un Paese. Storie di droga, armi e delitti, ma anche storie di uomini e di donne. Le seconde, in questo caso, hanno prevalso.
I SICILIANI Carmelo Catania