Mafia, più di mille criminali attivi in Germania. E la metà appartiene alla ‘ndrangheta
Le cifre fornite dal ministero dell’Interno tedesco in risposta a un’interrogazione dei Verdi al Bundestag
BERLINO Sono più di mille i mafiosi italiani attivi in Germania. E’ quanto il ministero dell’Interno tedesco afferma nella risposta a un’interrogazione presentata dal gruppo dei Verdi al Bundestag, come riferisce il gruppo editoriale Rnd. Il dicastero comunica che, secondo i dati dell’Ufficio federale di polizia criminale (Bka), nel 2022 sono stati identificati «1.003 sospetti membri della criminalità organizzata italiana residenti in maniera permanente».
Sul totale, 519 presunti mafiosi appartenevano alla ‘Ndrangheta, 134 a Cosa Nostra e 118 alla Camorra. Rispetto al 2021, si registra un incremento di 87 soggetti. Gli esponenti della criminalità organizzata italiana erano impiegati nella ristorazione, nel commercio di generi alimentari e nel settore automobilistico. Tra i reati commessi dai mafiosi si segnalano narcotraffico, riciclaggio di denaro e frode fiscale.
Da tali attività sono stati ottenuti proventi illeciti per circa 2,3 milioni di euro, di cui 683mila sono stati sequestrati. Il ministero dell’Interno tedesco non è stato in grado di fornire alcuna informazione sul numero dei procedimenti penali contro la mafia in corso in Germania sull’ammontare dei profitti effettivi delle organizzazioni criminali. (Nova) 29.1.24
21.10.2023 Droga, ristorazione, speculazioni finanziarie: nei “Länder” si conferma la leadership dei clan sulle altre organizzazioni mafiose
La leadership criminale della ‘ndrangheta, capace di clonare in diversi Länder le strutture operative delle cosche in Calabria, dalle quali dipendono. Sono queste le dinamiche della presenza della ‘ndrangheta in Germania secondo la Direzione investigativa antimafia. Lo “spartiacque” resta la strage di Duisburg del ferragosto del 2007, che svelò la penetrazione della ‘ndrangheta, descritta nell’ultima relazione della Dia come «la manifestazione macrocriminale che maggiormente lede le relazioni economiche, finanziarie e commerciali» in Germania. Un dato del resto confermato anche dal rapporto sulla situazione della criminalità organizzata nel Paese per il 2022,presentato di recente a Berlino dalla ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, e dal direttore dell’Ufficio federale di polizia criminale (Bka), Holger Muench: il report segnala che tra il 2021 e lo scorso anno, le bande della ‘ndrangheta hanno registrato un raddoppio da quattro a otto (l’unica organizzazione criminale con il segno più).
L’analisi del contesto generale
Per la Dia «la Germania continua a costituire un polo di attrazione – per motivi economici, oltre che per la vicinanza geografica – per le organizzazioni mafiose italiane presenti prevalentemente nell’ovest e nel sud del Paese, in particolare nelle regioni più ricche, come il Baden-Württemberg, la Renania Settentrionale-Westfalia, la Baviera e l’Assia. I sodalizi italiani, oltre alle attività illegali, in particolare traffico di stupefacenti, nel corso degli anni hanno cercato di infiltrarsi progressivamente nell’economia legale mediante l’acquisizione di esercizi di ristorazione e pizzerie, utilizzati come copertura per lo svolgimento di affari illeciti di varia natura. Infatti, le varie attività investigative svolte congiuntamente da autorità italiane e tedesche dopo la strage di Duisburg hanno dimostrato che le attività commerciali gestite da presunti appartenenti alla criminalità organizzata di matrice italiana sono diventate basi logistiche per “summit” e per la conduzione delle attività illegali. In Germania – riscontra la Direzione investigativa antimafia – le varie mafie italiane sono dedite prevalentemente a settori specifici quali il traffico di stupefacente per la ‘ndrangheta, l’edilizia per Cosa Nostra e la vendita di merci contraffate per la camorra.
Tuttavia, alla luce dei riscontri investigativi di tipo giudiziario e/o preventivo, si sospetta che la manifestazione macrocriminale che maggiormente lede le relazioni economiche, finanziarie e commerciali dei diversi Länder possa essere la ‘ndrangheta».
Il modello di organizzazione
Nel dettaglio, secondo la Dia «operazioni di polizia condotte negli anni precedenti hanno permesso di attualizzare le presenze criminali calabresi in Germania, dove ormai è stato esportato il modello criminale tramite la semplice clonazione che ha consentito di replicare strutture analoghe a quelle tipiche del territorio calabrese e con evidenti stretti legami di dipendenza con il vertice – “crimine” – in Calabria, dal quale in ogni caso dipendono. Non viene sottovalutata la propensione da parte di gruppi criminali di origine calabrese verso i Land dell’ex Germania dell’Est, in particolare Turingia e Sassonia, dove le difficili condizioni socio-economiche connesse con la riunificazione nazionale hanno aperto ampi spazi criminali, nei quali, oltre alle agguerrite organizzazioni dei paesi dell’Est, si sarebbero inseriti i rappresentanti delle famiglie mafiose calabresi che avrebbero effettuato consistenti speculazioni finanziarie e immobiliari a partire dagli anni novanta».
La relazione della Dia ricorda che «il consolidarsi del rapporto di collaborazione con le strutture investigative tedesche ha consentito di realizzare una puntuale analisi fenomenologica delle organizzazioni delinquenziali presenti in Germania e di attuare la conseguente attività repressiva.
Tale efficace collaborazione è frutto soprattutto di un rapporto privilegiato tra la Dia e il Bundeskriminalamt che si è ulteriormente consolidato con l’adesione della Germania alla Rete @ON, nell’ambito della quale sono stati supportati importanti attività operative, tra cui spicca l’operazione “Platinum Dia”, che nel 2021 aveva debellato un sodalizio di matrice ‘ndranghetistica riconducibile alla famiglia Giorgi, intesi Boviciani, di San Luca, dedito al narcotraffico internazionale e aveva disvelato l’esistenza di una struttura criminale finalizzata alla importazione e commercializzazione illegale di numerose autovetture provenienti dall’estero, in prevalenza dalla Germania.
In tale contesto il 17 ottobre 2022 il Tribunale di Torino ha emesso sentenza nei confronti di 21 imputati, comminando pene detentive per complessivi 160 anni di reclusione.
Il 9 novembre 2022 l’operazione “Propaggine2”, della Dia di Roma, naturale prosecuzione dell’indagine, che durante lo scorso semestre aveva rivelato la presenza di alcune famiglie ‘ndranghetiste in Germania, ha consentito l’emissione di alcuni provvedimenti restrittivi, emessi dall’Ag capitolina, a carico di alcuni appartenenti al clan Alvaro e Carzo, indiziati di far parte di un’associazione mafiosa costituente una “locale” di ‘ndrangheta presente a Roma. Anche propaggini della ‘ndrangheta crotonese operano nel territorio tedesco, come emerso da recenti risultanze investigative che aveva accertato l’infiltrazione della cosca Farao Marincola di Cirò nel commercio dei prodotti vinicoli nei Länder dell’Assia e del Baden-Wurtemberg». (redazione@corrierecal.it)
La Mafia in Germania: il pm Lombardo
‘Ndrangheta che, come Cosa nostra e Camorra, è sempre più divenuto “fenomeno criminale transnazionale“, che vede protagonisti “soggetti non immediatamente identificabili che operano, in modo infedele e su scala mondiale, nei principali ambiti strategici: politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico“.
“(…) Noi magistrati, in Italia, viviamo sulla nostra pelle quello che sono le mafie, quelle che sono le difficoltà operative nel momento in cui sono diventate un fenomeno transnazionale e, soprattutto, viviamo una difficoltà che ogni giorno, purtroppo, rallenta l’azione di contrasto, ovvero l’enorme fatica collegata all’interlocuzione con chi quei fenomeni li ha conosciuti forse troppo tardi.
Il problema vero ruota attorno alla conoscenza del fenomeno, il concetto di criminalità organizzata: dovremmo parlare di un linguaggio comune, soprattutto a livello europeo, ma così non è.
Il fenomeno criminale di tipo mafioso nel sistema italiano è estremamente evoluto e complicato da spiegare, è un sistema che, purtroppo, ha affinato le sue strategie attraverso passaggi difficili e significativi legati a stragi, omicidi, attacchi di tipo militare che lo Stato italiano ha subito per molto tempo. Oggi le mafie perseguono l’obiettivo di annientare la tensione morale che rende vincente la strategia di contrasto. La tensione morale è fondamentale nell’azione che ognuno di noi è tenuto a compiere, ogni giorno, con costanza. Con la consapevolezza diffusa che le mafie non sono uno dei tanti problemi italiani: sono invece il Problema“.
“Dopo la strage di Duisburg ci siamo interrogati – spiegava il magistrato –. Non ci siamo sorpresi per il fatto che avessero consumato delitti gravissimi apparentemente legati ad una banalissima ‘lite di carnevale’. Ci siamo interrogati sul metodo investigativo che avevamo utilizzato sino a quel momento, che forse non ci aveva consentito di acquisire tutte le informazioni di cui avevamo bisogno. Avevamo tutta una serie di elementi di conoscenza che provenivano dall’imponente mole delle attività di indagine svolte in quegli anni. Ma non avevamo colto a fondo alcune sfumature, che dovevano, invece, emergere con forza da quelle immagini cruente.
Ci siamo resi conto, in altri termini dopo la strage di Duisburg, che l’attività investigativa non aveva ancora fornito tutte le risposte alle domande che bisogna porre a se stessi quando si avvia un’indagine finalizzata al contrasto del crimine organizzato di tipo mafioso.
Era arrivato il momento di recuperare fino in fondo una caratteristica fondamentale del modo di essere della magistratura italiana: la capacità di studiare un fenomeno non soltanto sulla base delle verità giudiziarie ma anche sulla base di un insieme di conoscenze ulteriori, non ancora sottoposte al vaglio processuale. Oggi ho ascoltato con piacere il professore che mi ha preceduto di tutta una serie di aspetti sociologici che reputo importanti anche per noi. Come ovviamente è importante il dato giudiziario per chi approfondisce il fenomeno in ambito universitario.
È arrivato il momento di comprendere fino in fondo, nell’era delle nuove tecnologie, che va svolta con attenzione una fase decisiva della ricerca della verità giudiziaria, che è la fase della cosiddetta pre-investigazione.
Cosa significa? Prima di avviare l’attività di investigazione – per esempio connessa alla strage di Duisburg o relativa a quella faida di San Luca di cui parlava il ministro Minniti – è fondamentale studiare a fondo non solo uno-due-tre-x soggetti appartenenti alla ‘Ndrangheta, ma gli interi ceppi familiari, è fondamentale capire se, ad esempio, in quella faida apparentemente come tante altre si innestavano antiche ruggini, si innestavano interessi di altra natura, si innestavano, magari, mancati accordi spartitori.
Perché una cosa è il movente prossimo. Altra cosa è il movente remoto.
Facendo questo è possibile comprendere se abbiamo perso qualcosa per strada, magari facendo uso di automatismi investigativi non più attuali.
Curare fino in fondo la fase pre-investigativa consente di non disperdere fondamentali fonti di conoscenza ed individuare con precisione il tema dell’investigazione.
Ecco che, applicato questo metodo di lavoro, per comprendere quello che stava succedendo nel 2007, per capire come si era trasformato il fenomeno mafioso da tipicamente locale a fenomeno nazionale, e poi a fenomeno internazionale, transnazionale, intercontinentale, era necessario effettuare una ricostruzione a ritroso che consentisse di recuperare tutta una serie di parti conoscitive di grande rilievo.
Per fortuna eravamo in possesso di tantissimo materiale e siamo riusciti a ricostruire tutto, praticamente a partire dalla fine degli anni ‘60“.
“(…) Fino alla strage di Duisburg ed anche oltre ci hanno raccontato che la struttura della ‘Ndrangheta fosse orizzontale. Cioè fosse un insieme di famiglie, più o meno importanti, aventi determinate caratteristiche, con un forte radicamento territoriale, una fortissima componente familiare e familistica. Questa impostazione comportava una investigazione che riguardava un fenomeno criminale diverso da quello che era”.
“(…) Qualcuno la chiama ‘Ndrangheta imprenditoriale, per distinguerla dalla ‘Ndrangheta arcaica, che erroneamente si pensava non fosse legata a logiche di impresa, e invece lo era già.
Questa è la seconda fase che vive la organizzazione criminale di origine calabrese, che si apre con la cosiddetta prima guerra di mafia che viene combattuta nella città di Reggio Calabria tra il 1974 e il 1977. È la guerra che, sostanzialmente, segna l’ulteriore e più rilevante salto in avanti dell’organizzazione mafiosa. Si tratta di uno stadio evolutivo imprescindibile per comprendere tutto il resto. Siamo in presenza, ancora, di una struttura criminale tendenzialmente orizzontale. Le grandi famiglie, in altri termini, controllano il loro territorio.
Non tutte hanno lo stesso peso, tanto è vero che quelle più importanti hanno già proiezioni in altri territori rispetto a quelli di origine. Sono questi gli anni in cui, ad esempio, il Piemonte e la Lombardia diventano terra di conquista”.
“dalla struttura orizzontale, in cui i grandi capi dialogano quasi alla pari, ad una struttura di tipo tendenzialmente verticale, che non è necessariamente sinonimo di organizzazione di tipo verticistico. Ci sono alcune famiglie che hanno un peso criminale enormemente superiore a tutte le altre. Sono quelle di più alto rango le famiglie che decidono le strategie: non per questo possono banalmente essere considerate il vertice della ‘Ndrangheta. Cioè la struttura criminale non dipende solo da loro, anche se è fortemente influenzata da esse”.
“Questo tipo di struttura è stata ricostruita in circa 8 anni di lavoro dalla procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, attraverso una serie di indagini che sono sfociate in processi, conclusisi con sentenze passate in giudicato. La struttura verticale di tipo verticistico potrebbe far pensare che oggi la ‘Ndrangheta ha una cellula di comando, un capo, che ne determina l’esistenza, l’operatività degli obiettivi. Non è banalmente così. La ‘Ndrangheta è dotata di una filiera di comando molto sofisticata.
Sulla base di quel lavoro di raccordo, recupero e rilettura unitaria di cui parlavamo prima si è scoperto che le numerosissime intercettazioni telefoniche e ambientali in cui si parlava di livello provinciale facevano riferimento a qualcosa che aveva un significato più ampio di quello che, prima facie, era sembrato ovvio.
E si è soprattutto scoperto, operando anche in questo caso una lettura a ritroso, che i riferimenti alla cosiddetta Provincia, erano riferimenti che già emergevano nel corso delle indagini relative al summit di Montalto dell’ottobre 1969”.
“(…) Chi compone la Provincia ha compiti di gestione centralizzata dell’organizzazione, di garanzia della sua unitarietà e di tutela delle sue regole fondamentali.
Cioè la ‘Ndrangheta esiste, ed ha determinate caratteristiche, non perché i suoi appartenenti rispettano determinate regole, ma perché quei soggetti si riconoscono in un sistema mafioso, in cui il termine ‘Ndrangheta diviene un brand criminale conosciuto nel mondo, in cui non sei libero di fare quello che vuoi: se non ti comporti da ‘ndranghetista c’è qualcuno che ti richiama all’ordine”.
“(…) I mandamenti principali, quelli storici, da cui dipendono anche le articolazioni estere, sono tre: Ionico, quello di San Luca, la “mamma”; Tirrenico, quello di Palmi, Gioia Tauro e Rosarno; Centro, quello della città di Reggio Calabria.
Immaginate queste tre zone della Calabria: è da qui che partono gli ordini che devono essere eseguiti dalle articolazioni di ‘Ndrangheta nel mondo. Quindi, per quelle che sono le attuali conoscenze, il livello mandamentale è quello propriamente operativo“.
“Sempre per effetto di questa opera di revisione critica e di ricostruzione a ritroso – spiegava Lombardo nel 2017 – si scoprono anche altre tracce che portano all’operazione Mammasantisisma dell’estate 2016.
Un’operazione che consente di ipotizzare l’esistenza del terzo livello. È la cosiddetta direzione strategica della ‘Ndrangheta, quella che ha il compito di effettuare la pianificazione di programmi articolati e duraturi.
Non dimenticate che le strutture criminali di tipo mafioso sono, tendenzialmente, delle strutture ad alto tasso di segretazione. Questo ci serve per dire che la direzione strategica appare – sulla base delle conoscenze attuali che devono trovare ancora conferma processuale definitiva – ulteriormente segretata.
Non è nota agli stessi appartenenti alla ‘Ndrangheta visibile (o militare/territoriale). In altre parole, non tutti sanno che esiste un cervello, una testa pensante dell’intera struttura criminale di tipo mafioso.
Il soggetto di ‘Ndrangheta che non è abilitato a sapere – e sono pochissimi ad accedere a questa componente riservata – è portato a pensare che la decisione venga presa dall’organismo provinciale di cui vi parlato prima, che poi ne affida l’esecuzione alla direzione operativa. In realtà quegli organismi sono soltanto incaricati della fase esecutiva di una decisione che viene presa altrove. Ma tutto questo, ovviamente, a un uomo di ‘Ndrangheta di livello medio-basso non viene detto”.
“Come mai molti anni fa la ‘Ndrangheta ha pensato, per ipotesi, alla Germania, alla Francia o alla Gran Bretagna per effettuare determinati investimenti? Perché l’organizzazione criminale ha sempre avuto in sé la cosiddetta “componente dialogante”. Quella che non si presenta in modo tipicamente mafioso e che è tenuta, in una sorta di percorso di mimetizzazione molto evoluto, ad interloquire in tutti i settori strategici di rilevanza nazionale ed estera, con particolare predilezione per quelli a carattere politico, istituzionale, professionale, informativo, finanziario, imprenditoriale, sanitario, bancario ed economico, generato anche qui sulla base di verifiche sul campo.
Avete già oggi la possibilità di verificare che quanto accertato da Reggio Calabria è già recepito nella relazione della Direzione Nazionale Antimafia (relazione dell’anno 2016, n.d.r.), in cui si parla dell’esistenza di una struttura riservata di comando, che in origine si chiamava Santa o Mammasantissima, presenti in tutti i settori, scrive la Dna, nevralgici della politica, dell’amministrazione pubblica e dell’economia“.
“(…) La ‘Ndrangheta diventa, infine, parte di un sistema criminale allargato che abbraccia anche Cosa nostra, la Camorra e le altre strutture criminali che operano seguendo metodi, e per finalità, tipicamente mafiosi.
Ecco la vera essenza della direzione strategica, che non è più esclusiva di una sola componente criminale ma che esiste in relazione a tutte le mafie storiche. Si instaura, per questa via, un legame alto in grado di trasformare la mafia italiana(in tutte le sue componenti principali prima dette) in una vera e propria agenzia di servizi criminali.
Cioè non esiste più la ‘Ndrangheta come organizzazione criminale di origine calabrese, non esiste più Cosa nostra come organizzazione criminale tipicamente siciliana, non esiste più la Camorra come organizzazione campana.
Il sistema criminale di tipo mafioso, nelle sue componenti riservate di vertice, diventa qualcosa di diverso, notevolmente più pericoloso ed infiltrato nel tessuto legale”
“(…) quando un capomafia calabrese ha necessità di investire in ambito finanziario in Germania, e deve interloquire con il banchiere, col finanziere, col broker o col commercialista si rivolge al sistema criminale unitario di cui fa parte, non si presenta più come uomo di ‘ “Speriamo di non accorgerci, tra qualche anno, che interi sistemi di tipo finanziario, economico e imprenditoriale, sono controllati dal sistema criminale di cui vi ho appena parlato.
È arrivato il momento di aprire gli occhi, di impedire che questo avvenga.
Quando sarà troppo tardi avremo tutti poco da fare. La capacità di gestire gli enormi capitali, liquidi, che diventano ancora più appetibili in momenti di crisi – e non voglio assolutamente dire che le crisi sono generate dalle mafie, ma non mi stupirei neanche di questo – diventano un problema politico, perché le scelte politiche non sono libere nel momento in cui la grande economia subisce il condizionamento mafioso.
Per farvi comprendere quanto sia stretto il legame tra tali mondi, mi piace rileggere insieme a voi alcuni passi di una sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria in data 26 febbraio 1953, in cui l’estensore scriveva: “Che il mondo della mafia tenda costantemente a fare binomio con il mondo della politica è una verità ormai notoria. Si tratta di un fenomeno inevitabile perché nasce dalla natura delle cose, e cioè dall’esigenza vitale della mafia di profittare degli strumenti di azione pubblica, una volta che, a seconda dei casi, sia neutralizzata o resa inefficiente al massimo grado l’azione punitiva dello Stato.
Naturalmente la politica, qui considerata come termine dell’infame binomio, non ha nulla a che vedere con la nobilissima arte del governare e si risolve semplicemente in una forma gravissima di delinquenza, che sta alla vera politica come la prostituzione sta alla femminilità”.
“le mafie, ormai, siano un soggetto che interferisce. Come un enorme campo magnetico, che disturba da una parte ed attrae dall’altra”.
“Bisogna dire con chiarezza che le mafie sono tali non solo quando commettono delitti eclatanti, quando acquisiscono la gestione ed il controllo di attività economiche; le mafie non sono solo quelle che realizzano profitti o vantaggi ingiusti. Oggi è mafioso ogni comportamento che interferisce in profondità sulla vita di ognuno di noi, soprattutto quando l’attività di interferenza incide sulla libertà di autodeterminazione di organi di rango costituzionale, delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici anche economici nonché dei servizi pubblici essenziali.
La mafia del Terzo millennio è questa e non si riconosce sempre ad occhio nudo. Non tutto è mafia, ma quello che è mafia oggi noi, tutti insieme, in Italia ed all’estero, dobbiamo essere in grado di capirlo subito, senza fare inutili giri di parole”.
Le strategie di sviluppo di un’organizzazione mafiosa: il caso della ’ndrangheta calabrese
Giuseppe Lombardo, Procuratore aggiunto – DDA Reggio Calabria
BERLINO 12 luglio del 2017 conferenza “Libertà e sicurezza. Come affrontare la criminalità organizzata in Europa?”, presso l’ambasciata d’Italia.
Libertà e sicurezza – Come affrontare la criminalità organizzata in Europa
Dieci anni fa, gli omicidi di Duisburg portavano all’attenzione pubblica la presenza e il radicamento della criminalità organizzata in Germania. Da tempo infatti, le organizzazioni mafiose operano – nell’invisibilità collettiva – in tutta Europa.
Tenendo a mente anche altre forme di criminalità, spesso più evidenti, emergono molti interrogativi:
Esistono collegamenti tra la criminalità organizzata e il terrorismo? Con quali strumenti di prevenzione e contrasto possono reagire Germania, Italia ed Europa a queste minacce, in un mondo globalizzato? I governi nazionali sono in grado di affrontare questi pericoli? Dove è necessaria una cooperazione a livello europeo e internazionale? E quali sfide per il futuro sono già oggi chiaramente delineate?
Tutti questi aspetti verranno discussi il 12 luglio 2017 alla conferenza “Libertà e sicurezza – Come affrontare la criminalità organizzata in Europa?”, organizzata dall’Ambasciata d’Italia, in collaborazione con l’associazione Mafia? Nein, Danke! e.V e il Movimento Europeo Tedesco.
Hanno confermato la loro partecipazione alla conferenza il Ministro Federale dell’Interno Dr. Thomas de Maizière e il Ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, come anche alcuni dei più importanti esperti tedeschi ed italiani nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata.
La collaborazione tra Italia, Germania e Belgio per colpire le ‘ndrine Pelle-Vottari e Nirta-Strangio
Coinvolti alcuni dei protagonisti della faida di San Luca che portò alla strage di Duisburg nel 2007
Emergono i primi dettagli sull’operazione “Eureka”, condotta dai Carabinieri contro la ‘ndrangheta della Locride in Italia e all’estero. In territorio tedesco, la polizia è intervenuta in Baviera, Nordreno-Vestfalia, Renania-Palatinato, Saarland e Turingia, eseguendo oltre 30 mandati di arresto ed effettuando perquisizioni in decine di locali, sia residenziali sia commerciali. Le forze dell’ordine sono entrate in azione dopo quattro anni di indagini, concentrate sul traffico internazionale di stupefacenti, soprattutto cocaina. Secondo la polizia bavarese, le autorità italiane e belghe possono attribuire alle ‘ndrine oggetto dell’inchiesta “l’importazione e il traffico di circa 25 tonnellate” di questa droga in Europa.
I sospettati sono accusati di formazione di associazione a delinquere, traffico internazionale di stupefacenti e armi, evasione fiscale e riciclaggio di denaro in quella che è stata “una delle più vaste operazioni internazionali mai condotte nella lotta contro la criminalità organizzata calabrese”. Un ruolo decisivo nelle indagini è stato svolto dall’intercettazione dei telefoni crittografati utilizzati dagli ‘ndranghetisti.
Apparentemente una delle ragioni di ciò erano le restrizioni ai viaggi durante la pandemia della corona. Al riguardo, le autorità di sicurezza della Baviera affermano di aver aiutato gli inquirenti italiani “identificando un telefono cellulare crittografato di uno dei più importanti sospettati dell’operazione Eureka durante la sua permanenza” nel Land.
La cocaina nei portacontainer
Gli investigatori italiani e belgi hanno unito i loro procedimenti, ampliando la lista dei sospettati per includervi il cugino dei due fratelli, residente a Monaco di Baviera, nonché’ altri parenti e conoscenti in questa città.
Con il progredire delle indagini, questo elenco è cresciuto. Secondo quanto accertato dalle forze dell’ordine, gli ‘ndranghetisti hanno importato in Europa grandi quantità di cocaina dall’America meridionale con navi portacontainer che facevano scalo in porti come Anversa, Rotterdam o Gioia Tauro.
Parte dei carichi sarebbe poi arrivata in Australia. A tal fine, gli indagati hanno collaborato con organizzazioni criminali di Brasile, Colombia, Ecuador e Albania. Per ripulire le entrate illegali, i membri della ‘ndrangheta hanno creato una rete globale di riciclaggio di denaro, investendo ingenti somme in ristoranti, immobili e autolavaggi in particolare in Germania, Portogallo, Belgio e Argentina.
Colpite le ‘ndrine Pelle-Vottari e Nirta-Strangio
Nell’operazione “Eureka” sono stati coinvolti esponenti delle ‘ndrine Pelle-Vottari e Nirta-Strangio, protagonisti della faida di San Luca che portò alla strage di Duisburg nel 2007. Tra gli altri, si tratta di Francesco Pelle, arrestato nel 2021 a Lisbona dove da latitante era ricoverato in un ospedale per una grave infezione da Covid-19. In precedenza, il mafioso era stato condannato all’ergastolo per aver ordinato la strage di Natale del 2006 contro i Nirta-Strangio. Per vendicarsi, questo clan colpì i esponenti della famiglia rivale dei Pelle-Vottari a Duisburg. Durante le indagini in Portogallo, gli inquirenti si sono imbattuti nell’operazione “Fido”, avviata in Germania nel 2000″.
Si tratta di un’indagine avviata dall’Ufficio federale di polizia criminale (Bka) e dall’Ufficio di polizia criminale della Turingia su diversi ristoratori italiani nel Land, in particolare a Erfurt, sospettati già allora di riciclaggio di denaro proveniente dai traffici di droga della ‘ndrangheta. Sebbene la polizia sia persino riuscita a introdurre investigatori sotto copertura nell’ambiente dei sospettati, l’inchiesta si è conclusa dopo due anni senza alcuna accusa.
Una “strana fine” su cui il parlamento della Turingi sta tentando di far luce con una commissione d’inchiesta. L’obiettivo è soprattutto scoprire se l’operazione “Fido” sia stata interrotta per possibili legami tra i sospettati ed esponenti della politica, dell’amministrazione e della magistratura della Turingia.
CORRIERE DI CALABRIA 03/05/2023
‘Ndrangheta, Reggio una città sotto estorsione. L’escalation della cosca Libri – Gazzetta del Sud
Pizzo ai commercianti e mazzette agli imprenditori: il racket delle estorsioni si conferma il “core business” della ‘ndrina Libri, le nuove generazioni della cosca di Reggio Calabria con base operativa nella frazione collinare Cannavòe una postazione nel direttorio di comando del mandamento “Città”.
Le gerarchie moderne della cosca Libri non si limitavano ad esercitare la propria influenza nei rioni Condera, Reggio Campi, Modena-Ciccarello e San Giorgio Extra e nelle frazioni Gallina, Mosorrofa, Vinco e Pavigliana, ma puntavano ad espandersi con crescente autorevolezza criminale anche sul corso Garibaldi, nel salotto commerciale di Reggio.È il quadro, allarmante, tracciato dalla nuova inchiesta della Dda di Reggio Calabria chiamata “Atto quarto”, eseguita l’11 ottobre scorso. «Siamo disorganizzati sul Corso… passo io o passi tu, e non passa nessuno. Così in tanti non pagano il pizzo», commentano due indagati incastrati nella retata, l’ennesimo colpo di scure (dopo “Theorema-Roccaforte”, “Libro nero” e “Malefix”) della Procura antimafia contro la storica cosca Libri. Gli eredi degli storici padrini Mico e Pasquale Libri.
La retata è scattata all’alba dopo il solito briefing in Questura per raccordarsi sulle decine di “obiettivi” da centrare e un esercito di agenti in azione per seguire le 28 misure cautelari – 23 in carcere e 5 ai domiciliari – disposte dal Gip di Reggio, Flavia Cocimano. Contestualmente è stato disposto il sequestro preventivo di 11 società «riconducibili ad imprenditori indagati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa» per svariati milioni di euro: tutte nel settore dell’edilizia, delle costruzioni, immobiliare con le eccezioni di un’impresa di pulizia e una ditta specializzata in prodotti “gluten free”. Ampio il ventaglio delle accuse contestate dalla Dda: tutti adesso devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, tentato omicidio, detenzione illegale di armi, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.
Il boss che comandava dalla cella
Una delle figure su cui gira l’inchiesta è il 43enne Edoardo Mangiola. Quando è scattato il blitz era già in carcere, una impetuosa carriera da fedelissimo di Pasquale Libri fino all’attuale posizione apicale. Gli inquirenti non hanno dubbi sulla sua escalation, indicandolo come «capo del locale di Spirito Santo». E dal carcere continuava a comandare, a impartire indicazioni agli affiliati, a dettare ritmi e dinamiche della linea della cosca. Le imbasciate le inviava anche attraverso telefoni cellulari, ingegnosamente modificati per poterli mimetizzare e introdotti all’interno degli istituti di pena dove era recluso. Un micro cellulare, «un Iphone piccolissimo», un marchingegno in vendita solo in rete «appositamente progettato per essere occultato», destinato al capo detenuto.
Dal carcere, dove era ritornato nel giugno 2020 al culmine della retata “Malefix”, Edoardo Mangiola, il fedelissimo della ‘ndrina Libri che aveva guadagnato i gradi di colonnello della cosca con base operativa a Cannavò, continuava ad esercitare il suo ruolo di reggente.
Dalla sua cella, sono convinti i magistrati dell’antimafia e gli investigatori del a Squadra Mobile, assegnava compiti, imponeva le strategie del gruppo mafioso.E a tratti ci sarebbe anche riuscito inviando imbasciate all’esterno grazie al telefonino, e ai telefonini, che il suo entourage era riuscito a mettergli a disposizione.
Per gli inquirenti Edorado Mangiola «ricevette ed utilizzò» un telefonino in tre case circondariali: a Catanzaro, Avellino e Parma.
Ovunque fosse trasferito, insistendo anche all’indomani di un sequestro, convinto di non essere stato scoperto. Ed invece lo era stato. Incastrato, monitorato ed indagato anche per questo reato nel blitz con cui è stato inferto l’ennesimo colpo alla cosca Libri. Anche il Gip tratteggia un profilo gravissimo a carico di Edoardo Mangiola: «Comunicando dall’interno delle tre strutture penitenziarie forniva ai sodali direttive ed istruzioni, dettava disposizioni sulla riscossione dei crediti e dei proventi estorsivi, riceveva informazioni sugli imprenditori che contribuivano al suo mantenimento in carcere ovvero al pagamento delle sue spese legali, in tal modo mantenendo il suo ruolo direttivo in seno alla compagine mafiosa».
Il regista dell’operazione era lo stesso Edoardo Mangiola, il braccio operativo il figlio Beniamino, anche lui arrestato nell’operazione “Atto Quarto”.
In regime di detenzione sia Mangiola che il capo Antonio Libri, la reggenza della cosca è andata Antonino Votano, vertice della ‘ndrina di Vinco e Pavigliana. Ogni quartiere reggino di loro competenza aveva un riferimento, tutti individuati dal pool antimafia. Nello specifico: a San Cristoforo «era andato Filippo Dotta, affiancato da Claudio Bianchetti vero e proprio braccio operativo della cosca, che per come documentato dalle indagini si relazionava costantemente ed in maniera riservata, con l’attuale reggente Votano»; a Gallina i referenti sono stati individuati nei fratelli Emanuele e Vittorio Quattrone; nelle frazioni preaspromontane di Terreti, Straorino ed Ortì, «in simbiosi con i componenti della cosca Morabito intesi “i Grilli”, operavano i sodali Carmelo e Pietro Danilo Serafino». Ed ancora Giovanni Chirico «che in una sorta di veste di ministro degli esteri è stato delegato soprattutto a gestire i rapporti con gli esponenti della cosca Tegano», ma anche quello di Antonino Gullì, originario di Roccaforte del Greco, «rivelatisi essere tra i più fidati luogotenenti di Antonio Libri».
Potenti, autorevoli e intraprendenti, ma anche per i Libri era un passaggio obbligato condividere e relazionarsi per strategie e spartizioni dei proventi del racket con i vertici della cosca De Stefano-Tegano. Per gli inquirenti «le interlocuzioni Carmine De Stefano (estraneo a questa indagine), Michele Crudo (genero del boss Giovanni Tegano) e Mariano Tegano (figlio del boss Pasquale Tegano), sono stati mediati, tra gli altri, dal sodale Davide Bilardi». A Reggio città, ma anche in provincia e addirittura nel nord Italia, Lombardia e Piemonte soprattutto, si manifestava la forza di penetrazione della ‘ndrina Libri. L’indagine ha riscontrato «solidi rapporti» nella Locride, nella Piana di Gioia Tauro, in Aspromonte. Ed al Nord sponsorizzavano gli imprenditori di riferimento freschi di aggiudicazione di un appalto pubblico presentandoli ai capi di Milano o Torino.
Le imprese strozzate
«Le denunce continuano a crescere a Reggio Calabria: questo è un segnale rassicurate, importante, che fa ben sperare per il futuro anche perché è un dato che resta ad oggi sconosciuto in tante altre aree della città». È proprio questo l’aspetto che tiene a rimarcare il procuratore di Reggio, Giovanni Bombardieri, rispetto a quello, gravissimo, di tanti imprenditori che da vittime scelgono di condividere con i boss i destini delle loro aziende. Pagando sempre il pizzo, ma chiedendo sostegno quando aprono un cantiere in quartieri della città dove gli esattori del pizzo sono espressioni di diverse anime mafiose o per farsi consegnare un ricco subappalto; e spingendosi addirittura a farsi proteggere quando si spostano in Lombardia e Piemonte per eseguire i lavori di un appalto pubblico.
La storia dell’imprenditore Catalano
Non servivano minacce o violenza per farsi dare i soldi. Bastava chiedere un contributo «per mettersi a posto» e poter lavorare in pace, per «dare una mano alle famiglie dei carcerati», e gli imprenditori come Herbert Nunzio Catalano pagavano.
Senza fiatare. A cadenza più o meno regolare, i caporioni o i loro “giannizzeri” si presentavano per farsi pagare il pizzo. Un copione andato in scena per anni, fino a quando Catalano si avvicina alla Fai, Federazione antiracket italiana, e decide di tagliare i ponti con la cosca Libri. Una decisione che provoca, secondo l’imprenditore, un’immediata reazione degli uomini del clan: i modi pacati si trasformano in freddezza, le minacce diventano reali come il fuoco che, il 2 dicembre 2022, viene appiccato al deposito aziendale della “Tecnoappalti Italia srl” di Catalano. Nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip distrettuale di Reggio Calabria emergono i particolari delle dichiarazioni rese dall’imprenditore reggino alla Dda la sera dell’incendio e 21 dicembre 2022. «A partire dal 2015 – scrivono gli inquirenti – gli emissari della mafia locale si erano presentati nei cantieri (di Catalano ndr), per rivendicare il pagamento del pizzo… Nel 2016, si era verificato un evento che aveva rappresentato una sorta di spartiacque nei rapporti tra l’imprenditore e i rappresentanti delle ‘ndrine. Catalano, infatti, era stato avvicinato da Domenico (Mimmo) Pratesi, che gli aveva presentato Antonio (Totò) Libri che – da lì in avanti – avrebbe fatto da referente per tutte le famiglie mafiose: “Mi si presentò – racconta Catalano – tale Totò Libri… mi disse lui è il fulcro di tutte le famiglie di Reggio e quindi sarà lui da questo momento in poi l’interlocutore, a lui dovrai chiedere, cioè dovrai dare conto di quello che fai”». Da quel momento, «Catalano aveva erogato al Libri, a titolo di “messa a posto”, somme variabili tra i 500 e i 1000 euro che venivano richieste (secondo il più tipico canovaccio di ‘ndrangheta, per il sostentamento dei detenuti). “Mi venivano chieste… – spiega l’imprenditore – proprio a titolo di aiuto alle famiglie dei carcerati questa era la frase classica… erano finalizzare al fatto che questo mi consentiva di poter lavorare senza avere… la classica messa a posto”». Nel 2018, Antonio Libri «sentendosi braccato dalle forze dell’ordine – sostengono gli inquirenti – e volendo limitare le occasioni di sovraesposizione, chiedeva a Catalano di rapportarsi – per la corresponsione del pizzo – con i Polimeno di Gallina, ovvero Demetrio (detto Mico o Mimmo) Polimeno ed il figlio Domenico, soggetti imparentati con i Quattrone. C’era stato pertanto un passaggio di consegne». A questo riguardo Catalano spiega che «questa… richiesta era quasi una cortesia che mi facevano, nel senso che faceva da tramite, quasi si scocciavano a venirmi a chiamare per dirmi ricordati che c’è questo impegno che devi assolvere…E questo è successo in un arco temporale, diciamo tra il 2017 e il 2020. Io ho trovato un appunto». L’appunto citato da Catalano è una sorta di libro mastro nel quale l’imprenditore appunta tutti i pagamenti estorsivi che avrebbe pagato da 2015 al 2020. In quella data, Catalano aveva iniziato a frequentare le associazioni antiracket, trovando il coraggio di opporsi alle richieste estorsive. Il coraggio della denuncia è un tema ripreso da Alfonso Iadevaia, il dirigente della Squadra Mobile che ha coordinato l’inchiesta “Atto Quarto” insieme al funzionario Paolo Valenti: «Decidere e scegliere di stare con la ‘ndrangheta continua ad essere una scelta perdente. Mi appello agli imprenditori: la ‘ndrangheta non fa crescere. La ‘ndrangheta non conviene alle vostre aziende».
Gli imprenditori al servizio dei Libri
Un appello che fino a qualche mese fa è stato del tutto ignorato da doversi imprenditori reggini. All’interno di questo mondo complesso, infatti, fatto di parole non dette, di cognomi e appartenenze da esibire e di minacce più o meno esplicite, si trovano anche imprenditori che con i clan non solo scendono a patti, ma fanno addirittura affari. In “Atto quarto” sono diversi quelli finiti in carcere (o ai domiciliari) con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa: Nunzio Magno, Antonino Pirrello, Giovanni Chirico, Giovanni Siclari (finito ai domiciliari), Giovanni Zema. Per la Dda sono «collusi» con la cosca Libri, pronti a pagare per ottenere protezione e appoggio per nuovi lavori.
Cosche contro per le zone del pizzo
«Ogni rione ha la sua cosca di riferimento», faceva notare Libera dopo il blitz della Dda. Ed effettivamente, dalle carte dell’operazione “Atto Quarto”, emerge una sorta di mappatura degli interessi delle cosche su Reggio. Che sono tanto presenti da entrare, inevitabilmente, in contrasto quando viene chiesto il pizzo alla persona “sbagliata”. Un esempio lampante è ricostruito proprio dalla Direzione distrettuale antimafia nella recente inchiesta eseguita la settimana scorsa. Protagonisti sono i Libri e i De Stefano, nomi pesanti delle cosche del mandamento centro; lo sfondo è quello del cantiere del parcheggio del nuovo palazzo di giustizia. La squadra mobile della Questura intercetta Antonio Libri detto “Totò”: «A Paolo Rosario De Stefano gli ho fatto fare una brutta figura». Gli inquirenti riconducono il commento a «un tentativo di estorsione che De Stefano aveva posto in essere senza avvertire i Libri che ne avevano la competenza per territorio». Libri si addentra nei dettagli con il suo interlocutore: «Una mattina… che parliamo noi, che fa questo, senza dirci niente a noi… Vede, parla con la ditta, aspetta aspetta…». Poco dopo la visita in cantiere, la vittima riferisce l’accaduto a “Totò” «che – annotano gli inquirenti – dopo avere ascoltato il racconto (dell’imprenditore, ndr), avergli chiesto come avrebbe voluto regolarsi e avuta conferma che non era intenzionato a pagare (“Guarda io non glieli porto”), è andato a trovare De Stefano rimproverandogli, anche su mandato del boss Pasquale Libri, il grave sgarbo che i Libri avevano subito». La ricostruzione della Dda prosegue in questi termini: «In quella occasione Paolo Rosario De Stefano aveva tentato di giustificarsi dicendo che non aveva fatto in tempo ad avvertirli, ma Totò Libri aveva rimarcato che lui non aveva nessun titolo per prendere impegni: “Paolo… lo sa… dice ma così faccio cattivo cuore, il peggio è il tuo, ha detto mio zio Pasquale… perché tu sei un grandissimo scostumato, dice: “no ma non ho fatto in tempo… tutti”. Ma chi sei che ti prendi gli impegni…”». Un’intromissione sgradita, insomma, in una vicenda che sarebbe stata di interesse dei Libri. «A casa mia… a casa sua dispone, ma parola d’onore» commenta un altro indagato vicino alla cosca. Ad ognuno il suo, è la legge delle ’ndrine.
Il traffico di droga tra i Libri e i narcos di Platì e i clan di Catania
Non solo racket delle estorsioni. La ‘ndrina Libri, come confermato dagli inquirenti dell’operazione “Atto Quarto”, facevano affari anche con il traffico di sostanze stupefacenti. I poliziotti della Squadra Mobile scoprono già nel marzo 2017 una sinergia nel settore del narcotraffico con esponenti di primo piano delle cosche di Platì, riconducibili al clan Barbaro. La conferma si ricava quando due emissari dei Libri, intercettati e monitorati dalla Procura antimafia di Reggio, «intraprendevano un viaggio nella Locride, alla volta dapprima di Platì e poi di Bianco». L’intero viaggio veniva monitorato dagli inquirenti grazie al servizio di intercettazione predisposto sul telefono in uso ad un indagato. Il giorno dopo un’altra conversazione preziosa per chi sta indagando: «Commentava il viaggio che aveva dovuto fare il giorno prima in urgenza, rivelando che lo aveva intrapreso su indicazione di “Edoardo” (agevolmente identificabile in Edoardo Mangiola…). Lo stesso indicava anche, in conformità con quanto emergeva dalle intercettazioni, che i soggetti con cui si era interfacciato erano esponenti della famiglia Barbaro». Il dato rilevante è la forza criminale dei Libri, visto che i Barbaro erano ben disponibili a ricomporre un equivoco mettendo a disposizione una partita di cocaina: «L’oggetto dell’incontro veniva chiarito dalle parole dell’indagato e si trattava di una controversia economica dove i Barbaro avevano proposto una partita di cocaina per chiudere la vicenda, come si poteva evincere dal gesto che compiva per spiegare al suo interlocutore i fatti (“tirava con il naso”)» e commentando come «il soggetto con cui si era incontrato lo aveva rassicurato circa il loro impegno, e per dimostrare il suo appoggio, li aveva accompagnati a trovare la persona che era direttamente coinvolta nella vicenda. Nel corso di quell’incontro per risolvere con profitto la controversia, era stata proposta una fornitura di cocaina». Narcotraffico con i boss della Locride, affari con i compari catanesi. La ‘ndrina Libri spediva “pacchi” di cocaina sull’asse Reggio-Catania. Un business che emerge dalle carte dell’operazione “Atto Quarto”. Il terminale dell’affare era sempre Edoardo Mangiola. La conferma arriva agli inquirenti dal monitoraggio del telefonino che custodiva, ed usava, in carcere Sembra paradossale, ma Mangiola si curava a usare un linguaggio in codice: «In particolare si preoccupava di esplicitare le modalità criptiche del linguaggio in cui doveva essergli recapitato il messaggio di conferma dell’acquisto da parte dei catanesi, alludendo ad “una panda” per ogni kilogrammo: “Tonino, per quanto riguarda che ne so parla di macchina … Gli devi dire è disponibile e c’è. e gli dici per esempio che c’è una Panda, due … che ci sono due Pande tre Pande ed io capisco, capito? A livello di prezzo come gli posso dire? E quello gli devi dire, fino a là. Gli devi dire che non hai che cosa fare. Vabbò e scusa poi non gli devo dire come deve arrivare e come deve fare? Viene uno e mi trova? Viene uno e ti trova e poi tu vai ed organizzi e lui viene poi dietro di te per fatti suoi. Okay? Fatti dire però per quanto macchine che è importante”». Ordine del capo: prezzo da applicare, 38 euro per grammo. Francesco Altomonte 22.10.2023 GAZZETTA DEL SUD
Sedici anni fa la STRAGE di DUISBURG, quella grave debolezza della ‘ndrangheta che svelò strutture e cambiandone la storia
Il 15 agosto del 2007 fa il mondo scopriva ferocia e potenza delle cosche calabresi. Ma la mattanza in terra tedesca segnò l’involontaria fine della strategia della sommersione, aprendo una stagione di grandi inchieste che alzò definitivamente il livello delle indagini.Duisburg (Germania), ore 2.24 del 15 agosto 2007. Sono le coordinate di una strage che non solo lascia sull’asfalto sei morti ammazzati, ma rappresenta uno dei più grossolani – e consapevoli – errori strategici della ‘Ndrangheta. Che non sono molti, ma quando accadono fanno parecchio rumore.
Perché, dopo quella mattanza, nulla sarà più come prima nel contrasto a quella che è, ancora oggi, l’organizzazione criminale più potente.
Sono trascorsi 16 anni da quella notte infernale in cui il mondo si accorge, in modo improvviso e cruento, di quanto sia pervasiva la presenza della ‘Ndrangheta anche nella laboriosa e “tranquilla” Germania. Un pugno nello stomaco difficile da mandare giù per la struttura delinquenziale calabrese avvezza, nel corso degli anni, ad una ben più remunerativa strategia della sommersione. In fondo, la regola è sempre la stessa: niente azioni eclatanti per non disturbare il “business”. E Duisburg, in tal senso, ne rappresenta un evidente momento di debolezza.
I numeri della mattanza
Nella notte dell’Assunta del 2007, di fronte al ristorante “Da Bruno”,in sei vengono trucidati: Tommaso Venturi, 18 anni; Francesco Giorgi, 16 anni; Francesco Pergola, 22 anni; Marco Pergola, 20 anni; Marco Marmo, 25 anni; Sebastiano Strangio, 39 anni. Tutti trascorrono la serata nel ristorante di proprietà di Strangio.
C’è da festeggiare il 18esimo compleanno di Tommaso Venturi.
Tra i suoi oggetti personali verrà ritrovato anche un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo, segno inequivocabile dell’avvenuta affiliazione alla ‘Ndrangheta.
I killer sono freddi. Spietati. Agiscono sparando oltre 50 colpi d’arma da fuoco, cogliendo le vittime nell’atto di entrare nelle rispettive autovetture. I sicari hanno persino il tempo di ricaricare le armi e non risparmiano neppure il colpo di grazia per ciascun obiettivo. C’è da mettere una firma inequivocabile, una che possa far capire da dove provenga una carneficina di quelle dimensioni inflitta a persone reputate più o meno vicine alla cosca Pelle-Vottari: è la firma della famiglia mafiosa dei Nirta-Strangio di San Luca. Le indagini si indirizzano subito verso la strada della vendetta a seguito dell’ultimo evento eclatante della faida di San Luca, la strage di Natale del 2006, nel corso della quale viene uccisa Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta.
La faida tra Nirta-Strangio e Pelle-Vottari è roba assai risalente nel tempo, iniziata con un banale scherzo di carnevale e divenuta una mattanza senza fine che ha portato addirittura alla convocazione di una commissione provinciale, composta dalle principali famiglie ‘ndranghetistiche reggine, per ricomporre la frattura. Tutto inutile. Perché, a distanza di tempo, il rumore delle armi è tornato a fare capolino nella Locride.
Il mondo scopre la ferocia della ‘Ndrangheta
Il risveglio dei tedeschi, nel giorno di Ferragosto di 16 anni fa, è tremendo. D’improvviso tornano d’attualità tutti quegli avvisi giunti da tempo dalle autorità italiane: la ‘Ndrangheta ricicla enormi quantità di denaro in Germania. Ma da Berlino rispondono picche. La legislazione tedesca non consente un’attività repressiva come quella italiana.
Non si tratta certo di un business improvvisato, quello che parte dalla Calabria.
Da diversi decenni numerosi esponenti della criminalità organizzata calabrese si spostano con regolarità nell’Europa nordica, per mettere al sicuro e far fruttare gli ingenti introiti realizzati con il narcotraffico e le altre attività delinquenziali.
L’Italia è un paese ormai difficile ove porre in essere condotte di riciclaggio. La normativa è molto avanzata e la lotta ai patrimoni illeciti non conosce sosta. Meglio virare verso altri lidi. Di certo più tranquilli e che destano meno sospetti. Come la Germania, dove la nutrita colonia di calabresi presenti, che vivono e lavorano onestamente, rappresenta la copertura perfetta per non creare eccessivo allarme. Invece le autorità italiane scorgono questo segnale e si rivolgono più volte ai colleghi tedeschi.
La strage di Duisburg rappresenta niente più di un errore strategico che, col fragore di un temporale estivo, si abbatte sull’Europa. Il mondo osserva l’emersione quasi causale di un fenomeno carsico in movimento da diversi lustri. Una sorta di fessura da cui sgorga il rivolo che consente di comprendere cosa scorra al di sotto delle tranquille terre tedesche. Basti pensare che, addirittura sei anni prima, un’indagine italiana pone l’accento sul ristorante “Da Bruno”, con tanto di indicazione alle autorità della Germania. Ma non accade nulla.
Strangio e quell’errore consapevole in nome del potere
Le indagini italiane sui fatti di Duisburg permettono di giungere ben presto all’identificazione della mente della strage. Si tratta di Giovanni Strangio (condannato, con altri imputati, alla pena dell’ergastolo), ufficialmente imprenditore attivo nel settore della ristorazione in Germania e con un’ottima capacità di destreggiarsi tra il territorio italiano e quello tedesco. È il cugino di Maria Strangio, uccisa nell’agguato di Natale 2006. Il suo casellario giudiziario non dice molto. Eppure gli inquirenti italiani sono convinti: c’è lui dietro quell’azione così eclatante. Anche un identikit ne ritrae i lineamenti essenziali e fa il giro del mondo.
Ma è davvero ipotizzabile che coloro che hanno progettato una mattanza del genere non abbiano messo in conto i risvolti di un simile atto? Difficile credere di no. Più probabile immaginare che la voglia di riaffermare la supremazia di una famiglia rispetto all’altra, così come la sete di vendetta per i fatti precedenti, abbiano finito per prevalere, facendo valutare ai Nirta-Strangio l’ipotesi che i riflettori venissero puntati nuovamente su San Luca e sulla ‘Ndrangheta tutta.
Emblematico il commento che il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, dà ad una radio tedesca della faida di San Luca: «La storia ci insegna che le faide sono come i vulcani, possono state anche 50 anni, 80 anni spenti e poi all’improvviso c’è un’eruzione perché l’odio dentro rimane». Frase non casuale, considerato che, dopo la strage di Duisburg, il Crimine di San Luca impone la pace alle due famiglie. Troppo grande il danno procurato per poter continuare con il sangue e le azioni eclatanti.
Cosa cambia dopo Duisburg
Quanto avvenuto in terra tedesca, per dirla con le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, è unepisodio «dove le mafie in realtà non hanno mostrato la propria forza, ma la loro debolezza».
Il motivo è presto detto. Fino ad allora, la ‘Ndrangheta viene vista come una struttura criminale orizzontale. Un insieme di cosche con forte radicamento territoriale e una componente familistica spiccata. Ma quella è una visione ampiamente superata della ‘Ndrangheta, la cui struttura muta all’indomati del summit di Montalto del 1969 e dei successivi “moti di Reggio” del 1970. Si assiste in quell’epoca ad una evoluzione del crimine calabrese che trova il proprio momento cardine nella prima guerra di ‘Ndrangheta, tra il 1974 ed il 1977 e successivamente nella seconda (1985-1991), quella in cui avviene il passaggio dalla struttura orizzontale ad una verticale, di tipo verticistico.È in quel momento che alcune famiglie prendono il sopravvento rispetto ad altre, pur non rappresentando un semplice vertice della ‘Ndrangheta. «La struttura verticale di tipo verticistico – riferisce sempre Lombardo in occasione di un evento in terra tedesca di qualche tempo fa – potrebbe far pensare che oggi la ‘Ndrangheta ha una cellula di comando, un capo, che ne determina l’esistenza, l’operatività degli obiettivi. Non è banalmente così. La ‘Ndrangheta è dotata di una filiera di comando molto sofisticata». Le indagini della Dda di Reggio Calabria certificano innanzittutto quella struttura verticistica con l’inchiesta “Il Crimine”. Poi il livello si alza: arrivano diverse inchieste riunite sotto l’unico maxi processo “Gotha” che portano a ritenere esistente un terzo livello, ossia una componente riservata e segreta della ‘Ndrangheta, una direzione strategica con lo scopo di pianificare programmi con proiezioni anche internazionali. Ecco perché quanto accaduto a Duisburg non fa che mostrare una crepa nella capacità delle ‘ndrine di mimetizzarsi sul territorio e seguire i “programmi operativi” dettati dalla direzione strategica. Quella falla, nata con oltre 50 colpi di arma da fuoco in terra tedesca, impone giocoforza un cambio radicale nell’approccio al contrasto del fenomeno ‘ndranghetistico non solo in Italia, ma anche in Europa e nel mondo.
Non è un caso che, proprio a partire da quegli anni, venga condotta un’azione capillare che depotenzia enormemente le cosche più influenti della provincia reggina, decapitando il gotha delle consorterie ed azzerando, di fatto, l’elenco dei latitanti più pericolosi. Duisburg, dunque, rappresenta uno spartiacque. In qualche modo, l’inizio della fine della strategia della sommersione che ha consentito alla ‘Ndrangheta di accumulare, nel corso dei decenni, ingenti patrimoni illeciti ancora oggi disseminati in varie parti del globo, allo scopo di inquinare l’economia legale con l’iniezione di capitali assai appetibili. Tanto più se si considera che ormai le grandi mafie non ragionano più come compartimenti stagni, ma come vere e proprie agenzie del crimine che lavorano sinergicamente, come fossero un unico corpo.
La battaglia, per questo, non può dirsi certamente vinta. Anzi, tutt’altro. Si assiste forse oggi ad una lenta ma inesorabile diminuzione della soglia di attenzione pubblica attorno al fenomeno mafioso. Ed è un lusso che non ci si può permettere. Perché è esattamente ciò che le mafie desiderano: proseguire i loro affari nel silenzio, senza più sparare un colpo, se non strettamente necessario, così tornando in quel cono d’ombra garantito per decenni. Provando a mandare nel dimenticatoio finanche episodi come Duisburg, da consegnare alla storia quali meri incidenti di percorso da non commettere più. Benché ne abbiano condizionato per sempre storia a strategie. LACNEWS 15.8.2023
La strage di Duisburg, così si scopre la potenza della ‘Ndrangheta
La presenza ‘ndranghetista in Germania risalente già agli anni settanta e ottanta (quando a più riprese viene rilevata la presenza delle famiglie Farao di Cirò in provincia di Crotone, dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, delle famiglie di Reggio Calabria, delle storiche famiglie mafiose originarie di Africo, di San Luca, di Bova Marina e di Oppido Mamertina) era ben nota alle autorità tedesche anche solo per le richieste di assistenza giudiziaria e investigativa della magistratura e delle forze di polizia italiane.
Già nel 2001 l’indagine dei Carabinieri convenzionalmente denominata Luca’s aveva poi segnalato, anche alle autorità tedesche, il ristorante “Da Bruno” davanti al quale si è verificata la strage, e in generale, il cospicuo fenomeno del riciclaggio di denaro sporco nel settore della ristorazione, in quel paese.
La segnalazione non aveva prodotto concreti risultati investigativi, e la percezione che si ricava da questo scarso riscontro (a parte le carenze della legislazione tedesca in materia di repressione del riciclaggio e, più in generale, di aggressione dei patrimoni illeciti) è che l’atteggiamento delle autorità tedesche fosse di rimozione del problema, considerato, in modo più o meno inconsapevole, affare altrui. Affare degli italiani. Affare nostro.
La strage di Duisburg, come una metafora, spiega meglio di ogni discorso, meglio di ogni analisi, meglio di ogni riflessione, che il modello di crimine globale, rappresentato dalla ‘ndrangheta, non è (solo) affare nostro. Il 15 agosto ha rotto un tabù, ma chi fosse stato attento ai segnali, agli indizi, alle crepe, avrebbe potuto dire anche prima che era solo questione di tempo. Se nel sottosuolo della civilizzazione europea circolano certi fluidi ribollenti e miasmatici, prima o poi questi fluidi salteranno fuori, non appena si produca una crepa nella superficie.
La strage di Duisburg è stata come un geiser. Uno zampillo ribollente e micidiale che da una fessura del suolo ha scagliato verso l’alto, finalmente visibile a tutti, il liquido miasmatico e pericolosissimo di una criminalità che partendo dalle profondità più remote della Calabria, si era da tempo diffusa ovunque nel sottosuolo oscuro della globalizzazione. La crepa nella superficie in questo caso viene da lontano. Da un altrove inquietante e nascosto, lontano nello spazio e lontano nel tempo.
Tutto nasce a San Luca
Questo altrove è San Luca, località strategica nella storia e nell’attualità della ‘ndrangheta, luogo cruciale per il controllo dei traffici di droga che producono enormi profitti e sede altresì di una lunga e sanguinosa faida che vede lo scontro fra due gruppi familiari dell’aristocrazia mafiosa calabrese.
I Nirta-Strangio (principi del narcotraffico con basi in Olanda, Germania e oltreoceano) da un lato e Vottari-Pelle-Romeo (il cui capobastone, ‘Ntoni Pelle negli anni passati era stato designato, al santuario della Madonna di Polsi, capo crimine, cioè reggente e garante di tutta la ‘ndrangheta secondo il modello organizzativo federale elaborato dopo la guerra-pace del ‘91), dall’altro. La faida nasce per un motivo banale, per una bravata di giovinastri finita in tragedia. È una sera di carnevale del 1991, un gruppo di ragazzi vicini alla famiglia Strangio prende a bersagliare con uova marce il circolo ricreativo di Domenico Pelle, facendosi beffe delle proteste e delle imprecazioni del titolare. L’offesa non rimane impuntita e la sera di San Valentino due giovani della famiglia Strangio vengono uccisi, altri due feriti. Da quel momento gli anni novanta vengono segnati da un’impressionante sequenza di attentati e uccisioni che colpiscono ora l’una, ora l’altra parte in conflitto.
La faida culmina nell’omicidio del Natale 2006 quando un gruppo di killer armati di pistole e fucili uccide Maria Strangio moglie di Giovanni Nirta. Seguono altri omicidi, latitanze volontarie (il comportamento, tipico di quella zona, di uomini che, pur non avendo pendenze giudiziarie, si danno a latitanze di fatto, si nascondono per sfuggire alla vendetta altrui o per preparare più agevolmente la propria), scosse sempre più intense e pericolose che preludono alla mattanza di Ferragosto.
Come si diceva, vari elementi di questo inaudito episodio colpiscono l’immaginario collettivo e l’intelligenza degli investigatori. Non sfugge, a questi ultimi: – Il ritrovamento, accanto alla sala del ristorante “Da Bruno”, di un locale chiaramente destinato alle pratiche di affiliazione, con tutte le necessarie dotazioni iconografiche. – Il ritrovamento, nel portafogli di una delle vittime, Tommaso Venturi, di un santino di San Michele parzialmente bruciato; chiaro indizio di un’affiliazione celebrata poco prima.
Non sarà inutile al proposito ricordare che qualche ora prima, il 14 agosto, il giovane Venturi aveva festeggiato il diciottesimo compleanno potendosi da ciò desumere che l’ingresso formale nella consorteria mafiosa era stato fatto coincidere (secondo una tradizionale attenzione ai dettagli simbolici) con il passaggio alla maggiore età. – La circostanza che la strage avveniva (come altri episodi topici della faida di San Luca), sempre in prospettiva simbolica e rituale, in un giorno di festa. – Il fatto che gli attentatori parlino il tedesco, come risulta pacificamente da una delle testimonianze raccolte nell’immediatezza del fatto e che dunque appartengano all’immigrazione criminale di seconda generazione o comunque evoluta, poliglotta e dunque più pericolosa.
Le indagini, finalmente coordinate, delle autorità italiane e tedesche, consentono ben presto di verificare l’ipotesi investigativa formulata subito dopo il fatto. Responsabili della strage sono infatti appartenenti alla cosca Nirta–Strangio, e personaggio chiave dell’eccidio è una figura paradigmatica della ‘ndrangheta del terzo millennio, in perfetto equilibrio fra tradizione e modernità: Giovanni Strangio.
Si tratta di un imprenditore della ristorazione in Germania (titolare di due ristoranti a Kaarst), è poliglotta, si muove con estrema disinvoltura sull’asse italo tedesco e fino al dicembre 2006 (quando, in occasione dei funerali di Maria Strangio, viene arrestato dalla Polizia per detenzione di una pistola) era sostanzialmente incensurato. Che un soggetto con queste caratteristiche (e, lo si ripete, con un curriculum criminale pressoché inesistente), chiaramente dedito al segmento affaristico dell’attività criminale sia diventato uno dei ricercati più importanti d’Italia e d’Europa per la partecipazione ad un’azione di sterminio eclatante e senza precedenti, dà un’idea efficace della posta in gioco per le cosche di San Luca.
Non vi è dubbio che gli appartenenti alla cosca Nirta Strangio fossero consapevoli che il trasferimento della faida dalla Calabria in Germania avrebbe avuto l’effetto di accendere i riflettori sulla ‘ndrangheta generando un’accelerazione investigativa da parte italiana e una presa di coscienza della gravità del fenomeno da parte tedesca. È quanto emerge anche dal contenuto degli incontri tenuti in Germania, da una delegazione della Commissione parlamentare, nella missione preparatoria di questa relazione.
Chi aveva progettato quella strage con modalità così paurosamente spettacolari ne era ben consapevole, sapeva di dover pagare un prezzo e ha deciso di pagarlo pur di affermare la propria supremazia e il proprio progetto di potere criminale. È così che una sanguinosa faida d’Aspromonte (peraltro inserita nella lista delle dieci priorità criminali, stilata nel 2007 dal capo della D.D.A. di Reggio Calabria, Salvatore Boemi) porta all’attenzione dell’Europa e del mondo una mafia con caratteristiche singolari e apparentemente contraddittorie. Un modello criminale caratterizzato da impreviste e sorprendenti analogie con altri fenomeni della postmodernità. Un paradossale paradigma per gli studiosi moderni del concetto di efficacia.
L’origine della parola ‘Ndrangheta
Riflettere brevemente sul significato della parola ‘ndrangheta non è un mero esercizio accademico e offre invece interessanti spunti di riflessione e analisi storica. L’ipotesi etimologica più convincente fa riferimento al vocabolo greco andragatia il cui significato allude alle virtù virili, al coraggio, alla rettitudine.
L’andragatia è la qualità dell’uomo coraggioso, retto e meritevole di rispetto e la ‘ndrangheta storicamente ha sempre cercato il consenso presentandosi come portatrice di questi valori popolari e in particolare di un sentimento di giustizia e ordine sociale che i poteri legali non erano in grado di assicurare, in ciò manipolando strumentalmente la sfiducia delle popolazioni nei confronti dello Stato e delle Istituzioni. Quello che è chiaro, sin dai primi anni dello sviluppo della ‘‘ndrangheta, è che essa non è un’organizzazione di povera gente ma una struttura (composta da soggetti che si autodefiniscono portatori di virtù altamente positive) molto più complessa e dinamica, che, pur se in modo autoreferenziale, si considera un’elite e che tende all’occupazione delle gerarchie superiori della scala sociale. Il principale punto di forza della ‘ndrangheta è nella valorizzazione criminale dei legami familiari.
La struttura molecolare di base è costituita dalla famiglia naturale del capobastone; essa è l’asse portante attorno a cui ruota la struttura interna della ‘ndrina. È in ciò, come vedremo, la più importante ragione del successo della ‘ndrangheta, della sua straordinaria vitalità attuale, della sua superiorità rispetto ad altre forme di aggregazione criminale. Storicamente ogni ‘ndrina familiare era autonoma e sovrana nel proprio territorio (di regola corrispondente al comune di residenza del capobastone), a meno che non ci fossero altre famiglie ‘ndranghetiste.
In tal caso si operava una divisione rigida del territorio e nei comuni più grandi dove c’erano più ‘ndrine la coabitazione era regolata dal ‘locale’, una sorta di struttura comunale all’interno della quale trovavano compensazione le esigenze, anche contrastanti, delle diverse famiglie. È bene precisare che non c’è mai stata una struttura di vertice della ‘ndrangheta calabrese paragonabile a quella della Commissione di Cosa Nostra e fu solo nel 1991 che, per superare un conflitto che aveva generato diverse centinaia di omicidi, fu costituita una struttura unitaria di coordinamento.
Le donne hanno avuto e hanno attualmente un ruolo importante in questa realtà criminale, non solo perché con i loro matrimoni rafforzano la cosca d’origine, ma perché nella trasmissione culturale del patrimonio mafioso ai figli e nella diretta gestione degli affari illeciti durante la latitanza o la detenzione del marito, hanno, nel tempo, ricoperto ruoli oggettivamente sempre più rilevanti. La ‘ndrangheta, tra l’altro, a differenza delle altre organizzazioni mafiose, prevede un formale (ancorché subordinato) inquadramento gerarchico per le donne, le quali possono giungere fino al grado denominato “sorella d’umiltà”.
Per lungo tempo la ‘ndrangheta è stata sottovalutata, quando non addirittura ignorata dagli studiosi dei fenomeni criminali organizzati. Per lungo tempo è stata letta come una folkloristica, ancorché sanguinaria, filiazione della mafia siciliana. Per lungo tempo è stata considerata un fenomeno criminale pericoloso ma primitivo e tale visione fu favorita, fra l’altro, da un’errata lettura dell’esperienza dei sequestri di persona.
A uno sguardo superficiale tale pratica criminale richiamava quelle dei briganti dell’Ottocento o del banditismo sardo mentre una lettura più attenta avrebbe in seguito mostrato come i sequestri di persona costituirono una fonte strategica di accumulazione primaria, rafforzando al tempo stesso il controllo del territorio calabrese e il radicamento della ‘ndrangheta nelle località del centro e del nord Italia.
Il trasferimento degli ostaggi nelle zone dell’Aspromonte, la lunga permanenza nelle mani dei carcerieri, la collaborazione delle popolazioni, la sostanziale incapacità dello Stato di interrompere le prigionie, conferirono prestigio alla ‘ndrangheta, le diedero un alone di potenza e conferirono a quei territori – nell’immaginario collettivo – quasi una dimensione di extraterritorialità. L’accumulazione primaria di cospicui capitali che in seguito sarebbero serviti a finanziare i più proficui traffici della cocaina si univa a un piano, negli anni sempre più esplicito e consapevole, di potere e di controllo del territorio e del consenso.
TESTO
Mafie in Germania
La Germania, pur essendo la prima potenza economica europea, non è stata affatto immune al processo di espansione e di colonizzazione delle organizzazioni mafiose italiane, in particolare della ‘ndrangheta, nonostante venga rappresentata a livello comunitario come nazione da prendere ad esempio non solo sul fronte economico ma anche politico e morale.
Le tappe dell’espansione mafiosa in Germania
L’attuale e attiva presenza mafiosa in Germania, svelata agli occhi del mondo solamente nel 2007 a seguito del clamore suscitato dalla Strage di Duisburg, è il risultato di un lungo processo di colonizzazione che trova le sue origini a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, all’interno di un contesto storico di ricostruzione, apertura e dialogo tra gli Stati europei.
L’accordo bilaterale tra Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Italiana del 1955
In particolare, nel 1955 venne stipulato un accordo bilaterale tra Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Italiana[2] per agevolare l’arrivo di manodopera italiana in Germania, avendo quest’ultima raggiunto la piena occupazione e necessitando dunque di ulteriore forza lavoro. A ciò si aggiunse, nel 1957 la firma dei Trattati di Roma con la conseguente creazione del Mercato Europeo Comune.
Seguendo i flussi migratori dell’epoca, inizialmente in maniera del tutto casuale esattamente come avvenne nel Nord Italia, gli esponenti delle organizzazioni mafiose italiane si mimetizzarono tra i propri compaesani che andavano strutturandosi in comunità che ricalcavano i paesi e la lingua d’origine.
Mete principali furono le regioni occidentali della Germania, specialmente il Nordreno-Vestfalia, regione ricchissima di industrie e bacini minerari come quello della Ruhr e della florida economia sulle sponde del Reno, ma anche il Baden-Württemberg, l’Assia, la Bassa Sassonia e la regione della Saar.
Dapprincipio, il flusso migratorio fu abbastanza omogeneo, vedendo al suo interno sia lavoratori provenienti dal Sud come dal Nord Italia. Tuttavia, a partire dagli anni Sessanta furono soprattutto lavoratori del Sud Italia a scegliere la via dell’espatrio: circa il 70-80% delle partenze dal nostro Paese riguardavano il Meridione, con una quota maggioritaria e sempre crescente per quanto riguardava Puglia, Campania, Sicilia e Calabria.
Le persone che sceglievano di migrare erano tendenzialmente giovani uomini, in età lavorativa, il cui unico obiettivo all’estero era quello di lavorare per poter rimandare parte dei propri guadagni alle famiglie rimaste in Italia, per le quali spesso quella somma mensile costituiva l’unica entrata.
La natura del contratto dei Gastarbeiter (lavoratori ospiti) italiani in Germania prevedeva un soggiorno di breve o media durata. Con il passare del tempo però, i ricongiungimenti famigliari divennero sempre più frequenti ed avvenne una sorta di “normalizzazione” demografica dei flussi che portò al trasferimento di intere famiglie che raggiunsero il capostipite[3]. Fu così che interi nuclei familiari vennero ricostituiti in Germania.
La ricostituzione dei nuclei familiari venne sfruttata anche dagli esponenti delle organizzazioni mafiose italiane, che si stabilirono nelle stesse zone dove vi era un’elevata presenza di connazionali, se non addirittura compaesani, in modo da poter replicare le stesse pratiche estorsive ed intimidatorie che esercitavano in patria. Non tutto avveniva alla luce del sole: è stato appurato che molti si recavano in Germania illegalmente, per non dover seguire tutta la trafila burocratica prevista dall’accordo, che comprendeva anche severe visite mediche e test attitudinali.
L’accordo di Schengen nel 1985
Il 14 giugno 1985 i tre paesi del Benelux, la Germania Ovest e la Francia firmarono il cosiddetto “Accordo di Schengen“, che prevedeva la creazione di uno spazio comune attraverso una progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere comuni tra i cinque Stati interessati, sia per le merci sia per le persone. L’accordo, che negli anni successivi fu sottoscritto anche da altri Stati dell’allora Comunità Economica Europea, dal 1999 venne integrato nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione Europea.
Le nuove libertà di movimento di persone, merci e capitali furono subito colte dalle organizzazione mafiose italiane, che seppero coglierne prima di altri i vantaggi.
La caduta del Muro di Berlino
Quando il 9 novembre 1989 cadde il Muro di Berlino, simbolo della Guerra Fredda, le mafie italiane, perfettamente integrate nel tessuto socio-economico e culturale tedesco, colsero subito l’occasione per sfruttare il nuovo varco ad Est per espandere i propri traffici, iniziando a fare in Germania quello che poi avrebbero fatto all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica.
La situazione attuale
Le associazioni di stampo mafioso italiane, tra tutte Cosa Nostra, la ‘ndranghetae la camorra, presentano, nella loro diversità organizzativa, delle similitudini nelle modalità di insediamento e radicamento in Germania. Principalmente dedite al traffico di droga e di armi, creano dei corridoi sicuri investendo l’ingente quantità di denaro sporco in attività formalmente legali, così da trasformare un ristorante o una pizzeria in una base di stoccaggio di droga e armi, oltre che un punto di riferimento ed incontro per la comunità mafiosa insediatasi nella città. In tutte le organizzazioni, poi, le varie famiglie emigrate mantengono uno stretto legame con l’organizzazione originaria, mantenendo rapporti diretti e costanti.
L’organizzazione mafiosa più forte e radicata in Germania è la ‘ndrangheta, la cui presenza si snoda attraverso tutti i Länder, da nord a sud, ma risulta più concentrata nelle regioni del nord-ovest, dove sono presenti le principali aree industriali e aziende del paese per via anche della presenza dei bacini minerari più ricchi.
Oggi, tuttavia, è una zona strategica anche per il commercio di cocaina: sfruttando i porti di Anversa in Belgio e di Rotterdam nei Paesi Bassi che si trovano a pochi chilometri, gli ‘ndranghetisti inondano di cocaina l’intero continente sfruttando le rotte atlantiche. Proprio per questo le ‘ndrine di San Luca da tempo hanno costituito basi logistiche per organizzare al meglio il traffico internazionale di cocaina, sfruttando la propria preesistente presenza sul territorio.
Dal punto di vista della geografia mafiosa, tutte le organizzazioni mafiose presenti in Germania hanno dimostrato di sapersi dividere non solo aree di influenza territoriale, ma anche specifici settori criminali: la ‘ndrangheta detiene l’assoluto predominio nel traffico internazionale di stupefacenti, Cosa Nostra ha il monopolio nel settore dell’edilizia, mentre la camorra si occupa della vendita di merci contraffatte[4].
La cooperazione giudiziaria tra Italia e Germania
Nonostante l’intensificazione dei rapporti tra le forze dell’ordine tedesche e quelle italiane che ha portato a diverse operazioni antimafia internazionali, il principale problema in Germania è la scarsa consapevolezza della presenza mafiosa sia da parte dell’opinione pubblica, sia delle autorità tedesche, anzitutto per un ritardo culturale nel classificare le mafie italiane come un problema etnico tipicamente italiano, senza grandi effetti sul tessuto sociale, economico, politico e culturale tedesco.
A questo si aggiunge che in Germania, al contrario che in Italia, non esiste una legge che condanni penalmente l’appartenenza a un’associazione di stampo mafioso come il 416-bis, così come è assente la confisca dei beni. Le organizzazioni mafiose italiane quindi hanno maggiore libertà di movimento che in Italia, nonostante, all’indomani della Strage di Duisburg, fosse nata anche un’associazione antimafia ad hoc, Mafia? Nein Danke!, impegnata nella sensibilizzazione della società civile tedesca sul tema, e siano oggi diverse le realtà che hanno acceso i riflettori sulla presenza mafiosa, soprattutto della ‘ndrangheta, in Germania.
Cosa Nostra in Germania
La Germania non fu mai una destinazione privilegiata delle famiglie mafiose più potenti di Cosa Nostra, che privilegiavano anzitutto gli Stati Uniti e il Sud America. Furono invece le famiglie delle altre province siciliane, oppure esponenti della Stidda, a sceglierla come obiettivo per le proprie strategie di espansione all’estero.
Questa presenza risale agli anni Ottanta del Novecento, quando le famiglie del mandamento di Niscemi inviarono in territorio tedesco i cosiddetti “reggenti“, con il compito di mantenere saldi collegamenti con i clan di origine[5]. Sfruttando la loro presenza sul territorio, i reggenti crearono delle vere e proprie reti logistiche che, stando nell’ombra, poterono essere utilizzate in molti modi, anzitutto nascondendo latitanti e poi gestire in tranquillità il traffico di droga.
La pista tedesca di Borsellino
Nel 1992, poco prima di morire, Paolo Borsellino stava seguendo una “pista tedesca”, nell’ambito delle indagini che riguardavano l’omicidio di Rosario Livatino, ucciso dalla Stidda, e del Maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, inizialmente attribuito sempre alla Stidda ma poi rivelatosi opera di Cosa Nostra. Lo confermò anche l’allora capo della Bundeskriminalamt (un reparto delle forze di polizia tedesche), Hans Ludwig Zachert: Borsellino diede informazioni per catturare dei mafiosi nel Nordreno-Vestfalia e nel Baden-Württemberg[6]. Il giudice siciliano gli confidò “che aveva capito tutto su Agrigento”, ma poco dopo venne ucciso nella Strage di Via D’Amelio.
Le dichiarazioni di Antonino Giuffrè
Fu il collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè[7] che, parlando del fratello di Bernardo Provenzano, anche lui emigrato in Germania, diede una chiara descrizione di ciò che avveniva nel paese tedesco:
“Non è che ‘u frati di Provenzano se ne va in Germania per andarsene a zappare o a fari ‘u manovali, no?… e quante persone ci sono che se ne vanno in Germania per creare punti di riferimento e a sua volta crearsi conoscenze […] la mafia sarà una multinazionale… il cervello sarà in Sicilia, si sa abbastanza adeguare ai cambiamenti e per questo non è mai scomparsa… perché sa superare questi cambiamenti… ora sarà in un altro contesto… europeo… non è un caso che noi troviamo nuclei agrigentini in Belgio, nuclei siciliani in Germania e nell’Europa dell’Est, magari perché da noi c’è una legislazione e delle strutture che ostacolano questo adattamento”
Nonostante il ruolo del fratello di Bernardo Provenzano in Germania non fu mai collegato a delle attività mafiose, Giuffrè, che fu arrestato nel 2002, dipinse un quadro molto preciso e sottolineò una questione molto importante, ovvero la capacità della mafia di insediarsi in territori legislativamente e culturalmente impreparati a riconoscere e perseguire il reato di associazione di stampo mafioso.
Le attività di Cosa Nostra in Germania
La mafia siciliana in Germania inizialmente si occupò solo di traffici illeciti (droga, armi e rapine), ma ben presto si infiltrò nel sistema produttivo e imprenditoriale, tramite l’acquisizione di ristoranti e pizzerie, utilizzati anzitutto per lo stoccaggio di stupefacenti.
Non solo: stando alle indagini della Questura di Colonia, le famiglie siciliane, in particolare quelle originarie delle provincie di Enna, Caltanissetta e Agrigento, investono attivamente anche nel settore edile: gli arrestati erano tutti già conosciuti dalle autorità tedesche per altri reati quali l’evasione fiscale e contributiva e le sistematiche violazioni ai diritti dei lavoratori[8].
La presenza di Cosa Nostra sul territorio tedesco
Le famiglie di mafia siciliane hanno i propri centri nevralgici in città quali Amburgo, Mannheim, Norimberga, Spiesen-Elversberg e Wuppertal, collocandosi quindi in una zona molto ampia ma prevalentemente nelle regioni occidentali del paese. Le famiglie in questione non sono tra le più potenti di Cosa Nostra, ma hanno comunque il loro peso e la loro importanza: gli Emanuello di Caltanissetta, gli Aparo-Nardo-Trigila di Siracusa, le famiglie di Vittoria, in provincia di Ragusa, e di Niscemi e Gela, in provincia di Caltanissetta, nonché le cosche agrigentine di Favara e di Siculiana[9].
Più nel dettaglio, la presenza di Cosa Nostra è accertata nelle seguenti città:
- Amburgo, dove vi è la presenza del clan catanese dei “Cursoti”;
- Colonia, con la presenza dei clan di Licata e Favara, della provincia di Agrigento;
- Mannheim, con il clan degli Emmanuello di Gela, in provincia di Caltanissetta;
- Norimberga, dove è segnalata la presenza di affiliati della provincia di Siracusa e dove fu arrestato nel maggio del 2005 il latitante Massimo Cutelli, facente parte del clan Aparo-Nardo-Trigila;
La presenza della mafia siciliana nella Germania Est sembrerebbe confermata anche da un’intercettazione tra un boss catanese e un suo sodale a Berlino riportata da Roberto Saviano durante un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit[10]:
Boss: “Compra!”
Affiliato: “Ma che cosa? Qui non c’è proprio niente. Nessun ristorante, nessun negozio. È un deserto”
Boss: “Compra e basta, il resto lo facciamo noi”
Questa intercettazione è molto simile a un’altra attribuita a un boss della ‘ndrangheta, proprio il giorno della caduta del muro:
“Devi comprare tutto, tutto, tutto, compra discoteche, bar, pizzerie, tutto, tutto, tutto“[11].
Recentemente è emerso anche che i Rinzivillo di Gela, inizialmente dediti a realizzare articolati investimenti nei settori delle costruzioni e alimentare, nel corso del tempo si sono talmente radicati sul territorio al punto di realizzare una vera e propria “cellula tedesca”, la quale, avvalendosi di stabili relazioni con narcotrafficanti, anche calabresi, era riuscita a conquistarsi ampi spazi nel ramo del traffico di sostanze stupefacenti[12].
Gli arresti dei latitanti
In Germania vi furono anche numerosi arresti di latitanti siciliani, 14 tra il 2000 e il 2017. Tra loro vi sono[13]:
- Francesco Sacco, affiliato alla famiglia Carbonaro-Dominante di Vittoria, arrestato nel dicembre 2004;
- Massimo Cutelli, del gruppo Aparo-Nardo-Trigila, attivo nella provincia di Siracusa, arrestato a Norimberga nel giugno del 2005;
- Maurizio Vitello, della famiglia di Palma di Montechiaro, in provincia di Agrigento, arrestato a Monaco di Baviera nel marzo del 2006;
- Joseph Focoso, killer di Cosa Nostra coinvolto nell’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli e nel sequestro e successiva uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, catturato nel 2005 a Spiesen Elverberg, comune tedesco di 12.819 abitanti situato nel land del Saarland;
- Antonio Amato, esponente della famiglia di Niscemi, catturato anche lui nel 2005, ma a Wuppertal, città extra-circondariale di oltre 350mila abitanti della Renania Settentrionale-Vestfalia[14].
Camorra in Germania
Seppur sia un paese pieno di opportunità criminali, la Germania non è ad oggi una delle mete di radicamento principali della Camorra, che preferisce la Spagna per i propri traffici e i propri interessi. Tuttavia, la Direzione Investigativa Antimafia ha segnalato la presenza di camorristi in molte città tedesche come Berlino, Amburgo, Dortmund e Francoforte. Proprio nella capitale tedesca sono stati identificati soggetti riconducibili all’Alleanza di Secondigliano, in particolare delle famiglie Licciardi, Contini e Mallardo. Per quanto riguarda Amburgo, oltre ad esponenti dell’Alleanza, sono attivi anche altri clan come i Rinaldi, gli Ascione, i Cava, i Moccia, i Fabbrocino, i Casalesi, i Sarno, i Gionta e i Di Lauro[15]. In queste città, la collaborazione tra le forze di polizia tedesche e italiane ha portato all’arresto di dieci latitanti tra il 1997 e il 2017.
Le attività della Camorra in Germania
Le principali attività della Camorra in Germania sono legate alla produzione e al commercio di merce contraffatta, oltre al consueto traffico di stupefacenti.
Grazie alle inchieste del pm Filippo Beatrice, venne accertato che la merce contraffatta, d’abbigliamento e non solo, veniva fabbricata in Campania, nelle città di Casoria, Arzano e Melito, per poi essere distribuita in giro per il mondo, nei paesi esteri “magazzini”, dove venivano venduti come Valentino o Versace originali, agli stessi prezzi dei prodotti originali[16].
In Germania la rete si espande in città fulcro quali Chemnitz, Amburgo, Dortmund e Francoforte, dove i vari clan hanno creato avamposti per la distribuzione dei falsi, rifornendo e collaborando con i “magliari”, venditori ambulanti di vestiti e di capi in pelle[17].
Gli stessi avamposti che la Camorra utilizza per lo smercio di prodotti contraffatti vengono utilizzati per dirigere il traffico di sostanze stupefacentiche parte dall’Est Europa e raggiunge il resto del continente passando dalla Germania. Si intuisce da qui come anche per questa organizzazione, la caduta del muro di Berlino e del blocco sovietico, abbia rappresentato un’opportunità da cogliere all’istante per ampliare la propria influenza, in termini di profitto e potere.
A tal proposito, il collaboratore di giustizia Raffaele Giuliano descrisse così l’attività camorristica in Germania: “Dopo la caduta del Muro di Berlino abbiamo cominciato ad operare nella Germania dell’Est […] utilizzando i canali dei napoletani che già operavano in Germania abbiamo costruito un vero e proprio monopolio dell’abbigliamento in finta pelle […] venduta come vera […] dei falsi trapani Bosch […] delle macchine fotografiche”[18].
La contraffazione non si limita dunque all’abbigliamento “made in Italy” ma interessa anche elettrodomestici e dispositivi elettronici, come i trapani della marca Bosch, le macchine fotografiche Nikon e Canon, oltre alle scope elettriche Folletto della famosa marca Vorwerk[19].
La presenza della camorra sul territorio tedesco
Per quanto riguarda la Camorra invece, la Direzione Investigativa Antimafia risulta essere molto più precisa sulla locazione attuale di alcune famiglie collegate all’organizzazione campana, in particolare nelle città di Berlino, Amburgo, Dortmund e Francoforte.
A Berlino sono attivi gruppi riconducibili alla cosiddetta Alleanza di Secondigliano (clan Licciardi, Contini e Mallardo), così come ad Amburgo (clanRinaldi, Ascione, Cava, Moccia, Fabbrocino, Casalesi, Sarno, Gionta e Di Lauro)[20]. Questi clan sarebbero dediti alla commercializzazione di merci contraffatte prodotte nell’area del napoletano (in particolare abbigliamento, borse, macchine fotografiche e trapani elettrici).
Mafie pugliesi in Germania
Benché residuale, in Germania è stata accertata la presenza di alcuni gruppi legati alle organizzazioni mafiose originarie della Puglia, dediti in particolare al traffico internazionale di sostanze stupefacenti e di armi[21].
Questa lieve presenza avrebbe favorito la latitanza di affiliati al gruppo Pellegrino e di elementi del clan De Tommasi-Notaro, entrambi della provincia di Lecce. Si segnalano inoltre presenze del clan brindisino Rogoli-Buccarelli-Donatiello nella Germania occidentale, in particolare nella regione del Meclemburgo-Pomerania, mentre una frangia dei Mesagnesi sarebbe registrata nel Baden-Württemberg. Quali aree interessate marginalmente dal fenomeno si segnalano quindi il Nordreno-Vestfalia, la Renania-Palatinato, il Baden-Württemberg, l’Assia e la Baviera[22].
Tra il 2000 e il 2015 sono stati arrestati 9 latitanti affiliati alle mafie pugliesi in Germania.
‘ndrangheta in Germania
Tra le organizzazioni mafiose italiane, la ‘ndrangheta è la più potente, radicata e organizzata in Germania.
La sua presenza risale agli anni Sessanta del secolo scorso, quando iniziò un flusso migratorio da Reggio Calabria, Locri e San Luca verso le regioni occidentali tedesche, che si intensificò particolarmente dopo la caduta del Muro di Berlino, a causa delle immense possibilità di investimento nella Germania dell’Est: dal 1989 gli affiliati alla ‘ndrangheta cominciarono ad acquistare qualsiasi tipo di immobile, dai palazzi antichi agli alberghi ai ristoranti e pizzerie, radicandosi anche nel settore degli investimenti finanziari e, ovviamente, delle costruzioni e del movimento terra.
Vennero così a crearsi dei fortini ‘ndranghetisti sul territorio, che negli anni sono diventati centri logistici del traffico di stupefacenti verso il mercato dell’Est Europa, che stava rapidamente passando al capitalismo e all’economia di mercato.
La presenza della ‘ndrangheta sul territorio tedesco
Negli anni la Direzione Investigativa Antimafia ha confermato nelle sue diverse relazioni semestrali una marcata presenza di alcune delle ‘ndrine più potenti dell’organizzazione in Germania[23].
In particolare, è stata accertata la presenza della ‘ndrangheta sia nell’area occidentale, con locali attive nelle città di Francoforte, Radolfell, Rielasingen, Ravensburg, Engen e Duisburg, sia in quella orientale, in Turingia e Sassonia. Con l’operazione Rheinbrücke della DDA di Reggio Calabria, scattata il 7 luglio 2015 è stata accertata anche l’operatività della “Società di Singen“[24], città del Baden-Württemberg, al confine con la Svizzera.
Le ‘ndrine più attive in Germania sono quelle dei Pelle-Vottari-Romeo e Nirta-Strangio originari di San Luca, in provincia di Reggio Calabria, noti alle cronache per via della Strage di Duisburg, e quelle dei Pesce-Bellocco di Rosarno e dei Farao-Marincola di Cirò Marina, attive prevalentemente nei Land del Baden-Württemberg, Assia, Baviera e Nord Reno-Westfalia[25].
In queste regioni, la collaborazione tra le forze di polizia tedesche e italiane ha portato all’arresto di quattordici latitanti, tra il 2000 e il 2019[26]. Tra le operazioni antimafia recenti, con l’operazione Selfie, scattata il 31 maggio 2019, venne arrestato anche Michele Carabetta, ritenuto dagli investigatori elemento di spicco dei Pelle-Vottari-Romeo di San Luca, accusato di essere il promotore di una filiera produttiva di marijuana destinata alle piazze di spaccio romane e pontine[27], estradato in Italia il 18 giugno successivo[28].
Secondo una inchiesta di Frankfurter Allgemeine Zeitung e Mitteldeutscher Rundfunk, dopo la strage di Duisburg i vertici della ‘ndrangheta avrebbero costituito una Camera di Controllo anche in Germania, composta da 9 persone[29]. I componenti opererebbero nelle regioni occidentali e meridionali, e solo uno nell’Est, ad Erfurt, e si riunirebbero proprio a Duisburg. I compiti della Camera sarebbero gli stessi delle altre sparse in giro per il mondo: dirimere divergenze tra le ‘ndrine e garantire l’osservanza delle regole, così da non alzare i riflettori sulle loro attività in Germania.
Le attività della ‘ndrangheta in Germania
La principale attività criminale della ‘ndrangheta in Germania è il traffico internazionale di stupefacenti, di cui il Paese rappresenta, per via della sua posizione geografica, il principale crocevia europeo, nonché punto di approdo della maggior parte dei carichi di droga provenienti dal Sud America. Accertata è l’importanza del porto di Amburgo, uno dei più importanti in Europa per volume di merci, anche per la sua vicinanza geografica al porto olandese di Rotterdam, altro punto nevralgico della cosiddetta rotta atlantica del traffico di stupefacenti, insieme ad Anversa e Amsterdam[30]. Recentemente, nell’operazione Los Blancos della DDA di Firenze anche il porto di Brema è risultato essere uno dei nodi della rete del narcotraffico[31]. La seconda attività più rilevante è il riciclaggio di denaro sporco, con l’acquisizione di immobili, attività commerciali, bar, ristoranti e attività economiche formalmente legali, ma gestite col metodo mafioso. Tutte le pizzerie, i ristoranti, le società di forniture alimentari e le ditte di import-export sono intestate a fratelli, sorelle, cognati e parenti degli affiliati alle ‘ndrine, tanto che gli investigatori in un rapporto scrissero:
«non è più, in alcuni casi, sufficiente indicare l’anno di nascita, occorrendo precisare il giorno e il mese… è da ritenersi quindi, con elevata probabilità, che, molti di quelli nei cui confronti non risultano procedimenti penali, siano famigliari di noti capi clan, anch’essi impegnati nella gestione dell’impresa mafiosa… È, nella sostanza, l’aspetto legale dell’organizzazione, quello che consente di presentarsi alle autorità del Paese ospitante come immuni da pregiudizi penali, con tutti gli effetti positivi che possono derivare da questa posizione»[32].
Già nel 2000 le autorità tedesche, in un rapporto su 120 cittadini originari di San luca, scrivevano che la gran parte di loro lavoravano come pizzaioli o camerieri in ristoranti o pizzerie gestiti da altre persone sempre di San Luca. Il dato sorprendente per le forze di polizia tedesche era la facilità, poi confermata da un rapporto del ROS dell’anno successivo, con cui camerieri, pizzaioli e inservienti che dichiaravano al fisco uno stipendio mensile di appena un milione di vecchie lire italiane fossero in grado di ricomprare quegli stessi locali per centinaia di milioni di lire dell’epoca, dopo pochi mesi di lavoro. Come venne accertato in diverse inchieste giudiziarie successive, già nei primi anni Novanta molti di questi locali erano basi logistiche per il traffico internazionale di droga.
Sotto questo punto di vista, illuminanti le parole di due affiliati, intercettate nel corso di alcune operazioni antimafia. Il primo, Vincenzo Farao, figlio del boss di Cirò Marina, spiegava che “in Germania possiamo fare tutto [33]; il secondo, Luigi Muto, in un’altra intercettazione diceva che “se tieni la cosa della Germania, là puoi fare i miliardi […] la Germania è una lavanderia”[34].
L’assoluto controllo del territorio in Germania è emerso anche in indagini relative al traffico di rifiuti, in particolare nell’Operazione Feudo della DDA di Milano. In quell’indagine un affiliato faceva presente a uno dei capi dell’organizzazione che «noi possiamo avere accesso al termovalorizzatore di Dusseldorf […] Quantità illimitate»[35].
Le ragioni del primato della ‘ndrangheta
Le ragioni del primato della ‘ndrangheta in Germania vanno ricercate nella sua struttura organizzativa, fondata sul legame strettissimo tra affiliati delle ‘ndrine in giro per il mondo e la Calabria. Ogni iniziativa, dagli investimenti nell’economia legale all’apertura di nuovi traffici criminali, viene concordata con la “madrepatria“, da cui le ‘ndrine in trasferta dipendono in tutto e per tutto. Non parliamo solo di affari, ma anche delle regole e dei sistemi di valori che vanno a definire la cultura ‘ndranghetista.
A differenza di Cosa Nostra, che tende a integrarsi nel tessuto sociale in cui opera, facendo propri usi e costumi del luogo (si pensi a Cosa Nostra Americana), la ‘ndrangheta replica le proprie strutture ed è in grado di ricreare il tessuto sociale da cui proviene in ogni parte del mondo.
Dopo la Strage di Duisburg
Dopo decenni di silenziosa espansione in Germania, la Strage di Duisburg del 15 agosto 2007 squarciò il velo dell’omertà, ma la reazione successiva della politica e dell’opinione pubblica non fu la medesima che si ebbe, ad esempio, a Milano e in Lombardia dopo l’operazione Crimine-Infinito.
La ragione, secondo Francesco Forgione, si deve al fatto che le organizzazioni mafiose si trovano solo al quarto posto nella classifica delle organizzazioni criminali più potenti sul territorio tedesco: dovendo fronteggiare gruppi ben più radicati che destano maggior allarme sociale (turchi, rumeni, russi), le autorità tenderebbero a concentrare lì la maggior parte degli sforzi[36].
Ciononostante, sarebbero stati fatti dei significativi passi avanti da parte del Bundestag tedesco nel contrasto alle mafie italiane, anche in ragione del fatto che le autorità italiane si sono concentrate molto negli anni successivi a ricostruire movimenti e affari delle organizzazioni mafiose all’estero.
Il difficile lavoro dei giornalisti
La scarsa consapevolezza dell’opinione pubblica tedesca si deve anche all’enorme difficoltà per i giornalisti di poter approfondire l’argomento, senza subire censure. La giornalista Petra Reski, ad esempio, nel 2009 fu obbligata dalle autorità a censurare parte del suo libro “Mafia: Von Paten, Pizzerien und falschen Priestern“.
I motivi che possono portare alla censura sono anzitutto due:
- poiché il reato di associazione mafiosa non è previsto dal codice penale tedesco, non è possibile per la stampa definire mafioso chi non sia già stato condannato in Italia;
- non è possibile raccontare la storia di chi è stato condannato per mafia e ha scontato la sua pena, a meno che non si tratti di un personaggio pubblico.
Emblematico il caso del documentario dell’emittente televisiva Mitteldeutscher Rundfunk (MDR) che si occupava della città di Erfurt, dove la ‘ndrangheta ha stabilito un vero e proprio monopolio nel campo della ristorazione. Anziché ricorrere allo strumento dell’intimidazione classica dei giornalisti, in questo caso gli uomini della ‘ndrangheta fecero ricorso alla citazione in giudizio, ottenendo la censura di fatti e persone[37].
Famoso anche il caso del giornalista tedesco Jürgen Roth[38], anche lui citato in giudizio da diversi presunti affiliati alla ‘ndrangheta, il quale ha subito spesso la censura da parte delle autorità.
Le più importanti operazioni antimafia contro la ‘ndrangheta in Germania negli ultimi anni
Tra le principali operazioni antimafia contro la ‘ndrangheta in Germania, le più importanti sono sicuramente Stige e la European ‘ndrangheta Connection, anche nota come Pollino.
L’operazione Stige nel gennaio 2018
Il 9 gennaio 2018 un mega-blitz della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro portò all’arresto di ben 169 persone, tredici delle quali in Germania, nelle regioni del Baden-Württemberg e dell’Assia.
L’inchiesta, coordinata dal Procuratore Capo Nicola Gratteri insieme al procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e ai sostituti Domenico Guarascio, Fabiana Rapino e Alessandro Prontera, aveva come principali indagati alcuni esponenti affiliati alla ‘ndrina dei Farao-Marincola di Cirò Marina, in provincia di Crotone.
Le ordinanze in Germania vennero eseguite grazie ad Eurojust, che consentì il coordinamento tra la Procura di Catanzaro e le procure di Kassel, Stoccarda, Monaco e Dusseldorf.
Secondo quanto emerso dalle indagini, la ‘ndrina possedeva alcune aziende di distribuzione alimentare che imponevano i propri prodotti vinicoli e alimentari con una serie di intimidazioni di tipo mafioso, specialmente nei confronti di ristoratori di origine italiana[39]. La penetrazione nel mercato tedesco dei Farao-Marincola sarebbe stata portata avanti grazie a numerose attività commerciali, tutte attive nel settore alimentare, che anche in questa indagine si confermava come il settore economico più sfruttato dalla ‘ndrangheta per riciclare il denaro sporco. Diverse intercettazioni confermarono il modus operandi della ‘ndrina e la sua infiltrazione nel settore. In un dialogo intercettato tra Vittorio Farao, principale referente della famiglia in Germania, e il suo braccio destro Piero Vasamìemerse che non solo il vino prodotto dall’azienda veniva imposto a suon di intimidazioni, ma che oramai veniva spontaneamente richiesto anche da diversi ristoratori “perchè ormai, ormai ce lo abbiamo piazzato il vino gli piace a tutti e si è fatto il nome il vino hai capito?“[40]
La ‘ndrina era attiva anche nel commercio di caffè, paragonato da uno degli indagati, Giovanni Spina, alla cocaina per portata economica:
“Il caffè guagliò, è come la roba bianca guagliò, è la stessa cosa“[41]
Oltre al vino e al caffè, la ‘ndrina commercializzava anche olio e prodotti caseari prodotti da sue aziende attive nella città di origine, con la quale fu documentato lo stretto legame: i proventi delle attività lecite e illecite andavano infatti ad alimentare la c.d. bacinella comune[42] dell’organizzazione. Le modalità di commercializzazione di tali prodotti non erano caratterizzate semplicemente da un tipo di marketing aggressivo ma si perpetravano delle vere e proprie condotte estorsive, utilizzando regolarmente il metodo dell’intimidazione.
L’Operazione Pollino (poi European ‘ndrangheta Connection) nel dicembre 2018
La politica tedesca e la lotta alle mafie
La politica tedesca, come del resto quella italiana negli anni ’80 e ’90, ha dimostrato di riuscire ad occuparsi di mafia solo a seguito di un’emergenza e del relativo clamore mediatico, come nel caso della Strage di Duisburg. Questo approccio decisamente inefficace ha portato i principali partiti tedeschi a perdere di vista il quadro più ampio e ben nascosto delle attività legali e illegali delle organizzazioni mafiose italiane in Germania.
Tra i vari partiti, i Verdi tedeschi negli anni si sono dimostrati i più attivi nel sollecitare le autorità governative tedesche sul tema dell’infiltrazione mafiosa in Germania.
L’interrogazione dei Verdi del 2017 al Bundestag
A dieci anni dai fatti di Duisburg, il 24 luglio 2017 il partito dei Verdi (die Grüne) presentò al Bundestag una richiesta ufficiale al Governo federale specificatamente diretta a comprendere la reale entità del fenomeno mafioso in Germania[43], a seguito della quale emerse che in dieci anni il numero di affiliati alle principali organizzazioni mafiose era quasi quadruplicato.
Nel 2008 infatti la Polizia Federale tedesca aveva messo nero su bianco che gli affiliati mafiosi alle varie organizzazioni in Germania erano 136. Nove anni dopo ne erano stati censiti 562, un numero che teneva conto però solamente di quei criminali conosciuti alle forze di polizia. Il Governo federale registrò una crescita del 520% degli affiliati a Cosa Nostra, (almeno 124 membri) e del 455% per la ‘ndrangheta (almeno 333 affiliati divisi in 51 gruppi). Per quanto riguardava la camorra, gli affiliati censiti furono 87, divisi in 31 gruppi criminali, mentre per le varie mafie di origine pugliese il numero si fermava a 18.
La risposta del Governo federale certificò anche la debolezza dell’azione penale nei confronti della ‘ndrangheta, contro gli esponenti della quale erano stati avviati 65 procedimenti penali (45 dei quali tra il 2009 e il 2015), tutti celebrati nelle “tipiche” regioni di insediamento (Baden-Württemberg, Nordreno-Vestfalia, Baviera, Amburgo, Assia, Bassa Sassonia e Saarland). A questi numeri il Governo aggiungeva 18 inchieste riguardanti la camorra suddivise negli stessi Länder.
Al di là dei dati strettamente processual-penalistici, il Governo federale tedesco dimostrò in quell’occasione una totale ignoranza sulla capacità di infiltrazione del tessuto economico e sociale delle organizzazioni mafiose italiane. Ad esempio, non riuscì a stimare i profitti generati in Germania, né a ricostruire l’evoluzione dei vari gruppi mafiosi nell’arco dei dieci anni successivi a Duisburg. Nessun dato fu fornito inoltre sui patrimoni immobiliari dei vari affiliati censiti, né si sentì il bisogno di varare una legge sulla confisca dei beni sul modello italiano. Vi fu qualche riferimento a “casi isolati” nel campo della ristorazione, della gastronomia e dell’edilizia, sottovalutando anche quanto emergeva dalle indagini italiane.
L’interrogazione dei Verdi nel 2018 in Baviera
Subito dopo l’operazione Stige, il capogruppo del partito al parlamento della Baviera Katharina Schulze presentò un’interrogazione[44] simile a quella generale presentata al Bundestag, ricevendo dei dati precisi e, anche in questo caso, non incoraggianti.
La Baviera, in quanto seconda regione in termini economici e demografici, risultò essere una regione cruciale per comprendere l’espansione del fenomeno mafioso in Germania. La regione non verrebbe utilizzata solo come “area di riposo e di ritiro” dai vari affiliati, ma è stata anche pesantemente sfruttata dal punto di vista economico, attraverso diversi investimenti[45]. Le città più colpite dal fenomeno sarebbero Monaco di Baviera, Augusta e Norimberga, nonché l’Alta-Baviera[46].
L’interrogazione parlamentare non si limitò a raccogliere dati sulla presenza mafiosa in Baviera, ma riconobbe anche la minaccia che le organizzazioni mafiose italiane rappresentavano sul territorio, cercando di stimare il loro danno potenziale all’economia regionale, che nel 2016 si sarebbe attestato attorno ai 171 milioni di euro. Molto più ridotto il valore dei beni confiscati, appena 320mila euro per la ‘ndrangheta e 40mila euro per la camorra (tra il 2009 e il 2010)[47].
L’interrogazione sottolineò inoltre come all’epoca non vi fosse una collaborazione continuativa tra Italia e Germania, che invece sarebbe fondamentale, al pari di esperti del settore all’interno degli uffici della polizia federale e un maggior controllo del territorio da realizzare con agenti addestrati al ruolo.
L’interrogazione dei Verdi nel 2021 al Bundestag
Nell’agosto 2021 i Verdi presentarono una nuova interrogazione al Governo federale sullo stato della presenza mafiosa in Germania. Il Governo di Angela Merkel rispose aggiornando a 770 il numero di presunti affiliati alle organizzazioni mafiose italiane, 505 dei quali ‘ndranghetisti, 109 mafiosi siciliani, 101 camorristi, 30 stiddari e 16 mafiosi pugliesi[48].
Le autorità di polizia tedesche e la lotta alle mafie
Conseguentemente all’operazione Stige, Sabine Vogt, coordinatrice del dipartimento sulla criminalità presso la polizia federale (BKA), spiegò la difficoltà all’interno della polizia tedesca nel rintracciare e debellare i vari gruppi mafiosi presenti sul territorio, pur registrando una consapevolezza sul fenomeno molto forte[49].
Anzitutto, la sola appartenenza a un’organizzazione mafiosa non è sufficiente affinché la polizia inizi un’indagine, dato che questo reato associativo in Germania non esiste. Inoltre, dati i suoi legami con la politica e l’economia, l’organizzazione mafiosa meglio di altri gruppi riesce a radicarsi nella società tedesca, che ne ignora la vera influenza e potere.
La Vogt riconobbe la necessità di un’apertura da parte delle forze di polizia verso l’opinione pubblica, per sensibilizzarla al pericolo di un’assuefazione al fenomeno mafioso, che risulta presente ovunque si parli di “grandi progetti, appalti, permessi e concessioni edilizie”.
La società civile tedesca e la lotta alle mafie
Dopo la Strage di Duisburg è stata riscontrata una diffusione di iniziative antimafia ad opera di immigrati italiani o cittadini tedeschi particolarmente sensibili al problema, tanto da far parlare di una sorta di “infiltrazione parallela” a quella delle organizzazioni mafiose, che ha esportato conoscenze e buone pratiche per alimentare il contrasto delle mafie “dal basso” Le varie iniziative si possono suddividere in alcune categorie o macro-aree[50]. La prima grande categoria riguarda la scuola. Grazie alla sensibilità di alcuni docenti, soprattutto quelli che insegnano la lingua italiana, sono presenti dei percorsi formativi specifici sul tema, concentrati soprattutto nelle regioni del Baden-Württemberg, del Nordreno-Vestfalia, della Baviera e dell’Assia (che insieme concentrano oltre il 60% della popolazione tedesca e vedono i maggiori casi di colonizzazione. Le attività educative e formative di questo tipo sono in crescita, nonostante siano circoscritte all’insegnamento della lingua italiana. In misura minore, negli ultimi anni anche il mondo universitario ha cominciato ad occuparsi del tema. Dal 2015 l’università Humboldt di Berlinoospita ogni anno diverse conferenze sul fenomeno mafioso, ospitando i maggiori esperti a riguardo, tra cui Nando dalla Chiesa.
L’altra grande categoria sono i media, tra cui spiccano i lavori dei giornalisti Jürgen Roth e Petra Reski e il documentario, censurato, “Unsichtbare Kartelle – die Mafia in Mitteldeutschland“ dell’emittente televisiva MDR, nonché il lavoro collettivo giornalistico Correctiv, che ha dedicato un’intera sezione del proprio sito alle notizie di mafia in Germania, pubblicando anche un libro nel 2017.
L’attenzione dell’opinione pubblica e degli organi di stampa nei confronti del fenomeno mafioso è aumentata negli anni, con un picco nel 2007, anno di svolta che ha visto la nascita a Berlino dell’associazione Mafia? Nein danke!, il più strutturato e significativo esempio nel campo dell’antimafia tedesca, cui si affiancano anche Italia Altrove e.V. a Düsseldorf, Kalabria calling ad Amburgo e Rete Donne e.V. in molte città tedesche.
Nonostante i grandi passi avanti, il problema di tutte queste iniziative è il fatto di essere portate avanti principalmente da cittadini italiani trasferitisi in Germania o da cittadini tedeschi che si occupano di vicende italiane.
Note
- Dichiarazione di Roberto Scarpinato dell’aprile 2014, citato in Investigative Reporting Project Italy (IRPI), Germania, dove la mafia seduce col capitale. E le norme ostacolano le inchieste, ilfattoquotidiano.it
- Decreto del Presidente della Repubblica, 23 marzo 1956, n. 893, “Esecuzione dell’Accordo fra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale di Germania per il reclutamento ed il collocamento di manodopera italiana nella Repubblica Federale di Germania concluso in Roma il 20 dicembre 1955”. (GU Serie Generale n. 205 del 17/08/1956)
- Si veda in proposito, Morandi, Elia (2011). Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Rosenberg & Sellier, Torino.
- DIA, Relazione Semestrale – 1° semestre 2017, p. 196.
- Direzione Investigativa Antimafia, Relazione 2° semestre 2016, p. 62
- Attilio Bolzoni, “Da Agrigento alla Germania, ecco la pista che porta ai killer”, la Repubblica, 26 luglio 1992
- Interrogatorio in carcere di Antonino Giuffrè, Milano 27 novembre 2002, cit. da Forgione F., Mafia Export, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009
- Direzione Investigativa Antimafia, Relazione 2° semestre 2016, p. 62
- Citato in Forgione, Francesco (2013). “German Connection”, in Il circuito delle mafie, LIMES – Rivista italiana di Geopolitica, Volume 10.
- Schönau, Birgit (2009). Die Deutschen lassen sie laufen, Intervista a Roberto Saviano, Amburgo, Die Zeit n. 34, 18 agosto.
- Citato in Feo, Fabrizio (2007). “L’intervista. Una vita blindata contro le mafie. Parla il Procuratore Generale Antimafia Piero Grasso”, Fabrizio Feo (a cura di), in Gnosis. Rivista italiana di intelligence, n° 3, Roma, p. 46
- DIA, Relazione II Semestre 2020, p. 360
- Citato in Forgione, Mafia Export, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2009
- Citato in Forgione, Francesco, Mafia Export, pp. 246-247.
- Forgione, Mafia Export, p. 169
- Giuseppe D’Avanzo, “Una rete d’affari in mezzo mondo ha scatenato i Balcani di Napoli”, La Repubblica, 6 febbraio 2005
- citato in Forgione, Mafia Export, p. 144
- Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, Direzione distrettuale antimafia, interrogatorio di Raffaele Giuliano, 14/06/2000
- citato in Forgione, Mafia Export, Limes
- DIA, Relazione II semestre 2016, p. 169.
- Direzione Investigativa Antimafia, Relazione 2° semestre 2016, p. 200
- Ivi, p. 199
- Tra le più recenti, si vedano in particolare: DIA, Relazione Semestrale 2° Semestre 2020, pp. 359-360; Relazione Semestrale 1° Semestre 2020, p. 421-422; Relazione Semestrale 2° Semestre 2019, pp. 662-666; Relazione Semestrale 1° Semestre 2019, pp.487-490; Relazione Semestrale 2° Semestre 2018, pp. 428-431.
- La locale è formata secondo lo schema della cosiddetta doppia compartimentazione: la società minore e la società maggiore. Non in tutte le locali si riesce a costituire la società maggiore: quando avviene, spesso gli ‘ndranghetisti parlano di Società, per differenziare la locale da quelle formate solo dalla società minore. Per approfondire, si veda la voce ‘ndrangheta
- DIA, Relazione II Semestre 2020, pp. 359-360
- Rielaborazione sulle informazioni fornite da Forgione in “Mafia Export” e sulle varie relazioni semestrali della DIA citate in bibliografia.
- DIA, Relazione 1° Semestre 2019, p. 488
- ReggioToday, Operazione Selfie, Michele Carabetta estradato dalla Germania, 18 giugno 2019
- Gazzetta del Sud, ‘Ndrangheta, in Germania una cupola di nove persone. Riciclo di denaro nella gastronomia, 22 febbraio 2021
- DIA, Relazione 2° Semestre 2019, p. 662
- DIA, Relazione II Semestre 2020, p. 359
- Citato in Forgione, Mafia Export
- Davide Milosa, ‘Ndrangheta, la lavanderia dei boss: “Qui in Germania possiamo fare tutto”, Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2018
- Ibidem
- Citato in Cipolla S. (2019). Ordinanza di Applicazione di misura cautelare n. 13827/18 R.G.N.R., Tribunale di Milano – Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 30 settembre, p. 119
- Citato in Forgione Francesco, “German Connection”, in Il circuito delle mafie, LIMES Rivista italiana di Geopolitica, Volume 10, 2013.
- Mafia? Nein Danke!, Erfurt: dove la ‘Ndrangheta rappresenta un problema per i giornalisti, 28 aprile 2016.
- Si veda Roth, J. (2009). Mafialand Deutschland, Eichborn, Frankfurt am Main.
- De Gregorio, Giulio (2017). Ordinanza di applicazione di misura coercitiva – Procedimento penale n. 3382/2015 R.G.N.R. (Operazione Stige), Tribunale Ordinario di Catanzaro – Ufficio GIP, 28 dicembre, pp. 1013-1014.
- De Gregorio, op. cit., p. 398
- Ivi, p. 399
- Ivi, p. 455
- Mafia? Nein, Danke!, Una richiesta parlamentare dei verdi mostra quanto poco il governo tedesco sappia della mafia in Germania – ed i numeri che ha sono allarmanti”, Berlino, 15 agosto 2017.
- Schulze, Katharina (2018). Die Mafia in Bayern, 10 gennaio.
- Mafia? Nein, Danke! (2018). I risultati dell’interrogazione parlamentare sulla Mafia in Baviera. 30 gennaio.
- Pelke, Nikolas (2018).“Ist Nürberg eine Mafia-Hochburg?”, Mittelbayerische, quotidiano regionale, 16 gennaio.
- Schulze, op. cit.
- Klaubert, David (2021). 770 mutmaßliche Mafiamitglieder in Deutschland, Faz.net, 27 agosto.
- Schattauer, Göran (2018). “Top-Ermittlerin verrät, wie Mafia in Deutschland ihre Arbeit torpedieren will”, Focus.de, 3 febbraio 2018.
- Norberti, Giulia (2017). “Antimafia initiatives in Germany. A first study investigating the various dimensions of German society in their engagement against Italian mafias”, in Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, Volume 3, Università degli Studi di Milano.