COSTANTINO VISCONTI: No all’antimafia della fuffa

“Da palermitano anche io sono cresciuto con l’idea che la mafia era invincibile. Gli ultimi trent’anni invece hanno dimostrato che la mafia è vincibilissima, ma questa storia ora va raccontata alle nuove generazioni”
“Consegnare alle nuove generazioni e all’opinione pubblica l’idea della mafia come super potere imbattibile è sostanzialmente il più grande contributo che si può dare alla permanenza e alla persistenza delle mafie nel nostro paese”.

Lo afferma, intervistato dal Foglio, Costantino Visconti, docente di Diritto penale all’Università di Palermo.
Il giorno del trentunesimo anniversario della strage di Via D’Amelio è anche l’occasione per riflettere sui danni causati dall’antimafia della fuffa

Esiste un ampio schieramento di intellettuali che ritiene, più o meno in buona fede, che la mafia, o più precisamente le mafie, siano un super potere criminale che tutto decide e tutto dispone”, afferma Visconti. “
Questo tipo di approccio ha diversi effetti negativi. Il primo – spiega – è che nega la storia alle nuove generazioni. Sottrae la storia degli ultimi trent’anni, il passaggio da una mafia che comandava nelle città e che era ben protetta dal potere politico a una mafia ridotta ai minimi termini, grazie all’azione di magistratura e polizia. Questo dato ha a che fare con una questione fondamentale e che io sento molto come cittadino palermitano.
Anche io sono cresciuto con l’idea che la mafia era invincibile. Gli ultimi trent’anni invece hanno dimostrato che la mafia è vincibilissima”.
“Il secondo effetto negativo di questo modo di intendere la mafia – prosegue il giurista palermitano – è che non fa capire ciò di cui abbiamo bisogno adesso.
Confonde le acque.
Noi abbiamo bisogno di sapere lo stato di salute delle organizzazioni criminali e di capire quali strumenti adottare sulla base di una consapevolezza: il diritto penale ha raggiunto il massimo di ciò che poteva dare in termini di repressione e quindi restrizioni rispetto alle garanzie individuali.
Quindi è chiaro che la partita per la sconfitta definitiva di queste organizzazioni criminali sta altrove: non nel diritto penale, ma nell’educazione culturale. E lo dico da penalista”.
“Bisogna insegnare bene la storia”, dice Visconti, che prosegue: “Bisogna raccontare che le mafie storicamente hanno avuto un ruolo invadente nella vita delle nostre comunità, soprattutto meridionali, ma che dal 1982 in poi (usiamo come spartiacque l’approvazione della legge Rognoni-La Torre), grazie al sacrificio di tante persone siamo arrivati a un punto in cui le mafie sono sotto pressione permanentemente. In questo modo dai la sensazione che qui l’entità forte e lo stato, che nulla a che vedere con la mafia, e che quindi bisogna affidarsi allo stato.
E’ chiaro fino a quando nelle scuole si continueranno a invitare Saverio Lodato e Nino Di Matteo, che dicono che lo stato è marcio, si darà un messaggio diverso alle nuove generazioni.
Bisogna spiegare che lo stato c’è, e che è più forte delle mafie, perché questo è un dato inconfutabile.
Quando venne catturato Matteo Messina Denaro, lei parlò di “eterno ritorno dell’antimafia nichilista”. Cosa intendeva?
“L’antimafia nichilista – risponde Visconti – mette permanentemente in discussione i risultati che ottengono i corpi professionali dello stato nel contrasto a Cosa nostra in nome di un inafferrabile ‘oltre’, di un ‘sistema mafioso superiore e supremo’ che rimarrebbe sempre impunito, perfino a insaputa di chi compie le investigazioni, magistrati e forze di polizia in particolare”.
“L’antimafia nichilista – prosegue il docente – presume di capire e sapere più di tutti come stanno realmente le cose.
Non dà mai soddisfazione a chi lavora sul campo e, occupando in modo spropositato e a volte con un approccio cameratesco gli spazi mediatici messi generosamente a loro disposizione, punta inesorabilmente a celebrare l’invincibilità della mafia e dei suoi registi occulti. Paradossalmente, alla forza inarrestabile e mai scalfita di Cosa nostra credono più loro che gli stessi mafiosi”.
Conclude Visconti: “Questo per dire che anche quando il ministro Nordio propone una tipizzazione del concorso esterno in associazione mafiosa non bisogna scandalizzarsi, semmai bisogna entrare nel merito e capire come farla.
Ma con quel tipo di antimafia che a tamburo battente ripete che ogni passo che fai è ascrivibile a un complotto giudaico-massonico-mafioso non si può discutere”. IL FOGLIO 20.7.2023


Antimafia della fuffa? Basta. Celebriamo i successi ottenuti

Alimentare dubbi senza fondamento sullo stato colluso è il modo peggiore per onorare la memoria dei magistrati eroi.
Il ricordo di Borsellino e quella svolta necessaria: ribellarsi allo storytelling del complottismo giudiziario
Sarebbe un sogno se la commemorazione di Paolo Borsellino diventasse un’occasione per celebrare i successi ottenuti nella lotta contro la mafia dallo stato negli ultimi trent’anni e sarebbe un sogno onorare il magistrato eroe ucciso il 19 luglio del 1992 in via D’Amelio, a Palermo, insieme con gli uomini della sua scorta, mettendo in fila i risultati consistenti ottenuti in questi anni dall’antimafia dei fatti.
Sarebbe bello, per esempio, ricordare che negli anni Novanta, in Italia, morivano circa 1.900 persone all’anno a causa di omicidi, organizzati per lo più dalla criminalità organizzata (oggi gli omicidi sono 300 all’anno).
Sarebbe bello ricordare, ancora, che tra il 1982 e il 2017 sono state 17.391 le persone arrestate per reati connessi alla mafia, che tra il 1992 e il 2006 sono state 450 le condanne all’ergastolo per omicidi di mafiacomminate nel solo distretto di Palermo, che sono stati 200 i consigli comunali e provinciali sciolti nello stesso periodo per infiltrazioni mafiose.
Sarebbe bello ricordare tutto questo, nell’anno in cui lo stato ha arrestato l’ultimo capo dei capi, Matteo Messina Denaro.
Ma è difficile non temere che le cose vadano purtroppo in maniera diversa.
Ed è difficile non temere che la commemorazione di Paolo Borsellino possa essere ancora una volta trasformata dall’antimafia delle chiacchiere in un’occasione utile per giocare con il complottismo giudiziario al fine di mettere ancora una volta lo stato sotto processo.
Lo storytelling è sempre lo stesso.
In questi anni, la mafia non è stata combattuta con la dovuta forza perché lo stato ha ripetutamente flirtato con la mafia stessa. Lo ha fatto, si dice, attraverso la famosa Trattativa.
Lo ha fatto, si aggiunge, condizionando la politica. Lo ha fatto, si sostiene, dando seguito alle direttive della P2
.
Lo ha fatto, si continua, stringendo patti con i governi.
Lo ha fatto, si  afferma, depistando le indagini.
Sono anni che l’antimafia mediatica tende a screditare lo stato che lotta contro la mafia (tutti i processi sulla Trattativa si sono conclusi con un nulla di fatto) e sono anni che lo stato che lotta contro la mafia continua a rispondere con i fatti a un’antimafia delle chiacchiere che se avesse dedicato all’attività investigativa contro la mafia la stessa attenzione dedicata alla promozione del complottismo avrebbe certamente aiutato lo stato a ottenere successi ulteriori rispetto a quelli già imponenti realizzati (arrestando, prima ancora di Messina Denaro, anche i vari Bagarella, Brusca, Provenzano, Riina, Lo Piccolo, Nicchi).
Succederà anche oggi, quando il carrozzone del circo mediatico giudiziario cercherà di dimostrare ancora una volta che la politica non-vuole-affrontare-le-trame-oscure-del-nostro-paese (questa volta l’obiettivo sarà il governo Meloni, reo di voler riequilibrare i rapporti tra potere giudiziario e potere legislativo).
E succederà ancora nelle prossime ore quando l’antimafia delle chiacchiere dimenticherà di ricordare, per esempio, come il famoso depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio avvenne grazie alle dichiarazioni di un pentito (Scarantino) che ha offerto per anni “ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false” (lo hanno scritto nel luglio di due anni fa i giudici del tribunale di Caltanissetta) a cui hanno creduto per molto tempo gli stessi pm eroi dell’antimafia delle chiacchiere che hanno indagato sulla strage di via D’Amelio rincorrendo più farfalle che fatti (chiedere per credere a Nino Di Matteo e Annamaria Palma).
Ci siamo abituati ormai da anni a vedere le commemorazioni degli eroi italiani uccisi dalla mafia trasformarsi in occasioni utili per celebrare il complottismo giudiziario (come ha fatto ieri sul Fatto quotidiano l’ex pm Roberto Scarpinato, oggi senatore del M5s).
Sarebbe il caso di smetterla di assecondare lo storytelling complottista e di ricordare con coraggio, proprio oggi, trentuno anni dopo la morte di Paolo Borsellino, che alimentare dubbi senza fondamento sullo stato colluso con la mafia non è il modo migliore per onorare la memoria dei magistrati eroi ma è un modo come un altro per continuare a mancare di rispetto a chi la mafia ha scelto di combatterla occupandosi poco di farfalle e molto di fatti. Claudio Cerasa Direttore


Di Matteo, censurato o censore?

Altro che “messa al bando” del pm. Il pluralismo va rivendicato per tutti

Il pm Nino Di Matteo, che si sente vittima di una “campagna denigratoria” di questo giornale, ha criticato un’intervista apparsa sul Foglio al professore di Diritto penale dell’Università di Palermo Costantino Visconti che, parlando della necessità di raccontare i successi dello stato su Cosa nostra, ha detto: “Fino a quando nelle scuole si continueranno a invitare Saverio Lodato e Nino Di Matteo, che dicono che lo stato è marcio, si darà un messaggio diverso alle nuove generazioni”. Il pm della fu Trattativa ha gridato alla censura: “Resta – ha detto – la preoccupazione per il fatto che un docente di un ateneo, che è punto di riferimento culturale di migliaia di giovani, possa pretendere di indicare chi può confrontarsi con gli studenti e chi, invece, debba essere messo al bando”.
Premettendo che quello di Visconti era un invito a diffondere una narrazione diversa dell’antimafia e non una “messa al bando”, per il semplice fatto che il giurista non ha alcun potere sulle scuole, è piacevole notare l’afflato a favore del pluralismo del magistrato. Perché fino a poco tempo fa Di Matteo era il pm che definiva “cattivi maestri” due insigni studiosi come Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo, per il semplice fatto che nel libro “La mafia non ha vinto” sostenevano una tesi diversa dalla sua sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia. In tv Saverio Lodato, co-autore di Di Matteo, in presenza del pm e senza contraddittorio, bollò il giurista  e lo storico  come esponenti della “borghesia mafiosa”. Per giunta quando   Lupo e Fiandaca  vennero invitati a tenere  lezioni alla Scuola superiore della magistratura, Di Matteo scrisse una piccata mail  ai suoi colleghi per protestare contro l’invito a chi aveva “espresso giudizi fortemente critici nei confronti dell’impianto accusatorio” delle sue inchieste. Sorvolando sul fatto che alla fine le sentenze hanno dato torto a lui e ragione a loro, in quel caso Di Matteo aveva un’influenza sugli organizzatori e quindi la sua sì era una richiesta di “messo al bando” delle voci critiche.


Il teorema della Trattativa e il nemico necessario. Parla il generale Mori

 

Così “un gruppo di pm in cerca di fama, giornalisti velinari e politici rimestatori ha devastato la società italiana”. L’ex comandante del Ros Mario Mori, assolto in via definitiva, racconta i suoi venticinque anni passati al centro del circo mediatico-giudiziario

Per oltre quarant’anni è stato un ufficiale in servizio dell’Arma dei Carabinieri. Per altri venticinque è stato un imputato in servizio permanente. “E ora cosa farò?”, si chiede sorridendo il generale Mario Mori, subito dopo averci accolto nella sua abitazione a sud di Roma, quasi a stemperare la tensione. Il 27 aprile la Corte di Cassazione lo ha assolto in via definitiva, insieme agli ex ufficiali del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei Carabinieri, da lui fondato nel 1990, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e all’ex senatore Marcello Dell’Utri, nel processo sulla presunta “trattativa stato-mafia”. Il più grande circo mediatico-giudiziario dai tempi di Mani pulite. Si sono visti pubblici ministeri andare in televisione in prima serata, parlando dei contenuti dell’inchiesta e di “ricerca della verità”. Si sono visti presunti testimoni (poi rivelatisi meri calunniatori) parlare di “papelli”, in realtà mai rinvenuti. Si sono visti pm pubblicare libri, con gli stessi giornalisti che li avevano ospitati e intervistati, intervenire in convegni e fornire contributi per le sceneggiature di film. Si sono visti giornalisti trasformarsi in semplici passacarte degli inquirenti e addirittura magistrati scendere in politica, sfruttando la notorietà fornita dalla vicenda giudiziaria. “Io ero il nemico necessario a questo circo mediatico giudiziario e politico”, dice Mori, a lungo comandante del Ros e poi direttore del Sisde, oggi sulla soglia degli 84 anni.

“Ognuno ha tirato l’acqua al suo mulino – spiega Mori – Qualche magistrato ci credeva, qualcun altro sapeva che questo era un modo per emergere nella sua categoria. Qualche giornalista riteneva che questa vicenda gli avrebbe permesso di ottenere considerazione presso il suo giornale. Qualcheduno ci ha messo anche qualche convinzione politica e tutto è andato avanti così, molto semplicemente. Poi, man mano, a questo gruppetto iniziale si sono aggiunti altri soggetti, convinti che associandosi al carro avrebbero ottenuto dei vantaggi. Io credo, però, che la battaglia vera contro ‘l’uomo nero Mori’ sia stata fatta da pochissime persone, gli altri servivano per convenienza”.

Com’è stato vivere al centro di questo grande circo Barnum? Di fronte a questa domanda Mori non si scompone: “Tutto sommato devo dire che questa vicenda mi ha dato forza, lucidità, perché ero determinato a combattere questa battaglia. Sapevo che la sfida era difficile, perché l’avversario era pesante, ma ero convinto che alla fine avrei vinto”. A chi si riferisce, con precisione, quando parla di avversario? “Ad alcuni magistrati della procura di Palermo, a un gruppo di giornalisti che ha lucrato quattro paghe per il lesso, come diceva il Carducci, e a qualche politico che ci ha rimestato. Un gruppetto che ha devastato la società italiana”.


Il magistrato dovrebbe rifuggire dalla cultura del sospetto


Mori non ha problemi a fare alcuni nomi. Si parte da Roberto Scarpinato, ex pm della procura di Palermo, oggi senatore per il Movimento 5 stelle, noto per la sua indagine (che non portò mai a nulla di concreto) sui “sistemi criminali”, incentrata sui rapporti tra Cosa nostra, massoneria, pezzi deviati dello stato ed eversione nera. “Scarpinato è l’‘intellettuale’ di questo gruppo di pm – afferma Mori – Sogna sempre vicende transnazionali, dove c’è sempre qualcosa di misterioso: i cosiddetti sistemi criminali, che poi sono sempre abortiti, perché sono un parto della sua fantasia, non hanno una consistenza nel reale. Infatti i procedimenti sono sempre stati archiviati”. 

Ma fu Antonio Ingroia, con altri colleghi come Nino Di Matteo, ad aprire formalmente nel 2012 l’indagine sulla presunta “trattativa stato-mafia”. “Penso che alcuni magistrati si ubriacarono della loro notorietà”, dichiara Mori. “In particolare – aggiunge – Ingroia pensò che questa notorietà gli avrebbe consentito un’entrata a gonfie vele nell’agone politico che poi invece l’ha portato alla sua rovina. Credo che adesso si guarderebbe bene dall’uscire dalla magistratura”.

Dopo aver istruito il processo, Ingroia cedette il testimone al procuratore aggiunto Vittorio Teresi, a Di Matteo e ai giovani Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. “Le faccio una domanda”, dice Mori. Prego. “Lei che ha seguito questi fatti, mi sa raccontare le operazioni portate a termine negli ultimi 25 anni da Ingroia, Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia? Mi sa dire quali vicende hanno concluso con delle condanne? Le do anche quattro-cinque giorni per rispondere”. “Sono riusciti a far condannare in primo grado Mori, Subranni e De Donno. E poi basta”, dichiara l’ex comandante del Ros. “Di Matteo ha creduto a Vincenzo Scarantino”, aggiunge Mori dopo una piccola pausa, riferendosi al falso pentito al centro del più grande depistaggio della storia italiana, quella sulla strage di via D’Amelio. Le dichiarazioni di Scarantino portarono alla condanna all’ergastolo (poi annullata) di sette persone innocenti che non avevano avuto alcun ruolo nella strage del 19 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.

Il magistrato dovrebbe rifuggire dalla cultura del sospetto – afferma Mori – Un conto è la ricostruzione preliminare di un disegno e un conto è la dimostrazione di questo disegno. Il magistrato dovrebbe partire da un dato concreto e arrivare al disegno, non viceversa”.

Intanto, però, i magistrati che hanno imbastito il processo sulla “trattativa” hanno tutti fatto carriera. Vittorio Teresi, oggi in pensione, ha fatto a lungo il procuratore aggiunto. Nino Di Matteo è stato componente dell’ultimo Consiglio superiore della magistratura, e ha da poco fatto ritorno alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Anche Francesco Del Bene è finito alla Dna, mentre Roberto Tartaglia è stato nominato vicecapo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) della presidenza del Consiglio dei ministri. Piergiorgio Morosini, il giudice che diede il via alla macchina giudiziaria con il rinvio a giudizio degli imputati per la Trattativa, è stato consigliere del Csm e ad aprile è stato nominato nuovo presidente del tribunale di Palermo. Alfredo Montalto, il presidente della Corte di assise che condannò in primo grado gli ufficiali dei carabinieri, guida la sezione gip-gup del tribunale di Palermo.

Per descrivere bene il circo mediatico-giudiziario che ha travolto Mori negli ultimi venticinque anni bisogna riannodare un po’ le fila della storia. L’inchiesta sulla Trattativa ha infatti riguardato anche vicende che erano già state oggetto di attenzione da parte della magistratura, con indagini e processi, alla faccia del principio del “ne bis in idem”, secondo cui nessuno può essere processato due volte per la stessa cosa. La prima tappa dell’offensiva della magistratura contro Mori fu costituita dal processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina, subito dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993 proprio da parte del Ros.

“Il primo atto risale a marzo 1994, quando compare un articolo su Repubblica in cui si comincia a ipotizzare che c’era qualche cosa di strano nella cattura di Riina”, racconta Mori. “C’è subito un’interlocuzione tra la procura di Palermo, alla cui guida era appena arrivato Caselli, e noi del Ros. La procura ci chiede contezza di questo fatto e noi rispondiamo. Caselli prende atto e spende anche parole di stima per me. Il caso mi sembrava chiuso, invece non lo era. Alla fine anni degli anni Novanta comincio a capire che la procura di Palermo stava assumendo un atteggiamento di contrasto contro di noi. I primi riscontri giuridicamente validi arrivano nei primi anni Duemila, quando emerge che la procura aveva indagato su di noi per ben due volte, chiedendo però sempre l’archiviazione. La seconda volta, però, il gip respinse la richiesta dei pm chiedendo l’imputazione coatta per me e Sergio De Caprio”. 

L’accusa era quella di favoreggiamento alla mafia per la mancata perquisizione del covo di Riina, che in realtà tale non era. “Il covo non esiste, non è mai stato trovato”, afferma Mori, alzando la voce di un tono. “E’ stata trovata l’abitazione dove Riina andava saltuariamente, perché dentro non c’era nulla. Sicuramente lui aveva qualche altro posto di riferimento, che ovviamente dopo la cattura altri hanno pensato bene di eliminare”. A chi ancora le ricorda la mancata sorveglianza del covo, che covo non era, cosa risponde? “Rispondo con le parole della sentenza con cui il tribunale di Palermo mi assolse: accettando la prospettiva di non effettuare immediatamente la perquisizione (fu De Caprio a proporla e io la avallai, assumendomene la responsabilità), la procura corse il rischio di perdere qualche documentazione. Ma lo decise la procura, noi non costringemmo nessuno. Nella stessa sentenza del 2006 si afferma anche che non ci fu nessuna trattativa, e si spiega perché”.

Insomma, aggiunge Mori, “tutti potevano interloquire quando fu fatta quella proposta, e avere dei dubbi, tranne una persona, cioè il dottor Caselli, che sapeva come lavorava il Ros, perché era la derivazione del nucleo speciale di polizia giudiziaria creato da Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quando individuavamo qualcuno per noi era la gallina dalle uova d’oro, e quindi lo seguivamo”.


Il metodo Dalla Chiesa consiste innanzitutto nel fare uno studio accuratissimo dell’organizzazione che si vuole attaccare, conoscerne metodi, personaggi, vocabolario, orientamenti


Appunto, facciamo un passo indietro, al metodo Dalla Chiesa. “Tutti dicono che questo metodo si basa sullo sfruttamento di una fonte interna, ma non è vero”, precisa subito Mori. “Il metodo consiste innanzitutto nel fare uno studio accuratissimo dell’organizzazione che si vuole attaccare, conoscerne metodi, personaggi, vocabolario, orientamenti. Quando si ha uno studio completo, si cerca di individuare chi ne fa parte. Quando si trova un componente si entra in azione con il cosiddetto sistema OCP: osservazione, controllo, pedinamento. Se ritengo che una persona possa essere un brigatista, mi metto a pedinarlo, costantemente, ogni giorno, fino a che ho la certezza che lui c’entra o non c’entra nulla. Una volta accertata l’appartenenza si passa a un altro che magari nel frattempo è uscito fuori, fino a ricostruire tutti i collegamenti tra i vari soggetti identificati”. “Durante gli anni della lotta al terrorismo ci fu piena intesa con la magistratura per portare avanti questo metodo”, ricorda Mori. “Ricordo l’operazione che facemmo a Roma contro la colonna romana delle Brigate Rosse nel maggio del 1980. Avevamo identificato circa venti persone, ma ne arrestammo quindici, perché altrimenti avremmo tagliato il collegamento che avevamo stabilito tra i carabinieri e le Br. Ci servivano per continuare l’operazione. Infatti dopo due anni, nel 1982, ne prendemmo un’altra quindicina con un’altra tornata. Contro organizzazioni criminali così grosse un arresto o due arresti non fanno la differenza. Il problema è arrivare a svolgere un’operazione che dà all’organizzazione una stangata vera e propria”.

In seguito, questo metodo venne adattato alla lotta contro Cosa nostra. “Nel 1986 assunsi il comando del gruppo dei Carabinieri di Palermo – ricorda ancora Mori – Trovai una situazione devastante: si trovava il piccolo mafioso, lo si arrestava e finiva tutto. Le chiamavo indagini episodiche, perché finivano subito. Soprattutto c’era un ambiente investigativo vecchio, con tecniche ripetitive, superate, senza prospettive. Presi allora due-tre ufficiali giovani, De Donno, De Caprio, Sinico, e cercai di realizzare quello che era la mia impostazione investigativa”. “Nel dicembre 1990 fu costituito il Ros, con a capo Subranni e poi me. Io mi portai dietro i ‘ragazzini’. C’erano De Donno, De Caprio, il colonnello Obinu, il gruppo che poi in un modo o nell’altro è comparso agli onori della cronaca”.

Nel 2006, infatti, Mori venne di nuovo accusato di favoreggiamento a Cosa nostra, stavolta con il colonnello Mauro Obinu. L’accusa avanzata stavolta dalla procura di Palermo fu quella di aver impedito l’arresto di Bernardo Provenzano nel 1995 (il boss sarà arrestato l’11 aprile 2006). Al termine del processo, il pm Nino Di Matteo giunse a chiedere nove anni di reclusione per Mori e sei anni per Obinu. Nel 2013, però, entrambi vennero assolti con formula piena, assoluzione poi confermata in appello e infine in Cassazione. “Anche in quell’occasione – spiega Mori – venne di nuovo presa in esame la presunta mancata perquisizione del covo di Riina. Per circa 400 pagine delle motivazioni si parla della scelta operativa e del fatto che non ci fu nessuna trattativa con la mafia”.

L’ipotesi della “trattativa”, tuttavia, rispunta improvvisamente nel 2012 con l’apertura dell’inchiesta da parte dei pm palermitani. “Lo ripeto una volta per tutte”, dice Mori. “La parola ‘trattativa l’ho usata io per la prima volta in corte d’Assise a Firenze nel processo per le stragi del 1993, ma avrei potuto usare altri termini: contatto, confronto, incontro con Ciancimino. Ho usato trattativa e lo userei ancora perché conosco l’italiano meglio di molti di quei magistrati con cui ho avuto che fare. Tra me e Ciancimino c’era una trattativa, solo che le posizioni erano molte diverse. Lui era un soggetto vicino agli ambienti mafiosi e in condizioni di minorata difesa perché aspettava l’esito di processo che lo avrebbero portato in galera. Io ero un ufficiale di polizia giudiziaria che sfruttava la sua situazione particolare per cercare di ottenere qualcosa. Questa è una trattativa, ma io la potevo fare in base a quello che erano le mie funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria. Lo dice l’articolo 203 del codice di procedura penale che l’ufficiale di polizia giudiziaria può a fini investigativi trattare con questa gente. Non gli ho promesso nulla, non gli ho consentito di fare nulla. Sono a posto. Poi è il caso che a volte ci mette lo zampino”.

In che senso? “Eravamo nel 1992, quando io mi ero scontrato pesantemente con Pietro Giammanco e con la procura di Palermo perché dicevo che volevano sotterrare l’indagine mafia e appalti voluta fortemente da Giovanni Falcone. Quindi quando io cominciai, attraverso De Donno, a parlare con Ciancimino, sapendo che Giammanco stava per andare via e sarebbe arrivato Caselli, non dissi nulla fino a gennaio 1993. Il 15 gennaio avviene la cattura di Riina, Caselli prende servizio a Palermo e viene informato di questo contatto con Ciancimino. Sette giorni dopo, il 22 di gennaio, con autorizzazione del ministero, vado a parlare in carcere con Ciancimino (che nel frattempo era stato arrestato nel mese di dicembre). Lui chiede di collaborare e il 27 gennaio, quindi cinque giorni dopo, iniziano gli interrogatori di Ciancimino fatti da Caselli e da Ingroia”.

Nonostante ciò, vent’anni dopo Mori si ritrova accusato di aver trattato con Ciancimino per veicolare la minaccia mafiosa a “un corpo politico”, come recita l’articolo 338 del codice penale, vale a dire i governi Amato e Ciampi. “I pm hanno confuso la minaccia con la trattativa, ma non esiste il reato di trattativa. Esiste il reato di minaccia. Ma la minaccia, come ha stabilito prima la Corte d’appello e ora la Corte di Cassazione, non c’è stata. Al massimo avrei riferito qualcosa, ma io non ho neanche riferito alcunché al governo. Il ministro Conso arrivò per conto suo alla decisione di non rinnovare il 41-bis, cioè il carcere duro, a circa 300 detenuti. E ci arrivò perché era obbligato: nel luglio del 1993 la Corte costituzionale aveva stabilito che il 41 bis non poteva essere applicato in blocco a decine di persone, ma doveva essere applicato e motivato caso per caso. C’è anche un epistolario tra Conso e Violante, all’epoca presidente della commissione Antimafia, in cui il ministro chiarisce di aver preso quella decisione in base a proprie valutazioni e alla sentenza della Corte costituzionale”. A rigor di logica, i pm avrebbero dovuto inserire anche la Corte costituzionale nel grande disegno della minaccia al governo… “Esatto, era la minaccia numero uno”, annuisce Mori.


La fine della mafia è cominciata con la cattura di Riina, ma all’epoca questa affermazione, che oggi è quasi banale, non l’ha fatta  nessuno


Non è un caso che questa grande opera di fantasia sia crollata di fronte ai giudici di appello e di Cassazione. In una lettera inviata al Foglio all’indomani della sentenza del 27 aprile, il giudice milanese Guido Salvini ha scritto che “chiunque sapesse un po’ di diritto sapeva che il processo galleggiava sul nulla, sostenuto soprattutto dai mass media, e che prima o poi sarebbe affondato”. “Riprendendo una definizione fantozziana, ma usata anche da Fiandaca, il processo sulla trattativa era una boiata pazzesca”, afferma Mori accennando un sorriso. “Con l’inchiesta i pm puntavano a stabilire una ‘verità’ basata su delle loro concezioni ideologiche, ma che non sono riusciti a dimostrare. Nel frattempo, però, hanno coinvolto in questa vicenda persone che non c’entravano nulla”.

Una ‘verità’ basata su una visione antistorica. Lo storico Salvatore Lupo ha sottolineato più volte, anche sulle nostre pagine, che nel 1993 Cosa nostra è stata sconfitta. La mafia di oggi, o per meglio dire le mafie di oggi non sono assolutamente minacciose come lo è stata Cosa nostra fino al 1993. “La fine della mafia è cominciata con la cattura di Riina”, conferma Mori, cambiando però subito espressione facciale: “All’epoca questa affermazione, che oggi è quasi banale, non l’ha fatta nessuno. C’erano solo Mori, Subranni e qualcun altro a lottare contro quella gente lì. Gli altri stavano tutti nelle retrovie. Avrei gradito che nel ‘92 o nel ‘93 queste persone alzassero alla mano, dicendo: ‘Guardate che state commettendo un grave errore’. L’unico è stato Fiandaca, che però l’ha affrontata dal punto di vista tecnico-giuridico. Molte persone invece si sono ben guardate dal farlo. Ai miei processi ho assistito alle deposizioni di tutti i grandi personaggi politici e para-politici, magistrati ed ex magistrati. Facevano slalom, sembravano Alberto Tomba in Val Senales. Adesso invece sono diventati tutti, o quasi, loquaci”.

Si è sentito solo in questi anni? “Sì, ma la cosa non mi ha preoccupato”, risponde Mori con la solita fermezza. “Sapevo benissimo di essere solo con i miei ufficiali. Tenga presente che io ho affrontato tre processi. Il primo con De Caprio, il secondo con Obinu, il terzo con De Donno. Ho sempre difesi i miei. Avrei potuto tirarmi fuori quando volevo, ma non ci ho nemmeno lontanamente pensato perché era mio dovere stare al loro fianco”.

A volte capita di chiedersi a cosa avrebbero pensato Falcone e Borsellino di fronte a questa inchiesta. Mori accetta la provocazione: “Con Falcone e Borsellino viventi, non ci sarebbe stato nessuno di questi tre processi e probabilmente non ci sarebbero state le fortune di molti di quei magistrati. Falcone e Borsellino hanno lavorato con me e con De Donno all’indagine mafia e appalti, che era il loro sogno, quindi non penso che ci ritenessero dei mafiosi”.

Un destino infausto, sicuramente ingrato, sembra attendere in questo paese i super poliziotti che nel corso della storia hanno contribuito alla cattura dei più pericolosi boss mafiosi. Mori, con i suoi colleghi del Ros, è stato processato tre volte. Renato Cortese, ex questore di Palermo ed ex capo della Squadra mobile di Roma, il super poliziotto che nel corso della carriera ha catturato Bernardo Provenzano, è stato processato e poi assolto per la vicenda del rimpatrio di Alma Shalabayeva. Vittorio Pisani, ex capo della Squadra mobile di Napoli, tra i registi della cattura del boss del clan dei casalesi Michele Zagaria, latitante per 15 anni, è stato accusato di rivelazione di notizie riservate, abuso d’ufficio e favoreggiamento, per poi essere assolto con formula piena. Questo stato è poco riconoscente nei confronti dei suoi servitori, dei suoi eroi? “Io direi che questo fa un po’ parte del destino degli investigatori”, risponde Mori. “Quello che forse tutti questi investigatori pagano è la determinazione con cui, sulla base dei compiti che sono loro assegnati, decidono come agire in autonomia. Questo a molti magistrati non va giù”.


Ovviare all’aborto che è stato fatto nel 1989 con la riforma del codice di procedura penale per contrastare il circo mediatico-giudiziario


Lei che l’ha vissuto per venticinque anni sulla sua pelle, crede che sia possibile contrastare il circo mediatico-giudiziario? “L’unico modo è ovviare all’aborto che è stato fatto nel 1989 con la riforma del codice di procedura penale. Il passaggio da un sistema inquisitorio a uno accusatorio deve essere pieno, non può esserci un misto tra i due riti come oggi. Ne è venuto fuori un pasticcio dal quale hanno tratto vantaggio solo alcuni procuratori. Ma penso che sia impossibile realizzare una riforma nella direzione che ho indicato”.

Un briciolo di ottimismo, però, il generale Mori lo mostra: “Penso che le motivazioni della sentenza della Cassazione sul nostro processo potrebbero dare una spinta a riconsiderare la gestione del pentitismo e a riportarla nei suoi giusti termini. Per me è uno strumento di lavoro, che serve solo dopo che siano stati riscontrati i fatti. Per alcuni magistrati è stato uno strumento con cui acquisire la verità assoluta e definire in maniera completa vicende che invece meritavano maggiore finezza investigativa”.

“Forse ci sarà un ridimensionamento del pentitismo, ma spero anche che ci sia un ripensamento di un certo tipo di fare giornalismo”, prosegue Mori. “Ricordo che all’inizio della mia carriera c’erano fior fiori di giornalisti che facevano realmente giornalismo investigativo. Erano preparati, non si facevano dare la velina dal magistrato o dal funzionario di polizia giudiziaria, e poi sapevano sviluppare delle indagini proprie. Negli ultimi anni è stato molto facile il lavoro di certi giornalisti, inutile fare nomi, li conosciamo tutti. Basta una telefonata a un magistrato, si ottengono i documenti e li si pubblicano sul giornale senza alcuna analisi critica. I giornalisti sono diventati dei velinari”.

Generale Mori, è consapevole che, nonostante l’assoluzione definitiva, lei sarà sempre “l’uomo nero” in questo paese, e che venticinque anni di gogna mediatica non potranno essere cancellati dalla pubblicazione nelle pagine interne di un giornale della notizia della sua assoluzione? “Lo so benissimo”, risponde il generale, “ma dalla mia ho il sostegno dei Carabinieri, che non è mai mancato in questi anni. Proprio questa mattina sono andato al bar e c’erano tre-quattro agenti del Nucleo radiomobile che si erano fermati a prendere un caffè. Mi hanno guardato, mi hanno salutato, hanno espresso vicinanza nei miei confronti. Questo avviene ancora oggi, in ogni posto d’Italia in cui vado”.

E ora, dunque, una volta assolto dall’ennesima accusa strampalata, cosa farà il generale Mori? “Combatterò per cercare di ripristinare la verità, senza sconti per coloro che continuano a dire scempiaggini. Le contesterò in tutte le sedi, anche con querele. Non ne faremo passare una”. “Cercherò anche di mettere ordine alle mie carte per scrivere quella che è stata la mia vicenda giudiziaria”, prosegue Mori. “Ho segnato tutte le date nella mia agenda, da quando sono entrato in accademia fino alla fine dei vari processi. Vorrei ristabilire la mia verità giudiziaria, fino ad arrivare alla sentenza del 27 aprile scorso. Ho detto ai miei figli: così se mi attaccano dopo che sono morto voi avete tutti i dati per potervi difendere”.