L’ANALISI. Quando Falcone spiegò perché il Terzo Livello è un equivoco
È evidente che è la mafia ad imporre le sue condizioni ai politici, e non viceversa. Essa infatti non prova, per definizione, alcuna sensibilità per un tipo di attività, quella politica, che è finalizzata alla cura di interessi generali.
Ciò che importa a Cosa Nostra è la propria sopravvivenza e niente altro. Essa non ha mai pensato di prendere o di gestire il potere. Non è il suo mestiere.
A proposito del dirottamento di voti nella consultazione elettorale del 1987, Francesco Marino Mannoia ci ha detto: «E stato provocato da Cosa Nostra per lanciare un avvertimento alla Democrazia cristiana, responsabile di non aver saputo bloccare le inchieste antimafia dei magistrati di Palermo». I suffragi sottratti alla Democrazia cristiana non sono passati automaticamente ad un altro partito, ma sono confluiti verso quei partiti che avevano assunto una posizione fortemente critica nei confronti della magistratura: il Partito socialista e il Partito radicale.
Salvatore Greco, attualmente detenuto, è soprannominato ironicamente da Cosa Nostra «il Senatore» per la sua passione politica, il che la dice lunga sul distacco con cui la mafia guarda alle vicende politiche.
Questa presa di distanza dalla politica trova conferma nelle dichiarazioni che Francesco Marino Mannoia, secondo quanto si è appreso dalla stampa, avrebbe reso alibi (Mannoia si trova attualmente sotto la protezione del governo americano). «Sì, Cosa Nostra ha ricevuto pressioni durante il rapimento di Aldo Moro perpetrato dalle Brigate rosse nel 1978. Che cosa le si chiedeva? Di mettersi in contatto coi terroristi per ottenere la liberazione dell’ostaggio.»
La Cupola si riunì allora su richiesta di Stefano Bontate, il boss più vicino alla Democrazia cristiana, ma si spaccò immediatamente in due: gli amici di Bontate, favorevoli all’intercessione, e i «Corleonesi» con Pippo Calò, contro. Questi ultimi hanno finito per avere la meglio, in ossequio alla regola: «Gli affari politici sono cosa loro, non nostra».
Non bisogna tuttavia credere che Cosa Nostra non sappia, in caso di bisogno, fare politica. L’ha fatta alla sua maniera, violenta e spiccia, assassinando gli uomini che le davano fastidio, come Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana, e democristiano, nel 1980; Pio La Torre, deputato comunista, principale autore della legge che porta il suo nome, nel 1982; e Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana nel 1979.
Questi crimini eccellenti, su cui finora non si è riusciti a fare interamente luce, hanno alimentato l’idea del «terzo livello», intendendosi con ciò che al di sopra di Cosa Nostra esisterebbe una rete, ove si anniderebbero i veri responsabili degli omicidi, una sorta di supercomitato, costituito da uomini politici, dà massoni, da banchieri, da alti burocrati dello Stato, da capitani di industria, che impartirebbe ordini alla Cupola.
Questa suggestiva ipotesi che vede una struttura come Cosa Nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti tra mafia e politica.
L’idea del terzo livello prende le mosse, distorcendone il significato, da una relazione svolta da me e dal collega Giuliano Turone ad un seminario del 1982 a Castelgandolfo. Insieme avevamo redatto un rapporto sulle tecniche di indagine in materia di delitti mafiosi. Avevamo sottolineato che la mafia non è un’organizzazione che commette delitti suo malgrado, ma un sodalizio avente come finalità precipua il delitto; per esigenze sistematiche avevamo distinto i delitti «eventuali», come li avevamo definiti, da altri «essenziali». In altre parole, i reati come contrabbando, estorsioni, sequestri di persona, cioè i delitti per cui si è costituita l’organizzazione mafiosa, li avevamo classificati di «primo livello».
Al «secondo livello» avevamo classificato i reati che, non costituendo la ragion d’essere di Cosa Nostra, ne sono tuttavia l’indiretta conseguenza: per esempio, l’omicidio di un uomo d’onore che si è macchiato di uno sgarro nei confronti dell’organizzazione. Restavano i reati non classificabili né come essenziali o strutturali (di primo livello), né come eventuali (di secondo livello), ma che venivano perpetrati in un dato momento per garantire la sopravvivenza dell’organizzazione: l’omicidio di un prefetto, di un commissario di polizia, di un magistrato particolarmente impegnato. Ecco quindi il delitto di «terzo livello».
Attraverso un percorso misterioso, per non so quale rozzezza intellettuale, il nostro terzo livello è diventato il «grande vecchio», il «burattinaio», che, dall’alto della sfera politica, tira le fila della mafia. Non esiste ombra di prova o di indizio che suffraghi l’ipotesi di un vertice segreto che si serve della mafia, trasformata in semplice braccio armato di trame politiche. La realtà è più semplice e più complessa nello stesso tempo. Si fosse trattato di tali personaggi fantomatici, di una Spectre all’italiana, li avremmo già messi fuori combattimento: dopotutto, bastava un James Bond.
Ciò non toglie che sia legittimo e doveroso chiedersi come mai non siamo ancora riusciti a scoprire i mandanti degli omicidi politici.
A parziale discolpa, potremmo dire che non abbiamo ancora scoperto neanche molti autori di delitti non politici. Ma sarebbe una giustificazione meschina. In realtà, trovo utopico pensare di risolvere i delitti del «terzo livello» se prima non sono stati risolti quelli dei livelli precedenti.
Considero poi che la ricchezza crescente di Cosa Nostra le dà un potere accresciuto, che l’organizzazione cerca di usare per bloccare le indagini.
Mi sembra infine che le connessioni fra una politica «affarista» e una criminalità mafiosa sempre più implicata nell’economia, rendono ancora più inestricabili le indagini.
Con questo risultato finale: lo sviluppo di un sistema di potere che si fonda e si alimenta in Sicilia sulle connivenze e sulle complicità mafiose e che costituisce un ostacolo in più per delle indagini serene ed efficienti.
* COSE DI COSA NOSTRA di Giovanni Falcone in collaborazione con Marcella Padovani (pag 166/169).
Io, Falcone, vi spiego cos’è la mafia
Di Giovanni Falcone
Da L’Unità del 31 maggio 1992
Nella relazione finale della Commissione d’inchiesta Franchetti-Sonnino del lontano 1875/76 si legge che «la mafia non è un’associazione che abbia forme stabili e organismi speciali… Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male».
Si legge ancora: «Questa forma criminosa, non… specialissima della Sicilia», esercita «sopra tutte queste varietà di reati»…«una grande influenza» imprimendo «a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori»; si rileva, inoltre, che «i mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione e di esacerbazione» e che, già sotto il governo di re Ferdinando, la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì».
Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la gravità; infatti si legge nella richiamata relazione:«Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano 22 battaglioni e mezzo fra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani, oltre i Carabinieri in numero di 3120».
Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso, ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti.
Nell’immediato dopoguerra e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/1963 gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario pronunciati dai Procuratori Generali di Palermo.
Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si insisteva nel concetto che la mafia «più che una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto», ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di “qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l’attività criminosa”; il riferimento è chiaro, riguarda il Procuratore Generale di Palermo, dottor Pili espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Viterbo il 3/5/1952: «Giuliano ebbe rapporti, oltre che con funzionari di Pubblica Sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura Generale presso la Corte d’appello di Palermo: Emanuele Pili».
Nella relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti.
Così, nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice ad «opposti gruppi di delinquenti».
Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione» e, in quella del 1968, si raccomanda l’adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che «il mafioso fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo».
Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente valutato da parte degli organismi responsabili benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall’esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità.
E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dall’attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà.
Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l’autorevolezza della fonte, il Capo della Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i proventi della maggior parte delle attività illecite del nostro paese tra le quali spiccano soprattutto il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi.
Sottolineando che la criminalità organizzata – e quella mafiosa in particolare – è, come si sostiene in quell’intervento, «la più significativa sintesi delinquenziale fra elementi atavici… e acquisizioni culturali moderne ed interagisce sempre più frequentemente con la criminalità economica, allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del denaro sporco».
L’argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti, ha riacceso l’attenzione sulla specifica realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti – ovviamente, non senza contropartite – di ripianare il deficit del bilancio statale.
Ci si domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità.
Un convincimento diffuso è quello – che ha trovato ingresso perfino in alcune sentenze della Suprema Corte – secondo cui oggi saremmo in presenza di una nuova mafia, con le connotazioni proprie di un’associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l’espressione, sia pure distorta ed esasperata, di un “comune sentire” di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia, quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi.
Tale opinione è antistorica e fuorviante.
Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa Nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è e non si è mai identificata con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una organizzazione criminosa – unica ed unitaria – ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose.
Con ciò, evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa Nostra abbia subito mutazioni a livello strutturale e operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto nell’avvio di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una della ragioni più profonde della forza di tale consorteria, che la rende tanto diversa.
Se oltre a ciò, si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle “punizioni” inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere però conto dello straordinario spessore di questa organizzazione sempre nuova e sempre uguale a sé stessa.
Altro punto fermo da tenere ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra.
Ovviamente, può accadere ed è accaduto, che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere.
“Cosa Nostra” però, nelle alleanze, non accetta posizioni di subalternità; pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o dirigerne dall’esterno le attività. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell’esistenza di una “direzione strategica” occulta di Cosa Nostra.
Gli uomini d’onore che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell’organizzazione, ne sconoscono l’esistenza.
Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono un argomento “a contrario” perché hanno una propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell’organizzazione mafiosa.
E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di “Cosa Nostra”, è pur vero che in seno all’organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica.
Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia mai però in posizioni di subalternità.
Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo egemonico nel traffico, anche internazionale, dell’eroina.
Ma, per comprendere meglio le cause dell’insediamento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe del contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmografia come un romantico avventuriero.
La realtà era però ben diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa Nostra, se non addirittura un mafioso egli stesso ed il contrabbando si è rivelato un’attività ben più pericolosa di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario dello Stato, in quanto ha fruttato ingenti guadagni che hanno consentito l’ingresso nel mercato degli stupefacenti della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali – sia per il trasporto della merce sia per il riciclaggio del danaro – poi utilizzati per il traffico di stupefacenti.
Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano importanti novità della struttura mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa Nostra è organizzata come una struttura piramidale basata sulla “famiglia” e ogni “uomo d’onore” voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con gli altri membri della stessa “famiglia” e solo sporadicamente con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie “famiglie” il coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e regionale.
Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi – che comporta l’impiego di consistenti risorse umane in operazioni complesse che non possono essere svolte da una sola famiglia – sorge la necessità di associarsi con membri di altre famiglie e, perfino, con personaggi estranei a Cosa Nostra.
Per effetto dell’allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti spesso non mafiosi sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero.
Si formano, così, associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da “uomini d’onore”, che non si identificavano, però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione saltuaria di altri “uomini d’onore” non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e nella misura stabilita dal proprio capo famiglia.
In pratica, dunque, l’antica, rigida compartimentazione degli “uomini d’onore” in “famiglie” ha cominciato a cedere il posto a strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno all’organizzazione.
Cosa Nostra però non si limita ad esercitare il controllo indiretto su altre organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un efficace funzionamento delle attività criminose.
Il fatto che esiste anche a Napoli una “famiglia” mafiosa dipendente direttamente dalla “provincia” di Palermo, non deve stupire perché la presenza di “famiglie” mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette “decine”), fuori della Sicilia, ed anche all’estero, è un fenomeno risalente negli anni.
La stessa Cosa Nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di “famiglie” costituenti diretta filiazione di Cosa Nostra siciliana.
Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso la malavita napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni ma più verosimilmente con l’intenzione di fomentare la discordia per assumere la direzione dell’attività.
Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati collegamenti importanti tra esponenti di spicco della mafia isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili già allora con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse.
Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti; coordinamento la cui pericolosità è intuitiva.
Nella seconda metà degli anni ’70, pertanto, Cosa Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte le carte in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti.
In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra garantiva la distribuzione della droga in quel paese.
Non c’è da meravigliarsi, allora, se la mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell’eroina verso gli Stati Uniti d’America.
Anche nella gestione di questo lucroso affare l’organizzazione ha mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato, in base all’esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché impossibili le indagini.
Alcuni gruppi curavano l’approvvigionamento della morfina-base dal Medio e dall’Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la trasformazione della morfina- base in eroina; altri, infine, si occupavano dell’esportazione dell’eroina verso gli Usa.
Tutte queste strutture erano controllate e dirette da “uomini d’onore”.
In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era attivato da esperti chimici francesi, reclutati grazie a collegamenti esistenti con il “milieu” marsigliese fin dai tempi della cosiddetta “French connection”.
L’esportazione della droga, come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con “uomini d’onore” preposti a tale settore del traffico.
Si tratta dunque di strutture molto articolate e solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente, consentendo alla mafia ingentissimi guadagni.
Un discorso a sé merita il capitolo del riciclaggio del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti, derivanti dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni sempre più incisive.
Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito il canale privilegiato per il riciclaggio del danaro.
Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi paesi nelle operazioni bancarie di cambio di valuta estera.
Senza dire che non poche attività illecite della mafia, costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l’afflusso in Sicilia di ingenti quantitativi di danaro, già ripulito all’estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli stupefacenti.
Quali effetti ha prodotto in seno all’organizzazione di Cosa Nostra la gestione del traffico di stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti, la mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali.
Le alleanze orizzontali fra uomini d’onore di diverse “famiglie” e di diverse “province” hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni ‘70 per assicurare un migliore controllo dell’organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo verticale, la “commissione” regionale, composta dai capi delle province mafiose siciliane col compito di stabilire regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa Nostra nel suo complesso.
Ma le fughe in avanti di taluni non erano state inizialmente controllate. Esplode così nel 1978 una violenta contesa culminata negli anni 1981-1982.
Due opposte fazioni si affrontano in uno scontro di una ferocia senza precedenti che investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia di morti.
I gruppi avversari aggregavano uomini d’onore delle più varie famiglie spinti dall’interesse personale – a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia caratterizzata dallo scontro tra le famiglie – e ciò a dimostrazione del superamento della compartimentazione in famiglie.
La sanguinaria contesa non ha determinato – come ingenuamente si prevedeva – un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose, che, depurate degli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un gruppo egemone accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo.
Il nuovo gruppo dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare dall’aprile 1982, ha iniziato ad eliminare chiunque potesse costituire un ostacolo.
Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante l’impegno delle forze dell’ordine.
La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di ogni genere di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie, non ha determinato l’inizio della fine del fenomeno mafioso.
Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo, prevedibile nemmeno.
È vero che non pochi “uomini d’onore”, diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti e non sono sicuramente costretti all’angolo.
Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di una organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse.
Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue peraltro circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all’azione repressiva.
La tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta da assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che hanno creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi dell’ex sindaco di Palermo, Giuseppe Insalaco e dell’agente della PS Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro.
Si ha l’eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi “omicidi eccellenti”, non si potranno fare molti passi avanti.
Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico di eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; e si hanno già notizie precise di scambi tra eroina e cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti e collegamenti – la cui pericolosità è intuitiva – tra mafia siciliana ed altre organizzazioni criminali italiane e sudamericane.
Le indagini per la individuazione dei canali di riciclaggio del denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati.
Per quanto riguarda poi le attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le estorsioni sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività cominciano ad acquisire rilevanza.
Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori non mafiosi, che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazione all’impresa e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia.
Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo.
Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza seguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno e, per quanto mi riguarda, non ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia e per suggerire rimedi.
Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di passare per profeta di sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel futuro prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.
1988 – PAOLO BORSELLINO: il terzo livello non esiste
“Tra mafia e politica favori elettorali, ma sopra la cupola non c’è niente”: l’audizione. “Mi sono formato la convinzione, tra l’altro condivisa dal collega Falcone dopo otto anni di indagini sulla criminalità mafiosa, che il famoso terzo livello di cui tanto si parla – cioè questa specie di centrale di natura politica o affaristica che sarebbe al di sopra dell’organizzazione militare della mafia – sostanzialmente non esiste.
Dovunque abbiamo indagato, al di sopra della cupola mafiosa, non abbiamo mai trovato niente. La terza struttura non esiste, ma gli scambi reciproci sono un fatto.”
In vista delle elezioni:
“Da tante indagini viene fuori invece contiguità e i reciproci favori in riferimento alle attività delle organizzazioni mafiose a livello elettorale, che permetteva quantomeno di rendere favori elettorali, probabilmente con la speranza di averli resi in altro modo”.
Paolo Borsellino in Commissione Parlamentare Antimafia
Falcone contro il “terzo livello”
Fu il giudice assassinato 30 anni fa a coniare l’espressione, nel 1982. Ma il circo mediatico, e poi i magistrati dell’Antimafia dagli anni ’90 alla Trattativa, ne snaturarono il senso.
Più volte il magistrato contestò l’uso che ne veniva fatto: la “cupola” intesa come anti-stato collegato a poteri politici economici o massonici, esisteva secondo Falcone “solo nella fantasia degli scrittori”
Nella memoria e nei bilanci è difficilmente evitabile il rischio di perpetuare una retorica fatta di forzature e di veri travisamenti, molto partisan.
Ad esempio quando si parla del “metodo” di Giovanni Falcone. Ieri l’editoriale di Massimo Giannini sulla Stampa si chiedeva: “Cosa resta delle sue tensioni morali? Su quali gambe hanno camminato le sue idee?”, e la riga successiva denunciava il presunto isolamento di “toghe del calibro di Gratteri e Di Matteo”.
Vale la pena precisare che a fare la differenza sono anche i risultati, che Falcone portò e i due citati meno.
Ma c’è soprattutto una questione di metodo. Il fallimento del processo sulla Trattativa di cui l’Appello ha demolito il teorema risiede, in sostanza, nell’aver ipostatizzato fino all’estremo una errata interpretazione del pensiero di Falcone, e su un punto decisivo: quello del cosiddetto “terzo livello”.
Il patto occulto, tra anti stato e poteri indecifrabili, di cui la mafia è strumento.
Che l’espressione sia stata coniata da Falcone, già nel 1982 – in una relazione scritta con Giuliano Turone per un seminario del Csm, “Tecniche di indagine in materia di mafia” – è cosa nota.
Serviva a indicare reati detti “di terzo livello” in quanto “miravano a salvaguardare i perpetuarsi del sistema mafioso “si pensi d esempio all’omicidio di un uomo politico, o di un altro rappresentante delle pubbliche istituzioni, considerati pericolosi per l’assetto di potere mafioso”. Non indicava quindi una “cupola” politico affaristica, come diventerà subito nella vulgata giornalistica, con tanto di massoneria e servizi. Quel livello misteriosofico che piaceva tanto agli sceneggiatori della Piovra, la celebre serie televisiva che debuttò proprio nel 1984 e contribuì a introiettare nel pubblico italiano il concetto-chiave di terzo livello. E di cui il trashissimo Padrino III, nel 1990, chiude la mitologia, con tanto di assassinio del Papa. Una forzatura così pervasiva che fu proprio Falcone, anni dopo, a voler chiarire il suo pensiero. Lo fece in un convegno a Palermo nel giugno 1988, di cui si trova facilmente traccia in rete: “Lotta alla droga verso gli anni Novanta”.
Disse: “Al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono terzi livelli di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra.
Ovviamente, può accadere ed è accaduto che, in determinati casi e a determinate condizioni, l’organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari e abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi politici commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia e altri centri di potere”. Non altro.
Fino alla drammatica audizione al Csm dell’ottobre 1991, quando Falcone era ormai costretto a difendersi dalle accuse e dalle insinuazioni di parte dei colleghi, e con determinazione ribadì la sua visione: “Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc… e che sia quello che orienta Cosa nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica”.
I grandi processi di mafia celebrati dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino – Andreotti, Dell’Utri, Contrada, fino alla saga della Trattativa – seguiranno invece in una chiave o nell’altra lo schema narrativo del terzo livello, quello che Falcone rifiutò esplicitamente. Narrazione difficile da sostanziare senza la costruzione del concorso esterno, il “reato che non esiste”, combinato disposto dell’art. 110 e 416-bis della legge Rognoni-La Torre, che Falcone maneggiava, ancora una volta, con estrema prudenza: “Vi è il pericolo che che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare ai fini di una condanna elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta”, disse nel celebre libro intervista con Marcelle Padovani.
Il rapporto mafia-politica nel pensiero di Giovanni Falcone
Falcone, come molti erroneamente sostengono ancor oggi, non ha mai negato l’esistenza di rapporti tra lo Stato e la mafia.
I rapporti tra crimine organizzato e Stato erano talmente evidenti a chi voleva individuarli negli anni ottanta e novanta che non occorrevano arresti o sentenze ma bastava seguire la scia di sangue e di morti vittime di mafia.
Oggi la situazione è cambiata. I rapporti tra Stato e mafia non sono più gestiti con la violenza ma con il denaro e quindi con la corruzione. Il lento declino della politica sta trascinando nel baratro un Paese dove il malaffare è arrivato fino alla sua degenerazione più pericolosa: l’integrazione “sistemico-corruttiva” tra mafia, politica e imprenditoria. La gente si abitua presto ai tanti silenzi sulle mafie e di conseguenza si rassegna e non reagisce più.
Le persone non vedono il sangue e non pensano più alla criminalità organizzata. La mafia invece usa l’arma più letale a sua disposizione: la corruzione.
A rendere invisibile questa mafia che non spara ma fa affari con i suoi ingenti capitali è proprio una enorme carenza culturale e di conseguenza una assoluta mancanza di dibattito.Le nuove mafie hanno ormai incluso nel metodo mafioso la corruzione sostituendola dove sia possibile alla violenza e alla intimidazione.
Le infiltrazioni mafiose, in specie negli enti pubblici, avvengono soprattutto attraverso fenomeni corruttivi che non sono solo quelli di elargire tangenti.
I sistemi di corruzione oggi sono notevolmente cambiati: si va dalle consulenze, alle false fatturazioni, dai favori clientelari, all’inserimento in lobby più o meno affaristiche, dalla gestione di ampi pacchetti di voti, alla elezione di propri affiliati. Le nuove mafie oggi si aggiudicano un appalto corrompendo politici e funzionari e non minacciandoli o uccidendoli come spesso avveniva ai tempi di Falcone e Borsellino.
Oggi è il voto di scambio a intessere i rapporti tra organizzazioni mafiose e politica. Le nuove mafie operano spesso come “collettori di voti” a favore dei candidati con cui sussiste uno specifico accordo. L’esponente politico favorito nella competizione elettorale, una volta eletto, sarà persona di riferimento esclusivo degli interessi mafiosi.
A conferma ulteriore della convinzione dell’esistenza di un terzo livello della mafia da parte di Giovanni Falcone c’è anche l’attentato all’Addaura.
Dopo quel fallito tentativo di ucciderlo, il giudice palermitano dirà al cognato Alfredo Morvillo: “Siamo in presenza di menti raffinatissime, si tratta di un attentato organizzato da qualche uomo delle istituzioni che ha tradito”. “Nessuno poteva sapere che sarei andato a fare il bagno in prossimità di quegli scogli”. “Qualcuno ha tradito”.Ricordo che in quel periodo si disse che Falcone condivideva un importante segreto con Carla Del Ponte.
Quando penso agli attuali rapporti tra mafia e Stato, più volte mi capita di pensare a Giovanni Falcone ancora vivo. Mi domando: si indignerebbe del negazionismo che tanti ancora oggi praticano sui rapporti mafia e politica come se fossero due identità separate e non invece un unicum indissolubile?
Mi convinco sempre di più che lo Stato o una parte di esso sia ben lontano dal voler estirpare con la determinazione richiesta il fenomeno mafioso. Penso che Falcone “forse” criticherebbe l’abbandono di coloro che collaborano con la giustizia mettendo a rischio se stessi e i loro familiari e che oggi sono lasciati alla deriva mentre la mafia ingrassa. Eppure per cominciare una lotta senza quartiere ci vorrebbe poco: basterebbe combattere la corruzione, per vincere la mafia e combattere la mafia per vincere la corruzione. Questa dovrebbe essere una delle scommesse del prossimo futuro per la politica criminale nazionale ed europea.
Se Falcone fosse vivo cosa penserebbe dell’attuale legislazione antimafia? Come sarebbe l’Italia oggi se Giovanni Falcone fosse sopravvissuto all’attentato di Capaci? Io mi sento libero di esprimere la mia opinione: sarebbe sicuramente migliore di quella che è attualmente! Vincenzo Musacchio 6
Il paradosso degli eredi di Falcone: accusati di mafia da giovani Pm che di Cosa nostra non sanno nulla
In gergo si chiamava così: terzo livello. Si diceva che la mafia fosse fatta a tre strati: la truppa, poi i capi (cioè la cupola, che allora era guidata da Totò Riina il quale aveva spodestato il vecchio Greco) e infine il terzo livello, e cioè la direzione vera, composta da un certo numero di esponenti altissimi della politica italiana. La suggestione era che nel seggio più alto ci fosse Andreotti. Falcone smentì quell’idea, disse chiaramente che per fare la lotta alla mafia si doveva fare la lotta alla mafia. Cercando i soldi, gli indizi, le prove, i colpevoli. Usando la tecnologia, i pentiti, le proprie capacità di indagine sul terreno. E non inseguendo teorie bislacche scritte a tavolino.
E neppure affidandosi alle speranze che dalla lotta alla mafia potessero venire dei danni per i propri avversari e quindi dei vantaggi per se. Il terzo livello – disse – non esiste. Poco prima di lasciare la magistratura, costretto dalla guerra che gli facevano i colleghi – e la politica, e i giornali – Falcone aveva incriminato per calunnia un pentito – si chiamava Pellegritti – che voleva tirare in ballo Andreotti. Lo incriminò perché le sue accuse apparivano del tutto infondate e prive di riscontri. Falcone usò in modo molto spregiudicato i pentiti, però sapeva usarli: non andava dietro a chiunque e nemmeno pretendeva di imbeccarli. Li ascoltava, controllava, riscontrava, cercava prove. Dopo di lui nessuno più ha fatto così. I pentiti sono diventati i padroni delle Procure.
Dicevo di quel pensiero: avevamo sbagliato tutto. Avevamo pensato che Falcone fosse un moderato, uno che voleva il compromesso. Che abbaglio. Falcone era semplicemente il più geniale investigatore mai apparso nel nostro paese, conosceva il suo mestiere, talvolta lo esercitava persino in modo spavaldo e forse eccessivamente aggressivo, e facendo così – in pochi anni – aveva inferto alla mafia i colpi più pesanti che mai la mafia avesse ricevuto in tutta la sua storia secolare. Falcone usò persino strumenti discutibili, come il maxiprocesso, e probabilmente lo fece sapendo che quegli strumenti erano discutibili, ma faceva queste cose dentro una visione politica e del diritto, e con la forza di una professionalità che nessun altro si è mai sognato di possedere.
Falcone lavorava con un gruppo ristretto e molto fidato di collaboratori. Quando lasciò la procura di Palermo per andare a Roma con Claudio Martelli al ministero della Giustizia, lasciò in Sicilia alcuni dei suoi uomini più sicuri e combattivi. Volete un nome? Il più forte, il più illustre? Era un colonnello. Si chiamava Mario Mori. Aveva fatto esperienza col generale Dalla Chiesa, prima sulla frontiera del terrorismo e poi su quello di Cosa Nostra. Era abile, determinato, intelligente. Conosceva perfettamente Falcone, i suoi metodi, la struttura delle sue indagini. Stava lavorando su un dossier che aveva impostato con Falcone. Si chiamava Mafia e Appalti. Aveva messo insieme tutte le informazioni sui rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Falcone fece pressioni perché il dossier fosse preso in mano da Borsellino. Anche Borsellino fece pressioni per averlo. Era un dossier che poteva travolgere la borghesia italiana. La mattina del 19 luglio (del 1992) il Procuratore di Palermo Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe affidato il dossier. All’ora di pranzo però Borsellino fu ucciso.
E in realtà cinque giorni prima della sua morte due sostituti di Giammanco avevano già firmato la richiesta di archiviazione di quel dossier. La storia del dossier finisce lì, muore con Borsellino tutto il lavoro di Falcone sui rapporti tra mafia e borghesia del Nord. Mori, dopo quel colpo, si ritirò in buon ordine, perché Mori è un carabiniere. E da carabiniere continuò la sua guerra strenua con la mafia. Era una guerra pericolosissima, perché aveva di fronte i corleonesi, quelli che i mafiosi siciliani chiamavano “I viddani”, che avevano travolto la mafia di Palermo e ora stavano conducendo una politica da esercito, non da cosca: da falange militare feroce, sparavano più che potevano, attentati, dinamite, morte morte morte. L’hanno persa quella battaglia i “viddani”, facendo e lasciando molte vittime sul campo. Mori l’ha vinta. Ma la compagnia dell’antimafia, quella che aveva perseguitato Falcone, gli si rivoltò contro, come aveva fatto con Falcone.
Mori e i suoi uomini, cioè quel pugno di audaci militari combattenti che sconfisse l’esercito di Riina e salvò l’Italia da un bagno di sangue, oggi sono sotto processo. È il più spaventoso e triste paradosso della storia della repubblica. La mafia se la ride. Il processo “trattativa” quello voluto da Ingroiae Di Matteo è la più clamorosa ingiustizia della storia della Sicilia. Si fonda sulle accuse di un mafioso e del figlio di un mafioso: Brusca e Ciancimino. Gli eroi sono processati dai burocrati. I nemici della mafia messi sotto accusa da un apparato statale di dilettanti. Povero Falcone. Povero Falcone.
P.S. Quel giorno, il 23 maggio, andai dal nuovo direttore e gli dissi che volevo scrivere un articolo per dire quanto e perché noi dell’Unità avevamo sbagliato a schierarci coi dilettanti dell’antimafia contro Falcone. Veltroni me lo fece scrivere e lo pubblicò, mi pare il giorno dopo. Io vado molto fiero di quell’articolo. Piero Sansonetti IL RIFORMISTA 23.5.2020
Il quarto livello della mafia: cos’è e da chi è composto?
l’analisi di Vicenzo Musacchio 20.10.2017
Dopo il fallito attentato dell’ Addaura del 21 giugno 1989, Giovanni Falcone affermò testualmente: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’ impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Anche se in tanti dicono che Falcone non avesse mai riconosciuto un terzo livello in “Cosa Nostra”, indirettamente, (ma io ritengo con scienza e coscienza) questo suo commento ammette l’esistenza non solo di un terzo livello ma addirittura ne paventa l’esistenza di un quarto.
Non dimentichiamoci mai che gli anni ottanta fino alla morte di Falcone e Borsellino, segnano le sconfitte più consistenti subite da Cosa Nostra nella sua storia criminale e la gran parte provocate proprio dal maxiprocesso.
Fu una svolta epocale e mondiale. Sino alla sentenza del maxiprocesso la conoscenza del fenomeno mafioso era assai vaga e confusa. Dopo quella sentenza, abbiamo cominciato a comprendere meglio il fenomeno e i suoi contatti con i “poteri forti” nazionali ed internazionali. Esisterebbe una rete, ove si anniderebbero questi cd. “poteri forti”, una sorta di “super comitato”, costituito da uomini politici, massoni, banchieri, alti burocrati dello Stato, industriali, che influenzerebbe (direttamente o indirettamente) anche le sorti delle mafie italiane. Questi poteri forti nazionali costituirebbero il cd. “terzo livello”, mentre quelli sovranazionali darebbero vita al cd. “quarto livello”.
Cos’è questo “quarto livello” e chi sono le persone che lo compongono?Senza dubbio sono organizzazioni e multinazionali abbastanza grandi da contare e pesare nello scenario politico ed economico internazionale. I componenti di questi “poteri forti” coincidono tout court con una rete di interessi interdipendenti di tipo finanziario, politico, economico e industriale. Le mafie e l’economia sono sempre stati connessi per il semplice fatto che l’attività predatoria delle organizzazioni criminali si rivolge verso la ricchezza. Al giorno d’oggi, le mafie sono divenute “imprenditrici” entrando a pieno titolo nell’economia globale.
L’immensa quantità di denaro di cui dispongono, una massa in continua crescita derivante da traffici sempre più lucrosi e organizzati, fa si che debbano giocoforza aggirare, infrangere, piegare ai propri interessi le leggi degli Stati. Per far ciò hanno assoluto bisogno di questi poteri forti. Per rendersene conto basta osservare l’operato delle multinazionali, dei colossi della finanza, degli operatori dell’economia globale. I principi che li guidano sono gli stessi di quelli mafiosi e la compatibilità e l’adattamento fra i due sistemi è sostanzialmente completo. Se rileggiamo gli scritti di Giovanni Falcone non ci può non venire a mente come, la mediazione di questi poteri forti sia essenziale per le mafie e può esser vista da queste ultime come il modo più sicuro, rapido ed efficiente di garantire rapporti finalizzati alla realizzazione del massimo utile possibile.
Questo “quarto livello”, dunque, è molto più pericoloso del terzo e indubbiamente segna il passaggio delle mafie da dimensioni puramente localistiche e nazionali ad un livello di incidenza a livello globale. Ho sempre pensato che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino siano morti perché forse, anche inconsapevolmente, stavano toccando i fili del livello internazionale e mediante analisi finanziarie complesse erano arrivati ad individuare “poteri forti” sovranazionali. Furono uccisi perché quel livello sovranazionale una volta scoperto avrebbe rivelato scenari impensabili. Probabilmente avrebbe rivelato connessioni tra mafie e poteri militari, oligarchico-finanziari e politici collegati tra loro per scopi non di certo leciti. Ormai dobbiamo essere coscienti che esista una mafia senza confini che spesso è influenzata da nuovi poteri forti a livello sovranazionale. Dobbiamo, pertanto, domandarci se siamo attrezzati a contrastare questa nuova dimensione delle mafie. Io credo di no! BLOG SICILIA
(NDR) Vincenzo Musacchio – Direttore scientifico della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise