Ecco come la ‘ndrangheta migrante ha conquistato l’Australia
L’acquisto di terreni, la nascita dei “Castelli d’erba” e il diniego. Anna Sergi: «Il fenomeno criminologico più problematico»
C’è chi la definisce ‘ndrangheta di esportazione, chi parla di vera e propria “colonizzazione”: la presenza in altre regioni italiane e in altri Stati di cellule della criminalità organizzata calabrese è ormai prassi consolidata.
Le cosche “tradizionali”, legate alla “madrepatria” in Calabria favoriscono la nascita di nuovi gruppi criminali multi-etnici che operano in autonomia.
E’ quanto accaduto, ad esempio, in Australia dove la presenza della ‘ndrangheta è storica.
«La ‘ndrangheta d’Australia ha un battesimo ed è il 18 dicembre del 1922 in cui la leggenda vuole che arrivano tre fondatori della ‘ndrangheta australiana con la nave “Re d’Italia” che compie il viaggio da Perth, Adelaide e Melbourne lasciando in ognuno di questi porti – anche in questo caso si parla di mito – delle persone che poi diventeranno i primi capi della ‘ndrangheta», racconta al Corriere della Calabria Anna Sergi, docente alla University of Essex (Gran
Bretagna).
La ‘ndrangheta migrante
Quella ‘ndrangheta in Australia «era camorrista, estorsiva, poi trasformatasi nella mano nera per un periodo e in seguito diventata altro.
La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi, in Australia, c’è dagli anni ’60.
E’ il momento in cui sia in Australia e sia in Italia, alcuni clan fanno il salto di qualità».
Quali sono stati i business illeciti di riferimento della criminalità organizzata nella terra dei canguri?
«Hanno comprato molti terreni su cui poi hanno fondato una serie di attività molto redditizie, alcune delle quali legali, molte delle quali illegali».
I calabresi d’Australia «sono quelli dei “Castelli d’erba“, dei terreni di marijuana, nelle terre che avevano comprato con i soldi provenienti dall’Italia.
Il diniego
Accanto ai fiumi di danaro da riciclare, alle banconote investite in immobili e attività apparentemente lecite, i malandrini calabresi d’esportazione arricchiscono, molto spesso, il loro agire con narrazioni piene zeppe di falsi miti. Ma quello che la prof. Anna Sergi definisce un «fenomeno criminologico molto più problematico» è il diniego: «il rinnegare come strumento per fare entrare tutto all’interno di una cornice già precostituita». Ci faccia un esempio. «Uccido, ma solo quando devo oppure io commetto una serie di azioni criminali però vado al Santuario della Madonna di Polsi perché sono credente». «Ecco – continua Sergi – questo è un cortocircuito».
«Ci sono almeno 4-5 stadi del diniego che sono studiati, non solo in riferimento al crimine organizzato, ed è un fenomeno decisamente più insidioso perché fa davvero credere alle persone di poter in qualche modo assolversi».
E’ corretto parlare di ‘ndrangheta 2.0? «Non credo ci sia un nuovo stadio della ‘ndrangheta.
Che continua a muoversi all’interno della società, utilizzando come facciamo noi un certo tipo di tecnologi, sfruttando i processi di digitalizzazione ma è bene sottolineare come ci siano ancora i vecchi capi che non sanno usare il telefono me tre i loro nipoti – in Germania – utilizzano i telefonini criptati», continua Sergi. Che precisa: «parlare di una nuova era della ‘ndrangheta solo perché sono cambiati i modi di comunicazione sembra un’esagerazione».
Siamo pronti a fronteggiarla? «Non eravamo pronti prima, non lo siamo adesso». Perché? «Non vorrei essere troppo pessimista, ma i problemi della Calabria, di cui la ‘ndrangheta è espressione, vanno al di là della repressione mafiosa. Ci sono delle ragioni profonde per cui la ‘ndrangheta è ancora parte della società calabrese e quelle ragioni sono ancora lì, non vengono assolutamente studiate bene, capite e fronteggiate». CORRIERE DELLA CALABRIA 13.11.2023
Cosche legate alla Calabria e gruppi multi-etnici: così si evolve la ‘ndrangheta in Australia
Nell’ultima relazione della Dia le nuove dinamiche dei clan, che delegano la violenza a bande minori per puntare agli affari (e alle risorse statali)
Le dinamiche criminali
«Anche l’Australia, interessata sin dalla metà dell’800 dal fenomeno migratorio italiano, vede la presenza della criminalità organizzata soprattutto di origine calabrese», scrive la Direzione investigativa antimafia.
«Ad oggi – prosegue la Dia – i gruppi criminali italo-australiani possono distinguersi in quelli di terza o quarta generazione poco strutturati, con deboli legami con l’Italia e operanti nell’ambito di gruppi multi-etnici, e quelli con un senso di identità nazionale più forte legati ad altre organizzazioni criminali.
Non manca peraltro la vera e propria ‘ndrangheta australiana, con legami diretti con quella calabrese, organizzata alla stessa stregua, anche osservante dei rituali e regole interne, operativa in varie aree dell’Australia, in particolare nelle zone del New South Wales, Canberra, Griffith, Melbourne ed Adelaide. Tale gruppo, che mantiene i collegamenti transnazionali con l’Europa, la Cina ed il Sud America per l’approvvigionamento di droghe sintetiche, precursori e cocaina, consente di svolgere le attività criminali internazionali del traffico di stupefacenti, tramite i principali porti australiani, nonché del riciclaggio dei relativi proventi».
Il modus operandi
Per la Dia «il modus operandi della ‘ndrangheta australiana, che ha assunto un ruolo di primo piano nella coltivazione della cannabis e nell’importazione di altre droghe, è caratterizzato da un limitato uso della violenza per non attirare l’attenzione dell’autorità, e dal ricorso all’azione di altri sodalizi criminali, come le bande di motociclisti, per le attività illecite marginali.
Le attività criminali si svolgono anche mediante usura, contraffazione ed estorsioni, mentre il riciclaggio dei proventi delittuosi avviene con il ricorso ad attività economiche apparentemente legali come aziende del settore agricolo, della ristorazione, dei trasporti e dell’edilizia. Si ritiene che anche l’illecita acquisizione di sovvenzioni statali potrebbe ricadere nelle mire dell’organizzazione ‘ndranghetista, ma allo stato non è ancora noto il grado di infiltrazione nella pubblica amministrazione».
L’azione di contrasto
La Dia comunque sottolinea che «le autorità australiane, acquisita consapevolezza della presenza di propaggini delle organizzazioni criminali italiane e della complessità e pericolosità del fenomeno mafioso per la società, l’economia e la politica, hanno istituito la Criminal Assets Confiscation Taskforceper impedire il reinvestimento dei proventi illeciti, e l’Australian Transaction Reporting and Analysis Center, agenzia governativa di intelligence finanziaria, membro del Gruppo Egmont, per il monitoraggio delle transazioni sospette e l’individuazione delle operazioni riconducibili al riciclaggio dei proventi illeciti, al finanziamento del terrorismo, nonché all’evasione fiscale ed alle frodi. Peraltro, per la più efficace lotta alle mafie l’Australia ha aderito alla Rete operativa antimafia – @ON ed al Progetto I-Can (Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta». (redazione@corrierecal.it)
MAFIOSFERA | Cosa manca all’antindrangheta dei canguri?
La ‘ndrangheta più radicata nel mondo dopo l’Italia, lo abbiamo già detto, è probabilmente in Australia. Ma questo porta ovviamente a chiedersi cosa ne sia dell’antimafia – o meglio dell’anti-ndrangheta – down under. Sicuramente rispetto a un fenomeno radicato da praticamente un secolo, e integrato nella società australiana, è arrivata una risposta non sempre adeguata. Andiamo con ordine, perché i problemi dell’antimafia australiana sono tutti strutturali e vengono da molto lontano.
L’Australia è quel bellissimo paese che nell’innocenza dei suoi primi anni di vita (nel 1901 nasce la federazione australiana come la conosciamo oggi) riesce a riconoscere la ‘ndrangheta – l’onorata società – come organizzazione criminale diversa da cosa nostra siciliana, e con un numero di affiliati superiore a 200 nella sola città di Melbourne.
Gli omicidi al mercato e la banda di Carlton
Era il 1965 e nella capitale dello stato di Victoria, una serie di omicidi nel mercato di frutta e verdura della città, il Queen Victoria Market, avevano fatto presagire una guerra di mafia, Italian-style. In quelli che vengono ricordati come gli anni della “Gangland Melbourne”, varie organizzazioni criminali si contendevano il “territorio” del mercato – sostanzialmente per gestirne cartelli di prezzi ed estorsioni – e tra questi una acerba onorata società, di origine calabrese, reggina, e la cosiddetta Carlton Crew (la banda di Carlton – storico quartiere italiano di Melbourne), composta da italiani in senso generale, non affiliati di ‘ndrangheta. Sin da allora, dal cosiddetto Rapporto Brown sulla criminalità italiana nello stato di Victoria del 1965, si operava una distinzione tra onorata società calabrese e crimine organizzato italiano. Questa distinzione non solo perdura ma crea non pochi problemi ancora oggi.
Antimafia Australia cercasi
A Spencer Street a Melbourne, nella nuova sede della Victoria Police – VicPol – polizia di stato, partecipo a un meeting con la nuova squadra anti-crimine organizzato e la squadra omicidi, con i rispettivi analisti, cioè quelli che lavorano l’intelligence – i mezzi di ricerca della prova.
Non è la prima volta che li incontro ma – ed è questo un altro problema – le squadre cambiano spesso, la rotazione interna è brutale, pochi stanno sullo stesso progetto oltre 2 o 3 anni. Creare conoscenza storica del fenomeno – soprattutto quello mafioso – richiede ovviamente molto di più. In molti dentro VicPol hanno conoscenza del fenomeno dell’onorata società, anche da un punto di vista “storico” di criminalità urbana, ma non sono sempre questi a guidare le indagini. Ad ogni modo, anche oggi, un sottogruppo della squadra contro il crimine organizzato, prevede indagini su Italian Organised Crime (IOC) dentro cui ci sono vari detective, ispettori, sergenti e analisti che si occupano di seguire uno specifico target o più target, spesso – ma non sempre – legati al traffico di stupefacenti.
Dopo l’operazione Ironside del 2021 e 2022 infatti – che ha portato all’arresto di oltre 700 persone coinvolte nel traffico di droga in tutta Australia – si è chiarito che “gli italiani” sono fondamentali per le importazioni e stanno una spanna sopra gli altri nella catena logistica del narcotraffico. Le indagini di droga sono sicuramente più semplici e dirette, e ovviamente frequenti.
La struttura dell’onorata società
Ma il focus del nostro meeting non sono i traffici cocaina o metanfetamine – entrambe droghe prescelte dai clan locali in quanto sorprendentemente ancora più redditizie che altrove in Australia – bensì la struttura dell’onorata società oggi in Australia e come questa struttura si lega alla criminalità locale a Melbourne e dintorni. Sì, perché struttura di ‘ndrangheta e criminalità organizzata locale non sono necessariamente legate. Che vuol dire? Essenzialmente due cose: primo, esiste una fetta di onorata società, nello stato di Victoria, tra le città di Melbourne e Mildura, che non “fa crimine” o almeno non direttamente, non nel senso di contravvenzione di norma penale per le leggi australiane (ricordiamo che l’appartenenza alla mafia non è qui reato). Secondo, e in perfetta continuità con gli anni ‘60, non tutta la criminalità “italiana” è riconosciuta o riconoscibile come onorata società, quindi, bisogna chiedersi in che rapporto siano i clan di ‘ndrangheta con gli altri “italiani” generici.
Antimafia Australia? Reati associativi anticostituzionali
Infatti, quanto è diverso quello che accade nella onorata società rispetto a quello che accade in altri gruppi cosiddetti etnici, inclusi altri italiani, o anche libanesi, cinesi, albanesi, per esempio? La ‘ndrangheta è organizzazione criminale transnazionale, dunque poter “attivare” i contatti da fuori rimane un vantaggio anche in Australia. Ci sono poi profili comportamentali degli ‘ndranghetisti che vanno a influenzare le loro scelte, più che i loro affari criminali: chi succede a chi, come ci si incontra, chi conta di più e perché e via discorrendo. Appunto, esiste una fetta di ‘ndrangheta australiana che non è direttamente coinvolta nella criminalità organizzata per gli inquirenti, ma che è ragione costituente e costitutiva dell’attività criminale di altri, anche a causa di una reputazione appunto creata sul territorio da decenni. Il reato associativo però è anticostituzionale in Australia: si può rispondere di concorso -intenzionale, sostanziale – ma non di reato per associazione. E questo non cambierà facilmente in quanto contrario ai principi del diritto – sacrosanti – locali.
Migranti di “successo”?
Come si fa, dunque, a indentificare il rapporto che intercorre tra un businessman di successo, a capo di una squadra di calcio locale o di un impero del mercato ortofrutticolo, e il traffico di stupefacenti portato avanti ora o qualche anno fa da membri della sua famiglia? Abbondano le mappe familiari, si conoscono le dinastie storiche, i cognomi sono sulla bocca di tutti i presenti. Il legame tra reputazione e criminalità è spesso solo superficialmente esplorato e compreso. Mi viene chiesto se conosco un certo Pasquale C. o Diego L., oppure come penso sia organizzata la famiglia di Tony M. Tutti cognomi calabresi, migranti di una, due o tre generazioni fa, tutti italo-australiani e spesso persone che appaiano tra i “migranti di successo”, le storie che si raccontano qui da noi su chi ce l’ha fatta all’estero, esempio e invidia per molti. I loro soldi? Le loro fortune? Spesso avvolte in un mistero non tanto misterioso quando si allarga l’orizzonte di veduta e si nota da una parte la capacità di certi soggetti di impegnarsi sul serio nel mondo del lavoro, e dall’altro i cosiddetti “aiuti da casa”, somme di denaro che circolano in donazioni o trasferimenti interni alle famiglie di dubbia provenienza.
‘Ndranghetisti alle cene di beneficienza
E ancora, se ad una cena di beneficienza del valore di oltre 2 milioni di dollari australiani (1 milione e duecento euro circa) partecipano magnati dell’industria, costruttori, ma anche ‘ndranghetisti o presunti tali, o le loro famiglie non direttamente coinvolte in criminalità organizzata, come “leggere” questo mischiarsi di ruoli intenti e amicizie strumentali che porteranno quasi certamente a più affari in comune? Per esempio, quando crollò parzialmente un palazzo a Melbourne l’anno scorso, tra gli investitori vennero notate varie persone del sottobosco criminale, al fianco dei costruttori. Galeotta fu la cena di beneficienza, appunto. Provare i rapporti tra crimine, denaro e potere non è cosa da poco e richiede prima di tutto una comprensione delle strutture criminali.
Uno dei mezzi che notoriamente aiuta gli inquirenti in tutto il mondo – eredità sicuramente anche dell’ingegno del giudice Giovanni Falcone – è il cosiddetto “follow the money” – il metodo per cui se si seguono i flussi finanziari si arriva a capire la struttura criminale. Il “follow the money” è un’aspirazione frustrata in Australia. AUSTRAC, l’unità di indagini finanziarie che si dovrebbe occupare di seguire appunto i flussi di denaro e delineare che struttura ci raccontano, non ha sempre la capacità effettiva per farlo a causa di normative che funzionano sulla carta, ma non in pratica eseguite, e a causa di una struttura procedurale per cui le indagini si fermano spesso allo stato e alla giurisdizione di riferimento.
Indagini spesso in tilt
In parole semplici, è difficile seguire i soldi nell’attuale legislazione australiana perché gli ordini preventivi sulla ricchezza non giustificata (Unexplained Wealth Order) in teoria mezzo potentissimo di contrasto, non vengono effettivamente seguiti una volta emanati: sono complessi e costosi da gestire. E ancora, se Tony, residente a Melbourne, è considerato da VicPol responsabile di un’importazione di metanfetamine a Sydney, l’indagine va spesso in tilt a causa del confine giuridico tra gli stati di Victoria e del Nuovo Galles del Sud (NSW). Interverrà l’Australian Federal Police (AFP), e le indagini subiranno un corso diverso, federale appunto, di difficile coordinamento con le indagini statali che per esempio cercano di capire se Tony è coinvolto o meno nell’omicidio di un avvocato qualche anno fa. Rimarranno due indagini pressoché separate – ergo rendendo impossibile comprendere la reale natura della criminalità in corso. Condividere dati, e indagini, è spesso solo fattibile con l’istituzione di squadre comuni di indagine, che – attualmente in fase di costruzione tra AFP e VicPol e AFP e polizia del NSW – magari porteranno a risultati più importanti sulla criminalità organizzata calabrese.
I problemi dell’antimafia Australia
Dunque, i problemi dell’antimafia in Australia hanno a che fare con una concettualizzazione etnica complessa del fenomeno mafioso di matrice calabrese, con la difficoltà di tracciare la ricchezza legata al crimine organizzato quando migra nel “mondo legale” o meglio nel mondo dei poteri – finanziari e politici, e soprattutto con la difficoltà di comprendere come la triade reputazione-criminalità-potere – presente in molti gruppi di criminalità organizzata – si manifesta all’interno di un’organizzazione criminale come la ‘ndrangheta in Australia, che può inoltre contare su rapporti e contatti in mezzo mondo.
Tu chiamale se vuoi… frustrazioni
Insomma, la strada è lunga, e l’interesse è chiaramente sempre presente. Dopo il meeting in VicPol si va per una birra con qualcuno dei presenti: frustrazione, curiosità, sorpresa, sono comuni. «Tu chiamale se vuoi emozioni»– scherza con me un poliziotto italo-australiano che conosce Battisti. Frustrazione per non riuscire spesso a risolvere le difficoltà amministrative procedurali; curiosità per il mondo della ‘ndrangheta e le sue evoluzioni; sorpresa nello scoprire chela loro ‘ndrangheta è spesso tutta australiana e fa anche attività semi-legali o del tutto legali, e non solo calabrese-transnazionale e dedita al traffico di stupefacenti. Provo le stesse emozioni anche io, nel fare ricerca in Australia su questi temi, come sempre grande palestra di umiltà e di conoscenza. I CALABRESI 16.4.2023 Anna Sergi 16
Australia, un secolo di ‘Ndrangheta
“In Australia in ogni paese abbiamo uno dei nostri”, dice un presunto ‘ndranghetista intercettato dalla Dda di Roma. Secondo l’Australian federal police nello Stato oceanico esistono 14 clan calabresi
Anna SergiProfessoressa in Criminologia, University of Essex (Uk)
Nel maggio del 2022, operazione Propaggine ha rivelato le ipotesi accusatorie della procura antimafia di Roma riguardo a un presunto locale di ‘ndrangheta nella capitale, una “sezione” territoriale dell’organizzazione criminale calabrese. Il locale in questione, con a capo Antonio Carzo, originario di Cosoleto (Reggio Calabria), sarebbe per gli inquirenti appunto una propaggine, autonoma, del clan Alvaro. Nelle carte di questa operazione, analizzata in lungo e in largo dai giornali e commentatori e in attesa dunque di processo, c’è però un dato di cui molti non hanno forse colto il peso.
A un certo punto di una conversazione con un soggetto residente in Australia, Carzo menziona un certo “Compare Mino”, che gli inquirenti hanno già identificato come originario di Gioia Tauro ma iscritto all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) in Australia. Mino, che ha 77 anni ed è un uomo ‘pesante’ nella ‘ndrangheta, secondo Carzo e il suo interlocutore; Mino è anche il capo locale di Perth, nell’Australia occidentale. Sempre nella stessa conversazione si dirà anche che “Là (in Australia, nda) noi abbiamo…ogni paese… abbiamo…dei nostri!”.
Australia, 51 clan italiani, 14 della ‘ndrangheta
Sulla base delle informazioni dell’Australian federal police, qualche giornalista stima la presenza, in Australia, di cinquemila mafiosi italiani. Il calcolo lascia non poco a desiderare
Questa rivelazione, che è più una conferma che una novità, si va a sommare alla dichiarazione-bomba che l’Australian federal police (Afp) ha rilasciato il 7 giugno scorso. Secondo l’Afp esistono 51 clan di criminalità organizzata di origine italiana in Australia di cui 14 sono clan di ‘ndrangheta. Questi clan di ‘ndrangheta non solo sarebbero collegati con la Calabria e con l’Italia, ma avrebbero importanti legami – a volte in posizione di superiorità – con gruppi locali, come i bikies (i motociclisti cosiddetti ‘deviati’). Si tratta di indagini in corso in seguito all’operazione Ironside, che l’anno scorso, proprio l’8 giugno 2021, ha portato all’arresto di oltre 700 persone tra Australia e Usa, grazie ad intercettazioni di una app criptata, An0m, fatta circolare appositamente dalle forze dell’ordine tra i gruppi criminali.
Sulla base dell’intelligence di Ironside, oggi l’Afp arriva a dire che ci sarebbero tanti membri di clan italiani quanti sono i bikies; qualche giornalista si è quindi avventurato nelle stime, facendo uscire un numero, cinquemila – i presunti bikies e dunque i presunti mafiosi italiani – che lascia non poco a desiderare. Sulla questione dei numeri – e del perché non tornano si può fare un discorso a parte; ma il vero problema di queste affermazioni dell’Afp è che rientrano, ancora una volta, in quel circuito – attivo dagli anni Quaranta – per cui a una totale dimenticanza del fenomeno mafioso australiano segue un periodo di estrema visibilità del suddetto fenomeno, salvo poi ricominciare da capo. Della serie, tutti concentrati sulla mafia fintanto che riempie le pagine di giornale e tutti si dimenticano della mafia quando le indagini entrano invece in modalità sommersa. Senza farsi abbindolare dal senso di urgenza e di novità che la dichiarazione dell’Afp ha suscitato – quasi certamente per attirare attenzione e risorse dal nuovo governo australiano appena insediato – si tratta di una storia molto molto antica, in cui le stime si sprecano.
Un secolo di ‘ndrine
Dopo un secolo dall’ingresso nel paese, i clan di ‘ndrangheta – che comunque in Australia sono diversi da quelli calabresi/italiani
Il 18 dicembre 2022 la ‘ndrangheta compirà cento anni in Australia. La nave ‘Re D’Italia’ che sbarcò nel dicembre 1922 a Fremantle, poi Adelaide e poi Melbourne, portò nel continente australiano i tre fondatori dell’Onoratà società down under. È storia quanto è leggenda, nel senso che questi tre personaggi risultano davvero nei registri della nave, ma ovviamente il loro status di ‘ndranghetista e ciò che avrebbero poi fatto una volta arrivati, resta avvolto nel mistero.
Che la ‘ndrangheta australiana stia per compiere cento anni aiuta a spiegare una serie di cose. Innanzitutto, il fatto che in Australia non siano mai esistite altre mafie nostrane: si tratta dell’unico paese al mondo dove l’Onorata societàcalabrese ha assorbito altre manifestazioni di mafia d’importazione italiana. L’origine leggendaria, che riecheggia il numero tre tanto caro storie e ai rituali di ‘ndrangheta, ne conferma infatti la forte valenza identitaria; rifarsi a tali storie infatti aiuta l’organizzazione a cementare la sua narrativa sul territorio. Inoltre, dopo un secolo dall’ingresso nel paese, i clan di ‘ndrangheta – che comunque in Australia sono diversi da quelli calabresi/italiani – sono praticamente parte della storia d’Australia – ricordando che l’Australia come la conosciamo oggi esiste solo dal 1901.
Un’organizzazione criminale evoluta
Non usa la corruzione, ma una rete di amicizie e parentele strategiche e strumentali
Da un punto di vista evolutivo della criminalità organizzata di stampo mafioso, la ‘ndrangheta australiana è all’ultimo stadio, quello della penetrazione nella politica, nelle istituzioni, non tramite corruzione – si badi bene – ma tramite consenso e sfruttamento di amicizie strumentali e specifiche, strategiche e scelte familiari, tipo matrimoni incrociati anche con famiglie criminali autoctone. Ad esempio nell’Australia di oggi un capo-locale di Melbourne può intervenire nelle elezioni locali e nazionali grazie a donazioni dirette e indirette ai partiti; alle cene di gala pre-elezioni si siede al tavolo di uomini influenti della politica cittadina e a imprenditori, come lui, che gestiscono fette dell’economia dello Stato. Ci sarà qualcuno della sua famiglia coinvolto in proficui traffici di stupefacenti – quelli non mancano mai – ma la base attuale del potere ‘ndranghetista in Australia, come si è avuto modo di raccontare altrove, sta nello sfruttamento dell’imprenditorialità e solidarietà etnica, cioè della folta comunità migrante. Si tratta di soggetti gravitanti in circoli di potere locale, come le camere di commercio, o i centri culturali per capirci.
Il caso di Griffith e certi omicidi irrisolti
Il 30 giugno 2022 è arrivato il verdetto sull’esplosione alla National crime autority del 1994: Dominic Perre è colpevole. La sua condanna solleva molte domande sul possibile ruolo delle famiglie di Griffith e quelle di Adelaide
Sulla città di Griffith, nel nuovo Galles del Sud, pesa ancora dagli anni Settanta l’etichetta di città della mafia, o meglio della ‘ndrangheta, essendo le famiglie mafiose sul territorio nate sull’imprinting del locale di Platì (Rc). Griffith, dove si coltivavano ‘castelli d’erba’ (da intendersi cannabis) negli anni Settanta e Ottanta, è stata oggetto di una famosa quanto controversa inchiesta da parte di una Royal commission creata all’uopo nel 1979, che ha indagato su 5-7 famiglie, considerate affiliate alla Onorata società. Questa commissione di inchiesta individuerà in membri apicali delle famiglie Sergi, Barbaro e Trimbolia Griffith i mandanti di un omicidio, quello di Donald McKay, attivista e politico locale, che rimane ad oggi delitto insoluto, ma ancora caso aperto. Non seguirono infatti processi penali nei confronti di questi soggetti.
Altri omicidi, ancora meno chiari, rientrano nella sfera del possibile mandato ‘ndranghetista: ad esempio, quello di Colin Winchester, commissario dell’Afp a Canberra, ucciso nel 1989. Per l’omicidio Winchester si condannò David Eastman, con un movente personale, ma nel 2014 il caso è stato ribaltato e la pista di ‘ndrangheta è ritornata a galla, senza però alcuna chiarezza.
E ancora, nel 1994, quando un pacco bomba ha fatto saltare in aria un intero piano di quella che allora era la National crime authority (oggi diventata Australian criminal intelligence commission) di Adelaide, capitale dell’Australia meridionale, ha ucciso Geoffrey Bowen, detective appena 36enne, e severamente ferito l’avvocato Peter Wallis in stanza con Bowen in quel momento, si è nuovamente parlato di ‘ndrangheta, dal momento che Bowen avrebbe dovuto testimoniare in un processo di droga che vedeva imputati, tra gli altri, alcuni calabresi tra cui due fratelli Perre, anche loro originari di Platì e legati alle famiglie di Griffith. Il processo per il cosiddetto Nca bombing, ha avuto più vicissitudini processuali di ogni altro processo australiano. Si è arrivati all’effettivo processo contro Domenic Perre soltanto 24 anni dopo, nel 2018.
Il processo, il più lungo della storia d’Australia, è terminato nel settembre 2021. Il 30 giugno 2022 è arrivato il verdetto: colpevole. Questa condanna, solleva molte domande sul possibile ruolo delle famiglie di Griffith e quelle di Adelaide in questo omicidio, ma non è detto che tali domande avrebbero risposte. Rimangono domande aperte anche nell’omicidio dell’avvocato (di discendenza calabrese) Joseph Acquaro, ucciso a Melbourne nel 2016 e su cui, a detta degli inquirenti, pesava una “condanna a morte” da parte di alcuni dei clan cittadini, perché Acquaro avrebbe parlato con autorità e giornalisti e dunque tradito la fiducia dei suoi “assistiti”. Per l’omicidio di Acquaro, un altro calabrese è oggi a processo, ma i suoi legami con i suddetti clan che all’inizio avevano destato curiosità e domande anche dai giornalisti, sono ad oggi non chiari o non pervenuti.
Il focus sul narcotraffico (ma non sul riciclaggio)
“The world’s largest ecstasy bust”, così è stata definita l’operazione Inca, fatta dall’Australian federal police tra il 2007 e il 2008: 4,4 tonnellate di Mdma e 160 kg di cocaina sotto sequestro
Perché è proprio questo il problema – tornando per un attimo a Operazione Ironside e agli annunci dell’Afp. Come accadde anche nel 1979, poi nel 1993 – quando si fece partire la decennale Operazione Cerberus che nel 2003 contò 55 famiglie criminali di origine italiana, principalmente calabrese in Australia – il focus delle forze di polizia rimane sui traffici di stupefacenti, nonostante conoscano molto bene il resto del fenomeno. Non è un problema di volontà, ma purtroppo di divisione di competenze e di mancanza di risorse. Operazione Ironside è stata finora interamente concentrata sui traffici illeciti, con soggetti di origine calabrese (ma di fatto australiani) come Domenico Catanzariti e Salvatore Lupoi, arrestati dall’Fbi nella parallela Operazione Trojan Shield, considerati broker dell’underworld australiano per quanto riguarda attività di importazione di metanfetamine, cannabis e cocaina.
Sicuramente, in questi decenni non sono mancati i reati mafiosi classici, tra cui proprio il traffico di stupefacenti. Era a predominanza calabrese il gruppo di soggetti arrestati dall’Afp durante Operazione Inca, nel 2007-2008, in quella che venne chiamata “the world’s largest ecstasy bust” (la più ingente confisca di ecstasy del mondo). Individui legati al clan Barbaro, con collaboratori in Italia, tentarono di far arrivare a Melbourne 4.4 tonnellate di Mdma e 160 kg di cocaina, ma vennero bloccati dalle forze di polizia. Sicuramente da Inca a Ironside l’influenza dei gruppi onorati sui traffici illeciti australiani è stata oggetto di indagini e di mappature delle famiglie criminali.
Non è facile mappare un’organizzazione criminale che, quando commette crimini, ha ormai necessariamente un’identità molto ibrida – ovviamente i traffici illeciti vanno fatti con collaboratori di altri gruppi. Un’organizzazione che, quando entra nei gangli dell’economia e della società, lo fa sfruttando i canali della solidarietà etnica e contando su un patrimonio di consenso e ‘amicizie’ ormai decennali. Un’organizzazione che, a livello logistico, appare frammentata in varie località del continente australiano, e in cui al potere ‘ndranghetista – quello reale, di risoluzione dei conflitti, di mediazione e di mantenimento dei codici di comportamento criminale – non sempre corrisponde il potere criminale, dislocato appunto altrove. Si può sperare, sempre rispetto agli annunci dell’Afp di qualche giorno fa, che il tanto annunciato focus sul riciclaggio dei proventi del crimine potrebbe portare anche a indagini sulla prossimità politica di certi individui e dei loro capitali. Ma allo stesso tempo resta da chiedersi se, per certe dinamiche, non sia già irrimediabilmente in ritardo. LA VIA LIBERA 11.7.2022