Felice Manti 25 Maggio 20022 IL GIORNALE
Capaci di tutto. Da tre giorni il Fatto martella sulla «pista nera» dietro la strage, anticipando il servizio di Report in onda lunedì sera. Secondo questa ipotesi Stefano Delle Chiaie, anima nera della Prima Repubblica e fondatore di Avanguardia Nazionale, morto a Roma nel 2019, sarebbe stato visto a Capaci un mese prima della bomba. A dirlo è la fidanzata del pentito Alberto Lo Cicero, sorella del factotum del legale di Delle Chiaie. C’è anche un carabiniere in congedo, Walter Giustini, che sostiene che l’arresto di Totò Riina poteva scattare prima della strage.
Peccato siano tutte circostanze che, a detta di chi indaga sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, sono «totalmente smentite dagli atti» ma che «possono comunque causare disorientamento e profonda ulteriore amarezza nei congiunti delle vittime», scrive in una nota il procuratore di Caltanissetta Salvatore De Luca, che parla di «macroscopica fuga di notizie su atti posti in essere da altro ufficio giudiziario». «C’è una verità giudiziaria ed una storica e giornalistica da raccontare», si difende Sigfrido Ranucci, che con il Giornale non vuol parlare. Ieri mattina il giornalista di Report che ha firmato il servizio, Paolo Mondani, è stato perquisito dalla Dia (ma il provvedimento, datato 20 maggio, è stato ritirato in serata) perché avrebbe dato «al luogotenente dei carabinieri in congedo documentazione in possesso del giornalista» in modo che fosse «preparato» prima di un interrogatorio davanti ai pm nisseni.
La morte di Giovanni Falcone non è andata come dicono i processi, Il Giornale lo scrive da anni. Ora, che il commando raffazzonato che ha piazzato l’esplosivo sotto l’autostrada non fosse in grado di agire da solo era chiaro. Che al servizio dei boss ci fossero schegge impazzite dei servizi o di intelligence straniera era plausibile. Sui telefonini clonati collegati agli Usa sul luogo della strage – come rivelò il libro I Diari di Falcone di Edoardo Montolli (Chiarelettere) basato sulle perizie di Gioacchino Genchi – e sulla circostanza che l’esplosivo potesse provenire dalla Laura C, la Santa Barbara della ‘ndrangheta affondata al largo di Saline Joniche, nessuno ha però mai indagato a fondo. La verità sui reali mandanti viene ancora una volta distorta per giochi politici di bassissima lega, chiamando in causa, anche senza nominarlo, Silvio Berlusconi, e Forza Italia come mandanti occulti, manovrati da Cosa Nostra. Ma la realtà punta in direzione opposta, come aveva scoperto il giudice Gabriele Chelazzi, morto prematuramente: a cedere al ricatto mafioso nel 1993 fu il governo di centrosinistra, che revocò ad un migliaio di mafiosi il carcere duro, il 41 bis. Ma la pista fascio mafiosa piduista, anche se già archiviata, fa così gola che sopra ci piombano i Cinque stelle, tanto che il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra parla di «censura» a Report.
Prima, strana coincidenza. Lo Cicero era stato ascoltato in un paio di colloqui investigativi del 2006 dal pm della Dna Gianfranco Donadio, che per primo ha ipotizzato la «pista nera» chiamando in causa anche l’ex agente Giovanni Aiello (accusato di essere quel Faccia di mostro al centro di torbidi complicità) e l’ex 007 Bruno Contrada. Per aver condotto indagini «parallele» a quelle dei pm siciliani di Catania e Caltanissetta Donadio fu cacciato dalla Direzione nazionale antimafia guidata da Piero Grasso di cui era il vice ma graziato dal Csm: «La procura generale della Cassazione, pressata dai procuratori imbufaliti, aprì un’inchiesta», spiega l’ex leader Anm Luca Palamara nel suo libro Lobby&Logge. Al Csm l’allora seconda carica dello Stato in quota Pd ci raccontò, è la versione di Palamara, che Donadio non faceva un’inchiesta parallela ma era coperto da una sorta di prerogativa della Dna che gli consentiva persino di utilizzare persone legate ai servizi segreti. Il Csm si bevve la versione di Grasso. Ah, oggi Donadio è consulente di Morra.
Seconda coincidenza. Lo spunto investigativo del 2006 di Donadio è stato rivitalizzato dall’ex pg Roberto Scarpinato – vicino alla pensione, come lamenta Marco Travaglio – con una lunga informativa alla Dna. Riciccia fuori anche Sistemi criminali, una sua inchiesta archiviata nel 2002 ma sempre funzionale a riesumare vecchi scheletri, visto che ipotizza l’esistenza di una cupola con dentro mafia, ‘ndrangheta e P2. Mentre invece fascicoli seri come il rapporto «Mafia e appalti» a Palermo vennero archiviati proprio da Scarpinato «e senza dirlo al giudice Borsellino», come ricorda il legale dei familiari del giudice Fabio Trizzino allo stesso Scarpinato. Un magistrato che, a dire di Ilda Boccassini, era «un narciso siciliano che aveva ostacolato Falcone perché dissentiva dalle sue interpretazioni del fenomeno mafioso». Certo, è anche vero che nel 1990, quando Falcone interrogava Licio Gelli assieme ai magistrati Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone per scoprire chi c’era dietro gli omicidi di Piersanti Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre, il Viminale ne era informato da Luigi Rossi, prefetto ed al tempo capo della Criminalpol «violando il segreto istruttorio», come racconta Simona Zecchi su The Post Internazionale.
Terza coincidenza. Donadio ha lavorato con Giovanni Melillo, oggi Procuratore nazionale antimafia, su strage di Bologna e Paolo Bellini, finito suo malgrado nel frittatone complottista. Il suo legale Antonio Capitella spara: «Il processo lo andiamo a fare nei cimiteri». Sì, ma per favore lontano dalle tombe di Falcone e Borsellino.