Le motivazioni con le quali la Corte Suprema ha chiuso l’annosa questione del processo della cd. “trattativa” fra Stato e mafia contengono qualche radicale cadenza censoria che riguarda non solo la qualità della prova ma il percorso metodologico seguito nei precedenti giudizi.
Leggere della “inidoneità delle condotte poste in essere dai tre ufficiali del R.O.S. ad integrare una forma di concorso punibile nel reato di minaccia ad un corpo politico”, lascia comprendere su quali incerte ed evanescenti basi sia stata costruita quella prima sentenza che aveva avuto bisogno di ben 5237 pagine per spiegare il perché della condanna.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, l’assunto accusatorio, che nel suo clamoroso sviluppo ha segnato la storia repubblicana, lacerando vite umane ed istituzioni delle Stato, non era «fondato su alcuno specifico dato probatorio, né argomentato sulla base di consolidate massime di esperienza», il che significa che l’ipotesi secondo la quale i vertici stragisti avrebbero trasmesso attraverso i Ros le minacce nei confronti del governo non era supportata da alcuna prova.
Insomma, non solo il reato di “trattativa”, come già sapevamo, non esiste, ma neppure esistevano le prove di quei fatti che da “trattativa” erano stati travestiti.
Ma ancor più interessante risulta il passaggio nel quale i giudici della Cassazione censurano il fatto che i giudici di merito avrebbero «optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico».
A fronte di tale critica il dottor Ingroia ha risposto affermando come si tratti di una «sentenza che odora più di politica che di diritto», immaginando che i giudici di legittimità abbiano voluto disegnare con quella decisione un confine, non di tipo giuridico, ma “territoriale”, lasciando intendere – secondo quel primo interprete della “trattativa” – che «la magistratura non deve avventurarsi su questi terreni».
Quali siano i terreni interdetti all’indagine giudiziaria il dott. Ingroia non lo spiega.
Ma a ben vedere, la Corte non ha affatto escluso che l’indagine giudiziaria possa scrutinare il terreno scivoloso dei rapporti politico-istituzionali, ma ha al contrario osservato – a monito dei colleghi – come «anche quando il giudice penale deve confrontarsi con complessi contesti fattuali di rilievo storico-politico, l’accertamento del processo penale resta, invero, limitato a fatti oggetto dell’imputazione e deve essere condotto nel rigoroso rispetto delle regole epistemologiche dettate dalla costituzione e dal codice di rito, prima tra tutte quella dell’oltre ogni ragionevole dubbio».

Ma ciò che appare ancor più grave in questa terribile vicenda giudiziaria (solo apparentemente a lieto fine) è la mancata pubblica presa di coscienza di un modo di intendere la giustizia penale nel quale l’idea di prova si adatta plasticamente alle finalità dell’accusa e che, ribelle ad ogni standard probatorio imposto dalle norme, ed indifferente alla cultura del limite, sviluppa indagini e dibattimenti monstre capaci di partorire decisioni altrettanto teratologiche.

E tanto poco si prende coscienza di questa idea deviata di giustizia che, con una tipica inversione di stigma, ad essere oggetto di diffidenza resta paradossalmente l’esito assolutorio e non l’improvvida azione esercitata da una Procura. Viviamo chiusi dentro un sentire comune nel quale risuonano ancora le parole scritte da Hobbes nel suo Leviatano: “la condanna assomiglia alla giustizia più che l’assoluzione”, condizionati da una organizzazione ordinamentale della magistratura nella quale solo allontanandosi da quei luoghi, nei quali giudici e pubblici ministeri appaiono legati a quell’unico e comune scopo di combattere il male, si riesce a intravedere lo spazio per una giustizia laica e liberale nel quale la ragione governa il processo con le sue regole.
Così che mentre l’autorevolezza e la legittimazione della figura del giudice appaiono come una chimera futura ed incerta, il pubblico accusatore, nonostante simili battute d’arresto, conserva integro nella pubblica opinione il suo tratto egemonico e salvifico.
Insomma, il dato sul quale nessuno riflette è che se non si cambia il modo corrente di intendere la giustizia le cose resteranno ancorate a questo insano paradigma “accuso-centrico” in virtù del quale mentre la “trattativa Stato-mafia” è un fatto, l’assoluzione degli imputati resta solo un’opinione.