MUTOLO, CREDO CHE DIO MI PERDONERÀ…

 

27 Febbraio 2015 L’ECO

le rivelazioni DELL’ex braccio destro di Totò Riina hanno consentito di compiere passi importanti nella lotta a Cosa nostra. Oggi, da uomo, libero, con risultati lusinghieri si dedica alla sua grande passione per la pittura. E nel cuore iniziano a vedersi barlumi di fede… Venerdì 17 luglio 1992. Paolo Borsellino ha appena finito un interrogatorio fiume con un mafioso “importante”, l’ex autista di Totò Riina affiliato alla potente famiglia palermitana di Rosario Riccobono, boss di Partanna Mondel-lo. Il magistrato è stanco, provato da ciò che gli ha raccontato l’esponente di spicco di Cosa nostra che ha deciso di collaborare con la giustizia. Certi nomi, certi particolari gli hanno fatto capire che la mafia ha tentacoli dappertutto e che forse la sua ora è arrivata… Ora lo attendono due giorni di pausa. Al boss, infatti, dice che si rivedranno lunedì. A quell’appuntamento, purtroppo, Paolo Borsellino non ci sarà… Nel fine settimana palermitano, però, il magistrato fa una cosa insolita: per la prima volta dopo anni chiede all’inseparabile scorta di non seguirlo. Vuole stare solo con sua moglie, ha necessità di parlarle… Leggiamo, allora, uno stralcio della dichiarazione che la signora Agnese rilasciò ai magistrati di Caltanissetta dopo l’uccisione di suo marito Paolo e degli agenti di scorta avvenuta il 19 luglio del 1992. “Paolo mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini, aveva voglia di sfogarsi. Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: ‘Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia. Lunedì sarò nuovamente a Roma per continuare a interrogare Mutolo…”.

Già, è Gaspare Mutolo il nuovo pentito che sa tante cose e che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina, il capo dei capi, con cui per lunghi anni aveva condiviso una profonda amicizia. Mutolo, tra l’altro, quel venerdì aveva promesso a Borsellino di verbalizzare le accuse su Bruno Contrada e il giudice Signorino. Nei colloqui l’ex braccio destro di Riina aveva raccontato circostanze e fatti gravissimi puntando l’indice su personaggi al di sopra di ogni sospetto. Addirittura Paolo Borsellino confidò a sua moglie di esserne rimasto così traumatizzato, a tal punto da dover correre in bagno a vomitare…

Uomo d’onore di Partanna Mondello, Gaspare Mutolo, che ha da poco compiuto 75 anni, nel corso della sua vita si è macchiato di tanti crimini efferati essendo stato sin da giovane reclutato da Cosa nostra. Un incontro devastante, figlio, come ci spiegherà, dell’ignoranza e di un ambiente che sinceramente gli lasciava ben poche alternative. Ovviamente avrebbe potuto ascoltare la voce della coscienza, ma così non è stato. Senza dubbio giornalisticamente è un personaggio “scomodo” e forse qualche nostro lettore potrebbe anche storcere il naso vedendolo sulla rivista… È una possibilità che abbiamo messo in conto, per carità, anche se i lettori sanno benissimo che non è nostro costume raccontare un mondo che non esiste… Massimo rispetto per le opinioni altrui, come autentica e profonda è la nostra condivisione del dolore e dello sdegno di quanti hanno ricevuto lacrime e sofferenze dalle azioni di Gaspare Mutolo. Non dimentichiamoci mai, però, che non potrà aversi pace nel mondo, senza giustizia, della quale la pace è frutto.

Detto questo, la cronaca ci testimonia come Gaspare Mutolo, al pari di altri affidabili collaboratori di giustizia, con il suo pentimento sia riuscito a generare un movimento tellurico all’interno del sistema mafioso, colletti bianchi compresi, favorendo concretamente il lavoro di chi quotidianamente combatte il crimine. Inoltre in qualche modo ha reso onore anche al lavoro di quanti tra magistratura, forze dell’ordine, po-litici, giornalisti, religiosi e gente comune hanno sacrificato la vita per l’affermazione della giustizia e la legalità. Non spetta di certo a noi e ai nostri lettori, dunque, assolvere o meno i tanti e gravi peccati del nostro interlocutore, tantomeno giudicare e valutare il suo pentimento interiore. A questo, infatti, penserà il buon Dio. Noi, invece, dovremmo forse riflettere attentamente sul fatto che giustizia, verità e libertà hanno sempre e comunque un prezzo che spesso richiede la capacità di perdonare. Lo sappiamo tutti quanto sia arduo e pruriginoso un simile esercizio ma, come ha più volte ripetuto papa Ratzinger, occorre tenere sempre a mente che il perdono libera innanzitutto colui che ha il coraggio di concederlo…

Adesso, però, è giunto il momento di ascoltare il nostro interlocutore, un uomo che dopo un lungo tempo trascorso nell’illegalità e nel crimine ha deciso di mettersi dall’altra parte della barricata, cercando in qualche modo una sorta di riscatto. Davanti alla giustizia e, come ci ha confessato in queste pagine, anche davanti agli occhi di Dio…

Un’ultima cosa: da un po’ di tempo Gaspare Mutolo ha trovato serenità e appagamento interiore sedendosi dinanzi una tela bianca e con in mano la tavolozza dei colori. La pittura, infatti, occupa gran parte delle sue giornate. La scintilla è scoccata in carcere e da quel momento si è trasformata in una passione travolgente. Ha firmato diverse opere, ha organizzato mostre e raccolto apprezzamenti lusinghieri. Andrà ad allungare l’elenco dei cosiddetti “artisti maledetti”? Sarà la storia a dirlo. Noi, nel frattempo, gli sistemiamo il microfono sul bavero della giacca e pigiamo il tasto del registratore. Dimenticavo: oggi Gaspare Mutolo è un uomo libero, pur sotto il servizio sociale di protezione. Ecco il perché di quella maschera indossata durante l’intervista.

Vista la tua grande passione per la pittura, ci fai un ritratto di Gaspare Mutolo…?

Mutolo è una persona cresciuta nell’ambiente mafioso che si è macchiata di diversi crimini. Quella stessa persona, però, a un certo punto della vita, grazie all’incontro di uomini di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha radicalmente cambiato strada scegliendo il pentimento e la legalità.

Scusa il gioco di parole, ma in tutti questi anni ti sei mai pentito di esserti pentito?

Assolutamente no. Lo rifarei cento volte anche se lo stato non ha mantenuto tutto quello che mi aveva promesso…

A cosa ti riferisci?

Quattro importanti collaboratori di giustizia, all’insaputa delle istituzioni, erano tornati in Sicilia commettendo alcuni omicidi. Lo stato, però, invece di punire solo loro ha fatto di tutt’erba un fascio… Così dopo 23 anni di collaborazione proficua e sincera sono stato trattato alla pari di chi, invece, aveva fatto il doppio gioco.

Per capirci, lo stato ti ha dato una nuova identità?

Come a tutti i collaboratori di giustizia mi era stato detto che avrei cambiato identità, in pratica Gaspare Mutolo non sarebbe più esistito. Io c’ho creduto e mi sono messo a completa disposizione.

Invece?

Dopo l’episodio che ti accennavo accanto alla mia nuova identità hanno messo un numero attraverso il quale sono immediatamente identificabile…

Puoi essere più chiaro?

Chiunque mi ferma per un controllo, vigili, polizia, carabinieri, eccetera, pur trovandosi in mano un documento con generalità differenti, ad esempio Mario Rossi, attraverso quel numero hanno accesso al mio casellario giudiziario dove ovviamente compaiono tutti i miei precedenti: i miei reati, le condanne e il mio nuovo status di collaboratore di giustizia. In questo modo, dunque, la mia nuova identità è fittizia…

La collaborazione quale sconto di pena ti ha portato?

Nel maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino fui condannato a 16 anni che, dopo il ricorso in appello, diventarono 14. Io però complessivamente avevo già scontato circa 11 anni di carcere. Quindi, considerando gli sconti di pena senza la collaborazione mi restavano ancora circa due anni. Inoltre avevo un’imputazione di traffico di droga.

Ma durante la collaborazione lavoravi?

Sin dal primo momento. Il mio primo lavoro è stata la gestione della mensa all’interno del centro meccanografico dell’Inail. Ci lavorava tutta la mia famiglia.

Con quali soldi avevi messo in piedi l’attività?

Con quelli ricavati dalla vendita di un mio appartamento in Toscana e con il contributo dello stato volto a incentivare la collaborazione.

Filò tutto liscio?

No, una sindacalista quasi ogni giorno diceva che assomigliavo a un noto criminale… Io la mettevo sullo scherzo parlando di sosia… In occasione del processo Andreotti, però, i giornali pubblicarono la mia foto e a quel punto fui convocato dal direttore. Mi disse che alcune donne all’interno della struttura avevano paura di me…

Immagino negasti ancora…

Assolutamente sì, dissi che non ero Gaspare Mutolo. Se lui voleva, però, ero pronto a fare le valigie. Dopo una riunione col personale il direttore disse che sarei potuto restare, anche perché, aggiunse, non avevano mai mangiato così bene prima del mio arrivo… Io, però, non mi sentivo più a mio agio, così poco dopo andammo via.

Per fare cosa?

Presi la gestione di alcuni bar a Roma ma successivamente abbandonai anche quell’attività. Tra tasse e incassi i conti non quadravano…

Facciamo un salto indietro e torniamo alla tua infanzia. Come la definiresti?

Purtroppo, come ti dicevo, sono cresciuto in ambienti mafiosi…

Tuo padre cosa faceva?

Era impiegato in una società tranviaria.

A scuola ci andavi?

Mi sono fermato in terza elementare.

Perché così presto?

Litigai con il maestro…

Già da bambino eri ribelle?

All’epoca, a scuola, per i bambini monelli come me si usava una bacchetta di legno… Mani aperte e rivolte verso l’alto e giù il maestro che picchiava… Quel giorno, come credo avrebbero fatto tutti i bambini, d’istinto ritirai indietro le mani al momento del colpo…

E il maestro?

Indispettito aumentò l’intensità dei colpi… A quel punto ebbi una reazione e gli tirai un calcio a una gamba. A quel tempo si mettevano i chiodi sotto le scarpe per far durare di più le suole, quindi la conseguenza fu dolorosa… Espulso dalla scuola, una volta fuori raccolsi in strada alcuni sassi e ruppi tutti i vetri di un lato dell’edificio…

Una volta a casa cosa raccontasti ai tuoi genitori?

Nulla, però avevo timore a tornare a scuola. Un giorno, allora, mio padre si accorse che qualcosa non andava così mi accompagnò a scuola. La preside gli raccontò l’episodio e il mio percorso scolastico terminò lì…

Tua madre, invece, a causa di alcuni problemi mentali era finita in manicomio…

All’epoca le strutture non erano minimamente paragonabili a quelle di oggi, ti lascio quindi immaginare che tipo di assistenza riceveva… Io avevo 9 anni, ricordo solo che in questa sorta di ospedale la sottoponevano a un trattamento particolare chiamato elettroshock…

Quanti eravate in famiglia?

Sei, mio padre, io, mio fratello e tre sorelle. Naturalmente avendo un lavoro papà non poteva occuparsi sempre di noi…

Così diventasti un bambino di strada…

Proprio di strada no, nostro padre, infatti, pur tra tante difficoltà in qualche modo ci accudiva. Successivamente andammo ad abitare vicino alla sorella di mio padre e lei ci diede una mano. Ci lavava e ci preparava da mangiare.

Un giorno, però, tuo padre si legò a un’altra donna…

Nel disperato tentativo di ottenere un miracolo che guarisse mia madre, papà la fece uscire dal manicomio accompagnandola a Siracusa dove si venerava una Madonna… Purtroppo non ci fu il miracolo sperato. A quel punto, allora, non essendoci neanche uno spiraglio di guarigione, mio padre iniziò una nuova relazione sentimentale. Era una brava donna, una casalinga con la quale mise al mondo altri sei figli…

Come si fa a stare dietro a undici figli?

Non so che dirti, però nessuno fu abbandonato per strada. A me trovò un lavoro in un’officina meccanica vicino alla stazione di Palermo. Il proprietario, però, era un mafioso, ma io lo capii solo successivamente. Fu così che venni a contatto con tantissimi uomini di spicco della malavita palermitana…

Inevitabilmente, dunque, arrivò il primo arresto. Avevi vent’anni…

Noi ragazzi andavamo a rubare le auto, le smontavamo e con i vari pezzi rifornivamo varie officine. Un giorno, però, fummo arrestati e per me scattò la prima associazione a delinquere per furto… Io, però…

Cosa?

A differenza dei miei compagni tenni la bocca chiusa, non feci alcun nome…

Una volta fuori, però, la ritrovata libertà durò poco…

Ingiustamente fui tirato dentro da alcuni conoscenti in una storia di furto e riciclaggio di abiti, sigarette, bolli, vestiti, eccetera. La merce era stata ritrovata in un magazzino e alla polizia dissero che a portarcela ero stato io. Durante l’interrogatorio mi riempirono di botte in quanto volevano i nomi dei mandanti.

Quali violenze subisti?

All’epoca negli interrogatori veniva utilizzato il cosiddetto metodo della cassetta di legno. Ti sdraiavano sopra e cominciavano a colpirti violentemente la pianta dei piedi con un nerbo… E se provavi ad alzarti dalla cassetta giù pugni e colpi di ogni genere… Una volta in carcere, dunque, quel mio silenzio nonostante le botte ricevute mi aveva fatto conquistare la stima dei boss mafiosi. Anche perché si ricordavano di altri episodi in cui avevo tenuto la bocca chiusa.

Dopo l’ennesimo arresto, nel carcere Ucciardone di Palermo ci fu l’incontro con Totò Riina…

All’epoca ero ancora un giovane adulto…

Cioè?

Nel carcere di Palermo c’era una sezione riservata ai detenuti con età fino a 25 anni, un’altra per quelli con un’età superiore e un’altra ancora per coloro che erano in isolamento. Per regola sarei dovuto finire nella sezione dei giovani adulti, in quanto avevo 23 anni, ma il maresciallo dispose di trasferirmi nell’altra sezione perché mi riteneva particolarmente ribelle… Mi portarono così all’ottava sezione dove incontrai Riina.

Cosa combinavi in carcere per essere considerato un ribelle?

Spesso finivo in cella di punizione perché non accettavo soprusi, atti di nonnismo da parte di altri detenuti.

Torniamo all’incontro con Riina. In che anni siamo?

1964-65. Mi portarono nella sua cella dicendogli che era un tipo fumantino… Con lui c’era anche un altro mafioso che mi conosceva.

Immagino che Riina ti fece la spiega…

Con grande tranquillità mi disse di evitare qualsiasi contatto con le guardie, al cibo avrebbero pensato loro. Per restare in quella cella non avrei dovuto creare problemi, soprattutto nei confronti degli agenti di custodia. Mi colpì subito il suo modo di fare e anche la sua umiltà. Non alzava mai la voce ed aveva dei modi particolarmente civili.

Ci fu un episodio particolare che cementò il vostro rapporto?

Un giorno, durante l’ora d’aria, un detenuto spocchioso ebbe un alterco verbale con Riina per futili motivi. Totò non era affatto un attaccabrighe, era molto riservato, quindi alle urla di quella persona arrossì sedendosi in disparte. Poco dopo, allora, di mia iniziativa, chiamai in un angolo del cortile quel detenuto e nonostante sopra di noi ci fosse una guardia a controllarci gli diedi una scarica di schiaffi e pugni… Ovviamente scattò l’allarme e mi misero in punizione. Una volta fuori tornai nella cella con Riina che, nel frattempo, mi aveva tenuto il posto…

Come ti accolse?

Non disse nulla, però da subito notai un atteggiamento diverso nei miei confronti. Lui, che sapeva che ero specializzato nell’aprire casseforti a muro, mi chiese informazioni in merito. Mi domandò, inoltre, se avevo conoscenze a Partanna Mondello, una zona periferica di Palermo. Conosco tutti, gli risposi, da Riccobono a Giacalone, Marini e così via… Quando uscirai, mi disse, dovrai stare con Rosario Riccobono… Dagli i miei saluti e soprattutto non fare mai niente che possa nuocergli…

Una volta fuori seguisti la raccomandazione di Riina?

No, un giorno però andai a tagliare una scopetta dal fratello di Riccobono che aveva un’officina meccanica…

Scusa l’ignoranza, ma cos’è la scopetta?

Un fucile da caccia trasformato in lupara, per capirci un fucile a canne mozze che è più facile da nascondere sotto la giacca… Quando ritirai il fucile in un giardino adiacente vidi Rosario Riccobono con alcune persone. Mi chiese del furto che tempo prima avevo fatto alla cassaforte in una fabbrica di CocaCola… Fu allora che gli dissi della raccomandazione di Riina.

Così ti affiliasti alla famiglia Riccobono…

Rosario mi disse che per qualunque cosa avrei dovuto rivolgermi a lui e in sua assenza riferire a sua moglie.

Ti diede anche una sorta di decalogo?

No, quello te lo danno quando ti combini…

Cioè?

Parliamo del giuramento.

Come avviene?

Diciamo intanto che tutti i mafiosi hanno nel portafoglio l’immaginetta di un santo. Prima del giuramento ti chiedono se appartieni a qualche società segreta o cose del genere. Quindi ti mettono il santino nel palmo delle mani raccomandandoti di non farlo spegnere… Prima di accenderlo, però, con un ago fanno cadere qualche goccia di sangue dal tuo dito sull’immaginetta. Poi le danno fuoco e mentre la tieni tra le mani devi ripetere queste parole: “Che le mie carni possano bruciare come questa sacra immagine se io tradisco Cosa nostra…”. Sappi, aggiunse Riccobono, che la mafia esiste veramente ed è molto più importante e potente di quanto tu possa immaginare.

All’interno dell’organizzazione ti occupavi anche del traffico di eroina…

Sì, ero l’unico che aveva la fiducia degli orientali i quali mi davano la droga prima ancora che li pagassi…

Come mai questo canale privilegiato?

Perché nel supercarcere di Sulmona avevo conosciuto Koh Bak Kin, di Singapore, il più grande trafficante di droga cinese. Eravamo diventati amici e quando fu scarcerato gli regalai un orologio e una catena con un crocifisso d’oro…

Da dove arrivava la droga?

Dalla Thailandia, era quella più pura, sfiorava quasi il 100% grazie a un particolare tipo di papavero…

Con quali modalità ne entravate in possesso?

Gli orientali la introducevano in Italia utilizzando valigie a doppio fondo, quindi mi consegnavano gli scontrini del deposito. A quel punto ritiravo la merce per poi consegnarla a Riina tramite un suo compare.

A quanto ammontava il tuo guadagno?

Il referente cinese me la vendeva a 50 milioni al chilo mentre io la rivendevo a 70. Il profitto dei miei acquirenti, però come minimo si triplicava… Gran parte della droga finiva in America, in Italia, invece, veniva lavorata in apposite raffinerie siciliane. Successivamente decidemmo di andarla ad acquistare direttamente in Thailandia per abbassare i costi, al primo viaggio, però, fummo scoperti…

Arriviamo al 1991 quando facesti sapere a Giovanni Falcone che volevi chiudere con Cosa nostra e quindi collaborare con lo stato… Perché questa scelta?

Principalmente rimasi disgustato dall’omicidio di Giovanni Bontate e di sua moglie Francesca. Successivamente, poi, a Marino Mannoia, che stava collaborando con la giustizia, gli uccisero la mamma, la sorella e la zia. A quel punto mi resi conto che all’interno di Cosa nostra si era verificato una sorta di corto circuito… Dissi allora a Falcone che volevo collaborare in quanto non mi riconoscevo più con quella strategia. Io, infatti, mi ricordavo che da sempre si brindava alle donne e ai bambini di tutto il mondo. Quegli ultimi omicidi, invece, mi avevano fatto capire che le cose erano cambiate. Inoltre era arrivato il momento di rimediare, per quanto fosse possibile, al tanto male fatto…

Cosa avvenne in quell’incontro?

Entrai con le stampelle nella stanza dove mi stava aspettando. All’epoca, infatti, fingevo di essere paralitico…

Per quale motivo?

Dopo essere stato operato nel 1975 di ernia al disco un medico mi disse che con un simile intervento avrei potuto simulare la paralisi delle gambe. In questo modo avrei ottenuto una vita meno dura all’interno del carcere…

Quale fu il commento di Falcone quando ti vide con le stampelle?

Gaspare, è proprio necessaria questa buffonata…? No dottore, e mentre le gettai a terra scoppiammo tutti quanti a ridere… Gli dissi che avrei fatto nomi “pesanti”, a cominciare dal suo ufficio…

E lui?

“Dal mio ufficio?” mi rispose con un’espressione del volto incredula… Sì dottore, proprio dal suo ufficio, ribattei… Siccome insieme a lui c’era anche un altro magistrato, Giannicola Sinisi, non andai oltre… Falcone, allora, intuendo tutto, mi disse di continuare tranquillamente in quanto Sinisi per lui era come un fratello.

Giovanni Falcone, però, nel frattempo aveva lasciato la procura di Palermo per ricoprire l’incarico di capo dipartimento degli Affari penali al ministero di Giustizia…

Infatti mi disse che non avrebbe potuto verbalizzare il nostro colloquio. A quel punto, allora, dissi che la nostra chiacchierata poteva considerarsi conclusa. Non avrei più aggiunto una sola parola.

Come reagì?

Mi disse che la sua non era stata una fuga da Palermo, a Roma avrebbe potuto svolgere un lavoro ancora più in profondità. Anche perché, mi disse, sai benissimo cosa accade in certi tribunali…

A cosa si riferiva in particolare?

A certe sentenze scandalose nei confronti di alcuni mafiosi…

Come finì quella chiacchierata?

Mi trattenne quasi due ore e io gli feci diversi nomi.

Alla fine a quale accordo arrivaste?

Falcone mi disse che avrei dovuto raccontare tutto a Paolo Borsellino. Prima di lasciarci, però, mi chiese a cosa mi riferissi parlando del suo ufficio… Gli feci il nome di Domenico Signorino, all’epoca uno dei pubblici ministeri più in vista del tribunale di Palermo. Ricordo che dopo le mie dichiarazioni fu aperta un’inchiesta dei giudici di Caltanissetta e le indagini portarono a galla particolari inquietanti. Tra l’altro si scoprì che Signorino aveva in uso una casa di proprietà di Rosario Riccobono… Gli feci anche altri nomi “pesanti” come quello di Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde ed ex capo della Squadra Mobile di Palermo ed ex capo della sezione siciliana della Criminalpol, successivamente condannato in via definitiva a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione di tipo mafiosa.

Successivamente, però, il pubblico ministero del maxiprocesso Domenico Signorino, si tolse la vita…

La cosa mi ha segnato profondamente. Sicuramente non fu colpa mia, ma moralmente ne restai toccato…

Nonostante le raccomandazioni di Falcone, però, l’incontrò con Borsellino seguitava a slittare…

Esattamente… All’epoca il procuratore capo del Tribunale di Palermo, Pietro Giammanco, era in contrasto con Giovanni Falcone, di conseguenza la cosa subì un rallentamento. In pratica disse che Gaspare Mutolo non poteva scegliersi il magistrato… Poco dopo, purtroppo, il giudice Falcone fu ucciso, così il capo della Polizia Gianni De Gennaro venne a trovarmi in carcere. Gli ribadii che avrei parlato solo con Paolo Borsellino. A quel punto, allora, Di Gennaro e il procuratore antimafia Pier Luigi Vigna pensarono a come uscire da quella  situazione…

Cioè?

Decisero di rendere il tutto ufficiale. Il procuratore Vigna venne a interrogarmi in carcere per fatti accaduti in Toscana, per la precisione l’uccisione di un mio amico. In quell’occasione, allora, resi ufficiale la mia dissociazione da Cosa nostra. Era il 25 giugno 1992. Nel verbale che ancora conservo dissi esplicitamente che volevo parlare con il magistrato Paolo Borsellino per fatti riguardanti Palermo. In questo modo riuscimmo ad aggirare l’ostacolo. Il 1° luglio, dunque, mi vedi a Roma con Paolo Borsellino in un incontro che sarebbe dovuto essere segretissimo…  Gli dissi che come prima cosa avremmo dovuto arrestare il braccio armato, successivamente ci saremmo occupati dei livelli più alti, dei cosiddetti colletti bianchi… Comunque in quella circostanza gli feci il nome di Bruno Contrada…

Il vostro colloquio, però, fu interrotto da una telefonata ministeriale…

Esattamente. Gaspare, mi disse Borsellino, mi ha telefonato il ministro dell’interno Nicola Mancino dicendomi che vuole parlarmi. Devo assentarmi per un paio d’ore, tornerò il prima possibile. Quando tornò da quell’incontro, però, era un’altra persona…

In che senso?

Aveva un’espressione sconvolta, il viso era rosso fuoco, addirittura aveva due sigarette accese, una in mano e l’altra in bocca… Io allora mi misi a ridere facendogli notare la cosa. Ovviamente non potevo sapere cosa fosse successo, però da un particolare intuii che le cose stavano girando nel verso sbagliato…

Cioè?

Borsellino mi raccontò che uscendo dal ministero aveva incontrato Bruno Contrada il quale sapeva del mio incontro… Addirittura mi aveva mandato i saluti aggiungendo che si metteva a mia disposizione per qualunque cosa… Nel tempo ho riflettuto molto su quell’episodio. Il mio primo incontro con Borsellino doveva restare segretissimo, invece qualcuno aveva parlato…

Quante volte ha incontrato Borsellino?

Tre, l’ultima volta ci siamo sentiti due giorni prima che morisse, il 17 luglio.

Che impressione ti fece?

Si sentiva accerchiato, aveva saputo della trattativa tra pezzi dello stato e la mafia e ci soffriva terribilmente. Tant’è che una volta, durante la pausa dell’interrogatorio sentii Borsellino urlare da un’altra stanza. Con tono disgustato disse: “Ma questi sono impazziti, cosa vogliono fare…?”. L’ultimo colloquio durò diverse ore, ricordo che telefonò anche a sua figlia, era preoccupato perché si trovava all’estero.

Dopo la morte di Borsellino chi prese il suo posto?

La bara di Borsellino era stata appena composta nella camera ardente quando venne a trovarmi il magistrato Gioacchino Natoli. Mi chiese quali intenzioni avessi, temendo che dopo la morte di Borsellino avrei fatto un passo indietro… Devi continuare, mi disse, dobbiamo vendicare Falcone e Borsellino. Lo devi fare per loro…

E tu?

Va bene, risposi, però dobbiamo fare a modo mio, seguendo lo stesso schema di Falcone e Borsellino…

Chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino?

Il discorso è complesso, anche perché non riguarda solo la mafia nel senso stretto del termine. Falcone e Borsellino non erano solo due giudici che volevano arrivare a un processo. Loro avevano come obiettivo lo smantellamento dell’intero sistema mafioso. In Sicilia si chiama mafia, in Campania camorra, in Calabria ’ndrangheta, in parlamento si chiama invece collusione, corruzione, P2, P3, P4… Puntavano a questo, combattere cioè il braccio e la mente criminale. Dunque non è semplice rispondere alla tua domanda. Sicuramente i mafiosi puntavano a eliminarli, ma c’erano anche altri personaggi di vari livelli della società che avevano lo stesso obiettivo. Parliamo del mondo dell’alta finanza, della politica… I poteri forti non erano di certo Brusca e compagni. Prima di Falcone e Borsellino nessun magistrato aveva pensato di toccare certa gente… Addirittura c’erano dei questori che fino al 1983 negavano l’esistenza della mafia…

Senza i collaboratori di giustizia a tuo avviso lo stato sarebbe stato in grado di conseguire certi risultati nella lotta alla criminalità organizzata?

Assolutamente no, impensabile. Senza i pentiti la collusione sarebbe rimasta per sempre nascosta. E non venendo a galla la collusione qualunque sforzo sarebbe stato vano.

È vero che ti sei accusato di delitti che non hai commesso?

Sì, mi trovavo in carcere e faceva parte di un progetto che puntava a convincere altri mafiosi a pentirsi e a collaborare con la giustizia. In pratica per far vedere che collaborando si godeva di una certa “immunità”, mi ero dichiarato colpevole di alcuni delitti. Non era vero ma serviva a spingerli nella nostra direzione. E visti i risultati ottenuti posso dire che si è rivelata una carta vincente.

Qual è il tuo pensiero sulla trattativa mafia-stato?

C’è stata al 100 per cento. Un accordo tra alcuni apparati dello stato e la mafia. Dico questo perché conosco i fatti, li ho vissuti dall’interno.

La mafia avrebbe interrotto l’azione stragista in cambio di cosa?

Distruggere i pentiti, annullare le sentenze del maxiprocesso, attenuare le misure detentive previste dall’articolo 41 bis, evitare la confisca di soldi e beni e niente carcere a chi aveva più di settant’anni…

Secondo te come andrà a finire il processo?

Credo che grazie al nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella si possa nutrire fiducia. Se qualcuno, infatti, pensa di averlo eletto per fare il proprio comodo come ha fatto con altri presidenti si sbaglia di grosso… Se ne accorgeranno presto di che pasta è fatto…

Tu che rapporto hai con la fede?

Mi ci sto avvicinando a passi lenti ma continui grazie all’amicizia di una persona credente che mi ha aperto il cuore. Senza conoscermi ha compreso i miei bisogni e nei limiti delle sue possibilità ha cercato di aiutarmi. Ha fatto del bene senza alcun interesse, senza pensare a tornaconto… Tramite lui ho conosciuto anche altre persone che seguono lo stesso cammino di fede. Sono rimasto sconvolto, ovviamente in senso positivo, dalla loro serenità e dalla pace interiore che trasmettono, dalla loro bontà e dal modo in cui affrontano le avversità della vita. Addirittura mia moglie, che in ventitré anni non ha sentito mai il bisogno di frequentare ambienti diversi dalla nostra famiglia, dopo aver conosciuto insieme a me queste persone è rimasta folgorata. Anche se con ritardo ho capito che nella vita per essere felici bisogna fare del bene. Pertanto quanto mi capita di incontrare persone sofferenti cerco in qualche modo di aiutarle.

Ti sei mai accostato alla confessione? Hai mai pensato di raccontare la tua vita a un prete?

No, non ne ho il coraggio. Provo un senso di vergogna…

Pensi che Dio possa perdonarti tutto il male fatto?

Credo che l’infinita bontà del Signore, così come mi è stata descritta dai miei amici e come ho avuto modo di approfondire in alcune letture, possa un giorno lavare le mie colpe. È vero, gran parte della mia vita è stata contrassegnata dal male. Questo mio comportamento, ovviamente da condannare, è frutto però di una profonda ignoranza. Non appena infatti ho realizzato, forse grazie anche all’intervento di qualcuno lassù…, quanto fossi lontano dalla vera gioia e quindi dalla vita, ho immediatamente cambiato strada. Spesso ho riflettuto, invitando a farlo anche altri miei amici mafiosi, sul dolore e lo strazio interiore che la morte di un figlio, di un padre o di un marito possa suscitare nel cuore di un familiare…

Quanti figli hai?

Quattro, il più grande ha 46 anni e il più piccolo 33.

Con un passato come il tuo quanto è stato difficile fare il padre?

Per me è stata la prova più dura, il compito più faticoso da superare.

Loro conoscono tutto di te?

Assolutamente sì. Ovviamente quando sei piccolo non puoi capire cosa possa significare essere il figlio di un mafioso… Ad esempio scambiavano per semplice gentilezza il barista che gli offriva la colazione oppure li faceva giocare gratis a biliardino… Una volta grandi, però, non nascondo che conoscere la mia vera identità sia stato per loro un trauma pesante…

Ti hanno mai chiesto conto del tuo passato e dei tuoi tanti errori?

No. E io non smetterò mai di ringraziare mia moglie per averli seguiti nel modo migliore. È stata madre e padre nello stesso tempo, con loro ha trascorso tanto tempo condividendo ciò che la vita quotidianamente gli riservava. Io ho sempre detto che le donne dei mafiosi fanno finta di non capire nulla…

Invece?

Hanno tutto molto chiaro…

Qual è l’errore più grande che hai fatto?

Ne ho fatti tanti, sicuramente quello di imboccare la strada mafiosa occupa i primi posti della mia graduatoria…

Tu che sei stato il referente principale del traffico di droga di Cosa nostra, cosa ti senti di dire a quanti sono toccati da questa piaga?

Per tanti anni ho visto passare sotto il mio naso quintali e quintali di droga. Io non ne ho mai fatto uso, nemmeno la sfioravo, ma nello stesso tempo, però, non mi rendevo conto dei danni causati a quanti invece ne facevano uso e alle loro famiglie. Ai giovani dico che al di là dei problemi e gli affanni che la routine quotidiana ci riserva, la vita è fatta di tante cose belle ed è per questo che merita di essere assaporata ogni giorno, ogni ora, ogni attimo. Girate, dunque, il più possibile al largo dalla droga, qualunque essa sia. Essa, infatti, rappresenta solo un’illusione che vi annienterà l’esistenza…

Cosa dire, invece, a quanti credono che la mafia possa rappresentare una ragione di vita?

All’epoca la mia generazione non aveva l’intelligenza e la cultura per guardare lontano e quindi evitare il male. Oggi, per fortuna, non è così, di conseguenza occorre che ognuno, nel proprio piccolo, testimoni il diffondersi della cultura della legalità. Quella che oggi portano nelle piazze le varie associazioni antimafia, come ad esempio il Movimento delle Agende rosse creato da Salvatore Borsellino, la Fondazione Falcone, Libera, e quella per la quale si sono battuti sino al sacrificio della vita gente come Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri.

Qual è il sogno di Gaspare Mutolo?

Spero un giorno di poter andare a Palermo e spiegare ai giovani che se ce l’ha fatta uno come me a cambiare può riuscirci chiunque… Basta solo volerlo. Dal profondo del cuore vi dico di combattere la mafia e i suoi richiami fasulli. Farne parte, infatti, significherebbe perdere la pace, l’amore e la gioia che sono l’essenza dell’essere umano. Non avrete più famiglia, moglie, fidanzata, amici, in una parola la vita. Vi resterà solo la morte nel cuore…

A proposito di vita, quanto la pittura ha cambiato la tua?

La pittura mi ha salvato. Grazie ad essa, infatti, trascorro intere giornate in tranquillità. Mi assorbe completamente donandomi una straordinaria serenità.

Come vi siete incontrati?

In un modo un po’ strano, nel supercarcere di Sollicciano, a Firenze… Lì ho avuto la fortuna di incontrare un ergastolano che dipingeva molto bene. Visto che lo tartassavo sempre di domande un giorno mi disse che se fossi andato in cella con lui mi avrebbe insegnato le prime nozioni.

Tu, però, in quanto mafioso, avevi un problema diciamo di codice d’onore. L’ergastolano, infatti, aveva ucciso la moglie. E donne e bambini non si toccano…

Proprio così, infatti i miei compagni di cella cercarono di dissuadermi ma il grande amore per la pittura ebbe la meglio… Dopo avermi insegnato le regole basilari mi disse che il resto l’avrebbe fatto la passione che avevo dentro… Ammetto che non avendo frequentato alcuna scuola ho dei problemi nel disegno, però con il pennello riesco in qualche modo a rimediare…

Quali sono i temi dominanti nelle tue tele?

Sono innamorato della mia Palermo e quindi dei suoi tetti rossi… Ultimamente, però, mi sto cimentando anche in quadri simbolici dove ad esempio compaiono la Sicilia, Roma, la giustizia con i suoi tempi lenti e anche la colomba, segno di pace e di speranza. Ho incontrato sempre difficoltà nel dipingere figure umane, probabilmente a frenarmi è il senso di colpa che mi porto dentro per aver procurato del male a tante persone…

Tra cent’anni come vorresti che ti ricordasse la storia?

Digitando il mio nome su Google, accanto all’elenco dei crimini desidererei che ci fossero parole e immagini in grado di rappresentare, nel giusto modo, questo mio grande amore per la pittura. E la persona nuova che oggi sono.