ANTONIO DI PIETRO – Audizione in Commissione Parlamentare Antimafia

 

RESOCONTO STENOGRAFICO  Seduta n. 22 di Giovedì 23 novembre 2023 Bozza non corretta

La seduta inizia alle 13.35.

Audizione di Antonio Di Pietro.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Di Pietro, a cui do il benvenuto e che ringrazio infinitamente per questa disponibilità.
Voglio ricordare che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione, ma che i lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi, in quel caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web tv.
Ricordo ai colleghi che la Camera è convocata per le ore 15, quindi questo è il tempo che ci diamo. Al Senato è previsto il question-time quindi se sarà necessario ci aggiorneremo ad altra seduta.
Do la parola al dottor Di Pietro.
ANTONIO DI PIETRO. Buongiorno a tutti e grazie dell’invito.
Sono ben disponibile a riferire quanto di mia conoscenza rispetto a un certo periodo storico.
Sotto questo aspetto voglio fare alcune premesse.
Primo: io posso riferire solo su ciò che ho visto direttamente nel periodo dal 1985 al 1995, tutto il resto è ciò che ho letto che altri hanno fatto e quindi, essendo informazioni de relato, ne sapete più voi che io e certamente non sarei una prima fonte.
Se ho capito bene, da quanto ho potuto comprendere dalla parte pubblica del dibattito, uno dei quesiti che vi state ponendo è il rapporto che ha avuto la procura di Milano con l’inchiesta mafia-appalti, se ne ha avuto, e se e quali sono stati i rapporti intervenuti fra me e i magistrati Falcone e Borsellino.
Non so se è questo il tema, perché non ho un oggetto preciso su cui ho ricevuto la convocazione, quindi intendo innanzitutto chiarire, o meglio avere chiarezza su che cosa devo riferire, perché io posso riferire su questi fatti. Ecco, faccio un brevissimo indice.
Posso riferire su ciò che ha fatto o non ha fatto la procura di Milano, ma segnatamente io, come allora pubblico ministero Di Pietro, per quanto riguarda l’inchiesta cosiddetta Tangentopoli che aveva riflessi, se ne aveva, anche con situazioni di gestioni mafiose degli appalti.
Secondo: se posso avere elementi per ritenere o non ritenere che ci siano collegamenti fra la necessità di non far svolgere le inchieste sugli appalti alla procura di Milano o alla procura di Palermo e quindi di fermarli nei modi classici con cui si fermano: o con quintali di tritolo o con una serie di delegittimazioni.
Su questi fatti io posso riferire.
Se volete io posso cominciare dal dire cosa stava facendo la procura di Milano e che rapporto ha avuto con i magistrati Falcone e Borsellino.
Se volete posso cominciare da qua, oppure mi dite voi da dove devo cominciare.
PRESIDENTE. Noi ci siamo sentiti, lei sa che è stato chiamato più volte in causa e non solo qui, ma anche in diverse aule di tribunale per quello che riguarda non solo la sua frequentazione e i suoi rapporti con i giudici Falcone e Borsellino, ma anche per un presunto mai approfondito coinvolgimento e rapporto tra l’inchiesta di mafia-appalti e quella nota come Mani Pulite. Quindi questi sono i due filoni su cui noi abbiamo piacere di ascoltarla, come ci siamo sentiti tra l’altro.
ANTONIO DI PIETRO. Allora facciamo due precisazioni secche.
Se per inchiesta mafia-appalti si intende il rapporto del ROS, 892 mi pare che fosse, del 1991, io non l’ho mai letto. Punto.
Né alcuno me ne ha parlato, fino a quando sono stato sentito come teste in sede giudiziaria prima a Caltanissetta e poi a Palermo e in sede antimafia all’Antimafia della Regione Siciliana.
Sotto questo aspetto, non so se lo avete, io ho portato con me le tre audizioni che ebbi a suo tempo a fare.
Oggi parlo dopo trentuno anni, ma in realtà di questa vicenda ho parlato una prima volta nel 2009, credo che il ricordo di allora possa considerarsi molto più attuale rispetto a quello di adesso.
E ne ho parlato il 21 aprile 1999 davanti alla corte di assise di Caltanissetta.
Io quindi produco questa audizione, quel giorno non sono stato audito solo io ma anche altri, per cui mi sono permesso oltre che mettere la prima pagina, siccome era scritta in piccolo, l’ho anche ingrandita, però avete tutti i riferimenti, se volete acquisire l’originale, comunque io l’originale ce l’ho.
Dopodiché sono stato risentito un’altra volta il 3 ottobre 2019, questa volta dalla corte d’appello di Palermo.
Questi per intenderci, ma credo che ci sono qui dei colleghi che possono correggermi se sbaglio, riguardavano il processo sulla trattativa Stato-mafia, nell’ambito del quale io sono stato sentito come testimone perché richiesto dalla difesa in appello, in primo grado invece non era stato richiesto dalla difesa, perché in primo grado l’ho avuto a Caltanissetta.
Questo è avvenuto il 31 ottobre del 2019 ed è un altro plico che dice pressappoco le stesse cose.
Come potete vedere, ogni dieci anni i plichi diventano più piccoli perché sono più sintetici, ma i fatti sono sempre quelli.
Sono stato sentito nel 2021 l’ultima volta dalla Commissione di inchiesta e vigilanza sul fenomeno mafioso dell’Assemblea regionale siciliana e lì ho riferito quanto era a mia conoscenza.
Io lascerei questa documentazione, ma per correttezza nei confronti di chi è qui permettetemi solo di riassumerla, però è ovvio che quel che sto facendo è un sunto, sarebbe interessante leggerla intera, in tutte e tre per intenderci.
La questione è cosa intendiamo noi per Tangentopoli e Mafiopoli, perché io ho l’impressione che se noi diciamo che la procura di Milano non ha fatto niente perché non ha mai contestato reati di mafia sbagliamo, perché la procura di Milano ha acquisito tante informazioni.
Se diciamo che la procura di Palermo non ha fatto quel che doveva fare rispetto alle notizie criminis che riguardavano i rapporti tra mafia e appalti è un errore madornale perché ha fatto tanto, prima durante e dopo, per quel che risulta a me e per i coordinamenti che ne abbiamo avuto.
Io ebbi una serie di esposti, denunce, memorie, anonimi, chi ne ha più ne metta, che ha formato un blocco di dossier che si era riversato sin dal 1992 e negli anni seguenti, fino al 1994 dapprima sui giornali e poi aveva prodotto anche una serie di ispezioni ministeriali.
Di questa questione, di questa attività di dossieraggio nei miei confronti per convincermi a non occuparmi dell’inchiesta Tangentopoli, ho riferito al Copasir in due occasioni: nel 1995 e nel 1996.
Credo che sia necessario acquisire e leggere la relativa documentazione, perché forse questa prima audizione potrebbe essere interessante per permettere a voi di confrontarci con le domande.
Al Copasir fu fatta una relazione finale con una riserva finale. La riserva finale era: «ce ne dobbiamo occupare». Secondo la relazione erano state effettivamente create delle attività di dossieraggio nei confronti di diversi magistrati della procura di Milano, ma mi pare anche di quella di Palermo, diversi dossieraggi che stavano lì a disposizione quando servivano. Tant’è vero che poi non son serviti nel 1992, non son serviti più, anche se sono stati usati nel 1994, fino a novembre del 1994, ma archiviati il 7 dicembre 1994 appena mi sono dimesso, ripresi poi per una serie di ragioni a Brescia.
Perché ho voluto fare questa premessa? Innanzitutto vi consegno le due relazioni del Copasir affinché ufficialmente siano agli atti. Si tratta della relazione numero 3 del 26 ottobre 1995, avente ad oggetto: «documenti trasmessi dalla procura della Repubblica di Milano: rilievi e valutazioni», in cui appunto si indica per nome e cognome chi erano i mandanti del dossieraggio, si indica per nome e cognome chi erano gli esponenti dei servizi che avevano fatto questa attività di dossieraggio. Questa attività di acquisizione di informazioni è stata ripresa dal Copasir nella seduta del 5 marzo 1996. Anche in questo caso bisogna leggere, è inutile che perda tempo.
Per me è l’ultima occasione di parlare in un’istituzione pubblica di quel che ho per poter lasciare almeno in una sede pubblica una serie di atti, di sentenze e di provvedimenti giudiziari che raccontano il mio percorso processuale come poliziotto, come magistrato, come indagato, come imputato, come parte lesa, come parte civile, mi manca soltanto responsabile civile.  
Ho voluto fare questa premessa non per uscire fuori tema, ma per spiegare il motivo per cui vi produco un documento da cui risulta l’insieme delle attività svolte dalla procura di Milano, per orgoglio, permettetemi di dirlo, nella maggior parte dei casi svolte da me, credo sia notorio, poi io ho una ex collega che può essermi testimone.
Nella procura di Milano l’inchiesta Mani Pulite veniva svolta come attività di indagine da me e gli interrogatori li facevo io o se li faceva qualcun altro li rifacevo io.
Avevo costruito il cosiddetto fascicolo virtuale, quel che tutte le procure fanno, cioè ogni volta che si trova un’ipotesi di reato si chiude su un fatto, si stralcia e si manda. Ma questo non vuol dire che, siccome ho mandato a giudizio una parte, quell’altra l’ho buttata nel cestino, vuol dire che ho stralciato per fare una cosa e poi per farne un’altra. Su questo credo che ci sia chi ne sa più di me, però ho visto che qualcuno fa storie su questo.
Nel caso di specie, tutta quell’attività di dossieraggio fatta nei miei confronti e di cui si parla al Copasir si è bloccata il giorno dopo che mi sono dimesso con un’archiviazione secca da parte dell’ispettorato del Ministero, si è bloccata il giorno dopo ed è stata subito archiviata.
Quell’attività di dossieraggio che a me era stata preannunciata direttamente e pesantemente si è bloccata. È stata ripresa poi a Brescia perché a Brescia è intervenuta, a partire dal 1995 in poi, quella stessa miriade di esposti anonimi (si chiamava Dossier Achille per intenderci, un altro Abusi di P per intenderci, Abusi Di Pietro per intenderci), tutto questo blocco si è ritrovato all’improvviso che è stato mandato una prima parte anonimamente, una seconda parte tramite persone che poi sono state condannate per diffamazione e per calunnia a Brescia.
Quindi Brescia ha fatto indagini su di me, queste indagini sono state svolte da un magistrato che si chiama Fabio Salamone e ne è nato un conflitto istituzionale, nel massimo rispetto di tutti, perché io sostenevo che lui non poteva indagare su di me, su tutto questo materiale, non poteva indagare su di me perché era il fratello di Filippo Salamone, che credo sia già conosciuto da questa Commissione.
Allora io, per poter far sentire le mie ragioni per cui non poteva indagare su di me, ho fatto una relazione al procuratore generale, relazione che poi consegnai anche a Caltanissetta, per cui sia Filippo che Fabio Salamone mi hanno denunciato per calunnia. Prima di andare oltre, proprio per poter entrare nel tema, produco la relazione che feci al procuratore generale in cui spiegavo quali erano (e questo sì, vi devo illustrare adesso nei limiti di tempo che mi date) le collaborazioni che erano intervenute fra la procura di Milano e la procura di Palermo e soprattutto in che periodo erano intervenute.
È inutile che ve ne parli, ve lo dico subito, da Caselli in poi credo che ci sia un testimone che può testimoniare su questo.
Avendo io fatto quelle dichiarazioni a Caltanissetta e avendo io depositato questo appunto fatto al procuratore generale, che consegno, sono stato accusato di calunnia per denunce da parte dei fratelli Salamone, Filippo e Fabio Salamone.
Questa è l’archiviazione che l’autorità giudiziaria di Caltanissetta ha fatto nei miei confronti perché non avevo calunniato, in quanto avevo detto il vero, cioè che non poteva indagare su di me. Tanto è vero che Fabio Salamone è stato condannato disciplinarmente dal Consiglio superiore della magistratura per aver svolto indagini su di me, ma non poteva farlo.
Voi dite ma che c’entra tutto questo? C’entra per giustificare il perché io posso consegnare questa relazione al procuratore generale, che nessuno ha mai disconosciuto, e posso nello stesso tempo giustificare il comportamento del dottor Salamone, il quale, essendosi sentito calunniato, mi ha denunciato. Io devo consegnare la richiesta del decreto di archiviazione che ha fatto l’autorità giudiziaria di Caltanissetta, come anche devo consegnarvi, perché io ho denunciato non solo disciplinarmente, ma anche penalmente il dottor Fabio Salamone e Filippo Salamone di aver costruito questo dossieraggio nei miei confronti, ma è stata archiviata anche la loro posizione.
Io avevo denunciato non loro soltanto, avevo denunciato tutto un sistema.
Per cui, voglio dire, non c’entra niente Fabio… lo ripeto qui e lo metto per iscritto.
Fabio Salamone con i fatti mafia-appalti non c’entra niente nelle inchieste milanesi, mi sono trovato a parlarne con lui perché dal 1995 in poi si è messo a indagare su di me pur non dovendo indagare su di me in quanto io stavo addirittura… io lo volevo arrestare Filippo Salamone.
E allora prego di acquisire, ve lo consegno subito dopo, lasciamo agli atti la relazione alla procura generale del 22 aprile 1996, la richiesta del decreto di archiviazione nei miei confronti all’autorità giudiziaria di Caltanissetta, la richiesta di archiviazione per ciò che riguarda le accuse che io rivolgevo nei confronti di Fabio Salamone che non c’entrava niente.
Quindi io devo scusarmi con lui perché non è con lui che ce l’avevo, io ce l’avevo con Filippo Salamone, neanche sapevo che esisteva Fabio Salamone.
L’ho saputo quando poi negli anni successivi sono venuto a sapere anch’io che pochi giorni prima di morire Fabio Salamone è andato a casa di Borsellino.
Credo che questo risulti già pure a voi, è andato a casa di Borsellino per… per non si sa che cosa, perché si sono chiusi in casa. C’era Ingroia quel giorno, però fu messo alla porta.
La moglie di Borsellino sentì chiaramente che Borsellino diceva a Fabio Salamone: «Vai via, vai via, vai via». Ma questa è tutta una storia che apriremo dopo se la vorrete aprire.
A me cosa interessava dire? Tutta questa premessa per dire che cosa? Che la procura di Milano, e nella mia persona, ha indagato eccome in relazione alla questione mafia-appalti!
E perché? Perché, al di là di tutto, l’elenco degli interrogatori che vi segnalerò fra un po’, delle altre indagini che abbiamo fatto, degli interrogatori insieme con la procura di Palermo, forse anche con il senatore Scarpinato direttamente credo, comunque con Lo Forte, la questione sta a monte.
Cosa ci stavamo apprestando a fare noi alla procura di Milano e loro alla procura di Palermo?  
Qui dobbiamo risalire a un tempo. Innanzitutto le indagini non le stavano facendo solo Milano e Palermo, un po’ dappertutto stavano facendo indagini su appalti e politica, perché era talmente diffuso che Nanni Moretti ci aveva fatto il film, Il Portaborse, il sistema della dazione ambientale, così come l’ho chiamato io.
Io qui ribadisco una cosa di cui sono personalmente testimone. Ho trovato un solo partito non coinvolto, in cui non c’è stato nessun esponente coinvolto nei fatti di tangenti, ed era il Movimento Sociale Italiano, tutto il resto io li ho trovati coinvolti.
Persone, non partiti. Persone. Tanto per chiarire.
Bene, è dal 1985, perché dico 1985? Perché è il momento in cui si comincia a discutere di una serie di necessità di indagare su questo fenomeno che sapevano pure le pietre e sicuramente le indagini le avevano fatte, non spetta a me andare a riferire, ma dagli atti che ho avuto ho visto che anche Palermo ma anche Torino con il dottor Maddalena, Foggia, Reggio Calabria, un po’ meno Roma, il «porto delle nebbie» di Roma c’è sempre rimasto un po’. Ma il problema fondamentale era che l’articolo 68 della Costituzione ci impediva oltre un certo punto di svolgere le indagini, per cui arrivavamo sempre all’ultimo scalino e non potevamo salire.
Ditemi dove ho sbagliato.

  (interventi fuori microfono)

ANTONIO DI PIETRO. Allora devo capire che uno è di destra e uno di sinistra.
PRESIDENTE. Dottore, mi aiuti, la prego, così lei non mi aiuta a condurre questa audizione. Colleghi, per favore. Adesso il dottor Di Pietro mi aiuta a condurre questa audizione e voi mi aiutate allo stesso modo. Cerchiamo di stare sul tema al quale stava arrivando il dottor Di Pietro. Peraltro negli atti che lei ci ha consegnato c’è proprio un riferimento diretto a un colloquio che voi avete avuto con il dottor Paolo Borsellino sul sistema di cui lei sta parlando.
ANTONIO DI PIETRO. Sì, ma, ripeto, è talmente lunga, o facciamo una scaletta.
Non è vero che io ho avuto un colloquio. Riportatevi in quegli anni, in quegli anni… Una fotografia, c’è la fotografia ambientale che conoscevano pure le pietre e tante autorità giudiziarie che cercavano di scalfire questa fotografia ambientale, che aveva raccontato pure Nanni Moretti, ma prima ancora Alberto Sordi.
Tutti stavamo cercando di trovare un filo, quindi quando si dice che l’inchiesta Mani Pulite è cominciata il 17 febbraio oppure l’inchiesta mafia-appalti è cominciata nel 1991 si dicono due realtà minimaliste perché in realtà pure prima si facevano le indagini, pure negli anni precedenti.
Ve lo ricordate, io ve l’ho portato qua proprio per storia personale, a Milano chi non si ricorda il caso di Antonio Natali? Ve lo ricordate il caso di Antonio Natali? Lo dico per qualche giovane che non lo sa. Il collega credo Colombo o Tolone erano arrivati a un signore che si chiamava Antonio Natali che era il papà politico di Bettino Craxi. L’hanno messo pure dentro a San Vittore.
Lui era Presidente del Consiglio, la prima cosa che ha fatto mica è andato dal magistrato a dire: «Bravo!», è andato dall’imputato a dargli solidarietà, «Mo’ ci penso io».
Alle prime elezioni l’ha eletto al Parlamento, hanno richiesto l’autorizzazione a procedere e gliel’hanno negato dicendo che la Metropolitana Milanese non era un ente pubblico.
Questa era la situazione ambientale, per cui le indagini non si potevano fare.
In un’ottica di questo genere le indagini le stavamo facendo tutti, quando è scoppiato… quindi dire che l’indagine Mani Pulite è cominciata il 17 febbraio 1992 … è stato un motorino che ha acceso la macchina, il motorino d’avviamento, ma è ovvio che avevamo un bagaglio di informazioni enorme già agli atti, mica solo noi, quasi tutte le procure d’Italia ce l’avevano.  
In quest’ottica io mi sono ritrovato dalla sera alla mattina… Ecco, questo sì che ve lo posso consegnare da subito. Mi sono ritrovato dalla sera alla mattina… Questi sono i giornali dei primi due, tre mesi del 1992, uno stralcio, dalla sera alla mattina mi sono ritrovato (e poi lo consegno, mi riprometto di segnare anche questo con un indice se poi mi date il tempo) che tutti i giornali parlavano di questa inchiesta che cresceva, cresceva, cresceva, quindi si è capito che dal locale si stava arrivando al nazionale. Ma al nazionale mi son trovato… il primo intoppo, per mia ignoranza non sapevo come si facevano le rogatorie. Ho fatto la rogatoria e la dottoressa Del Ponte me l’ha rimandata indietro. Non mi ha rimproverato lei. Siccome era amica di Falcone gliel’ha raccontato e Falcone mi ha ripreso chiamandomi al telefono: «Ma così si fanno le rogatorie?».
Io avevo fatto la rogatoria «Mosini più 42», scrivendo alla dottoressa Del Ponte dicendo… Era la prima volta che la facevo, abbiate pazienza per tutti quanti la prima volta… Ho scritto: «Mosini più 42. Egregia Autorità giudiziaria, per favore mi dai conti correnti di tutte queste persone?» E quello m’ha risposto: «Sì, scusa, ma ognuno per che cosa, che ha fatto, in relazione…?»  
Ricordo che io già frequentavo il Ministero. Dovete sapere questo, quando si dice: «Ma tu hai parlato con Borsellino?» «Sì, dove, quando?» Perché una cosa è il giorno del funerale di Falcone.
Sì, quel giorno io ho parlato con Borsellino in modo drammatico, è vero, e ci siamo dati… con quelle quattro parole volevamo dire dobbiamo coordinarci nelle indagini, sta scritto in tutte e tre quelle relazioni che ho fatto. Non abbiamo usato le parole «coordinare per le indagini», abbiamo usato le parole «dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto», «dobbiamo chiudere il cerchio». «Chiudere il cerchio» lo dicevo io, «fare presto» lo diceva lui.
PRESIDENTE. Andare di corsa.
ANTONIO DI PIETRO. Andare di corsa. Ma quella è stata una sintesi di una serie di colloqui e di incontri che io ho avuto con Borsellino anche al Ministero di grazia e giustizia, ma soprattutto con Falcone.
Perché Falcone in quel periodo ha fatto tante cose, oltre che la DDA, la DNA, eccetera, ma una delle piccole grandi cose che ha fatto e che a noi ha risolto, ha fatto modificare il meccanismo delle richieste rogatoriali.
Cioè vale a dire uno degli inghippi che ricordo avevamo avuto fino allora sia per il conto protezione che per altri, specialmente con lo IOR e col Vaticano, era che ci rispondevano: «Se mi dici il nome di chi ha fatto questa operazione ti do il tabulato, ti do il documento bancario che lo riguarda».
Ma se sapevo il nome che te lo chiedo a fare il documento bancario? Se già so il nome vuol dire che già so chi ha preso la mazzetta! È’ per sapere chi ha preso la mazzetta che ti chiedo il tabulato. Lì c’è tutto un discorso, come voi sapete, conto che transita in mezzo, conto di provenienza e conto d’arrivo.  Allora in un’ottica di questo genere io perché frequentavo il Ministero nello stesso periodo in cui Falcone era direttore generale degli Affari penali? Frequentavo il Ministero perché, se vi ricordate, in quel periodo si discuteva molto di due questioni, ma prima ancora che arrivasse Falcone al Ministero, io già frequentavo il Ministero perché c’era la problematica dell’informatizzazione degli uffici giudiziari.
Ora a me ne hanno dette di tutti i colori, perché non ho fatto il liceo classico, perché non so parlare italiano, eccetera eccetera, però io sono un perito elettronico. A quell’epoca un perito elettronico al Ministero di grazia e giustizia faceva comodo, tant’è vero che io sono di quelli che si è attivato per realizzare l’automazione del sistema informatico.
Ora nessuno me lo riconosce, però ci azzeccavo all’epoca di valvole, diodi e quant’altro.
Quando andavo lì e mi sono ritrovato con il giudice Falcone – e già tutti i giornali ne parlavano – io più volte ho parlato con lui e più volte… Era lui che m’ha proprio corretto con la penna rossa la prima rogatoria, poi ha fatto una circolare per cui ci dava la possibilità di fare le rogatorie formali, cioè di mandare gli atti attraverso il Ministero della giustizia al Ministero degli esteri che lo mandava al Ministero degli esteri corrispondente del Paese, il quale lo mandava al Ministero della giustizia corrispondente, il quale lo mandava all’autorità… Insomma, era già scaduta la prescrizione quando si chiudeva il cerchio. Ci dava la possibilità di interloquire direttamente. Con la dottoressa Del Ponte mi ha messo in contatto direttamente Falcone.
Quindi Falcone all’inizio e fino alla sua morte ha seguito direttamente le inchieste di Mani pulite e le ha seguite perché a lui passavano le rogatorie e perché è colui che è stato interpellato anche dalla dottoressa Del Ponte per dire a quelli di Milano, significativamente a me: «Falle meglio queste rogatorie ».Poi le ho fatte bene, ne ho fatte 560/570 e non ne ho sbagliata una, però c’è sempre un inizio, non ne ho sbagliata più una.
Quindi cosa voglio dire con questo? Quando andavo al Ministero per parlare con Falcone – perché io continuavo ad andare al Ministero – ho incontrato qualche volta anche Borsellino, non so perché stava al Ministero ma ho incontrato anche lui.
Ho riferito della prima volta che ci sono andato nella mia deposizione del 1999, che ho riletto. Falcone mi diceva: «Devi seguire il denaro. Devi rivedere appalto per appalto. Non perdere tempo a costruire adesso una ipotesi associativa globale, piuttosto prima accerta reato per reato, fai una rogatoria alla volta e su quella rogatoria fai il tuo capo di imputazione e stralcia, e vai avanti così».
Quindi tecnicamente sapeva benissimo e ci teneva moltissimo all’inchiesta sugli appalti.
Cosa è successo però? È successo che avevano cominciato a parlare personaggi che ritroveremo dopo (dopo la morte di Falcone, di Borsellino e negli anni successivi), nelle inchieste svolte in collaborazione con la procura di Palermo, personaggi come Papi, Montevecchi, Pomicino – perché pure lui ha preso una parte della tangente Enimont – Di Paolo, D’Acquisto, Di Vincenzo, Schellino, Canepa. Canepa è l’elemento di congiunzione importante, un elemento di congiunzione tra appalti e mafia, è un elemento di congiunzione fondamentale. Bini… Buscemi… Panzavolta, che me l’ha negato venti volte, poi a loro l’ha ammesso, a me no.
Io l’ho interrogato 36-37 volte, poi quando ho passato le carte a loro l’ha ammesso.
M’ha detto, non Panzavolta ma me l’ha detto sempre del gruppo Ferruzzi
Perché? Qual era la tecnica? Farsi dire dagli imprenditori a chi potevano avere dato i soldi. Poi spiego qual era il meccanismo.
Tutti quanti mi dicevano: tutto fino a Roma, ma da Roma in giù nessuno.
Possibile che da Roma in giù non ci siano stati illeciti negli appalti? E di questo si era accorto non solo Falcone, ma anche e soprattutto Borsellino. Borsellino se n’era accorto soprattutto tra la morte di Falcone e la sua fine. A questo ci riferivamo, io e Borsellino, quel giorno in cui ci siamo parlati al funerale di Falcone. Dicevamo: «dobbiamo fare presto, per vedere come fare per allargare queste…».
Dopo la morte di Borsellino, io non avevo più nessuno con cui parlare. In effetti, non ebbi modo di parlare più con nessuno, anche perché non avevo altri rapporti a Palermo. Forse, invece, avrei dovuto in qualche misura interloquire, direttamente e autonomamente, non solo con Palermo ma con le altre procure. Noi a Milano avevamo scelto di seguire questo principio: per fare queste inchieste… Fu una intuizione del collega Davigo – potremmo dirla una «davigata» – l’applicazione, cioè, del principio delle «connessioni deboli e delle connessioni forti».
Il concetto era questo: al fine di scoprire il fenomeno nella sua globalità era necessario il cosiddetto «coordinamento di indagini» in modo da avere la certezza che ci fosse un’autorità che sviluppa tutte le indagini fino ad accertare i fatti per poi smembrare i fascicoli e distribuirli nelle varie autorità giudiziarie.
All’inizio ci è stato permesso di applicare questa strategia. Successivamente però le varie autorità giudiziarie reclamavano, dicendo: «noi dove stiamo?». Da queste posizioni divergenti è sorta poi una serie impressionante di conflitti di competenza. È accaduto così che il fascicolo pian piano venisse smembrato in mille fascicoli, perdendo così la necessaria visione d’assieme. In altri termini, uno conosceva quel fatto specifico, ma non era conosceva tutto il sistema. Io stavo cercando di acquisire ogni possibile informazione su tutte le imprese aventi caratura nazionale, ivi compreso anche il sud.
Dopo l’omicidio Borsellino, di questa vicenda (e voi già potete capire qui in mezzo quante altre domande si potrebbero fare e quante altre cose si devono spiegare, ma io adesso vado per sintesi) non volli parlarne con nessuno, perché feci tra me e me questa riflessione: «Io non so bene ancora cosa sto scoprendo, ma quelli sui cui sto indagando sanno dove sto arrivando io».
Per esempio, se ho interrogato per dieci volte Canepa o Panzavolta è evidente che tutti i soggetti che sono intorno a tali indagati sanno dove sto arrivando. … Interrogo, arresto, perché quando dico interrogo…
Purtroppo a quei tempi, interrogavo sempre il giorno dopo. Sono stato processato e sono stato prosciolto. Quindi non mi dite… non mi accusate: sono stato prosciolto. Noi arrestavamo per il pericolo di inquinamento probatorio, non per farli confessare.
Allora a quel punto io ho continuato a fare queste indagini fino a quando, verso il mese di ottobre di quell’anno, viene da me Zuliani, un ufficiale dei Carabinieri che era il mio riferimento nell’Arma, dicendomi: «C’è un ufficiale del ROS» – non ricordo se tenente o capitano – «che ti deve parlare». Oggi so chi è quella persona, lo sapevo pure allora, ma quando mi è stato chiesto il nome dieci anni dopo non me lo ricordavo, perché sfido qualsiasi magistrato che in quel momento fa mille indagini, sfido chiunque a ricordarsi: «Guarda che è passato il signor XY che m’ha detto che ti vuole parlare».
Però io, dal primo giorno che mi è stato chiesto chi era questo ufficiale, ho risposto: «Non ricordo il nome, ma sono certo che mi ha accompagnato al carcere di Rebibbia, mi ha accompagnato a incontrare questa persona che diceva che mi voleva parlare, e questo ufficiale si chiama De Donno».
Cos’era successo? Era successo che, soprattutto dopo la morte di Borsellino, le indagini ormai avevano preso una rilevanza nazionale, erano arrivate ai principali gruppi italiani (Cogefar, Impresit, Ferruzzi, aiutatemi a dirle, De Eccher, Calcestruzzi, c’è l’elenco completo che ho consegnato, le troverete nell’elenco, nei miei interrogatori di allora c’è l’elenco e lì troverete lì).
A quel punto viene questo ufficiale del ROS, credo fosse tenente allora o capitano, che poi hanno, non abbiamo, hanno ricostruito essere il capitano De Donno, e mi dice: «Con riferimento alle indagini che stai facendo su determinati personaggi (Ferruzzi, De Eccher, Buscemi, una serie di nomi, questi nomi li ritroveremo nei verbali di interrogatorio che feci) ti vuole parlare perché lui è insoddisfatto di come lo stanno trattando, lui è stato arrestato da un anno però non gli credono e quindi non procedono nei suoi riguardi».
Vero o non vero, così mi ha detto. Non m’ha detto: «Perché noi ci lamentiamo», mi ha detto: «Perché Li Pera si lamenta e vorrebbe parlare con lei perché lei sta indagando su fatti che lui conosce e che lo riguardano direttamente, a cominciare da una ditta su cui, abbiamo letto sui giornali, lei sta procedendo che si chiama De Eccher, di cui lui non solo ha parlato ma è una delle ragioni per cui sta dentro».

Io lì per lì ne ho preso atto, ho detto: «La prima volta che vado a Roma vedo cosa fare». Una quindicina di giorni dopo dovevo andare a Rebibbia per interrogare altri personaggi che non c’entravano niente, dissi a Zuliani: «Dici a quel capitano o tenente del ROS se mi accompagna da questo così vediamo cosa vuole dirmi?»
E infatti io e questo capitano, non Zuliani, siamo stati accompagnati dall’altro capitano che nel frattempo aiutava l’inchiesta Mani Pulite su Roma che si chiamava D’Agostino. Andammo a Rebibbia e a Rebibbia Li Pera mi ha raccontato quel che poi ha raccontato abbondantemente in tante altre… anzi, che già aveva raccontato e messo a verbale, anche a Catania e che diceva che a Palermo non gli davano retta, così ha detto e così l’ho messo pure a verbale. Io vi consegnerò copia di quel verbale e quindi avrete anche il verbale di questo.
A quel punto io che, ripeto, a quel tempo ancora aspiravo a completare il quadro nazionale, soprattutto perché avevo ancora in cuore e a mente i dialoghi che avevo avuto con Falcone, i dialoghi che avevo avuto con Borsellino, che, ripeto, erano più quelli al Ministero, più le telefonate che gli incontri formali, e ho detto: «Finalmente adesso posso arrivare lì». E ho cominciato, indagando tra le mille altre cose, anche a sentire tante altre persone che mi hanno raccontato fatti-reati commessi anche a Palermo.
Nel mentre accumulavo questo, facevo altre indagini, perché non c’erano solo le dichiarazioni di Li Pera, con tutto il rispetto per Li Pera c’erano molto più grosse dichiarazioni, c’era il processo Enimont, voglio dire erano poca cosa le questioni di Li Pera. Con tutto il rispetto, la diga di Blufi rispetto alla tangente Enimont era la diga di Blufi, quindi mi son detto: «Ci occuperemo anche di questo». Senonché in quel momento, non so, forse alla fine del 1992 – correggimi Scarpinato.
Quando è arrivato Caselli? – all’inizio del 1993, gennaio 1993, ecco. Il dottor Caselli nell’immaginario collettivo, ma soprattutto nella procura di Milano, dava l’idea di una grande aria nuova nel Paese, ma non perché prima non dava… prima di Palermo non avevamo mai sentito mai parlare male, qualcuno ci ha parlato male di Roma, insomma il concetto era questo.
C’erano già stati rapporti tra la procura di Milano e la procura di Torino quando c’era Caselli, si è proseguito poi con Maddalena. C’era un rapporto personale molto forte con Borrelli nell’ambito del quale i due evidentemente si sono parlati. Io non li ho ascoltati, ma l’ho saputo poi.
Da quel che mi ha raccontato Borrelli, ma che ci siamo raccontati tutti noi dei due pool: «Stiamo procedendo pure noi su fatti sui quali state procedendo voi a Milano, pure noi abbiamo preso Lodigiani e altri ancora».
Altri ancora perché dire Lodigiani vuol dire tante cose.
Dire Panzavolta vuol dire tante cose. Dietro Lodigiani e dietro Panzavolta si apre un mondo. Io dico dei nomi che portano dietro centinaia di persone per centinaia di fatti-reato. Ve ne posso parlare, ma erano 5 mila imputati credo, due o 300 mila capi di imputazione, quindi parliamone se ne dobbiamo parlare.
In quest’ottica io ricordo che è venuta fuori questa idea fra i due procuratori, non so chi ne abbia parlato prima. Al dottor Borrelli veramente bisognerebbe fare un monumento, perché è quello che ha difeso l’inchiesta Mani Pulite allo strenuo, ce l’ha messa tutta, le pressioni che ha ricevuto, quanto ha dovuto difendere il suo pool è stata una cosa fuori dall’immaginabile. Quindi non so se è stato Borrelli che, quando ha letto sui giornali che pure Palermo stava arrestando e indagando persone di cui stavamo occupandocene noi, ha telefonato a Caselli o è stato Caselli a Borrelli. Non lo so, c’era un rapporto personale.
So che a un certo punto è venuto a Milano il gruppo coordinato da Caselli. Sono andato a rileggermi tutte le carte. C’era sicuramente Caselli da una parte, c’era sicuramente Lo Forte, c’era Patronaggio, c’era Ingroia perché ci ho litigato pure e non mi ricordo se c’eri pure tu, Scarpinato. Il nome tuo io non l’ho fatto, quindi probabilmente non c’eri, perché come facevo a non ricordarlo con quei capelli là, quindi me lo sarei ricordato.  
Ne nacque una discussione perché io ormai ero diventato… i denigratori mi dicevano accentratore, gli ammiratori mi dicevano che è quello che aveva in mano tutta la situazione.
In realtà obiettivamente io avevo, grazie anche all’informatizzazione che avevo messo nel fascicolo, quel cosiddetto fascicolo virtuale; noi man mano mandavamo anche per competenza alle varie autorità giudiziarie il pacchetto già finito: l’imprenditore che aveva parlato, il bonifico che era stato effettuato, il politico o il funzionario che aveva preso i soldi, avevano confessato tutti e tre, stralcio e invio all’autorità giudiziaria di vattelapesca. Quindi era questo il meccanismo investigativo che avevo messo in piedi.
Palermo, con quel po’ po’ di pool che vi ho detto prima, quando sono arrivati non sono arrivati a mani vuote, avevano già indagato, stavano già indagando sugli stessi personaggi, quindi evidentemente c’erano arrivati a prescindere da noi. Non so se mi spiego, non siamo noi che li abbiamo imboccati a Palermo. Io voglio raccontare la verità. Quando Palermo ha messo il paletto della competenza territoriale l’aveva messo pure Foggia, l’aveva messo pure Napoli con Miller, l’aveva messo pure Maddalena. Però io ho resistito a tutti e mi sono tenuto il fascicolo con tutti, perché a quell’epoca mi ascoltavano. Però Borrelli mi ha detto: «No. Torino, Maddalena; a Napoli Caselli non si può, perché quelle sono persone su cui possiamo contare su una collaborazione totale». Peccato che non c’eri, ma quel giorno, prima al nostro ufficio, ne è venuto fuori un confronto molto serrato perché io non volevo cedere quel che avevo. Che avevo in mano? Avevo tutta una serie di interrogatori di imprenditori che riconducevano a questo formato.  
Attenzione, mentre in una parte d’Italia c’è il sistema appalti-politica dove l’intermediario poteva essere o l’imprenditore o il soggetto politico di riferimento – di regola era un faccendiere alla Pazienza maniera, diciamo così, alla Larini maniera, alla Pacini maniera, c’erano tanti nominativi che giravano in quel tempo – a Milano avete scoperto il «cartello» (su cui, vi prego, fatemi le domande, ve lo spiego bene), a Palermo c’è il «tavolino».
Il «tavolino» è la cosa più speciale. C’è un signore che è un po’ come il giudice di pace, che assicura che questo cartello avrà gli appalti che avrà, assicura che questo sistema politico avrà le soddisfazioni che avrà, assicura che tutti i cantieri andranno bene, ma la quota dello 0,80 va alla cassa comune, il 20 per cento, come mi diceva Li Pera inizialmente, va alla cassa comune. Guardate che è una cosa completamente diversa.
Io su questo stavo indagando e avevo acquisito una serie di informazioni perché era venuto fuori che Siino era colui che gestiva i rapporti fra mafia e politica.
L’interfaccia era un tale che si chiamava Angelo Siino. Da ciò che mi aveva detto Li Pera e dalle indagini che io avevo fatto successivamente, tra il 1992 e la primavera del 1993 – perché l’accordo con Palermo arriva nella primavera del 1993, credo marzo o aprile – è venuto fuori che c’era stato un cambio di ruolo.
Non so a quell’epoca, adesso l’ho capito perché ho letto i risultati delle varie sentenze che si sono svolte a Palermo, ma all’epoca io sapevo che Siino era stato defenestrato, in questo senso mi veniva riferito, da Salamone che era il vincente, il convincente.
Poi ho saputo che anche il ROS aveva cannato su questo, perché il ROS ha qualificato esse come Siino e invece esse era Salamone. Se vogliamo mettere i puntini, avevo cannato io, ma anche loro.  
Perché avevo cannato? Perché Salamone non era l’ultimo arrivato, in realtà stavano defenestrando pure Salamone perché doveva arrivare Bini. Io non sono arrivato a Bini come il nuovo che doveva stare sul «tavolino» a rappresentare il referente tra (possiamo dirlo per nome e cognome, chiedo ai due procuratori se sbaglio) Lima e Riina, perché poi questo era Bini alla fine, ma referente per conto della Ferruzzi, non scordiamocelo, poi alla fin fine dietro c’era Gardini, non è che chissà chi c’era. Ripeto, se vi interessa solo il fenomeno io faccio questi accenni, altrimenti bisogna discuterne a lungo.  
Se non che quel giorno io fui messo alle strette e quel pomeriggio non volli cedere alla richiesta di coordinamento. Allora Borrelli, che era un padre, ci ha invitato a cena a casa sua, Borrelli da una parte e Caselli dall’altra. Ingroia, voi lo conoscete, pure lui si inalbera sempre, c’è stato uno scontro fra me e lui perché lui voleva portarlo a Palermo e io lo volevo tenere a Milano.  
Allora abbiamo raggiunto il compromesso, quel famoso compromesso dei collegamenti forti e dei collegamenti deboli. Che cosa è stato il compromesso? È ovvio che se ne deve occupare Palermo, perché, se andiamo davanti alla Corte di cassazione in un conflitto di competenza, Palermo ha ragione. È ovvio che non possiamo fare a meno di quel che sta facendo Milano, perché Milano sta interrogando persone che a Milano stanno parlando perché si fidano di Milano.
Si fidano perché sono pentiti processuali, adesso probabilmente qualche processo per trattativa me lo prenderei anch’io, perché trattavamo con gli avvocati.
Credo che da un punto di vista storico dopo trent’anni se ne possa parlare. È chiaro che si parlava con gli avvocati: «Sto scoprendo quel che sto scoprendo, questo tuo cliente l’ho già preso sette, otto, nove, dieci volte, che facciamo?» Aspetti che ti venga a dire l’altro.
Ognuno che parlava, quando veniva a parlare con noi, sapevamo bene che se ce ne diceva una ce ne nascondeva dieci, ma se noi volevamo arrivare alla cupola il più presto possibile prendevamo…  
A me bastava che Giovanni mi dicesse che cosa aveva fatto Nicola, perché Nicola mi dicesse che cosa aveva fatto Michele, perché Michele mi dicesse cosa aveva fatto Pasquale, poi se insieme a Giovanni ci stava anche Gioacchino lo vedremo dopo, non mi sono messo a perdere tempo a vedere quante volte… Ecco, brutalmente, non mi sono messo a perdere tempo a vedere quante volte Silvio Berlusconi ha fatto festa, non mi son messo a perdere tempo. Pensavo che dovevo arrivare a capire fino alla fine, dovevo arrivare prima che venissimo fermati, perché c’erano Falcone e Borsellino che erano già morti, quindi ho sempre pensato di cercare di arrivare il più possibile in alto perché era inutile perdere tempo a correre appresso soltanto a una persona.
In quest’ottica quella sera si concordò che io avrei continuato… cioè, veniva trasferito a Palermo innanzitutto quel che avevamo acquisito: i verbali, i nominativi che sono riportati in questo famoso…
Inoltre, siccome io su quelle stesse persone indagavo anche per altri fatti-reato commessi, perché erano ditte nazionali, facevano a Mondovì e a Canicattì gli appalti e quindi da Mondovì a Canicattì loro riferivano, io avrei continuato a interrogarli e a fare tutte le mie indagini. Qualora mi fosse capitato qualche fatto di Palermo non dicevo: «Fermo», lo acquisivo e lo mandavo a Palermo, e così ho fatto. Devo dire che ha funzionato. Perché io mi sono lamentato dopo? Io non so cosa vuole fare questa Commissione, perché questa Commissione certamente, mi pare di capire, vorrà capire se dietro la volontà stragista del mafioso Riina che si è voluto liberare di quei due magistrati, ci siano state altre «menti raffinatissime», come diceva qualcuno, ricordate tutti chi l’ha detto, che quantomeno gioivano e avevano interesse.
Se voi dovete indagare solo su questo, io posso dare il mio contributo con riferimento a tutto ciò che è stato il coordinamento delle indagini di mafia a Palermo, tutto ciò che è il fenomeno Mafiopoli e il fenomeno Tangentopoli. Parliamoci chiaro, Mafiopoli e Tangentopoli sono due facce della stessa medaglia, è lo stesso procedimento.
Non come sento dire che nasce nel 1991, nasce dagli anni Ottanta, nel 1985. Diverse autorità giudiziarie hanno fatto indagini settoriali e non sono riusciti ad arrivare, non riuscivano ad arrivare. Quindi Mafiopoli e Tangentopoli sono certamente due facce della stessa medaglia, con delle particolarità molto specifiche.
Avevamo scoperto che laddove era presente la mafia il metodo di gestione era diverso da quello imprenditoriale. Infatti, il sistema che avevamo scoperto noi era un «boccino paritario».
A un certo punto io l’ho chiamata «dazione ambientale» sulla scorta di una dichiarazione verbale di uno degli indagati che mi colpì particolarmente. Riferendosi ad un imprenditore, l’indagato mi disse: «Quel disgraziato era venuto a portarmi la bustarella alle cinque e mezza di mattina perché doveva andare a caccia». Gli risposi: «La prossima volta non presentarti prima delle 9 a portarmela». Mentre uscivo, a un certo punto, mi sono trovato la tasca ingrossata e ho visto che erano soldi, me ne sono accorto in ascensore e mi sono vergognato a tornare indietro.
Un’altra volta ho mandato il poliziotto mentre stavo interrogando una persona, «Guardi che abita a due o trecento metri da qua», «Va là che lo sentiamo subito subito» e quello dal citofono ha detto: «Sì, confesso, confesso».
Quindi a Milano ci hanno detto: «Bravi», ma in realtà noi tagliavamo la torta. A Palermo era una cosa diversa, due facce della stessa medaglia, non so se mi spiego, sono due facce della stessa medaglia.
Palermo si seguiva quell’ordine, chi non seguiva quell’ordine, chi non rispettava quell’ordine faceva la fine di Lima. In quest’ottica, io capisco, quindi, che il vostro interesse è sapere se e chi poteva esserci. Io posso dare il mio contributo man mano che me lo chiedete, per come me lo chiedete.
Mi chiedo e chiedo: se dal 1993 in poi io vengo visto …mi si apre una strada e riesco anch’io ad arrivare allo stesso punto. Torno a ripetere, perché sono importanti queste tre città? Mi lasci dire questo, presidente.
Tutte le autorità giudiziarie hanno fatto il loro dovere, ma tre città sono idealmente fondamentali: Roma, Milano e Palermo. Perché se vuoi scoprire quel fenomeno che si era creato, cioè il cartello delle imprese, il sistema dei partiti, il «tavolino», solo le autorità di queste tre città lo possono sviluppare.
Perché a Roma c’è il sistema politico per prendere decisioni, a Milano c’è la sede legale delle maggiori aziende italiane, a Palermo c’è appunto la specificità del referente locale e credo anche nazionale, cioè colui che gestiva la situazione.
Ora il problema è: è vero o non è vero che c’è stata una parte del sistema imprenditoriale italiano che voleva comprare anche gli appalti in Sicilia? Sì. Ed è vero o non è vero che questa parte del sistema imprenditoriale italiano per comprare anche gli appalti in Sicilia è entrata a patti con la mafia? Sì. Ed è vero che erano imprese che stavano anche al nord? Sì. Tutto questo ha generato o non ha generato la volontà di convincere qualcuno ad ammazzare Falcone e Borsellino? Lo dovete decidere voi.
Ma vi è sufficiente questo o vi è necessario un altro aspetto?
Se è vero come è vero che a Roma non si poteva indagare perché, al di là del «porto delle nebbie», c’era l’articolo 68 della Costituzione che fermava le indagini sulla politica; se è vero come è vero che a Palermo era difficoltoso indagare perché, con tutti gli sforzi che facevano, non hanno ammazzato solo Falcone e Borsellino, tanti altri ne hanno ammazzati, tanti altri ne volevano ammazzare e tanti altri non ci sono riusciti, lì non era come a Milano; se è vero come è vero che a Milano ci stavamo arrivando per un motivo molto semplice: perché avevamo rivoltato al contrario il tipo di indagine. La mia indagine non era sui fatti di corruzione. Non ho mai contestato l’articolo 416 c.p., perché volevo scoprire il reato, mandarlo poi all’autorità competente in modo che questa potesse poi ulteriormente circostanziare il fatto e contestare, se del caso, l’articolo 416 o l’articolo 416-bis c.p..
Non era Milano. Anche perché dove si è fatto il cartello? Il cartello è una realtà indistinta, in capo al cartello, nel mio immaginario investigativo, sapendo che dovevo correre, io immaginavo e ancora oggi immagino che sopra tutto ci sono quelli che la girano ma non la toccano si dice in gergo, ma che in realtà vuol dire i cui comportamenti non hanno rilevanza penale.  
Io ho indagato sulla FIAT. Io vi do un’intervista di Cesare Romiti in cui dice: «Tutti pagavamo».
In una realtà così io immagino l’ingenuo Agnelli che camminava col suo veliero senza saper niente. Non riesco a immaginarlo. Però penalmente non gli puoi dire niente.
Se io immagino che la struttura più forte era il pentapartito, il Governo italiano si reggeva sul pentapartito, ma non c’era pentapartito che tenesse se non riferito al CAF (Craxi, Andreotti e Forlani). Nella mia indagine ne manca uno, perché Craxi l’ho indagato e pure Forlani, ma ne manca uno.
Quindi nella mia attività investigativa io cercavo di chiudere il cerchio e cercavo di chiuderlo partendo dal… Questa è l’indagine investigativa che facevo, sbagliata o giusta non lo so, però qualcuno mi ha detto che hanno prescritto fino all’81 Giulio Andreotti.
Questo era il meccanismo investigativo. Io cosa ho fatto? Ho detto è inutile, questi non parleranno mai, non parleranno mai. L’unico modo per farli parlare è andare a prenderli nella tasca. La mia investigazione, dico mia perché l’investigazione l’ho fatta io, con tutto il rispetto per quello che hanno fatto gli altri; gli altri hanno fatto veramente tanto, va fatto loro un monumento, sia per le indagini bancarie, fiscali, sia sugli intuiti processuali di Davigo, perché riusciva a «mettere una toppa» su tutto.
Mani Pulite è un’investigazione sui falsi in bilancio.
Poiché questa non è a questua, poiché è necessario creare la provvista con fondi neri, io vado a scovare tutte le volte che hanno commesso un falso in bilancio e dopo gli dico: «Ora devo per forza procedere, a meno che tu…». Esisteva la concussione per induzione all’epoca, esisteva il reato di falso in bilancio all’epoca.
Con quel meccanismo molti degli imprenditori hanno deciso di rompere il patto fiduciario, perché la corruzione non è come il matrimonio, è un matrimonio d’interesse e quindi il pentito processuale ci stava tutto.
In un’ottica di questo genere quindi io piano piano, piano piano stavo arrivando allo stesso punto, cioè ero arrivato a Gardini per intenderci. Ero arrivato a 93 miliardi, per intenderci. Ero arrivato a sapere dove stavano i 93 miliardi, per intenderci: allo IOR. 150 miliardi, di cui 93 miliardi allo IOR. Però nessuno mi ha risposto. Mi ha risposto… Non mi ricordo come si chiamava. No, era un… Marcinkus forse era. No, non mi ricordo come si chiamava. C’era all’epoca… Non mi ricordo come si chiamava. Però la risposta… Forse De Bonis, non mi ricordo. Però ci sono agli atti, ve li ho dati. Non mi ricordo… Non voglio fare nomi che non… Non mi ricordo il nome adesso, ma li ho prodotti agli atti.
Resta il fatto che il mio obiettivo era lì. E perché io mi ero focalizzato proprio su questo?
Perché 5 miliardi della tangente Enimont erano andati a finire a Lima e Lima era il referente andreottiano. Soprattutto perché in tutti gli altri… a cominciare da Milano, posti dove ho scoperto i fatti-reati, quando c’era la distribuzione della tangente ho decine e decine di verbali di interrogatori che mi dicevano questa quota è andata alla corrente andreottiana.
Non è che andava ad Andreotti, quindi penalmente non c’è niente, andava alla corrente andreottiana. Però se te lo senti dire da quella a Torino, te lo senti dire da quello a Milano, te lo senti dire da quello a Palermo, te lo senti dire da quello a Napoli… Oh, ma ‘sta corrente andreottiana sarà mica un po’ collegata? Chi è che decide poi alla fine chi deve stare lì, chi deve stare lì, chi deve stare lì?
Questo era il finale di ciò che dovevo fare, dopodiché io mi ritrovo (mi fermo qua) a novembre con questo dossieraggio spaventoso nei miei confronti. Perché cosa è successo? Su questo dossieraggio hanno archiviato il giorno dopo che io mi sono dimesso, però a partire da marzo-aprile del 1995 quello stesso dossier è arrivato a Brescia e il dottor Fabio Salamone ha ritenuto di fare un’indagine pazzesca su di me, a tal punto che ci sono state tre richieste, non c’è stata alcuna archiviazione, ci sono state tre richieste di rinvio a giudizio e tre ordinanze di proscioglimento, è una cosa un po’ diversa.
Vi prego di leggere le tre ordinanze di proscioglimento, dove risulta non che il fatto non sussiste, quello è troppo poco, risulta che quelle indagini non dovevano essere fatte. Questo è il tema.
Non c’entra niente il dottor Fabio Salamone, ripeto, non c’entra niente con i rapporti mafia-appalti, era Filippo Salamone; Fabio Salamone semmai è andato a cercare consiglio e considerazione da Paolo Borsellino, ma questo fa pensare pure che allora cosa stava a pensare Paolo Borsellino, perché non credo che quel giorno…
Fabio Salamone aveva ricevuto tutta una serie di esposti da parte dei componenti della procura di Caltanissetta, non so se ve lo ricordate, perché non si sentivano in grado di poter interloquire con lui come GIP in quanto: «Noi dobbiamo procedere su fatti che riguardano ambienti a lui familiari, come facciamo se lui sta qua?» Quindi questo povero Cristo si è trovato costretto. Lo immagino e mi dispiace anche per lui.
Vi voglio lasciare le tre ordinanze di proscioglimento del GIP di Brescia, da cui potete vedere non come ha sbagliato Salamone, non me ne importa niente, ha esercitato l’azione penale su una notizia di reato che gli è arrivata. Io credo che sugli anonimi ci si dovrebbe pensare due volte prima di esercitare l’azione penale. Però devo dire la verità che ha esercitato l’azione penale anche nei confronti di Dinacci, di Previti e compagnia bella, cioè di quelli che dovevano fare l’indagine disciplinare nei miei confronti, ma che hanno archiviato il giorno dopo.
Dopo che il GIP mi ha prosciolto da tutte le accuse di quel dossier, Salamone ha aperto un fascicolo nei confronti degli ispettori e di chi aveva mandato quegli ispettori, cioè Previti, a fare quell’indagine e a chiuderla il giorno dopo. Anche questo è stato archiviato, anche nei confronti di tutti questi ispettori, dicendo che alla fine Di Pietro ha fatto una scelta sua.
Lo ripeto anche qui, le mie dimissioni sono state una scelta libera ma non una libera scelta. Da qui possiamo fare un romanzo. L’ho deciso io, non me l’ha ordinato nessuno né me l’ha chiesto nessuno, ma io ho capito che era l’unico modo perché quello che poi è uscito ad aprile e che io ho potuto controbattere da semplice cittadino, senza più il rischio che qualcuno mi accusasse di inquinamento probatorio, perché la mattina dovevo fare delle indagini su Pacini Battaglia mentre ero accusato di concorso di reati con Pacini Battaglia, era un po’ difficile farla questa indagine. Quindi io ho detto questa scelta libera ma non libera scelta di dimettermi.
Allora io chiedo a questa Commissione e mi fermo qua: vi basta per capire se e chi ha impedito a Borsellino di completare le sue indagini?
Che a mio avviso sono due cose completamente diverse con la storia del ROS e non ROS. Vi basta? Oppure se volete ragionare anche sul perché ogni volta che qualcuno cerca di arrivare nella zona grigia o un quintale di tritolo o la delegittimazione viene fermata, questo è il tema che vi sottopongo.
Se avete soltanto la prima parte io la prossima volta vi porto i documenti e mi fermo, se avete bisogno di qualcosa in più ci vuole più tempo, molto più tempo.
PRESIDENTE. Grazie mille, dottor Di Pietro. Purtroppo dobbiamo per forza interrompere
ANTONIO DI PIETRO. Se c’è qualche domanda io rispondo.
PRESIDENTE. No, perché la Camera e il Senato si riuniscono in contemporanea alle 15 e quindi devo dare il tempo ai colleghi di andare, però, a nome di tutti ovviamente, credo di poterle chiedere di tornare, innanzitutto per permettere a tutti i commissari di rivolgerle delle domande. Noi siamo partiti dalla prima delle domande che lei ci fa, che sappiamo essere una delle più difficili, altrimenti dopo trentuno anni non saremmo qui ad occuparcene, ma penso di parlare a nome di tutti i commissari nel dire che, se da questo dovesse emergere la necessità di qualsiasi altro approfondimento, nessuno in questa Commissione si vorrebbe sottrarre. Quindi penso che anche alla sua domanda risponderemo di sì dopo un ufficio di presidenza che valuterà il da farsi. Grazie.
ANTONIO DI PIETRO. Con i suoi uffici possiamo fare una nota di ciò che deposito adesso, in modo da averlo anche io agli atti.PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Pietro. La seduta è conclusa.

La seduta termina alle 14.

 

 

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